Marco Travaglio: “I governi precedenti facevano più debiti, però li facevano per dare i soldi alle banche ed ai ricchi. La novità è che questi fanno debiti per dare soldi a chi ne ha bisogno”

Marco Travaglio

 

 

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Marco Travaglio: “I governi precedenti facevano più debiti, però li facevano per dare i soldi alle banche ed ai ricchi. La novità è che questi fanno debiti per dare soldi a chi ne ha bisogno”

“La novità è che questi facevano più deficit, cioè più debiti, per dare i soldi alle banche e alle persone abbienti, mentre questi, per la prima volta, fanno più deficit per dare più soldi a chi non ha niente”.

Così Marco Travaglio a Otto e Mezzo venerdì sera, riferendosi rispettivamente ai governi Pd e al governo Conte.

“Il reddito di cittadinanza – ha spiegato il giornalista – è per chi non ha niente, per chi cerca lavoro e non lo trova, la legge Fornero è per mandare in pensione un po’ prima persone che si sono viste allungare l’età pensionabile senza più avere un contratto di lavoro, a cominciare dai famosi esodati. È questa la novità, è questa la scommessa: se questa scommessa produce più PIL perché fa girare un po’ di questi soldi nell’economia e nei consumi, hanno vinto la scommessa. E alla fine ridurranno anche quel famoso rapporto deficit-PIL. Altrimenti l’avranno persa. Ma è questa la novità, non è un’altra”.

Travaglio ha detto che Lega e 5Stelle “sono riusciti a infilare nella manovra il massimo livello per loro possibile delle rispettive promesse elettorali, da una parte l’intervento sulle tasse e il condono per la Lega e dall’altra parte il reddito di cittadinanza. E poi c’è un fattore unificante che è la quota 100 della Fornero che accomuna entrambi i programmi”.

Questo non vuol dire – ha sottolineato – che le due forze politiche diventano un blocco unico: “Tant’è che alle prossime elezioni europee si presenteranno l’un contro l’altro armati, esattamente come alle elezioni amministrative”

Travaglio ha anche osservato che i gialloverdi hanno “fatto una cosa che, se nel bene e nel male non lo sappiamo, se funzionerà o meno non lo sappiamo. Ma hanno fatto una cosa che cambia parecchio le cose e sono riusciti a portare a casa dei bei pezzi dei loro rispettivi programmi elettorali”.

Ecco il video:

Il Pd che fa finta di essere ancora vivo – Piazza del Popolo, dicono 70.000, poi scendono a 50.000. Repubblica ribadisce 70.000, ma si smentisce con i suoi stessi video. Erano da 10 a 20.000… Ricordiamo che Berlinguer 40 anni fa portò in piazza 500.000. Come siamo caduti tanto in basso?

 

Piazza del Popolo

 

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Il Pd che fa finta di essere ancora vivo – Piazza del Popolo, dicono 70.000, poi scendono a 50.000. Repubblica ribadisce 70.000, ma si smentisce con i suoi stessi video. Erano da 10 a 20.000… Ricordiamo che Berlinguer 40 anni fa portò in piazza 500.000. Come siamo caduti tanto in basso?

 

 

Innanzitutto quanti erano a Piazza del Popolo per la manivestazione del Pd?

L’organizzazione prima sbandiera un fin troppo fantasioso 70.000 persone. Siccome questa è grossa pure per loro, si sono poi “ridimensionati” a 50.000 (anche se qualche voce interna balbetta un eretico 25.000).

Tanto per fare numeri, ricordiamo che Piazza del Popolo è 17.100 mq e quindi avrebbe una capienza massima e teorica di 68.400 persone (4 persone a metro quadro), cioè quei 70 mila che il Pd favoleggia.

E infatti Repubblica inneggia con enfasi ai fantomatici 70.000, smentendosi però con i suoi stessi video (GUARDA QUI) dove, nonostante le inquadrature fatte ad arte, è chiaro che la piazza è piena per un quaro, forse un quinto…

Vogliamo essere buoni, hanno portato in piazza da 10 a 20.000 mersone…

Signori, questo è il Pd… Questo partito, quando c’era Lui (e per Lui intendo proprio Lui, Enrico Berlinguer) in piazza ne venivano mezzo milione!

Leggete un po’ questo:

Era il Settembre del 1977 – 40 anni fa – e per Berlinguer che chiudeva Festa dell’Unità 500.000 persone (per capirci, il doppio rispetto al mega-concerto di Vasco) …Ma come cazzo siamo caduti tanto in basso fino a Matteo Renzi?
18 settembre 1977: al parco Ferrari in mezzo milione per Berlinguer, il doppio rispetto a Vasco

Era il 18 settembre del 1977, Enrico Berlinguer, il capo del Partito comunista italiano, chiudeva a Modena – sul palco dell’ex Autodromo (oggi parco Ferrari) la Festa nazionale dell’Unità. ‘Duecentomila metri quadrati del prato non sono bastati ad accogliere i compagni, i simpatizzanti, gli elettori del Pci che da ogni dove sono venuti ad ascoltare il segretario generale del Pci che chiude il Festival. Quanti sono? Ogni calcolo perde qualsiasi senso di fronte all’impressionante spettacolo di questa folla gigantesca che ha invaso e colmato tutti gli enormi spazi dell’autodromo in cui dal nulla era sorta la città-festival‘. Così L’Unità di allora descriveva l’evento. Si stimarono oltre mezzo milione di persone. Il doppio rispetto al mega-concerto di Vasco Rossi.

Nel recuperare quei giornali, nel leggere gli articoli di un’epoca che non c’è più, resta un’amarezza profonda. La consapevolezza di quanto oggi sia stato tradito del Credo di allora. Resta l’invidia per un tempo in cui si poteva dire – citando Gaber – senza timore di essere smentiti che ‘Berlinguer era una brava persona e Andreotti non lo era, una brava persona’.

