La Francia ancora a ferro e fuoco. I gilet gialli non arretrano di un passo. Ormai è iniziata la 14ª settimane di battaglia, la protesta si estende a tutto il mondo… Ma tutto questo per i nostri media non esiste… Perché?

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La Francia ancora a ferro e fuoco. I gilet gialli non arretrano di un passo. Ormai è iniziata la 14ª settimane di battaglia, la protesta si estende a tutto il mondo… Ma tutto questo per i nostri media non esiste… Perché?

Aggiornato al 16.02.2019

Perchè i Tg non ci parlano dei bambini massacrati in Yemen dagli arabi, utilizzando le armi che gli vendiamo NOI? Perchè non ci parlano dei crimini di guerra che gli israeliani commettono TUTTI I GIORNI in Palestina? Perchè non ci parlano delle torture e dei massacri commessi in Libia affinché a noi sia risparmiato il fastidio dello sbarco di qualche immigrato… E perchè non ci parlano dei Gilet Gialli?

Per il coglione che crede ancora a quello che trasmettono i Tg, la lotta dei gilet gialli è terminata da tempo… Oggi il dramma è la vittoria di uno straniero al Festival di Sanremo e la selezione per la prossima Isola dei Famosi…

Ma non è proprio così… Basta informarsi. E per informarsi è necessario spegnere la Tv…

Breve cronistoria di una rivolta giunta all’14° episodio di cui i Tg ignorano l’esistenza:

SABATO 16 FEBBRAIO 2019

Primi scontri nell’Atto XIV  della mobilitazione dei ‘gilet gialli’. A Parigi, scrive Le Parisienne sul proprio sito, la polizia ha evacuato la spianata degli Invalides, nei pressi della Torre Eiffel, usando i lacrimogeni.     A Tolosa, i video pubblicati sui social network intorno alle 16 mostrano che la polizia ha iniziato a usare gas lacrimogeni. Scene simili sono state girate a La Rochelle, Nantes e Le Mans, dove “vetrine e arredi urbani” sono stati danneggiati, secondo la prefettura.

Secondo le autorità, nelle ultime settimane i numeri delle proteste sono stati molto inferiori ai 290 mila partecipanti (in tutto il Paese) al primo atto della protesta. Secondo il ministero dell’Interno il 9 febbraio sono scesi in strada 51.400 manifestanti, a fronte degli 84mila del 12 gennaio. Dati non confermati dai gilet gialli, secondo i quali alle manifestazioni di sabato scorso hanno partecipato 118.200 persone.

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1ª settimana: dal 17 al 23 novembre 2018

Le proteste hanno avuto inizio in Francia il 17 novembre 2018 verso le 7:30 con il blocco di diverse strade principali, e con una manifestazione vicino alla stazione metropolitana Porte Maillot. Nel corso di una manifestazione non dichiarata organizzata a Le Pont-de-Beauvoisin (Savoia), un automobilista disturbato dai blocchi stradali, ha tentato di forzarne uno investendo una manifestante di 63 anni, Chantal Mazet.

Nel pomeriggio del 17, diverse decine di manifestanti hanno marciato sugli Champs-Élysées dirigendosi verso il Palazzo dell’Eliseo, ma sono stati fermati dalla polizia a Place de la Concorde. A Troyes ed a Quimper un gruppo di circa 200 persone hanno fatto irruzione nel cortile delle rispettive prefetture, anche loro sono stati bloccati dalla polizia.

Il giorno seguente, il ministero dell’interno francese ha comunicato che i manifestanti sono stati 287 710, 1 morto, 409 feriti e 117 arresti.

Il 20 novembre si sono verificati scontri anche nell’isola della Riunione (DROM). È stato anche istituto un coprifuoco dalle 20 alle 6 dal 20 al 23 novembre.

Nell’isola sono state arrestate più di 650 persone, il presidente francese ha mobilitato truppe nell’isola per sedare le violenze.

Il 24 novembre in un parcheggio di un centro commerciale ad Angers, un gilet giallo ha minacciato di farsi esplodere se Emmanuel Macron non lo avesse ricevuto alll’Eliseo, dopo 6 ore di negoziazione l’uomo si arrese alle forze dell’ordine.

2ª settimana: dal 24 al 30 novembre 2018

Gli Champs-Élysées alla fine degli scontri del 24 novembre

Il 24 novembre, la polizia ha installato numerosi posti di blocco a Parigi, ma le forza dell’ordine non sono riuscite a bloccare gli 8000 manifestanti che sono riusciti ad entrare nella città. Hanno poi dato vita ad atti di guerriglia urbana, procurando incendi nelle vie, sradicando segnali stradali e semafori, costruendo barricate e lanciando sassi contro gli agenti antisommossa.

La polizia ha reagito con il lancio di lacrimogeni e l’utilizzo di idranti per disperdere i manifestanti.  In tutta la Francia sono stati registrati 166 301 manifestanti, 24 feriti e 101 arresti. I danni materiali sono stati stimati in 1,5 milioni di euro.

Nei giorni seguenti si sono registrati piccoli scontri con la polizia a Calais.

3ª settimana: dal 1ª al 7 dicembrE

Facciata di una banca vandalizzata nel XVII arrondissement di Parigi, il 1ª dicembre.

Il 1ª dicembre a Parigi si sono verificato diversi scontri con la polizia, più di 100 auto sono state date alle fiamme per bloccarne l’avanzata, l’Arco di Trionfo è stato vandalizzato con scritte ed insulti.

I CRS hanno lanciato più di 10 000 granate lacrimogene. Alla fine degli scontri si registrano 134 feriti di cui 23 agenti di polizia e 412 arresti.

Nella 3ª settimana protestarono 136 100 persone.

Il sindaco di Parigi ha stimato danni tra i 3 e i 4 milioni di euro.

Il 3 dicembre, il Ministero dell’Istruzione annuncia che più di 100 istituti superiori sono stati bloccati da studenti con i gilet gialli, 700 ragazzi sono stati arrestati in tutto il paese ma il caso più eclatante è stato l’arresto di 148 studenti di un istituto di Mantes-la-Jolie, inginocchiati per terra, con le mani dietro la testa e con fucili puntati; che ha suscitato l’indignazione di molti francesi sui social network. In realtà, l’operazione di Polizia si era resa necessaria per neutralizzare un consistente manipolo di facinorosi liceali, i quali, trovati in possesso di corpi contundenti atti ad offendere, si stavano predisponendo ad uno scontro con le Forze dell’ordine.

4ª settimana: dall’8 al 14 dicembre 2018

L’8 dicembre il governo ha mobilitato oltre 89 000 agenti della Police Nationale e dodici Berliet VXB-170 blindati della Gendarmerie nationale[9]. Dopo un altro sabato di guerriglia in tutto il paese, il ministero dell’interno francese ha dichiarato che alle manifestazioni erano presenti 136 000 persone e sono stati eseguiti 1723 arresti (1080 solo a Parigi); i feriti invece sono 135.

