Michela Murgia: “Il fascismo non è il contrario del comunismo, ma della democrazia.” – “Dire che il fascismo è un’opinione politica è come dire che la mafia è un’opinione politica.” …Una breve profonda riflessione tutta da leggere

 

Michela Murgia

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Michela Murgia: “Il fascismo non è il contrario del comunismo, ma della democrazia.” – “Dire che il fascismo è un’opinione politica è come dire che la mafia è un’opinione politica.” …Una breve profonda riflessione tutta da leggere

Piccolo discorso sul fascismo che siamo.
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A te che hai vent’anni e mi chiedi cos’è il fascismo, vorrei non doverti rispondere. Vorrei che nel 2017 la risposta a questa domanda la sapessimo già tutti, ma se me lo chiedi è perché non è così.
So perché me lo domandi. Credi che io sia intollerante se dico che il fascismo è reato e deve rimanerlo sempre. Credi che “se il fascismo e il comunismo hanno causato entrambi tanto dolore nel corso della storia devono essere considerati reato senza distinguo”.
È quindi colpa mia se me lo chiedi.
Colpa del fatto che non ti ho detto che il fascismo non è il contrario del comunismo, ma della democrazia. Dovevo dirtelo prima che il fascismo non è un’ideologia, ma un metodo che può applicarsi a qualunque ideologia, nessuna esclusa, e cambiarne dall’interno la natura. Mussolini era socialista e forse non te l’ho spiegato mai. Ho dimenticato di dirti che si intestava le istanze dei poveri e dei diseredati. Ho omesso di raccontarti che i suoi editoriali erano zeppi di parole d’ordine della sinistra, parole come “lavoratori” e “proletariato”. Non ti ho insegnato che un socialismo che pretende di realizzarsi con metodo fascista è un fascismo, perché nelle questioni politiche la forma è sempre sostanza e il come determina anche il cosa. Per questo il fascismo agisce anche nei sistemi che si richiamano a valori di sinistra e anzi è lì che fa i danni più grandi, perché non c’è niente di più difficile del riconoscere che l’avversario è seduto a tavola con te e ti chiama compagno.
Dire che il fascismo è un’opinione politica è come dire che la mafia è un’opinione politica; invece, proprio come la mafia, il fascismo non è di destra né di sinistra: il suo obiettivo è la sostituzione stessa dello stato democratico ed è la ragione per cui ogni stato democratico dovrebbe combatterli entrambi – mafia e fascismo – senza alcun cedimento. Tu sei vittima dell’equivoco che identifica il fascismo con una destra ed è un equivoco facile, perché il fascismo è la modalità che meglio si adatta alla visione di mondo di molta della destra che agisce in Italia oggi. Ma guai se questo ti rendesse incapace di riconoscere i semi del pensiero fascista se li incontri quando sei convinto di guardare da qualche altra parte.
Può esserti utile sapere come riconosco io il fascismo quando lo incontro: ogni volta che in nome della meta non si può discutere la direzione, in nome della direzione non si può discutere la forza e in nome della forza non si può discutere la volontà, lì c’è un fascismo in azione. In democrazia il cosa ottieni non vale mai più del come lo hai ottenuto e il perché di una scelta non deve mai farti dimenticare del per chi la stai compiendo. Se i rapporti si invertono qualunque soggetto collettivo diventa un fascismo, persino il partito di sinistra, il gruppo parrocchiale e il circolo della bocciofila.
Nessuno è al sicuro, se non dentro allo sforzo di ricordarsi in ogni momento che cosa rischiamo tutti quando cominciamo a pensare che il fascismo è solo un’opinione tra le altre.

Michela Murgia

16 maggio 1925 – Il grande, attualissimo discorso alla Camera di Antonio Gramsci: “Ecco cos’è davvero il fascismo”

 

Antonio Gramsci

 

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16 maggio 1925 – Il grande, attualissimo discorso alla Camera di Antonio Gramsci: “Ecco cos’è davvero il fascismo”

 

Gramsci: ecco cos’è davvero il fascismo

La ‘rivoluzione’ fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro personale. Il discorso alla Camera di Antonio Gramsci

Antonio Gramsci (16 maggio 1925)