Come siamo caduti così in basso?

Dopo 73 giorni di ospedale un sospiro di sollievo per la bambina Rom gravemente ferita a fucilate: tornerà a camminare… Il tutto nell’indifferenza di questo nostro paese razzista e salvinizzato, dove un dramma come questo non trova neanche qualche minuto nei Tg

 

bambina Rom

 

 

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Dopo 73 giorni di ospedale un sospiro di sollievo per la bambina Rom gravemente ferita a fucilate: tornerà a camminare… Il tutto nell’indifferenza di questo nostro paese razzista e salvinizzato, dove un dramma come questo non trova neanche qualche minuto nei Tg

 

Bambina rom ferita da un proiettile, l’annuncio: “Tornerà a camminare”
Termina con un’ottima notizia la tragica vicenda della bambina rom ferita dal proiettile. Dopo giorni di paura per le condizioni della piccola arriva l’annuncio: “Tornerà a camminare”.

A dichiararlo è Alessio D’Amato, assessore alla Sanità della Regione Lazio, che assicura: “La bambina rom ferita nel luglio scorso da un proiettile ad aria compressa sta bene, è stata dimessa e dopo un periodo di riabilitazione potrà tornare a camminare. Voglio rivolgere un ringraziamento al Bambino Gesù, ai medici e operatori sanitari che con grande passione e competenza hanno permesso questo straordinario risultato”.

Ovviamente il tutto è riportato su qualche trafiletto di stampa. I Tg, invece, MUTI… Fosse stata una bambina italiana ferita da un Rom avrebbe fatto notizia… Soprattutto una notizia “gradita” a Salvini…

Disprezzo assoluto per quello in cui stanno trasformando il nostro paese!

FATE SCHIFO – Lo sfogo di Marco Travaglio in un editoriale di fuoco contro i Benetton che hanno lucrato vergognosamente sulla pelle della gente e la stampa che ancora più vergognosamente li difende.

 

Travaglio

 

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FATE SCHIFO – Lo sfogo di Marco Travaglio in un editoriale di fuoco contro i Benetton che hanno lucrato vergognosamente sulla pelle della gente e la stampa che ancora più vergognosamente li difende.

 

FATE SCHIFO

DI MARCO TRAVAGLIO

ilfattoquotidiano.it

Noi non lo sapevamo, ma ogni volta che passavamo in auto sul ponte Morandi di Genova fungevamo da cavie di Autostrade per l’Italia, controllata da Atlantia della famiglia Benetton, che “utilizzava l’utenza, a sua insaputa, come strumento per il monitoraggio dell’opera”. Cavie peraltro inutili, inclusi i poveri 43 morti del 14 agosto: “pur a conoscenza di un accentuato degrado” delle strutture portanti, la concessionaria “non ha ritenuto di provvedere, come avrebbe dovuto, al loro immediato ripristino” né “adottato alcuna misura precauzionale a tutela” degli automobilisti. Lo scrive la Commissione ispettiva del ministero, nella relazione pubblicata dal ministro Danilo Toninelli. Autostrade-Atlantia-Benetton “non si è avvalsa… dei poteri limitativi e/o interdittivi regolatori del traffico sul viadotto” e non ha “eseguito gli interventi necessari per evitare il crollo”. Peggio: “minimizzò e celò” allo Stato “gli elementi conoscitivi” che avrebbero permesso all’organo di vigilanza di dare “compiutezza sostanziale ai suoi compiti”. Non aveva neppure “eseguito la valutazione di sicurezza del viadotto”: gl’ispettori l’hanno chiesta e, “contrariamente a quanto affermato nella comunicazione del 23.6.2017 della Società alla struttura di vigilanza”, hanno scoperto che “tale documento non esiste”. Le misure preventive di Autostrade “erano inappropriate e insufficienti considerata la gravità del problema”, malgrado la concessionaria fosse “in grado di cogliere qualitativamente l’evoluzione temporale dei problemi di ammaloramento… Tale evoluzione, ormai da anni, restituiva un quadro preoccupante, e incognito quantitativamente, per la sicurezza strutturale rispetto al crollo”.

Eppure si perseverò nella “irresponsabile minimizzazione dei necessari interventi, perfino di manutenzione ordinaria”. Così il ponte è crollato, non tanto per “la rottura di uno o più stralli”, quanto per “quella di uno dei restanti elementi strutturali (travi di bordo degli impalcati tampone) la cui sopravvivenza era condizionata dall’avanzato stato di corrosione negli elementi strutturali”. E la “mancanza di cura” nella posa dei sostegni dei carroponti potrebbe “aver diminuito la sezione resistente dell’armatura delle travi di bordo e aver contribuito al crollo”. Per 20 anni, i Benetton hanno incassato pedaggi e risparmiato in sicurezza: “Nonostante la vetustà dell’opera e l’accertato stato di degrado, i costi degli interventi strutturali negli ultimi 24 anni, sono trascurabili”. Occhio ai dati: “il 98% dell’importo (24.610.500 euro) è stato speso prima del 1999”, quando le Autostrade furono donate ai Benetton, e dopo “solo il 2%”.