5ª settimana: dal 15 al 21 dicembre 2018

La mobilitazione dell’atto V è stata più bassa rispetto alle altre manifestazioni, forse a causa dell’attentato di Strasburgo. Ci sono stati pochissimi scontri a Parigi dove sono scese in piazza circa 8000 persone.

6ª settimana: dal 22 al 28 dicembre 2018

Il 22 dicembre, secondo le cifre fornite dal Ministero degli Interni, la partecipazione risulta di 33.600 manifestanti, quasi il doppio rispetto alla settimana precedente.

I manifestanti hanno bloccato il traffico con la Svizzera a Cluse-et-Mijoux che sono stati dispersi dalla polizia dopo un’ora. Operazioni simili si sono svolte ai confinispagnoli, italiani, tedeschi e belgi. A Montélimar sono stati bloccati due magazzini di negozi online: EasyDis (Casino Group) e Amazon.

A Parigi ci sono stati scontri solo in serata; tre poliziotti in moto sono stati attaccati da una ventina di manifestanti radicali, nel momento in cui avevano girato in una via secondaria. Due agenti sono stati fatti cadere, mentre un poliziotto è stato colpito in faccia. I poliziotti si sono sentiti in una situazione di estremo pericolo per la loro incolumità: i dimostranti hanno tentato un linciaggio cercando di colpire i poliziotti più volte lanciando pietre ed oggetti contundenti. Gli agenti si sono difesi strenuamente con manganelli e bombolette lacrimogene, tuttavia, in un momento critico, uno di loro è stato costretto a tirar fuori la pistola dalla fondina e puntarla contro i dimostranti, che immediatamente si sono calmati. Alla fine i poliziotti sono riusciti a liberarsi dall’accerchiamento a bordo di due moto, lasciandone una per strada.

In tutto il paese vengono arrestate 220 persone, di cui 142 a Parigi, tra cui Éric Drouet portavoce dei gilet gialli.

7ª SETTIMANA: DAL 29 DICEMBRE AL 4 GENNAIO 2019

Ancora in 40.000 in piazza…

Nella Capitale ai manifestanti è stato chiesto di presentarsi con un rossetto rosso o untappo di sughero, oltre al classico gilet catarifrangente.

8ª SETTIMANA: DAL 5 GENNAIO 2019

Ancora piazze gremite di gilet gialli e dimostrazioni in tutta la Francia – Una quindicina di manifestanti hanno sfondato con una ruspa la porta del Ministero dei rapporti con il parlamento dove ha sede l’ufficio del portavoce del Governo, Benjamin Griveaux, che è stato evacuato. Scontri con la polizia quando un gruppo di persone ha tentato di dirigersi verso l’Assemblea nazionale: diversi feriti.

“Manifesteremo qui tutti i sabati, continueremo per tutto il 2019″, ha annunciato in mattinata al megafono Sophie, una dei manifestanti. “Faremo sì che i cittadini si riprendano il potere. Vogliamo degli stati generali organizzati dal popolo per il popolo”.

9ª settimana: dal 12 al 18 gennaio 2019

Il 12 gennaio circa 32.000 persone sono scese in piazza in tutta la Francia per manifestare. A Parigi, dove si sono radunati 8.000 manifestanti, ci sono stati scontri sugli Champs-Elysées mentre a Bourges circa 5.000 persone hanno raggiunto il centro cittadino sfidando il divieto della prefettura. A Bordeaux circa 6.000 gilet gialli si sono riversati nelle strade; nel pomeriggio almeno 3 persone sono rimaste ferite negli scontri con le forze di sicurezza. Secondo il bilancio della prefettura di polizia, circa un centinaio di persone sono state fermate in tutto il Paese, 59 di queste a Parigi.

10ª settimana: dal 19 al 25 gennaio 2019

Il 19 gennaio sono scesi nelle piazze francesi 80.000 manifestanti, 5000 solo nella capitale Francese.  Una mobilitazione di nuovo in crescita in rapporto alle 50mila della precedente settimana, ma inferiore alle centinaia di migliaia radunate a novembre o dicembre, secondo le cifre del ministero degli Interni.

11ª SETTIMANA: DAL 27 GENNAIO al 1 FEBBRAIO 2019

Sabato 27 gennaio 11esima manifestazione di protesta dei gilet gialli a Parigi. In decine di migliaia si sono radunati sugli Champs Elysees a Parigi. Le forze dell’ordine schierate in gran numero, compresi mezzi blindati, sorvegliano la manifestazione. L’undicesimo atto è accompagnato dalla prima «notte gialla» a place de la République.

A Parigi incidenti e incendi alla Bastiglia, dove era prevista la convergenza dei due principali cortei di gilet gialli. Uno dei leader dei gilet gialli, Jerome Rodrigues, è rimasto ferito da un proiettile di gomma. Lo stesso Rodrigues ha pubblicato una sua foto su Facebook e ha scritto che perderà un occhio. Il prefetto di polizia ha annunciato l’apertura di una inchiesta.

Manifestazioni di supporto e solidarietà un po’ ovunque in tutta Europa.

12ª settimana: DAL 2 AL 8 FEBBRAIO 2019

Dodicesimo atto della mobilitazione dei gilet gialli il 2 febbraio a ParigiValence e altre città francesi come Lione, Montpellier, Rouen, Nancy, Caen, Nantes, Bordeaux, Tolosa e Marsiglia, tutto dedicato ai feriti nei cortei delle settimane scorse. In prima fila nella marcia della Capitale, partita dal XII arrondissement, Jerome Rodrigues, il manifestante colpito all’occhio il 26 gennaio mentre riprendeva con la telecamera gli scontri alla Bastiglia. Nel pomeriggio tensioni anche a Strasburgo dove la polizia è dovuta ricorrere al lancio di lacrimogeni. Il principale raduno, 10 mila persone attese, è in corso a Valence.

 

Imponente, anche per questo 12esimo atto, lo schieramento di forze dell’ordine. Poche ore prima dei cortei il ministro dell’InternoChristophe Castaner, aveva annunciato il dispiegamento di un dispositivo «potente ed appropriato» di agenti per garantire la tutela dell’ordine pubblico tra Parigi e la provincia. Il segretario di Stato agli Interni, Laurent Nunez, aveva chiarito che lo schieramento non sarebbe alleggerito rispetto agli 80 mila agenti di sabato 26 gennaio. Rivolgendosi ai cronisti, Castaner ha poi commentato la futura legge anti-casseurs, attualmente allo studio del parlamento, che a suo avviso punta ad «impedire ai violenti di infilarsi nelle manifestazioni».

Le manifestazioni dureranno poi in ordine sparso per tutta la settimana

 

13ª SETTIMANA: DAL 2 AL 8 FEBBRAIO 2019

Tredicesimo atto, sabato 9 febbraio 2018, della protesta dei gilet gialli in Francia, con magliaia di persone hanno manifestato in numerose città del paese. A Parigi  migliaia di manifestanti si sono radunati a partire dal primissimo pomeriggio sugli Champs-Elysees.