Il problema è questo: la situazione del capitalismo in Italia si è rafforzata o si è indebolita dopo la guerra, col fenomeno fascista? Quali erano le debolezze della borghesia capitalistica italiana prima della guerra, debolezze che hanno portato alla creazione di quel determinato sistema politico-massonico che esisteva in Italia, che ha avuto il suo massimo sviluppo nel giolittismo?
Le debolezze massime della vita nazionale italiana erano in primo luogo la mancanza di materie prime, cioè la impossibilità per la borghesia di creare in Italia una sua radice profonda nel paese e che potesse progressivamente svilupparsi, assorbendo la mano d’opera esuberante. In secondo luogo la mancanza di colonie legate alla madre patria, quindi la impossibilità per la borghesia di creare una aristocrazia operaia che permanentemente potesse essere alleata della borghesia stessa. Terzo, la questione meridionale, cioè la questione dei contadini, legata strettamente al problema della emigrazione, che è la prova della incapacità della borghesia italiana di mantenere…[Interruzioni].
Il significato dell’emigrazione in massa dei lavoratori è questo: il sistema capitalistico, che è il sistema predominante, non è in grado di dare il vitto, l’alloggio e i vestiti alla popolazione, e una parte non piccola di questa popolazione è costretta ad emigrare… Noi abbiamo una nostra concezione dell’imperialismo e del fenomeno coloniale, secondo la quale essi sono prima di tutto una esportazione di capitale finanziario. Finora l’imperialismo italiano è consistito solo in questo: che l’operaio italiano emigrato lavora per il profitto dei capitalisti degli altri paesi, cioè finora l’Italia è solo stata un mezzo dell’espansione del capitale finanziario non italiano.
Voi vi sciacquate sempre la bocca con le affermazioni puerili di una pretesa superiorità demografica dell’Italia sugli altri paesi; voi dite sempre, per esempio, che l’Italia demograficamente è superiore alla Francia. È una questione questa che solo le statistiche possono risolvere perentoriamente ed io qualche volta mi occupo di statistiche; ora una statistica pubblicata nel dopoguerra, mai smentita, e che non può essere smentita, afferma che l’Italia di prima della guerra, dal punto di vista demografico, si trovava già nella stessa situazione della Francia dopo la guerra; ciò è determinato dal fatto che l’emigrazione allontana dal territorio nazionale una tal massa di popolazione maschile produttivamente attiva, che i rapporti demografici diventano catastrofici.
Nel territorio nazionale rimangono vecchi, donne, bambini, invalidi, cioè la parte di popolazione passiva che grava sulla popolazione lavoratrice in una misura superiore a qualsiasi altro paese, anche alla Francia. È questa la debolezza fondamentale del sistema capitalistico italiano, per cui il capitalismo italiano è destinato a scomparire tanto più rapidamente quanto più il sistema capitalistico mondiale non funziona più per assorbire l’emigrazione italiana, per sfruttare il lavoro italiano, che il capitalismo nostrale è impotente a inquadrare.
I partiti borghesi, la massoneria, come hanno cercato di risolvere questi problemi? Conosciamo nella storia italiana degli ultimi tempi due piani politici della borghesia per risolvere la questione del governo del popolo italiano. Abbiamo avuto la pratica giolittiana, il collaborazionismo del socialismo italiano con il giolittismo, cioè il tentativo di stabilire una alleanza della borghesia industriale con una certa aristocrazia operaia settentrionale per opprimere, per soggiogare a questa formazione borghese-proletaria la massa dei contadini italiani specialmente nel Mezzogiorno. Il programma non ha avuto successo.
Nell’Italia settentrionale si costituisce difatti una coalizione borghese-proletaria attraverso la collaborazione parlamentare e la politica dei lavori pubblici alle cooperative: nell’Italia meridionale si corrompe il ceto dirigente e si domina la massa coi mazzieri… [Interruzione del deputato Greco]
Voi fascisti siete stati i maggiori artefici del fallimento di questo piano politico, poiché avete livellato nella stessa miseria l’aristocrazia operaia e i contadini poveri di tutta l’Italia. Abbiamo avuto il programma che possiamo dire del Corriere della Sera, giornale che rappresenta una forza non indifferente nella politica nazionale: ottocentomila lettori sono anch’essi un partito. [Voci “Meno…”. Mussolini “La metà! E poi i lettori dei giornali non contano. Non hanno mai fatto una rivoluzione. I lettori dei giornali hanno regolarmente torto!]
Il Corriere della Sera non vuole fare la rivoluzione.
[Farinacci: Neanche l’Unità!]. Il Corriere della Sera ha sostenuto sistematicamente tutti gli uomini politici del Mezzogiorno, da Salandra ad Orlando, a Nitti, ad Amendola; di fronte alla soluzione giolittiana, oppressiva non solo di classi, ma addirittura di interi territori, come il Mezzogiorno e le isole, e perciò altrettanto pericolosa che l’attuale fascismo per la stessa unità materiale dello Stato italiano, il Corriere della Sera ha sostenuto sempre un’alleanza tra gli industriali del Nord e una certa vaga democrazia rurale prevalentemente meridionale sul terreno del libero scambio. L’una e l’altra soluzione tendevano essenzialmente a dare allo Stato italiano una più larga base di quella originaria, tendevano a sviluppare le “conquiste” del Risorgimento.
Che cosa oppongono i fascisti a queste soluzioni? Essi oppongono oggi la legge cosiddetta contro la massoneria; essi dicono di volere così conquistare lo Stato. In realtà il fascismo lotta contro la sola forza organizzata efficientemente che la borghesia capitalistica avesse in Italia, per soppiantarla nella occupazione dei posti che lo Stato dà ai suoi funzionari. La “rivoluzione” fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro personale”.