Quando c’era lo Stato, l’investimento medio annuo fu di “1,3 milioni di euro nel 1982-1999”; con i Benetton si passò a “23 mila euro circa”. Il resto della relazione, che documenta anche il dolce far nulla dei concessionari, ben consci della marcescenza e persino della rottura di molti tiranti, lo trovate alle pag. 2 e 3. Ora provate a confrontare queste parole devastanti con ciò che avete letto in questi 40 giorni sulla grande stampa. E cioè, nell’ordine, che: per giudicare l’inadempimento di Autostrade (i Benetton era meglio non nominarli neppure) bisogna attendere le sentenze definitive della magistratura (una decina d’anni, se va bene); revocare subito la concessione sarebbe “giustizialismo”, “populismo”, “moralismo”, “giustizia sommaria”, “punizione cieca”, “voglia di ghigliottina” e di “Piazzale Loreto”, “sciacallaggio”, “speculazione politica”, “ansia vendicativa”, “barbarie umana e giuridica”, “cultura anti-impresa” che dice “no a tutto”, “pericolosa deriva autoritaria”, “ossessione del capro espiatorio”, “esplosione emotiva”, “punizione cieca”, “barbarie”, ”pressappochismo”, “improvvisazione”, “avventurismo”, “collettivismo”, “socialismo reale”, “oscurantismo” (Repubblica, Corriere, Stampa, il Giornale); l’eventuale revoca senz’attendere i tempi della giustizia costerebbe allo Stato 20 miliardi di penali; è sempre meglio il privato del pubblico, dunque le privatizzazioni non si toccano; il viadotto non sarebbe crollato se il M5S non avesse bloccato la Gronda (bloccata da chi governava, cioè da sinistra e destra, non dal M5S che non ha mai governato; senza contare che la Gronda avrebbe lasciato in funzione il ponte Morandi); e altre cazzate.

Repubblica: “In attesa che la magistratura faccia luce”, guai e fare di Atlantia “il capro espiatorio di processi sommari e riti di piazza”, “tipici del populismo”. Corriere: revocare la concessione sarebbe “una scorciatoia”, “un errore” e “un indizio di debolezza”. La Stampa: il crollo del ponte è “questione complessa” e nessuno deve gettare la croce addosso ai poveri Benetton (peraltro mai nominati), “sacrificati” come “capro espiatorio contro cui l’indignazione possa sfogarsi”, come nei “paesi barbari”. Parole ridicole anche per chi guardava le immagini del ponte crollato con occhi profani: se lo Stato affida un bene pubblico a un privato e questo lo lascia crollare dopo averci lucrato utili favolosi, l’inadempimento è nei fatti, la revoca è un atto dovuto e il concessore non deve nulla al concessionario. O, anche se gli dovesse qualcosa, sarebbero spiccioli (facilmente ammortizzabili con i pedaggi) rispetto al danno che deriverebbe dalla scelta immorale di lasciare quel bene in mani insanguinate. Ora però c’è pure la terrificante relazione ministeriale, che va oltre le peggiori aspettative. In un Paese serio, o almeno decente, i vertici di Autostrade-Atlantia-Benetton, anziché balbettare scuse o chiedere danni in attesa di farne altri, si dimetterebbero in blocco rinunciando alla concessione, per pudore. E i giornaloni si scuserebbero con i familiari dei 43 morti e uscirebbero su carta rossa. Per la vergogna.

Marco Travaglio

www.ilfattoquotidiano.it

28.09.2018

visto su; https://www.facebook.com/TutticonMarcoTravaglioForever/posts/2163916743618496

 

Nota CdCla relazione può essere scaricata dal sito del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti :

http://www.mit.gov.it/comunicazione/news/ponte-crollo-ponte-morandi-commissione-ispettiva-genova/ponte-morandi-online-la

Marcello Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?

 

Marcello Foa

 

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Marcello Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?

 

Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.

C’è qualcosa di meta-politico, di profondamente eversivo, nella sola idea di aver pensato a un cavaliere solitario e coltissimo come Foa, giornalista di razza e gentiluomo, per la presidenza della televisione di Stato, vera e propria fabbrica del consenso, per decenni affidata il più delle volte a mani servili e mediocri. È antropologicamente eversiva, la figura del liberale Foa al vertice della Rai: è il bambino che non può fare a meno di svelare l’imbarazzante nudità del sovrano, del monarca che si gloria nel celebrare una pace apparente, mentre intorno infuria la peggiore delle guerre. La guerriglia di oggi, nella quale Marcello Foa si trova coinvolto – dopo aver dato la sua avventurosa disponibilità a quell’ipotesi democratica chiamata “governo gialloverde” – non è un conflitto come quelli che l’hanno preceduto: è un sordido massacro quotidiano perpetrato ovunque, senza frontiere, senza più neppure le bandiere di un tempo. È una guerra orwelliana, affidata a mercenari. Navi corsare, che combattono (per lo più in incognito) per conto di padroni potentissimi, protetti dall’anonimato. Non c’è più neppure il triste onore della battaglia: si viene sopraffatti in modo subdolo, sistematicamente sommersi da menzogne spacciate per verità di fede, che il sistema mediatico non si cura più di verificare. Ed è proprio per questo che l’attuale sistema mediatico italiano detesta, e teme, Marcello Foa.

Ascoltando solo e sempre un’unica campana, il sistema mainstream ci ha raccontato in questi anni che le poderose, ciclopiche Torri Gemelle di Manhattan sono crollate su se stesse, come se fossero state di cartone anziché di acciaio, solo perché colpite – con una manovra proibitiva persino per i migliori “top gun” – da normalissimi e leggerissimi jet di linea fatti di alluminio, dirottati da apprendisti piloti arabi, di cui tuttora non si sa nulla: non un’immagine, al fatale imbarco, di nessuno dei 19 presunti dirottatori (salvo poi rintracciare i loro passaporti, nientemeno, nell’inferno fumante di Ground Zero). Finge di credere sempre e soltanto alla versione ufficiale, il mainstream media, anche quando dimentica di ricordare che furono gli Usa a incoraggiare Saddam Hussein a invadere il Kuwait, dopo averlo spinto a combattere contro l’Iran. Dà retta unicamente al super-governo universale, il club dei telegiornali, anche quando assicura che Saddam disponeva di micidiali armi di distruzione di massa. E tace, invece, quando l’Onu dimostra che quelle armi erano pura fantasia, come i gas siriani di Assad, le fosse comuni di Gheddafi, le violenze della polizia di Yanukovich in Ucraina. E poi applaude a reti unificate, la consorteria mediatica, quando in Italia appaiono i cosiddetti salvatori della patria – i Monti, i Cottarelli – armati del bisturi che useranno per amputare carne viva, risparmi e pensioni, economia italiana di aziende e famiglie, oscurando il futuro dei giovani.