Gli scontri sono iniziati quando il corteo ha raggiunto la sede dell’Assemblée Nationale, dove alcuni gilet gialli hanno provato a superare le transenne. Lacrimogeni e cariche della polizia che ha fatto, anche oggi, uso dei flashball. Un manifestante è  rimasto gravemente ferito per lo scoppio di una granata lanciata dalla polizia. Dalle immagini che sono state pubblicate online, il giovane avrebbe perso una mano, leso anche un occhio.

I manifestanti hanno lasciato la zona dell’Assemblée Nationale e si sono diretti verso il Senato, circondati da un imponente schieramento di polizia, che ha seguito per tutto il pomeriggio il corteo. Anche qui ci sono state numerose cariche  e lancio di lacrimogeni. I gilet gialli  hanno poi preso la direzione di Montparnasse per raggiungere Champ-de-Mars, ai piedi della Torre Eiffel. Lungo tutto il precorso sono state sanzionate le vetrine di alcune banche ed agenzie interinali. Una decina di persone è stata fermata.

Alle 17,30 un altro gruppo composto da migliaia di manifestanti si sono radunati al Trocadero, circondate sempre dalla polizia.

Manifestazioni anche a Bordeaux, Tolosa, Lorient, Caen, Valence, Marsiglia e altre città.

“Abbiamo dei paramilitari pronti a intervenire perché anche loro vogliono far cadere il governo” – Così ha dichiarato Christophe Chalençon, uno dei leader dei gilet gialli incontrato da Di Maio e Di Battista.

Strategia della pensione – Il geniale editoriale di Marco Travaglio sulle pensioni: “La famiglia Boschi per i pensionati ha fatto molto, forse troppo” …Perchè quando la penna di Travaglio si imbatte nell’aretina pidiota è una goduria da orgasmo!

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Strategia della pensione – Il geniale editoriale di Marco Travaglio sulle pensioni: “La famiglia Boschi per i pensionati ha fatto molto, forse troppo” …Perchè quando la penna di Travaglio si imbatte nell’aretina pidiota è una goduria da orgasmo!

Strategia della pensione

Noi fortunati che abbiamo seguito in tv il cosiddetto dibattito parlamentare sulla manovra di bilancio abbiamo attraversato un’ampia gamma di sentimenti contrastanti. L’invidia per l’atletica prestanza di Emanuele Fiano, che balza felino verso i banchi del governo, si divincola dal placcaggio rugbistico dei colleghi, offre il petto seminudo alla pugna contro gli odiati sovranisti e infine aggira la barriera dei commessi col lancio liftato di un dossier che centra in pieno volto il sottosegretario Garavaglia.

L’entusiasmo per l’intrepido Michele Anzaldi, ieri epuratore e fucilatore di chiunque si permettesse di non beatificare Renzi nella Rai tutta renziana e oggi inconsolabile per la fine del pluralismo in viale Mazzini.

L’idolatria per Filippo Sensi, che fino all’altroieri diramava le veline di Renzi & Gentiloni e ora lacrima come una vite tagliata per il taglio dei fondi pubblici a giornali e Radio Radicale, scambiandoli per “pluralismo”.

La gioia per Giachetti e Fiano che accusano Fico di parzialità perché non silenzia la pentastellata Manzo che accusa imprecisate opposizioni di aver favorito i truffatori delle banche, ma poi tacciono quando le pidine Serracchiani e Bruno Bossio danno della truffatrice alla Manzo.

L’ammirazione per i trafelati scopritori della centralità del Parlamento, o di quel che ne resta dopo il loro passaggio, le loro leggi incostituzionali, le loro mozioni sulla nipote di Mubarak, i loro canguri e ghigliottine, le loro destituzioni di dissidenti, le loro compravendite di parlamentari, i loro decreti senza necessità né urgenza, le loro fiducie smodate (107 solo nella scorsa legislatura), i loro salvataggi impunitari di fior di delinquenti. Il rimpianto per l’assenza in Parlamento di misure d’ordine pubblico, tipo il Daspo, già previste nelle ben più educate curve degli stadi.

E infine una grande empatia per la sofferenza di Graziano Delrio e Maria Elena Boschi dinanzi alle sorti degli adorati pensionati, scippati dalla manovra giallo-verde.

Delrio li chiama tutti in piazza, la Boschi trattiene a stento le lacrime: “La legge di Bilancio taglia tutte le pensioni, non solo quelle d’oro o di platino. Conte dovrebbe pulirsi la bocca quando attacca i pensionati”. In effetti la famiglia Boschi per i pensionati ha fatto molto, forse troppo. Il pensiero corre al pensionato Luigi D’Angelo, che il 28 novembre 2015 si impiccò a Civitavecchia perché aveva appena perso i risparmi di una vita: 100mila euro affidati a Etruria, dopo che il governo Renzi-Boschi aveva azzerato dal giorno alla notte, col cosiddetto dl Salva-banche, il valore delle azioni e delle obbligazioni subordinate.

Del resto il Pd, per i pensionati, ha sempre avuto un occhio di riguardo. Tipo quando votò il blocco dell’indicizzazione delle pensioni, senza la piena rivalutazione per l’inflazione, ininterrottamente dal 2011 a oggi.

Vediamo nel dettaglio cosa votarono gli attuali paladini dei pensionati. Tra 2012 e 2013, col blocco totale per le pensioni superiori a tre volte il minimo (dai 1500 euro in su), chi prendeva ogni mese 1600 euro lordi ne perdeva 500-600 l’anno; chi percepiva 2100 euro ne perdeva 1500; chi aveva 2600 euro ne perdeva 1800.

Nel 2015 la Consulta bocciò la legge in quanto incostituzionale e ordinò al governo di restituire la refurtiva. Intanto, ai 5,5 milioni di pensionati, erano stati rapinati 8-9 miliardi di euro.

Ma Renzi ne rimborsò appena 2,2 (che secondo l’Upb corrispondeva ad appena il 12% medio delle perdite di ogni pensionato) ed ebbe pure la spudoratezza di chiamare quella mancia “bonus Poletti”: come se quello non fosse un furto con destrezza, ma addirittura un gentile omaggio.

Intanto nel 2014 il governo Letta aveva fatto altri danni: un sistema di perequazioni in cinque fasce, che lasciava quasi intatta la rivalutazione delle pensioni fino al quadruplo della minima, mentre tagliava del 25% la rivalutazione per quelle sopra i 2000 euro lordi e del 50% oltre i 2500. I governi Renzi e Gentiloni prorogarono quel blocco fino al 1° gennaio 2019, lasciando la patata bollente ai successori.

Secondo la Uil, la mancata perequazione delle pensioni fra il 2011 e il 2018, votata da centrodestra e centrosinistra (Monti e Letta) e poi dal solo centrosinistra (Renzi e Gentiloni) è costata 79 euro al mese e 1000 all’anno a ciascun pensionato da 1500 euro mensili. Chi invece percepiva 1900 euro al mese nel 2011 ha perso 1500 euro lordi, pari a una intera mensilità netta.

Che fa ora il governo Conte sulle pensioni?

Tre cose. Abbrevia l’età pensionabile per chi vuole ritirarsi prima (quota 100). Aumenta le minime fino a 780 euro per chi non ha altri redditi (pensione di cittadinanza). E “raffredda” il blocco delle indicizzazioni varato da Letta, Renzi e Gentiloni, rendendolo un po’ meno penalizzante per le pensioni più basse e lasciandolo pressoché inalterato sopra ai 3mila euro.