Oliviero Diliberto, forse l’unico tra i politici che si è reso conto di quello che hanno combinato: “L’unico dovere della mia generazione è sparire. Abbiamo fallito miseramente”

 

Diliberto

 

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Oliviero Diliberto, forse l’unico tra i politici che si è reso conto di quello che hanno combinato: “L’unico dovere della mia generazione è sparire. Abbiamo fallito miseramente”

 

“L’unico dovere della mia generazione è sparire. Abbiamo fallito miseramente”

Oliviero Diliberto ha concesso la sua ultima intervista nel 2013. Oggi è tornato a parlare nella pagina “Confessioni” del Corriere della Sera

Non dà interviste da 5 anni, ma oggi Oliviero Diliberto, 61 anni, è tornato a parlare al Corriere della Sera. L’ex segretario dei Comunisti Italiani ha scelto il silenzio “da quando la mia parte politica fu sconfitta disastrosamente” nel 2013, e nell’intervista non dà scuse alla sua generazione: “Ha fallito. Il suo unico dovere morale è scomparire”, si legge nelle prime righe. Oggi non si occupa più di politica ma insegna diritto romano in Cina, nell’ateneo di Wuhan,10 milioni di abitanti a oltre mille km da Pechino e spiega che sta aiutando il governo di Xi Jinping ad adottarlo nel proprio codice civile.

Xi, secondo Diliberto “ha avviato una campagna di riforme mai vista prima. Lotta alla povertà, Stato fondato sul diritto, contrasto alla corruzione. Che significa anche morigeratezza”. Nessun problema per il mandato a vita, anche perché “Roosevelt fu presidente degli Stati Uniti per quattro mandati e ne avrebbe fatto un quinto se non fosse morto”. C’è la pena di morte e il record mondiale di esecuzioni capitali, ma “c’è anche negli Usa e nessuno si indigna. Con la differenza che gli americani avrebbero dovuto abolirla, perché in fatto di diritti umani hanno una tradizione che in Asia non esiste. Invece non riconoscono neppure la Corte penale internazionale dell’Aja”.

Diliberto nell’intervista ricorda come è diventato comunista nel 1969: “Entravo in quarta ginnasio a Cagliari. C’era l’autunno caldo. Alcuni militanti distribuivano volantini per strada. Non li avevo mai visti. I volantini, dico. Rimasi folgorato dall’idea che si potesse cambiare il mondo”. “Come spiegò Enrico Berlinguer a Enrico Mentana, sono felice d’essere rimasto fedele agli ideali della mia gioventù. Non so quanti possano dire lo stesso”.

Una delle azioni più criticate da ministro della Giustizia, fu la liberazione del guerrigliero curdo Abdullah Ocalan: “È il tempo di raccontare la verità. L’avevamo arrestato per omicidio sul mandato di cattura emesso dai tedeschi. Poi mi telefonò il vicecancelliere Joschka Fischer dicendo che l’ordine era stato revocato in quanto non volevano che l’Italia lo estradasse in Germania. E sa perché? Per non avere rogne con la Turchia”.

Oliviero Diliberto non risparmia stoccate alla politica italiana:  non risponde alla domanda perché i poveri non votano Pd, ma dice: “Il proletariato è più numeroso dei ceti abbienti, ma nelle elezioni, ahimè, entrano in gioco fattori ideologici, propagandistici, religiosi, antropologici. Pensi ai consensi raccolti dalla Dc. Un partito interclassista che, a questo punto, tutti rimpiangiamo”.