All’epoca in cui Marcello Foa lavorava al “Giornale” di Indro Montanelli, il mondo probabilmente appariva infinitamente più semplice – più chiaro, più visibile nei suoi errori e orrori: la guerra fredda, il Medio Oriente e gli sconquassi africani della decolonizzazione, la strategia della tensione organizzata per gambizzare l’Italia e impedirle di prendere il volo come autonoma potenza euromediterranea fondata sulla forza formidabile dell’economia mista, pubblico-privata. In quella redazione milanese, dove Foa è cresciuto professionalmente, su una parete c’era appesa una carta geografica di Israele che indicava come capitale Gerusalemme, già allora, anziché Tel Aviv. Se Enrico Berlinguer impiegò anni per ammettere che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che tra i carri armati del Patto di Varsavia, Marcello Foa e il suo maestro Montanelli non avevano mai avuto dubbi sul fatto che niente di buono potesse venire, per l’Occidente, da un’oligarchia sedicente comunista che aveva soppresso sul nascere i primi vagiti democratici della Russia, cambiando semplicemente look all’antico dispotismo zarista. L’eroico sacrificio dell’Unione Sovietica, decisivo nell’abbattere il nazifascismo, non poteva cancellare né i Gulag di Stalin né l’esilio di Aleksandr Solženicyn. Era fatto di certezze, il mondo di Foa e Montanelli: la libertà (inclusa quella d’impresa) come fondamento irrinunciabile di qualsiasi comunità civile degna di chiamarsi democratica.

Ed è questo che rende Foa insopportabile al potere economico di oggi, dove la libertà d’impresa cede il passo al dominio di immensi oligopoli finanziari globalizzati, privilegiati da legislazioni truccate come quelle dell’Unione Europea ordoliberista. È tanto più sgradevole e insidioso, Foa, perché non proviene – come invece molti anchorman televisivi – dalla contestazione giovanile del capitalismo: credeva, Foa, negli stessi valori professati dall’élite economica di un tempo, orientata pur sempre alla promozione della mobilità sociale, in sostanziale accordo con le forze sindacali dell’allora sinistra. Una dialettica anche aspra, ma vocata in ogni caso al miglioramento complessivo del sistema-paese. E mediata – sempre – dalla politica, letteralmente scomparsa dai radar italiani per 25 lunghissimi anni. Solo oggi, alla distanza, ci si mette le mani tra i capelli nel rivedere il film dell’euforia generale con la quale i cittadini avevano accolto il Trattato di Maastricht e, dieci anni dopo, l’ingresso nell’Eurozona disegnata dalle banche e governata dalla Bce con modalità feudali, imperiali, senza la supervisione di alcun controllo democratico. Succedeva negli anni in cui, con la caduta del Muro di Berlino benedetta da Gorbaciov, l’umanità si era illusa che il fantasma della guerra sarebbe stato semplicemente cancellato dalla storia del pianeta.

Magari fosse un comune complottista, Marcello Foa: sarebbe più comodo liquidarlo, come velleitario chiacchierone. Chi oggi gli promette guerra, invece, sa benissimo che l’ex caporedattore del “Giornale”, nonché docente universitario, nonché feroce critico del sub-giornalismo odierno, è un vero e proprio disertore. Non era un eretico: lo è diventato negli ultimi anni, disgustato dallo spettacolo al quale è stato costretto ad assistere. Per questo, al di là del reale potere che gli conferisce la carica di presidente Rai, Marcello Foa rappresenta un vero pericolo, per i malintenzionati che oggi gli danno del traditore. Nell’Italia corporativa delle caste, ha osato “sparare” contro la sua – quella dei giornalisti – definendoli “stregoni della notizia”, bugiardi e omertosi spacciatori di “fake news” di regime. E non c’è niente di peggio, per i servi, che l’ex schiavo che si libera delle catene: la sua rivolta personale, intellettuale, suona umiliante per chi si ostina a raccontare che la Terra è piatta, e che è il Sole a orbitarle attorno.

Chi l’avrebbe detto? Oggi l’Italia riesce incredibilmente a piazzare una persona autorevole, onesta e competente, alla guida della televisione pubblica. Marcello Foa non è infallibile: ma quando ha sbagliato – anche di recente, prendendo per buona la notizia di presunte istruzioni che il governo tedesco avrebbe impartito alla polizia, per enfatizzare il terrorismo “casereccio” targato Isis – non ha esitato ad ammetterlo, tempestivamente. Quanti, al suo posto, avrebbero avuto lo stesso coraggio? E ora, questo volto pulito del nostro giornalismo è alle prese con una sfida estremamente impegnativa. È davvero impossibile fare molta strada, in politica, se non si è almeno in parte ricattabili, e quindi controllabili, in quanto complici dell’apparato da cui si è stati promossi? Così almeno ebbe a dire un protagonista della vita pubblica italiana come Giuliano Ferrara. Qualcuno – sincero o meno – obietterà che questa regola non vale necessariamente per tutti. Ma è sicuro che, una volta entrati in cabina di regia, le proprie virtù possono trasformarsi in problemi: in un ambiente non esattamente cristallino, le qualità naturali dell’eretico diventano un’enorme seccatura, se non un ostacolo da rimuovere prima che possa mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema stesso. A meno che l’eretico non riesca, appunto, a bonificarlo.