La battuta di Conte (“Non se ne accorgerebbe nemmeno l’Avaro di Molière”), per quanto infelice, rende l’idea.

Rivalutazione quasi totale, senza blocchi, per le pensioni fino al quadruplo della minima (cioè fino a 2030 euro mensili lordi).
E sacrifici graduali per le pensioni più alte.

La Cgil stima che chi intasca 2030 euro al mese perderà 1 euro nel 2019, 1 euro nel 2020 e 2 euro nel 2021. Chi supera i 2537 euro al mese, dovrà rinunciare a 70 euro l’anno (meno di 7 euro al mese). Chi supera i 3mila euro al mese, “restituirà” circa 180 euro all’anno (15 euro al mese).

E così via a salire, con prelievi più sostanziosi per i pensionati d’oro (già toccati dal contributo di solidarietà). Anche così si finanzieranno il reddito di cittadinanza e quota 100.

Si chiama “redistribuzione della ricchezza” e un tempo era una battaglia della sinistra.

Infatti ora, sulle barricate, ci sono Forza Italia e il Pd.

“STRATEGIA DELLA PENSIONE”, di Marco Travaglio sul Il Fatto Quotidiano del 30 dicembre2018

TAV e altri favori ai ricchi: Signore e Signori, questo è il liberismo…!

 

TAV

 

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TAV e altri favori ai ricchi: Signore e Signori, questo è il liberismo…!

La logica delle organizzatrici della manifestazione pro-TAV di Torino, e immagino di una parte dei manifestanti (un’altra parte non aveva alcuna idea della questione ma probabilmente giocare all’antifascismo militante li faceva sentire giovani), è che se non si fa quello che vogliono gli speculatori questi non investono e l’economia ne risente. Sono trent’anni che il liberismo vende questa fandonia e ancora funziona, anzi funziona sempre meglio perché le nuove generazioni neppure sospettano che possa esistere un mondo in cui gli interessi dello Stato precedano quelli delle multinazionali e in cui si faccia qualcosa (o almeno ci si provi) per accrescere la qualità della vita comune e non solo il conto in banca dei ricchi o aspiranti tali. E come mai non lo sanno? Perché direttamente o indirettamente gli intellettuali e i giornalisti ormai lavorano tutti per le grandi corporation e ne hanno dunque a cuore gli interessi (ma guai a chiamarli puttane).

Leggevo poco fa la sezione “business” del New York Times: le due principali notizie riguardano una Amazon e l’altra gli ospedali. Promettendo di spendere alcuni miliardi di dollari nella costruzione dei suoi nuovi quartier generali, Amazon ha ottenuto dalle città che se li sono contesi (una è New York) altrettanti miliardi o quasi in esenzioni fiscali, incentivi, agevolazioni di ogni tipo. Stiamo parlando di una compagnia che vale più di un bilione (cioè mille miliardi, cioè un milione di milioni) e che è diventata un gigante approfittando di scappatoie per eludere le norme fiscali a cui i suoi concorrenti erano soggetti; e adesso riceverà denaro pubblico per spazzare via altri piccoli esercizi commerciali e impoverire la classe media. Per non dire del fatto che l’unica ragione per cui costruisce quei centri è fare molti altri soldi, certo non per aiutare la gente, e nell’istante in cui non le convenissero più li chiuderebbe su due piedi, licenziando in tronco le migliaia di impiegati che adesso dice di voler assumere. Mentre le sovvenzioni pubbliche prosciugheranno le casse statali, sempre più vuote malgrado l’espansione economica per via dei tagli delle tasse ottenuti dalle lobby e garantiti da politici corrotti; con la conseguenza che non ci saranno fondi per le infrastrutture (per esempio per la metropolitana, sempre più fatiscente) e per i programmi sociali, culturali e ambientali. Ma ai liberisti non gliene frega niente: peggio, fanno finta di credere, e i giornali confermano, che arricchire ulteriormente Jeff Bezos (che ha un patrimonio personale di 150 miliardi e ogni dieci secondi guadagna quanto un suo impiegato in un anno) porti benefici a tutti.

Balle, come si sono rivelate balle (spiega il secondo articolo del NYT) le giustificazioni delle fusioni fra le multinazionali della salute. Le quali per aggirare le norme antitrust dichiarano che è l’unico modo per abbassare i costi delle prestazioni e delle assicurazioni (ormai il premio di assicurazione annuale per una famiglia è di media 19mila dollari); e i giornali d’accordo, i giornali contenti: è così che bisogna fare! e comunque: è inevitabile! Invece non è vero   e si scopre (ma solo dopo) che in regime di monopolio i prezzi aumentano ancora di più e ormai nessuno può fermarli perché i controllori sono sul libro paga dei controllati.

Questo è il liberismo, baby quello che vuole le Olimpiadi e la TAV. In Italia l’unico partito che in qualche modo lo contrasta, salvo qualche frangia di estrema destra o sinistra, è il M5S, malgrado i necessari compromessi che deve fare con la Lega (glieli hanno imposti gli italiani e in particolare gli astensionisti). Si potrebbe fare meglio, certo, ma spesso il meglio è nemico del bene.

fonte: https://www.themisemetis.com/comunicazione/tav-favori-ricchi-liberismo-baby/2172/

“In Italia servirebbe una dittatura democratica” …lo ha detto Flavio Briatore, un idiota intelligentissimo.

 

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“In Italia servirebbe una dittatura democratica” …lo ha detto Flavio Briatore, un idiota intelligentissimo.

Flavio Briatore: “In Italia servirebbe una dittatura democratica”

“In Italia, la burocrazia è una cosa spaventosa, che ostacola tanti italiani che si rimboccano le maniche la mattina. Ci vorrebbe una dittatura democratica come negli Stati Uniti, per cui chi vince le elezioni comanda davvero, fino a nuove elezioni”, ha dichiarato Flavio Briatore al quotidiano La Verità.

Cosa servirebbe all’Italia in questo momento storico? Secondo l’ex manager di Formula 1, Flavio Briatore, una dittatura democratica. In un’intervista concessa al quotidiano La Verità, Briatore spiega: “In Italia, la burocrazia è una cosa spaventosa, che ostacola tanti italiani che si rimboccano le maniche la mattina. Ci vorrebbe una dittatura democratica come negli Stati Uniti, per cui chi vince le elezioni comanda davvero, fino a nuove elezioni”. E poi, ancora, sull’Unione europea: “L’Europa per come la vedo io dovrebbe essere composta da sette, otto Paesi al massimo. Invece ci siamo presi la Grecia, che ha creato solo problemi. Dovrebbero restar dentro soltanto Italia, Francia, Germania, Spagna, Regno Unito…”.