Nel Pd “non c’è più niente”, mentre Matteo Renzi “dovrebbe scomparire. Ma non lo farà”. E sull’ipotesi di governo Lega e M5S dice: è “Il peggio che ci possa capitare. Ma gli elettori hanno deciso così. Nel 2007 assistetti per caso dalla finestra di un hotel di Bologna al primo V-Day con Beppe Grillo. Un fanatismo e uno schiumare di rabbia terribili. L’idea che chiunque ha fatto politica sia un delinquente, a prescindere, contraddice tutti i valori della democrazia rappresentativa dai tempi di Pericle a oggi”. E su quale esecutivo pronostica ammette: “Le mie categorie della politica non esistono più. Sarebbe come chiedere a Romolo Augustolo che tipo di governo formeranno i barbari”.

tratto da: https://www.agi.it/politica/diliberto_intervista_corriere_della_sera-3719541/news/2018-03-31/

Il Pd che fa finta di essere ancora vivo – Piazza del Popolo, dicono 70.000, poi scendono a 50.000. Repubblica ribadisce 70.000, ma si smentisce con i suoi stessi video. Erano da 10 a 20.000… Ricordiamo che Berlinguer 40 anni fa portò in piazza 500.000. Come siamo caduti tanto in basso?

 

Piazza del Popolo

 

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Il Pd che fa finta di essere ancora vivo – Piazza del Popolo, dicono 70.000, poi scendono a 50.000. Repubblica ribadisce 70.000, ma si smentisce con i suoi stessi video. Erano da 10 a 20.000… Ricordiamo che Berlinguer 40 anni fa portò in piazza 500.000. Come siamo caduti tanto in basso?

 

 

Innanzitutto quanti erano a Piazza del Popolo per la manivestazione del Pd?

L’organizzazione prima sbandiera un fin troppo fantasioso 70.000 persone. Siccome questa è grossa pure per loro, si sono poi “ridimensionati” a 50.000 (anche se qualche voce interna balbetta un eretico 25.000).

Tanto per fare numeri, ricordiamo che Piazza del Popolo è 17.100 mq e quindi avrebbe una capienza massima e teorica di 68.400 persone (4 persone a metro quadro), cioè quei 70 mila che il Pd favoleggia.

E infatti Repubblica inneggia con enfasi ai fantomatici 70.000, smentendosi però con i suoi stessi video (GUARDA QUI) dove, nonostante le inquadrature fatte ad arte, è chiaro che la piazza è piena per un quaro, forse un quinto…

Vogliamo essere buoni, hanno portato in piazza da 10 a 20.000 mersone…

Signori, questo è il Pd… Questo partito, quando c’era Lui (e per Lui intendo proprio Lui, Enrico Berlinguer) in piazza ne venivano mezzo milione!

Leggete un po’ questo:

Era il Settembre del 1977 – 40 anni fa – e per Berlinguer che chiudeva Festa dell’Unità 500.000 persone (per capirci, il doppio rispetto al mega-concerto di Vasco) …Ma come cazzo siamo caduti tanto in basso fino a Matteo Renzi?
18 settembre 1977: al parco Ferrari in mezzo milione per Berlinguer, il doppio rispetto a Vasco

Era il 18 settembre del 1977, Enrico Berlinguer, il capo del Partito comunista italiano, chiudeva a Modena – sul palco dell’ex Autodromo (oggi parco Ferrari) la Festa nazionale dell’Unità. ‘Duecentomila metri quadrati del prato non sono bastati ad accogliere i compagni, i simpatizzanti, gli elettori del Pci che da ogni dove sono venuti ad ascoltare il segretario generale del Pci che chiude il Festival. Quanti sono? Ogni calcolo perde qualsiasi senso di fronte all’impressionante spettacolo di questa folla gigantesca che ha invaso e colmato tutti gli enormi spazi dell’autodromo in cui dal nulla era sorta la città-festival‘. Così L’Unità di allora descriveva l’evento. Si stimarono oltre mezzo milione di persone. Il doppio rispetto al mega-concerto di Vasco Rossi.

Nel recuperare quei giornali, nel leggere gli articoli di un’epoca che non c’è più, resta un’amarezza profonda. La consapevolezza di quanto oggi sia stato tradito del Credo di allora. Resta l’invidia per un tempo in cui si poteva dire – citando Gaber – senza timore di essere smentiti che ‘Berlinguer era una brava persona e Andreotti non lo era, una brava persona’.

Come siamo caduti così in basso?