Questa è la sfida di Marcello Foa, nella quale è in gioco l’Italia intera: restare fedeli alla propria coscienza significa contribuire a riaccendere la luce sulle notizie. Senza un’informazione trasparente, lo sappiamo, non c’è neppure vera democrazia. Lo sostiene con vigore, Marcello Foa, che resta innanzitutto un uomo leale e garbato – anche quando si permette di dissentire in modo netto sull’operato del presidente della Repubblica: chi oggi lo accusa di aver addirittura insolentito Sergio Mattarella, dopo la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’economia, più che il prestigio del capo dello Stato sembra aver a cuore la disciplina sociale dell’ossequio, da imporre al popolo nei confronti di chiunque rivesta funzioni di potere. Non è questa la democrazia per la quale il giovane liberale Foa tifava, quando polemizzava con quel comunismo da cui provengono moltissimi dei suoi attuali, smemorati detrattori. Non sappiamo come si svilupperà, la sua avventura negli uffici della Rai. Ma sappiamo che – contro ogni previsione – è tornata sotto i riflettori, in Italia, un’antropologia che si credeva estinta. Quella delle persone per bene, a cui il governo in carica oggi affida addirittura la guida della televisione.

(Giorgio Cattaneo, “Marcello Foa alla guida della Rai: che succede quando un eretico sale al potere?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 2018).

 

Trattativa Stato-mafia, le agghiaccianti dichiarazioni del Pm Di Matteo: “Berlusconi anche da premier continuò a pagare Cosa Nostra”

 

Di Matteo

 

 

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Trattativa Stato-mafia, le agghiaccianti dichiarazioni del Pm Di Matteo: “Berlusconi anche da premier continuò a pagare Cosa Nostra”

 

“Si ritiene da parte dei giudici che Silvio Berlusconi continuò a pagare ingenti somme di denaro a Cosa Nostra palermitana anche dopo essere diventato Presidente del Consiglio”.

A dichiararlo è stato il sostituto procuratore nazionale antimafia, Nino Di Matteo, che ha istruito il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, presentando il suo libro ‘Il patto sporco’ scritto con il giornalista Saverio Lodato, in un’intervista realizzata da Paolo Borrometi per il Tg2000, il telegiornale di Tv2000.

“Risultano annotati in un libro mastro della mafia palermitana – ha raccontato – movimenti di denaro e ricezione di una somma montante a centinaia di milioni da parte del gruppo imprenditoriale legato a Berlusconi anche dopo che Silvio Berlusconi aveva assunto la carica di Presidente del Consiglio. Un Presidente del Consiglio, se questo è vero, il capo di un governo della nostra Repubblica pagava Cosa Nostra”.

“Nonostante un gravissimo silenzio e una gravissima ignoranza indotta nell’opinione pubblica, sull’argomento – ha spiegato lo storico magistrato del pool – noi magistrati avevamo già una sentenza che aveva condannato definitivamente il senatore Dell’ Utri per concorso in associazione mafiosa. Questa stabiliva e statuiva che l’allora imprenditore Silvio Berlusconi nel 1974 con l’intermediazione di Marcello Dell’ Utri avesse stipulato un patto con esponenti apicali, esponenti di vertice della Cosa Nostra palermitana. Patto di reciproca protezione e sostegno. E che quel patto era stato rispettato dal 1974 almeno fino al 1992”.

“Ma questa sentenza di primo grado sulla trattativa Stato-mafia – ha sottolineato Di Matteo – va oltre. È stato dimostrato che l’intermediazione di Dell’Utri è proseguita attraverso la trasmissione di messaggi e richieste di Cosa Nostra a Silvio Berlusconi anche dopo il 1992. Soprattutto dopo che Silvio Berlusconi a seguito delle elezioni del marzo 1994 divenne Presidente del Consiglio. Quindi per la prima volta questa sentenza chiama in ballo Silvio Berlusconi non più come semplice imprenditore ma come uomo politico addirittura come Presidente del Consiglio. Questo è un passaggio che pochi hanno sottolineato che può essere incidentale ma è assolutamente indicativo della gravità del comportamento di Silvio Berlusconi che i giudici ritengono accertato, è un passaggio apparentemente slegato all’ imputazione mossa a Dell’Utri in questo processo ma molto significativo”.

 

 

fonte: https://www.silenziefalsita.it/2018/09/28/stato-mafia-di-matteo-berlusconi-anche-da-premier-continuo-a-pagare-cosa-nostra/

Renzi attacca duramente i Cinquestelle per il 2,4% di deficit per 3 anni – Perchè lo sappiamo tutti che la sua forza è la coerenza… Infatti ricorderete che solo un anno fa andava dicendo che si sarebbe dovuto fare il 2,9% di deficit per 5 anni… BUFFONE

 

 

Renzi

 

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Renzi attacca duramente i Cinquestelle per il 2,4% di deficit per 3 anni – Perchè lo sappiamo tutti che la sua forza è la coerenza… Infatti ricorderete che solo un anno fa andava dicendo che si sarebbe dovuto fare il 2,9% di deficit per 5 anni… BUFFONE

Quando Renzi chiedeva all’Ue il 2,9% di deficit per cinque anni

Oggi l’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, critica la decisione del governo M5s-Lega di arrivare al 2,4% di deficit per tre anni per finanziare le sue promesse elettorali. Ma, solo un anno fa, Renzi lanciava una proposta che qualunque esecutivo in questa legislatura avrebbe dovuto inviare all’Ue: fare il 2,9% di deficit per cinque anni per “ridurre la pressione fiscale e rimodulare la crescita”. I governi a guida Pd e quello Renzi, comunque, non hanno aumentato il deficit.