Parlando nello specifico del governo, Briatore ricorda a Salvini l’impegno disatteso sulla Flat Tax: “Matteo, ricordati della flat tax: è fondamentale. Ricordati di parlare con gli imprenditori, che sono quelli che si prendono i rischi e danno lavoro alla gente. E ricordati del cuneo fiscale, che in Italia è una roba enorme: se ho un dipendente che costa 1.500 euro ma all’azienda ne costa tremila e rotti, non saremo mai competitivi. I francesi sul turismo hanno abbassato l’Iva, e noi ci inventiamo le tasse sulle auto di lusso?”.

Briatore ne ha anche per i 5 Stelle:”In campagna elettorale Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista erano considerati i fustigatori della morale. Però a quanto pare vale solo per la morale degli altri. Ora scopriamo che anche le persone più vicine ai leader pagavano i lavoratori in nero e avevano problemi con i fornitori. Vedo molta incompetenza. Voglio dire, c’è gente che fa il ministro come primo lavoro. Questo che stiamo vivendo è il piano B, vale a dire raccogliere i voti di protesta. Adesso però non vedo il piano C. E quindi forse torneremo al piano A”.

tratto da: https://www.fanpage.it/briatore-in-italia-servirebbe-una-dittatura-democratica/

Riscaldamento globale ed inquinamento? Per Trump nessun problema: più petrolio e più carbone – Perchè agli americani non bastano più solo le armi per distruggere il Pianeta…!

 

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Riscaldamento globale ed inquinamento? Per Trump nessun problema: più petrolio e più carbone – Perchè agli americani non bastano più solo le armi per distruggere il Pianeta…!

Via libera ad esplorazioni petrolifere e trivellazioni in aree protette e costruzione di nuove centrali elettriche a carbone. Di nuova generazione, certo. Ma sempre a carbone. Una dote che nessuno può negare al presidente degli Stati Uniti, è la solida (o stolida?) certezza nelle sue convinzioni. Al netto di tutto, anche della realtà.

Il riscaldamento globale? Esagerazioni di scienziati progressiti.

L’unica cosa che conta è il rilancio dell’economia.

Coerente con questa visione, ha permeato questi due anni di presidenza di scelte, atteggiamenti e dichiarazioni tutte volte alla massimizzazione del profitto delle lobby industriali e alla minimizzazione dei diritti di chi, negli Usa e nel mondo intero, vorrebbero un ambiente meno inquinato e pericoloso.

Non stupiscono, dunque, le due recenti proposte di legge che vanno ad annullare o quasi quanto il predecessore Obama aveva fatto in tema di tutela dell’ambiente, come racconta anche il Sole 24 Ore in un recente articolo.

La prima è un omaggio alle grandi aziende petrolifere, a cui verrà concesso di procedere ad esplorazioni e trivellazioni in cerca di petrolio e gas in aree fino ad oggi tutelate. L’obiettivo è quello di massimizzare la produzione di combustibili fossili, di cui gli Stati Uniti sono già tra i più grandi al mondo. I motivi di queste politiche vanno ricercati in più direzioni: più indipendenza dall’importazione estera e quindi da “amicizie pericolose” come quella con l’Arabia Saudita, forse incremento dell’export, aumento delle scorte interne e creazione di posti di lavoro.

Inutile commentare quanto possa essere surreale incrementare la produzione di petrolio e derivati in una fase di sconvolgimenti climatici, riscaldamento globale ed inquinamento.

Ma a Trump, e a chi lo sostiene (parliamo delle lobby industriali, ovviamente), evidentemente non interessa.

Più complessa la questione relativa alla seconda proposta di legge, che prevede lo sviluppo di nuove centrali elettriche a carbone “pulito”.

Gli Stati Uniti sono produttori di tecnologie innovative in questo settore, oltre ad essere grandi esportatori di carbone.

Questo a fronte di un calo della produzione interna di elettricità per mezzo di centrali a carbone, sostituite da quelle che utilizzano il gas da argille o shale gas, che però richiede un prezzo molto alto rispetto ai danni prodotti all’ambiente per estrarlo.

Ridare fiato ad un settore in forte calo? Incrementare la produzione di tecnologia da vendere all’estero, puntando sulla riconversione delle “vecchie” centrali a carbone in nuove strutture meno inquinanti?

Qualunque sia la motivazione politica ed economica, stiamo parlando di carbone. Di petrolio. Di gas. Di fonti energetiche non pulite, non rinnovabili ed inquinanti.

Non un buon servizio al mondo, in ogni caso.

 

fonte: http://contropiano.org/news/internazionale-news/2018/12/27/riscaldamento-globale-ed-inquinamento-per-trump-nessun-problema-piu-petrolio-e-piu-carbone-0110986?fbclid=IwAR2VVyP4NZmaLKTj5HsSLg02ZRY0LGj_q5gAqM2Nyo4synTnC7_hPMCbwxY

Rutger Bregman: “La povertà non è una mancanza di carattere, è una mancanza di denaro”

 

povertà

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La povertà non è una mancanza di carattere, è una mancanza di denaro

di Rutger Bregman – Vorrei iniziare con una domanda semplice: perché i ceti svantaggiati prendono spesso decisioni svantaggiose? Lo so, è difficile rispondere: ma diamo un’occhiata ai dati. I poveri fanno più debiti, risparmiano meno, fumano di più, bevono di più, fanno meno esercizio e mangiano peggio. Perché?

La spiegazione tradizionale la diede una volta il premier inglese Margaret Thatcher. Che definì la povertà “un difetto della personalità.” Una mancanza di carattere, in sostanza.

So che molti di voi non sarebbero così brutali. Ma che ci sia qualcosa di sbagliato nei poveri non lo pensava solo la signora Thatcher. Forse qualcuno di voi crede che i poveri debbano rispondere dei propri errori. E altri potrebbero proporre di aiutarli a prendere decisioni migliori. Ma l’assunto di fondo è lo stesso: c’è qualcosa di sbagliato in loro. Se solo potessimo cambiarli; se solo potessimo insegnare loro come si vive; se solo ci ascoltassero. E a dirla tutta, questa è stata a lungo anche la mia, di opinione. Poi, appena qualche anno fa, ho scoperto che tutto ciò che pensavo di sapere sulla povertà era sbagliato.

Tutto iniziò quando mi imbattei, per caso, nello studio di un gruppo di psicologi americani. Avevano viaggiato per 13.000 chilometri, fino in India, per uno studio affascinante. Il soggetto erano i coltivatori di canna da zucchero. Dovete sapere che questi contadini ricevono il 60 percento circa del loro reddito annuale in un unico trasferimento, appena dopo il raccolto. Sono pertanto relativamente poveri per una parte dell’anno, e ricchi l’altra. I ricercatori li sottoposero a due test del QI, prima e dopo il raccolto. Il confronto dei risultati mi lasciò senza parole. Nel test prima del raccolto, il punteggio era molto inferiore. Pare che gli effetti della povertà corrispondano a una perdita di 14 punti di QI. Per darvi un’idea, l’effetto è paragonabile a una notte insonne, o all’alcoolismo.

Qualche mese dopo, seppi che Eldar Shafir, professore della Princeton University e co-autore di questo studio, stava arrivando in Olanda, dove vivo. Ci incontrammo ad Amsterdam per parlare della sua nuova, rivoluzionaria teoria della povertà. Posso riassumerla in due parole: mentalità della scarsità. Pare che il comportamento delle persone cambi, quando percepiscono una cosa come scarsa. E non importa molto cosa sia quella cosa – può essere tempo, denaro o cibo.