Razzisti, xenofobi, ignoranti, opportunisti, ladri, ipocriti… Ma si permettono di proporre la “messa al bando dell’ideologia comunista”… Cari leghisti, ve lo dico con tutto il cuore: andate a cagare…!

 

leghisti

 

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Razzisti, xenofobi, ignoranti, opportunisti, ladri, ipocriti… Ma si permettono di proporre la “messa al bando dell’ideologia comunista”… Cari leghisti, ve lo dico con tutto il cuore: andate a cagare…!

 

La Lega ci riprova. Mozione anticomunista a Padova tra ignoranza storica e opportunismo politico

Dopo Soragna la Lega ci riprova. Una mozione per la messa al bando dell’ideologia comunista è stata avanzata e depositata al Comune di Padova da Alain Luciani, consigliere comunale della Lega Nord. 

Nel testo della mozione, dopo aver tentato di farla passare ipocritamente per un atto che si inserisce nelle «iniziative per la Pace, la Democrazia e la condanna di tutti gli Estremismi», l’estensore si spaccia per “storico” e sputa la solita sentenza: «il Partito Comunista ha cagionato la morte di oltre cento milioni di persone sotto il simbolo Falce e Martello».  

L’accusa è semplicemente ridicola, ma purtroppo – come diceva Goebbels – una bugia ripetuta più e più volte, diventa una verità. Ribadiamo che questa accusa – che tra l’altro contrasta con gli impetuosi incrementi demografici che hanno caratterizzato tutti i paesi socialisti, in primis l’URSS dall’epoca della sua fondazione fino al suo scioglimento – non è mai stata provata ed è stata avanzata da un testo di assai dubbia validità dal punto di vista della documentazione. Due soli esempi. Si dice che il comunismo in URSS ha provocato 20 milioni di morti. Facciamo presente che, mentre i 20/25 milioni di morti provocati dall’invasione nazista del 1941-45, sono ben documentati dalle tabelle demografiche, così come i milioni di morti provocati dalla prima guerra mondiale, nelle stesse tabelle non si ha traccia di questi fantomatici milioni, che avrebbero dovuto invece lasciare un segno molto profondo. La carestia russa del periodo del 1921-23 viene inoltre attribuita al “comunismo” e non alla guerra di aggressione imperialista che la Russia rivoluzionaria dovette subire. L’elenco dovrebbe continuare, smantellando uno ad uno tutte le volgari imposture di questo ignobile testo, ma non è questa la sede. 

Mancano stranamente invece elencati i crimini dovuti al crollo del comunismo. Per quanto la storia finale dell’URSS non abbia brillato per tensione rivoluzionaria e i sintomi della corruzione interna del sistema fossero presenti, il tenore di vita del cittadino sovietico andò sempre aumentando, anche durante il periodo brezneviano, che in modo poco scientifico è stato definito il periodo della “stagnazione”. Invece il tracollo degli indici della produzione sovietica e il tenore di vita della maggior parte dei cittadini iniziarono con le “riforme” di Gorbacev e poi con la dissoluzione dell’URSS. In particolare la vita media si abbassò rapidamente di circa dieci anni, proprio perché le persone più deboli (anziani, malati, lavoratori a basso reddito) non avevano di che sfamarsi e di che curarsi, a causa della distruzione della sanità pubblica, il crollo dei salari e delle pensioni, la privatizzazione selvaggia di tutti i servizi. 

Tornando alla mozione leghista, si prosegue ancora dicendo che «… ancora oggi il Partito Comunista in molti paesi del Mondo è sinonimo di feroci dittature o deboli democrazie, tra le più note: Corea del Nord e Venezuela». Che dire? Il Venezuela non è una “dittatura”, si vota ogni anno (se questa è la cartina di tornasole) e talvolta il partito socialista al governo (il partito comunista non è nemmeno al governo) è andato sotto. In ogni caso, prova della scarsa coerenza della mozione è il termine «deboli democrazie», che ci chiediamo cosa ciò possa significare? Un paese in cui le votazioni sono condizionate dal ricatto e dalla corruzione diffusa, dall’intromissione e dalla costante manipolazione di agenzie nazionali ed estere? Che paese viene in mente a queste parole?