L’approvazione della nota di aggiornamento al Def da parte del Consiglio dei ministri con l’aumento del deficit al 2,4% per i prossimi tre anni non piace all’ex segretario del Pd, Matteo Renzi. E lo dice esplicitamente parlando di “conseguenze devastanti delle scelte di oggi” (superamento della Fornero, reddito di cittadinanza e avvio della flat tax) che vedremo nel 2019/2020. Eppure, poco più di un anno fa, Renzi non era affatto contrario all’idea di aumentare il deficit, tanto da proporre, in un intervento pubblicato sul Sole 24 Ore, all’Unione europea di accettare cinque anni di deficit al 2,9% per l’Italia. Una incongruenza fatta notare quest’oggi anche dall’ex deputato del MoVimento 5 Stelle, Alessandro Di Battista, con un post su Facebook. Va comunque riconosciuto che, nella scorsa legislatura, né il governo Renzi né il governo Gentiloni ha aumentato il deficit, rispettando invece le richieste europee.

Oggi Renzi ritiene che il problema dell’innalzamento del deficit derivi dalla decisione di puntare “su condoni e assistenzialismo”. In questo la sua proposta era in parte, ma non del tutto, diversa. Renzi partiva da un discorso riguardante l’immigrazione, spiegando che in caso di mancato cambio di atteggiamento da parte di alcuni paesi sul tema, l’Italia avrebbe dovuto cambiare atteggiamento in campo economico. Renzi chiedeva a tutte le forze politiche italiane di “remare nella stessa direzione”, avanzando insieme questa proposta e affermando: “Non accetto che l’Italia sia trattata come una studentessa indisciplinata da rimettere in riga, è un atteggiamento che fa male all’Europa che, da speranza politica, diventa guardiana antipatica”.

Renzi parla allora di un ritorno a Maastricht: “Stare dentro i parametri sembrava un’impresa quasi impossibile, al punto che quando l’Italia raggiunse quel traguardo per molti fu festa grande. Oggi Maastricht ha cambiato significato. L’avvento scriteriato del Fiscal compact nel 2012 fa del ritorno agli obiettivi di Maastricht (deficit al 3% per avere una crescita intorno al 2%) una sorta di manifesto progressista”.

Ed ecco quindi la proposta di Renzi:

Noi pensiamo che l’Italia debba porre il veto all’introduzione del Fiscal compact nei trattati e stabilire un percorso a lungo termine. Un accordo forte con le istituzioni europee, rinegoziato ogni cinque anni e non ogni cinque mesi. Un accordo in cui l’Italia si impegna a ridurre il rapporto debito/Pil tramite sia una crescita più forte, sia un’operazione sul patrimonio che la Cassa depositi e prestiti e il ministero dell’Economia e delle Finanze hanno già studiato, sebbene debba essere perfezionata; essa potrà essere proposta all’Unione europea solo con un accordo di legislatura e in cambio del via libera al ritorno per almeno cinque anni ai criteri di Maastricht con il deficit al 2,9%. Ciò permetterà al nostro paese di avere a disposizione una cifra di almeno 30 miliardi di euro per i prossimi cinque anni per ridurre la pressione fiscale e rimodellare le strategie di crescita. La mia proposta è semplice: questo spazio fiscale va utilizzato tutto, e soltanto per la riduzione delle tasse, per continuare l’operazione strutturale iniziata nei mille giorni. La prossima legislatura, qualunque sia il giorno in cui comincerà, dovrà mettere sul tavolo uno scambio chiaro in Europa: noi abbassiamo il debito, ma la strada maestra per farlo è la crescita. Quindi abbiamo bisogno di abbassare le tasse. Punto.

L’attacco di Di Battista
L’ex deputato del M5s, Alessandro Di Battista, rilancia su Facebook quell’intervento di Renzi, datato luglio 2017: “Renzi scrive un lungo capitolo del suo libro (riportato in prima pagina dal Sole 24 ore) dove spiega ‘la base della proposta economica del Pd per le prossime elezioni’. E cosa scrive il senatore semplice, all’epoca segretario del Pd? Decifit al 2,9% per 5 anni per avere miliardi di euro da investire in crescita. Adesso che un governo (non più il loro) decide di arrivare ad un decifit del 2,4% non per trovare denari da dare alle banche ma per dare una mano a chi vive in povertà, per alzare le pensioni minime, per abbassare le tasse alle partite IVA e per sostenere i truffati dalle banche (e dallo stesso governo Renzi) il Pd che fa? Scende in piazza per mettere in pericolo gli italiani da questi barbari, ‘ladri di futuro’ che non pensano ai conti pubblici”.

tratto da: https://www.fanpage.it/quando-renzi-chiedeva-allue-il-29-di-deficit-per-cinque-anni/

 

“Noi rappresentiamo l’Italia seria, onesta” – Lo ha detto Silvio Berlusconi, noto puttaniere, pregiudicato con 40 processi alle spalle, che sovvenzionava la mafia tramite Dell’Utri e famoso in tutto il mondo per bunga bunga e barzellette.

 

Silvio Berlusconi

 

 

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“Noi rappresentiamo l’Italia seria, onesta” – Lo ha detto Silvio Berlusconi, noto puttaniere, pregiudicato con 40 processi alle spalle, che sovvenzionava la mafia tramite Dell’Utri e famoso in tutto il mondo per bunga bunga e barzellette.

 

Il nostro ineguagliabile Silvio Berlusconi a Fiuggi, nella giornata conclusiva della kermesse di Forza Italia del 23 settembre scorso, lancia il “Manifesto per la libertà”.

Niente di nuovo. Le solite baggianate, la solita retorica, il solito nemico (prima erano i comunisti, ora i cinque stelle).

Niente, niente di nuovo, solo e solamente le solite cazzate.