Conosciamo tutti quella sensazione: abbiamo troppo da fare, o abbiamo saltato il pranzo per lavoro e c’è un calo di zuccheri nel sangue. L’orizzonte mentale si restringe alla carenza immediata – al panino che abbiamo bisogno di mangiare ora, alla riunione che inizierà fra 5 minuti o alle bollette da pagare entro domani. E la capacità di pensare a lungo termine va a farsi benedire. Per fare un paragone, pensate a un nuovo computer che esegue 10 programmi pesanti tutti allo stesso tempo. Prima rallenta, e fa errori su errori. E alla fine si inchioda – non perché sia fatto male come computer, ma perché deve eseguire troppe operazioni alla volta. I poveri hanno lo stesso problema. Non prendono decisioni stupide perché sono stupidi, ma perché vivono in un contesto in cui tutti farebbero scelte stupide.

E all’improvviso mi è diventato chiaro perché molti dei nostri programmi di contrasto alla povertà non funzionano. Investire in formazione, ad esempio, si rivela spesso un buco nell’acqua. La povertà non è una mancanza di istruzione. Una recente analisi di 201 studi sui corsi di gestione delle finanze è giunta alla conclusione che non hanno quasi alcun effetto. Non fraintendetemi – non sto dicendo che i poveri abbiano la testa dura: certamente imparano qualcosa di utile. Ma non è abbastanza. Nelle parole del Professor Shafir, “È come insegnare a qualcuno a nuotare, e poi lanciarlo in un mare in tempesta.”

Avremmo potuto arrivarci decenni prima. Questi psicologi non hanno fatto complicate scansioni cerebrali; hanno solo misurato il QI dei coltivatori, e quei test sono stati inventati più di 100 anni fa. Ricordai anche di essermi già imbattuto nella psicologia della povertà. George Orwell, uno dei maggiori scrittori mai vissuti, negli anni ’20 sperimentò la povertà di persona. “L’essenza della povertà,” scrisse all’epoca, è che “cancella il futuro.” E si meravigliava di come, e qui cito, “La gente dia per acquisito il diritto di farti la predica e pregare per te, appena il tuo reddito scende sotto un certo livello.”

Queste parole conservano tutta la loro forza ancora oggi. La questione, ovviamente, è: cosa si può fare? Gli economisti moderni hanno qualche asso nella manica. Potremmo aiutarli a compilare i documenti, o mandare una notifica via sms quando è ora di pagare le bollette. Questo tipo di soluzione è molto popolare tra i politici moderni, soprattutto perché… beh, non costa quasi nulla. Soluzioni come queste, a mio avviso, sono un simbolo di quest’epoca in cui si trattano i sintomi di un male, ignorandone la causa sottostante.

Perciò mi chiesi: perché non cambiamo il contesto in cui vivono i poveri? Oppure, tornando all’analogia del computer: perché continuiamo a ritoccare il software quando potremmo risolvere il problema installando un po’ più di memoria? Lo sguardo del Professor Shafir si fece assente, e dopo qualche secondo disse: “Oh, ho capito. Intendi dare più denaro ai poveri per sradicare la povertà. Certo, sarebbe grandioso. Ma temo che quella marca di sinistra che avete ad Amsterdam non ci sia negli Stati Uniti.”

Ma è davvero una vecchia idea di sinistra? Mi tornò alla mente un’antica proposta, avanzata da alcuni dei più importanti pensatori della Storia. Il filosofo Tommaso Moro fu il primo ad accennarne nel suo libro, “Utopia”, più di 500 anni fa. E ha sostenitori in tutto l’arco politico, da destra a sinistra, dal difensore per i diritti civili, Martin Luther King, all’economista Milton Friedman. Ed è un’idea incredibilmente semplice: il reddito di base garantito.

Che cos’è? È molto semplice. Si tratta di un reddito mensile per coprire i bisogni di base: cibo, riparo, istruzione. È completamente incondizionato, quindi nessuno ti dirà cosa devi fare per averlo, né come devi spenderlo. Il reddito di base non è un favore, ma un diritto. Non comporta alcuno stigma sociale. Così, quando capii la reale natura della povertà, iniziai a chiedermi senza sosta: è questa l’idea che tutti aspettavamo? Potrebbe essere davvero così semplice? E nei tre anni successivi, lessi tutto ciò che potevo sul reddito di base. Navigai tra le dozzine di esperimenti condotti in tutto il mondo, e in breve mi imbattei nella storia di una città che ci era riuscita – aveva sradicato la povertà. Ma poi… quasi tutti se ne dimenticarono.

La città senza povertà

Questa storia inizia a Dauphin, in Canada. Nel 1974, in quella piccola città fu garantito a tutti un reddito di base, affinché nessuno cadesse al di sotto della soglia di povertà. All’inizio dell’esperimento, un esercito di ricercatori scese in città. Per quattro anni, tutto andò bene. Poi però un nuovo Governo salì al potere, e non vide molte ragioni di condurre un esperimento così costoso. E quando fu chiaro che mancavano i fondi per analizzare i risultati, i ricercatori decisero di chiudere i fascicoli in 2.000 scatole. Passarono 25 anni, e un giorno Evelyn Forget, una professoressa canadese, trovò quei risultati. Per tre anni sottopose i dati a ogni tipo di analisi statistica. E comunque li manipolasse, il risultato era sempre lo stesso: l’esperimento era stato un clamoroso successo.

Evelyn Forget scoprì che gli abitanti di Dauphin erano diventati non solo più ricchi, ma anche più sani e intelligenti. Il rendimento scolastico dei ragazzi migliorò sensibilmente. Il tasso di ospedalizzazione diminuì addirittura dell’8,5%. Diminuirono le violenze domestiche e anche le denunce di disagio mentale. E la gente non abbandonò il posto di lavoro. Gli unici che lavorarono un po’ meno furono le neo-mamme e gli studenti, che studiavano più a lungo. E risultati analoghi sono emersi, da allora, in moltissimi altri esperimenti in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’India.

Quindi … ecco cosa ho imparato: quando si parla di povertà, noi, i ricchi, non dovremmo pretendere di saperla più lunga. Dovremmo smetterla di mandare scarpe e giocattoli a poveri che non abbiamo mai visto. E dovremmo sbarazzarci della pletora di burocrati paternalisti, destinando i loro stipendi a quei poveri che dovrebbero aiutare.

Perché il bello del denaro è che possiamo usarlo per acquistare ciò che ci serve, e non ciò che presunti “esperti” ritengono che ci serva. Pensate a quanti brillanti scienziati, imprenditori e scrittori come George Orwell, stanno oggi appassendo nel bisogno. Pensate a quante energie e talenti potremmo liberare se ci sbarazzassimo della povertà una volta per tutte. Penso che un reddito di base agirebbe da capitale di rischio per le persone. E non possiamo permetterci di non farlo, perché la povertà è estremamente costosa. Guardate quanto costa, ad esempio, la povertà infantile negli Stati Uniti. È un costo stimato di 500 miliardi di dollari all’anno, in termini di maggiori costi sanitari, abbandoni scolastici e criminalità. È un incredibile spreco di potenziale umano.