Quanto alla Repubblica Popolare Democratica di Corea, possiamo solo invitare i lettori che ne hanno la possibilità a fare un viaggio in quel paese per rendersi conto della realtà, se è il regno del terrore o un sistema che vuole e persegue testardamente la pace e la prosperità. Vari report di viaggiatori indipendenti riportano una realtà ben diversa da quella favoleggiata nella mozione. Certo è indiscutibile però che la Corea del Nord oggi è un paese in sviluppo e moderatamente prospero, e non è ridotto ad un cumulo di macerie fumanti come la Libia o la Siria, grazie alla politica di autodifesa messa in atto da sempre dai suoi dirigenti contro le aggressioni dell’imperialismo USA e dei suoi alleati. I recenti colloqui diretti tra i rappresentanti delle due parti della nazione fanno ben sperare. 

Nel commento alla sua iniziativa il rappresentante leghista commette lo scivolone tipico anche di molti storici, nominando il cosiddetto “totalitarismo”, cappello sotto cui si annovera tutto ciò che non è il sistema liberalista. Per cui i regimi fascisti e nazisti, che sottomettevano l’economia agli interessi dei monopoli nazionali, distruggendo col terrorismo le organizzazioni operaie, macchiandosi dei peggiori crimini razzisti e infine gettandosi nella peggiore guerra di aggressione imperialista … vengono assimilati a sistemi politici socialisti, basati sull’esproprio dei monopoli privati e lo sviluppo culturale e politico dei lavoratori; che si sono difesi dall’aggressione imperialista e ne hanno costituito un argine invalicabile (e ci siamo resi conto di quanto fosse importante l’azione antimperialista dei paesi socialisti, quando essa è cessata!); che hanno costituito nei propri confini oasi di pace e fratellanza per tutte le etnie (si pensi al ruolo estremamente attivo che hanno sempre avuto gli ebrei in Unione sovietica, nel campo politico, artistico e culturale in generale; si pensi alla soluzione del problema delle etnie Rom in Ungheria o in Romania, problemi riesplosi solo dopo il crollo del socialismo, ecc.); che hanno salvato l’umanità dal mostro nazista, fascista e dal militarismo giapponese… 

Ma probabilmente non è il terreno storico che interessa, quanto la politica odierna. Oggi viene classificato come “totalitarista” qualunque sistema che non sia la dittatura del capitalismo monopolistico internazionale, in particolare filoamericano. In quel paese le agenzie di sovversione internazionale possono scorrazzare impunemente? NO? Regime totalitarista. La banca centrale è sottomessa ai diktat della finanza internazionale? NO? Regime totalitarista. E così via. 

Questo nuovo tentativo, impregnato di ignoranza storica, mostra anche l’opportunismo politico di un partito reazionario come la Lega che al di là delle parole della campagna elettorale, criminalizzando ogni idea alternativa al capitalismo e attaccando le forze politiche che si battono dalla parte dei lavoratori, si propone nei fatti per un nuovo governo al servizio del grande capitale dimostrando il profondo legame tra anticomunismo e imposizione di misure e leggi antipopolari in continuità col PD. Per tutte queste ragioni la risposta del Partito Comunista nel Veneto non si è fatta attendere con un comunicato in cui si rivendica che «l’ideologia comunista e il PCI in Italia hanno fatto avanzare e di molto le rivendicazioni della classe operaia». Ricordando tutte le «conquiste che senza l’indispensabile apporto dei comunisti non si sarebbero mai potute ottenere» e che «nonostante i tentativi di smantellamento degli ultimi decenni, sono patrimonio del proletariato», i comunisti veneti affermano che «non è dunque un caso che, dopo l’eliminazione di tutti quei risultati storici conseguiti dai comunisti nel secolo scorso, l’interesse sia rivolto adesso al mezzo a cui i lavoratori possono ancora rivolgersi per lottare, il Partito». «Proposte del genere vengono fuori quando si vuole stroncare sul nascere la possibilità che riemerge nuovamente una nuova coscienza di classe. Il capitale ha paura», conclude il comunicato chiamando «i lavoratori a non lasciarsi intimidire da questi pallidi tentativi di piegare i nostri diritti ai loro interessi».