Rientra tra le “solite cazzate” la geniale conclusione del testo del manifesto. “Come nel 1994 è l’ora di una grande mobilitazione delle coscienze per noi che rappresentiamo l’Italia seria, onesta, concreta, fattiva”

E certo se lui rappresenta l’Italia seria ed onesta…

Non è il caso di continuare… Di serio, oltre il bunga bunga e le barzellette, per le qual cose per 20 anni ci ha preso per il culo tutto il mondo, non ci sovviene altro…

In quanto ad onestà… Da bocca di un pregiudicato… Che dava i soldi a Totò Riina tramite Dell’Utri… Che non sta a marcire in galera solo perchèà si èà fatto da solo la vergoigna della vergogna delle leggi… Beh, lasciamo stare…

Lasciamo che i soliti idioti gli diano il voto, tanto sti coglioni sopno sempre di meno…

 

By Eles

 

Accadde Oggi – 25 settembre 2005, Federico Aldrovandi – Come morire a 18 anni massacrato da chi ci dovrebbe difendere (polizia), senza un perché…!

 

Aldrovandi

 

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Accadde Oggi – 25 settembre 2005, Federico Aldrovandi – Come morire a 18 anni massacrato da chi ci dovrebbe difendere (polizia), senza un perché…!

 

Federico Aldrovandi, ucciso a 18 anni dalla polizia senza un perché

Il 25 settembre 2005 il diciottenne Federico Aldrovandi moriva pestato a sangue dalla polizia. Ci sono voluti tre anni di processo e la battaglia dei genitori perché la sua morte venisse riconosciuta come omicidio e i quattro agenti che lo massacrarono fossero condannati (a tre anni di carcere).

Ferrara. È un tranquillo venerdì sera di fine settembre. Un’auto con un gruppo di giovani si ferma in viale Ippolito, stradone residenziale della città estense. Nel silenzio delle prime ore del giorno uno sportello si apre e dall’auto viene fatto scendere un ragazzo dagli occhi scuri e i capelli corvini. Lo sportello sbatte e la comitiva se ne va. È buio, le tapparelle sono abbassate, le finestre chiuse, per strada non c’è un’anima, ma a vigilare sulla sicurezza notturna c’è una pattuglia della polizia.

L’omicidio
Federico, 18 anni, appena tornato da una serata al ‘Link’ di Bologna, brillo ma non ubriaco, si imbatte nella volante “Alfa 3”, con a bordo gli agenti Enzo Pontani e Luca Pollastri. Qualcosa nel suo comportamento attira l’attenzione dei poliziotti che lo fermano, comincia una colluttazione due contro uno. Poco dopo chiamano in soccorso la volante “Alfa 2”, con a bordo Paolo Forlani e Monica Segatto, gli agenti diventano quattro, nelle loro mani armate di manganelli, hanno un ragazzo di 18 anni. Alle 6 e 20 sul posto arrivano un’ambulanza, i medici del 118 trovano un ragazzo riverso a terra, con le mani ammanettate, il corpo ricoperto di ecchimosi, il viso stravolto. Federico è morto.

Le indagini
Patrizia e Lino, i genitori, continuano a cercarlo disperatamente al cellulare. Al telefono, ormai in possesso della polizia, dopo svariati tentativi della madre, a un certo punto risponde un agente. Dopo decine di chiamate dal numero registrato con il nome ‘mamma’, sul display appare il nome ‘Lino’, gli agenti rispondono. È il papà di Federico al quale, benché suo figlio si trovi esanime a pochi passi da casa sua, vengono date informazioni vaghe e confuse, tanto da costringerlo a telefonare in Questura. Solo alle 11, cinque ore dopo l’arrivo dell’ambulanza in viale Ippolito, Lino e Patrizia vengono informati di quanto è successo. Si parla di ‘overdose’, ma alla vista del corpo del loro ragazzo, gli Aldrovandi cominciano a temere che a uccidere il loro figlio non sia stata affatto la droga o un malore, ma un brutale, interminabile pestaggio. I segni raccontano di botte violentissime, tanto da spaccare i manganelli, lesioni che non si giustificano con le spiegazioni che medici e poliziotti danno loro. A confermare i sospetti dei familiari di Federico, arrivano poi le testimonianze degli amici che lo hanno accompagnato a pochi passi da casa, la sera del 25 settembre 2005. I ragazzi raccontano che Federico aveva bevuto (poco) e aveva preso qualcosa al ‘Link’, ma era completamente lucido e padrone di sé quando lo hanno lasciato a pochi metri da casa.

Il blog
Le indagini, condotte dal pm Mariaemanuela Guerra, vanno avanti senza colpi di scena finché, nel 2006, un anno dopo dalla morte di Federico, mamma Patrizia mette online un blog in cui racconta la storia di suo figlio. A spingere Patrizia Moretti a ricorrere al megafono della rete è il silenzio calato sulla vicenda. Un silenzio che per la madre del ragazzo morto in viale Ippolito ha il sapore dell’insabbiamento. In pochi giorni diventa il più cliccato in Italia, accendendo i riflettori sulla vicenda. È nato il caso Aldrovandi.

A processo
Nel 2007 gli agenti che intervennero quella notte, vengono rinviati a giudizio per omicidio colposo. Secondo l’accusa i quattro poliziotti hanno picchiato selvaggiamente Federico quando il diciottenne era ormai inerme e impossibilitato a opporre resistenza. Il dibattimento va avanti a colpi di perizie. Secondo Giorgio Gualandri e Antonio Zanzi, consulenti della parte civile rappresentata dagli avvocati Fabio Anselmo e Riccardo Venturi, la quantità di stupefacenti e alcol assunta dal ragazzo non era in alcun modo sufficiente a provocare il decesso, anzi. Secondo i medici la morte sarebbe sopravvenuta per “asfissia da posizione” dovuta alla pressione delle ginocchia dei poliziotti sul torace. Niente overdose, dunque, nessun malore.