Ma parliamo del problema principale: come finanziamo un reddito di base garantito? In realtà costa molto meno di quanto pensiate. A Dauphin è stato finanziato con un’imposta sul reddito negativa. Perciò ricevete un’integrazione appena scendete sotto la soglia di povertà. E in questo scenario, stando alle migliori stime degli economisti, per un costo netto di 175 miliardi – un quarto del budget militare, o l’1% del PIL, degli Stati Uniti – potreste sollevare gli americani indigenti dalla soglia di povertà. Potreste sradicare la povertà. E dovrebbe essere quello, l’obiettivo.

Il tempo del pensiero debole e delle spinte gentili è finito. Credo davvero che sia giunto il momento di idee nuove e radicali, e il reddito di base è molto di più dell’ennesima politica sociale. È anche un completo ripensamento del concetto di lavoro. E in questo senso, libererà non solo i poveri, ma anche il resto di noi.

Oggi, milioni di persone sentono che il loro lavoro ha poco senso. Una recente inchiesta tra 230.000 impiegati in 142 nazioni ha scoperto che solo il 13 percento degli impiegati ama il proprio lavoro. Un altro sondaggio ha scoperto che il 37 percento dei lavoratori inglesi svolge un lavoro che loro per primi pensano non dovrebbe esistere. Nelle parole di Brad Pitt in “Fight Club”, “Troppo spesso facciamo lavori che odiamo per comprare cazzate che non ci servono.”

Ora, non fraintendetemi – non sto parlando di insegnanti, netturbini e addetti alla cura alla persona. Se loro smettessero di lavorare, allora sì che saremmo nei guai. Parlo di tutti quei professionisti strapagati, con curriculum stellari, che si guadagnano lo stipendio con… riunioni tra pari di transazioni strategiche con focus sulla co-creazione dirompente nella società della rete.

O qualcosa del genere. Pensate solo a quanto talento stiamo sprecando, solo perché diciamo ai nostri ragazzi che dovranno “guadagnarsi da vivere”. O a un brillante matematico di facebook, che qualche anno fa lamentava: “Le migliori menti della mia generazione cercano di convincere la gente a cliccare sulla pubblicità.”

Sono uno storico. E se la Storia ci insegna qualcosa, è che le cose possono cambiare. Non c’è niente di inevitabile nell’attuale struttura della società e dell’economia. Le idee possono cambiare il mondo, e lo cambiano. E soprattutto negli ultimi anni, è diventato più che chiaro che lo status quo è insostenibile: servono nuove idee.

So che molti di voi sono assaliti dal pessimismo, davanti a un futuro di diseguaglianze, xenofobia e cambiamenti climatici. Ma non basta sapere a cosa opporsi: serve anche una causa da sostenere. Martin Luther King non disse, “Io ho un incubo”. Aveva un sogno, lui.

Ecco quindi il mio, di sogno: io credo in un futuro in cui il valore del vostro lavoro non si misuri dalla busta paga, ma da quanta felicità diffondete e da quanto “significato” apportate. Credo in un futuro in cui l’educazione non serva a prepararvi all’ennesimo lavoro inutile, ma a vivere bene la vita. Credo in un futuro in cui una vita senza povertà non sia un privilegio, ma un diritto di tutti. È questo il punto. Abbiamo la ricerca, le prove e le risorse.

Oggi, oltre 500 anni dopo che Tommaso Moro iniziò a scrivere sul reddito di base, e 100 anni dopo che George Orwell ha scoperto la vera natura della povertà, è tempo di aggiornare la nostra visione del mondo, perché la povertà non è una mancanza di carattere. La povertà è una mancanza di denaro.

L’AUTORE


Rutger Bregman è uno dei giovani pensatori più importanti d’Europa. Olandese, 28 anni, storico e autore di successo, ha pubblicato quattro libri su storia, filosofia ed economia. Il suo libro “Utopia per realisti”, sul reddito di base universale e altre idee radicali, è stato tradotto in più di 20 lingue. Il suo lavoro è stato descritto su The Washington Post, The Guardian e nella BBC.

 

tratto da: http://www.beppegrillo.it/la-poverta-non-e-una-mancanza-di-carattere-e-una-mancanza-di-denaro/?fbclid=IwAR0oJp6kzVHwGU0uWp2XiFYnO4B9FhGvSGzpkQjqZmTC23Fx1czVctM_WnU

L’allarme di Ferruccio De Bortoli – L’Italia ormai spende più per pagare gli interessi sul debito che per la scuola – Ecco l’eredità che stiamo lasciando ai nostri figli…!

 

De Bortoli

 

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L’allarme di Ferruccio De Bortoli – L’Italia ormai spende più per pagare gli interessi sul debito che per la scuola – Ecco l’eredità che stiamo lasciando ai nostri figli…!

 

Spendiamo più per il debito che per la scuola: l’eredità lasciata ai nostri figli

Nell’ultimo rapporto Censis si ricorda che l’Italia ha la più alta percentuale di giovani, tra i 15 e 29 anni, né al lavoro né allo studio. La stima più recente dell’Istat, riferita al 2017, è del 24,1 per cento. Uno su quattro non fa nulla. Una immensa «prigione sociale» o, se volete, un’invisibile «discarica» di forze e talenti giovanili. Nel 2017 poi in Italia si registrava una quota di adulti iscritti ad attività di apprendimento del 7,9 per cento contro una media europea del 10,9. Percentuale che scendeva tra i disoccupati al 5,3 per cento. La partecipazione degli adulti a corsi di aggiornamento decresce con l’aumentare dell’età ma più velocemente che in altri Paesi e con una marcata discriminazione di genereÈ come se lievitasse, a tutti i livelli di età, una sorta di sfiducia su formazione e cultura come mezzi di promozione economica e sociale. Secondo Eurostat, nel 2017 solo il 60,9 per cento delle persone tra i 25 e i 64 anni aveva un diploma. La media europea a 28 era del 77,5 per cento. Nella fascia di età tra i 30 e i 34 anni la quota di laureati in Italia era al 26,9 per cento, in Europa al 39,9. Dopo dieci anni di calo sono tornate ad aumentare le uscite precoci dal sistema scolastico. Il 14 per cento dei giovani tra i 18 e 24 con la licenza media si ferma o si arrende. Se mai il reddito di cittadinanza dovesse essere applicato — lasciamo per un attimo da parte i costi — avrebbe assai poche possibilità di trasformarsi, in un clima di questi tipo, con un capitale umano così impreparato e disilluso, in un motore di nuova occupazione.