Una data da ricordare: il 13 marzo 1972 Berlinguer veniva eletto segretario nazionale del Partito Comunista Italiano

 

Berlinguer

 

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Una data da ricordare: il 13 marzo 1972 Berlinguer veniva eletto segretario nazionale del Partito Comunista Italiano

Io le invettive non le lancio contro nessuno, non mi piace scagliare anatemi, gli anatemi sono espressioni di fanatismo e v’è troppo fanatismo nel mondo. (E. Berlinguer)

Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona. (Giorgio Gaber)

Enrico Berlinguer nasce il 25 maggio del 1922 a Sassari. Nella cittadina sarda trascorre l’infanzia e l’adolescenza, frequenta il liceo classico Azuni e nel 1940 si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. Nell’agosto del 1943 aderisce al PCI. Inizia allora il suo impegno politico con la partecipazione alle lotte antifasciste dell’Italia badogliana dove impera la guerra civile. Nel gennaio del 1944 viene arrestato con l’accusa di essere il principale istigatore delle manifestazioni per il pane, che si sono svolte nei mesi precedenti. Resta in carcere quattro mesi. A settembre si trasferisce a Roma con la famiglia, poi a Milano dove lavora nel Fronte della gioventù, il movimento politico fondato da Eugenio Curiel per coordinare l’arcipelago delle organizzazioni giovanili antifasciste.

La sua carriera politica nel PCI comincia nel gennaio del 1948, quando a ventisei anni entra nella direzione del partito e meno di un anno dopo diventa segretario generale della FGCI, la Federazione giovanile comunista. È un uomo instancabile che gli amici descrivono timido e introverso. Un giovane dirigente comunista, lontano dalla mondanità e dai clamori della politica, che nel 1956 lascia l’organizzazione giovanile e l’anno dopo sposa a Roma Letizia Laurenti.

Nel 1958 Berlinguer entra nella segreteria del partito per affiancare Luigi Longo, vicesegretario e responsabile dell’ufficio di segreteria. Da allora il rapporto fra Berlinguer e il segretario Togliatti diviene quotidiano. Togliatti si fida di questo giovane dirigente sardo, tanto che nel febbraio del 1960, al IX Congresso del PCI, lo vuole al posto di Giorgio Amendola come responsabile dell’organizzazione del partito e nel dicembre del 1961 chiede a Berlinguer di scrivere la relazione finale del comitato centrale del partito, dove proprio Amendola ha ripreso la polemica sui crimini stalinisti.

Fra il 1964 e il 1966 Berlinguer mostra la sua grande capacità di mediare gestendo un grosso scontro interno al partito. La destra del PCI, rappresentata da Amendola, sostiene la formazione di un unico partito socialista che unisca tutte le forze della sinistra italiana. L’ala radicale di Pietro Ingrao, invece, si batte affinché il PCI si allei con i gruppi della sinistra rivoluzionaria. All’XI Congresso, nel gennaio del 1966, Berlinguer si fa interprete delle esigenze di tutto il partito presentandosi come un mediatore di prima grandezza. È un successo personale, confermato due anni dopo dalle elezioni del 1968 in cui è capolista nel Lazio. Un successo che esplode e si diffonde dopo i fatti di Praga. Berlinguer condanna l’intervento sovietico in Cecoslovacchia e respinge «il concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni». Lo strappo è senza precedenti. Nel 1969 a Mosca, alla conferenza internazionale dei partiti comunisti, dichiara apertamente il dissenso dei comunisti italiani nei confronti della politica stalinista.

Ormai è vicesegretario del PCI. Al congresso del 1969, Berlinguer appoggia la linea movimentista e introduce uno dei temi più importanti del suo progetto politico. Ai delegati presenta il partito come una forza centrale della società italiana, una forza fra le istituzioni e i cittadini, che deve essere coinvolta nella formazione e nella gestione dei processi democratici del paese perché ne è parte decisiva. Il PCI che vuole Berlinguer non è solo il partito della classe operaia: deve candidarsi a guidare il paese, ponendo fine alla conventio ad excludendum per cui i comunisti di fatto sono esclusi dal governo.

Nel 1972 Berlinguer diviene segretario del PCI e al XII congresso riprende la formula togliattiana della collaborazione fra le grandi forze popolari: comunista, socialista e cattolica. Ma c’è anche di più, non si tratta solo di ribadire la tesi che Togliatti espresse sin dalla fine della seconda guerra mondiale. Con tre articoli su «Rinascita», fra il settembre e l’ottobre del 1973, Berlinguer propone la sua analisi della società moderna partendo dal colpo di Stato in Cile, che ha mostrato a cosa può andare incontro una democrazia fragile. Così scrive il 12 ottobre del 1973: «la gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano». Lo spiega chiaramente. L’Italia è una democrazia debole che ha bisogno di un’alternativa condivisa e costruita dai grandi partiti di massa.