Il video
Un anno dopo l’inizio del processo spunta un video della Polizia scientifica in cui si sentono pronunciare dagli agenti frasi inquietanti. “Digli alla madre che questo sta male”dice un poliziotto quando Federico è già senza vita. “No… – si sente lamentarsi un agente – lo chiamano al cellulare. Si è ammazzato da solo, dovete dire che era qui da solo”. “Oh, nessuno degli altri deve sapere di questa cosa”.

Depistaggi
Contemporaneamente viene avviato un filone di indagine indipendente su presunti falsi, omissioni e depistaggi messi in atto dalla Questura. Al banco degli imputati siedono i funzionari della questura in servizio il 25 settembre e nei mesi successivi, tra loro ci sono Paolo Marino, dirigente dell’ufficio volanti, Luca Casoni, l’ispettore capo delle volanti, Marcello Bulgarelli, centralinista coordinatore degli interventi, e Marco Pirani ufficiale di Polizia giudiziaria in procura. Marino viene condannato a un anno di reclusione per omissione di atti d’ufficio, Bulgarelli, a dieci mesi per omissione e favoreggiamento mentre Pirani a otto, per non aver trasmesso il registro degli interventi di quella mattina. Luca Casoni, processato con il rito abbreviato, viene invece assolto.

Eccesso di uso ‘legittimo’ di armi
Nel 2009 dopo trentadue udienze, il Tribunale di Ferrara ha condannato i quattro agenti a tre anni e sei mesi di reclusione con l’accusa di omicidio colposo. Ai poliziotti viene imputata la colpa di aver perpetrato un eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi. La sentenza è stata confermata nel 2012, dalla Suprema Corte di Cassazione.

L’epilogo
Patrizia Moretti continua a battersi perché gravi abusi del genere ai danni di persone innocenti non avvengano più. “C’è un solo modo per evitare ad altre madri quello che ho dovuto soffrire io – ha detto nel giorno del compleanno di Federico – adottare in Italia una legge contro la tortura”. Una petizione lanciata sul sito Avaaz.org propone l’approvazione di una legge contro la tortura. Il caso Aldrovandi è stato seguito anche da Amnesty International, l’organizzazione impegnata nella difesa dei diritti umani.

Ora che c’è una verità giudiziaria resta l’eredità storica di un atto inspiegabile e ingiusto che porta con sé una domanda, la stessa che si pose Lino Aldrovandi: “Al di là di ogni tecnicismo, cosa aveva fatto di male Federico, quella mattina?”.

fonte: https://www.fanpage.it/federico-aldrovandi-ucciso-a-18-anni-dalla-polizia-senza-un-perche/p1/
http://www.fanpage.it/

 

Ricapitoliamo: Sallusti accusa i Cinquestelle di comportamenti mafiosi… Sì, Sallusti, quello che sosteneva che Dell’Utri (condannato per MAFIA) era un galantuomo e che ha sempre scodinzolato intorno a Berlusconi che sovvenzionava la MAFIA…!

 

Sallusti

 

 

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Ricapitoliamo: Sallusti accusa i Cinquestelle di comportamenti mafiosi… Sì, Sallusti, quello che sosteneva che Dell’Utri (condannato per MAFIA) era un galantuomo e che ha sempre scodinzolato intorno a Berlusconi che sovvenzionava la MAFIA…!

 

Qualche mese fa il pm Nino Di Matteo in un’intervista a El País ricordò che Silvio Berlusconi “sovvenzionò la mafia per vent’anni”.

“C’è una sentenza definitiva – spiegò il magistrato – che afferma che tra il 1974 e il 1992 Berlusconi ebbe relazioni con la mafia siciliana”.

Il direttore de Il Giornale di Berlusconi, Alessandro Sallusti, si dimentica di citare questa sentenza nel suo editoriale di oggi intitolato “IL RICATTO MAFIOSO”, nel quale immagina la seguente scena:

“Siamo nella primavera del 1992, Totò Riina, capo indiscusso della mafia, al termine di una cena con i suoi picciotti, annuncia: se queste merde dei ministeri non aboliscono il carcere duro noi li andiamo a prendere con il coltello, con le pistole, se il caso con la dinamite, come poi in effetti avvenne con Falcone, Borsellino e tanti altri”.

“Veniamo a oggi” continua “Il boss dei Cinque Stelle, un bullo ex Grande Fratello, al termine di una cena riservata annuncia come svelato ieri da questo giornale: ‘Noi quelle merde del ministero delle Finanze se non mollano il quattrini per il reddito di cittadinanza l’anno venturo li anviamo a prendere uno a uno con il coltello’”.

“Le analogie sono impressionanti,” scrive ancora Sallusti “e non sono solo formali. I Cinque Stelle come la mafia, Casalino – braccio destro del premier Conte – come Riina a minacciare organi dello Stato che non si piegano al suo volere”.

Quelle di Sallusti sono solo analogie, immaginate dal direttore di un giornale che pensa più a fare gli interessi del suo padrone che a informare i suoi lettori.

Il M5S la mafia la combatte davvero, ed è per questo motivo che inizia a far paura a molti.

Quella che riguarda Berlusconi, di cui Sallusti non parla, non è un’analogia ma una sentenza: come affermato dal pm Di Matteo “è stato stipulato un patto con Cosa nostra, intermediato da Marcello dell’Utri, che è stato mantenuto dal 1974 fino al 1992 dall’allora imprenditore Silvio Berlusconi”.

Sallusti, visti i trascorsi di B., farebbe meglio a tacere, o quanto meno a non parlare di certi argomenti.

 

FONTE: https://www.silenziefalsita.it/2018/09/23/il-vile-attacco-di-sallusti-mi-immagino-la-scena-i-cinque-stelle-come-la-mafia-casalino-come-riina/