Il grande successo elettorale, ottenuto dai comunisti italiani alle elezioni del 1975 e del 1976, conferma l’intuizione di Berlinguer e sconvolge il sistema politico, ormai da anni afflitto da un’endemica instabilità e bloccato dalla DC che è al centro dei governi e delle maggioranze parlamentari. I tempi sembrano maturi per un cambiamento radicale della politica italiana. Nel 1976 accanto alla proposta del compromesso storico, Berlinguer esplicita l’altro tema della sua politica di dirigente comunista: rompe con il Partito Comunista sovietico. A Mosca, davanti a 5 mila delegati Berlinguer parla del valore della democrazia e del pluralismo, sottolinea l’autonomia del PCI dall’URSS e condanna l’interferenza dei sovietici nelle questioni dei partiti socialisti e comunisti degli altri paesi. È l’eurocomunismo.

Con il compromesso storico e l’eurocomunismo, Berlinguer porta il PCI, dopo le elezioni del 1976, al primo governo della solidarietà nazionale. Si tratta di un monocolore democristiano che si regge sulla «non sfiducia», cioè sull’astensione dei vecchi partners di governo ai quali si aggiungono i comunisti. A sinistra, molti sottolineano che non è questa la ratio del compromesso storico e che il PCI non riuscirà ad ottenere ciò che ha chiesto ai democristiani in cambio della non sfiducia. E, infatti, le elezioni del 1977 non lo premiano. Nel gennaio 1978 Berlinguer incontra Aldo Moro, il leader democristiano con cui ha costruito il governo della solidarietà nazionale e gli chiede di agevolare l’entrata dei comunisti al governo. Ma ad opporsi sono in molti: la destra democristiana, il Vaticano, gli amici americani, la destra italiana. E intanto nel paese il terrorismo miete le sue vittime; due mesi dopo le BR rapiscono e uccidono Moro. È la fine della solidarietà nazionale e del progetto di Berlinguer. Il PCI torna all’opposizione.

Nel 1981, in un’intervista a Eugenio Scalfari, Berlinguer accusa la classe politica italiana di corruzione, sollevando la cosiddetta questione morale. Denuncia l’occupazione da parte dei partiti delle strutture dello Stato, delle istituzioni, dei centri di cultura, delle Università, della Rai, e sottolinea il rischio che la rabbia dei cittadini si trasformi in rifiuto della politica. È l’analisi di un grande leader politico che l’11 giugno del 1984 a Padova, mentre conclude la campagna elettorale per le elezioni europee, viene colpito da un ictus. Il suo funerale è stato il più imponente della storia d’Italia, dopo quello di Giovanni Paolo II. A Roma erano milioni i cittadini che lo salutarono l’ultima volta.

Era il Settembre del 1977 – 40 anni fa – e per Berlinguer che chiudeva Festa dell’Unità 500.000 persone (per capirci, il doppio rispetto al mega-concerto di Vasco) …Ma come cazzo siamo caduti tanto in basso fino a Matteo Renzi?

Berlinguer

 

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Era il Settembre del 1977 – 40 anni fa – e per Berlinguer che chiudeva Festa dell’Unità 500.000 persone (per capirci, il doppio rispetto al mega-concerto di Vasco) …Ma come cazzo siamo caduti tanto in basso fino a Matteo Renzi?

18 settembre 1977: al parco Ferrari in mezzo milione per Berlinguer, il doppio rispetto a Vasco

Era il 18 settembre del 1977, Enrico Berlinguer, il capo del Partito comunista italiano, chiudeva a Modena – sul palco dell’ex Autodromo (oggi parco Ferrari) la Festa nazionale dell’Unità. ‘Duecentomila metri quadrati del prato non sono bastati ad accogliere i compagni, i simpatizzanti, gli elettori del Pci che da ogni dove sono venuti ad ascoltare il segretario generale del Pci che chiude il Festival. Quanti sono? Ogni calcolo perde qualsiasi senso di fronte all’impressionante spettacolo di questa folla gigantesca che ha invaso e colmato tutti gli enormi spazi dell’autodromo in cui dal nulla era sorta la città-festival‘. Così L’Unità di allora descriveva l’evento. Si stimarono oltre mezzo milione di persone. Il doppio rispetto al mega-concerto di Vasco Rossi.

Nel recuperare quei giornali, nel leggere gli articoli di un’epoca che non c’è più, resta un’amarezza profonda. La consapevolezza di quanto oggi sia stato tradito del Credo di allora. Resta l’invidia per un tempo in cui si poteva dire – citando Gaber – senza timore di essere smentiti che ‘Berlinguer era una brava persona e Andreotti non lo era, una brava persona’.

Come siamo caduti così in basso?