Il grafico che pubblichiamo in questa pagina è, a giudizio di chi scrive, più importante di qualsiasi altro, dello spread, della crescita, del risparmio. L’Italia spende ormai, per pagare gli interessi sul proprio debito, più che per la scuola e l’università. La domanda che tutti ci dovremmo porre alla vigilia di Natale, che anche per un laico è occasione di nascita e speranza, è quale futuro abbia un Paese che finanzia di più il proprio passato del proprio futuro. Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha da poco pubblicato per Il Mulino una nuova edizione di Investire in conoscenza . Un libro prezioso. Ha ricordato nella prefazione una celebre frase, ormai di tre secoli fa, di Benjamin Franklin, scienziato, politico, editore. L’investimento nel sapere, nello studio, paga i migliori interessi. Sempre. «Esso può contribuire in modo profondo — scrive Visco — all’innalzamento del senso civico e del capitale sociale, valori in sé, indipendentemente dai loro effetti positivi sulla crescita economica, fattori importanti di coesione sociale e di benessere dei cittadini». Un recente studio della Banca d’Italia — scritto da Luigi Cannari e Giovanni D’Alessio — ha fotografato la paralisi dell’ascensore sociale. I figli seguono i percorsi di istruzione e di reddito dei padri e delle madri. Contano le condizioni di partenza. L’Italia è nel novero dei Paesi a più bassa mobilità intergenerazionale.

Senza un solido patto generazionale, il futuro del Paese è ancora più incerto se non compromesso. Che cosa si può realisticamente fare? Il discorso non riguarda solo questo governo. Ha ereditato un debito schiacciante, oscilla tra sogni e ambizioni. Per salvarsi dalla procedura d’infrazione ha tagliato ancora gli investimenti. «Il governo — ha detto in sostanza il premier Giuseppe Conte parlando degli aggiustamenti alla manovra — intende definanziare il fondo per favorire lo sviluppo, il capitale immateriale, la produttività e la competitività». Il tema del patto generazionale riguarda però l’intera classe dirigente, la borghesia produttiva, i ceti professionali. Chi sta meglio dovrebbe riflettere e fare un esame di coscienza. Parlare di tasse è sempre antipatico in un Paese in cui chi le paga ne paga troppe. Gli evasori sono una costituency molto forte. Una platea corteggiata dalla politica. Anche dai legastellati che hanno promosso diverse forme di condono. Guardiamo però per un attimo alla curiosa vicenda dell’imposta sulle successioni e donazioni, che per sua natura dovrebbe avere in sé i valori intrinseci di un patto generazionale allargato alla società nel rispetto dei legami familiari. Il governo Berlusconi la soppresse con l’articolo 13 della legge 383, in vigore dal 25 ottobre del 2001. Il successivo esecutivo Prodi la ripristinò, con larghe eccezioni in fatto di aliquote e franchigie, in base al decreto legge 262, entrato in vigore il 3 ottobre del 2006. Attualmente per le successioni in linea retta è prevista una franchigia di un milione per ciascun beneficiario. Per gli immobili la base imponibile è determinata sui valori catastali applicando determinati coefficienti. Si corrispondono ovviamente le imposte ipotecarie e catastali. Oltre le diverse franchigie, l’aliquota varia tra il 4 e l’8 per cento a seconda degli aventi diritto. L’Italia, in confronto alla legislazione degli altri maggiori Paesi europei, è di fatto un paradiso fiscale. «Meglio morire da voi», dicono all’estero. Con un milione di eredità in Germania si pagano 75 mila euro di imposte, in Francia 195mila, in Gran Bretagna 250mila Euro. Da noi ZERO

Una rimodulazione intelligente dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni potrebbe portare a convogliare il nuovo gettito (nel 2017 è stato di appena di 789 milioni) in un fondo esclusivamente dedicato alla scuola, all’università, a progetti di riqualificazione dei giovani che non studiano né lavorano. Questo fondo contro la dispersione scolastica e umana potrebbe poi essere alimentato da contributi liberali portati in detrazione nelle dichiarazioni dei redditi. Avrebbe un grande significato civico. Un gesto di solidarietà civile. Un investimento sul futuro delle prossime generazioni. Gli interessi pagati sul debito vanno a favore di chi presta capitali al Paese, un terzo stranieri. E ci auguriamo che continuino a farlo. Gli interessi sociali di un fondo di solidarietà di questo tipo sarebbero più elevati e diffusi a favore di chi ha maggior bisogno. E, soprattutto, all’istruzione pubblica, alla quale tutti dobbiamo enorme riconoscenza. Chi paga un po’ più di tasse avrebbe la certezza che non verrebbero disperse in spese inutili. Ma forse è soltanto un’utopia… che tutte le feste si porteranno via.

Ferruccio De Bortoli

 

Articolo tratto da: www.corriere.it

https://www.corriere.it/economia/18_dicembre_25/spendiamo-piu-il-debito-che-la-scuola-siamo-paradiso-fiscale-le-tasse-successione-bbb86d92-082a-11e9-9efd-ce3c5bf3dd59.shtml

 

 

Qualcuno ricorda la legge Prodi che impone ai membri del Governo di restituire allo Stato i “regali di Stato” ricevuti nello svolgimento delle loro funzioni? No, perchè di sicuro non la ricorda nemmeno Renzi che ha dovuto mandare un camion per ritirarli…!

 

Renzi

 

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Qualcuno ricorda la legge Prodi che impone ai membri del Governo di restituire allo Stato i “regali di Stato” ricevuti nello svolgimento delle loro funzioni? No, perchè di sicuro non la ricorda nemmeno Renzi che ha dovuto mandare un camion per ritirarli…!

Da Dagospia:

Da Babbo Renzi a Babbo Natale: le patacche e i regali di stato ricevuti in quanto Premier sono finiti agli amici di famiglia? – Secondo ”La Verità”, Matteo ha mandato un camion a ritirare gli oggetti ricevuti nelle visite ufficiali, con destinazione eventi 6, la sede a Rignano sull’Arno della ormai nota società di famiglia – La legge prodi impone che i membri del Governo restituiscano allo Stato le cose che valgono più di 300 euro (150 euro per i funzionari)…

Giacomo Amadori e Paolo Sebastiani per ”la Verità

La luce fredda dei neon rende asettica e quasi ospedaliera l’ atmosfera dell’ antico monastero di San Silvestro.

Oggi il convento, ubicato nella centralissima via della Mercede a Roma, ospita il dipartimento per i servizi strumentali di Palazzo Chigi. Uno dei funzionari che sorvegliano il caveau con i regali ricevuti da presidenti del Consiglio e dai loro più stretti collaboratori è perentorio: «Le autorità politiche e i loro famigliari se ricevono un dono di valore superiore ai 300 euro devono depositarli da noi, dove vengono custoditi da un consegnatario. Certo non possiamo essere noi a chiedere ai politici e ai loro parenti quando tornano da un viaggio o da un incontro istituzionale: “Avete ricevuto qualcosa?”. Devono essere loro a segnalarlo».

IL MAGAZZINO

Ma ci sono premier che hanno restituito ben poco.

Come Matteo Renzi. Il quale nella scorsa primavera, a quanto risulta alla Verità, dopo la sconfitta elettorale e in vista dell’ arrivo al governo dei barbari gialloblù, ha fatto caricare su un camion gli oggetti ricevuti da capi di Stato e amministratori italiani e stranieri, oggetti che erano conservati nella Capitale, probabilmente nelle stanze di Palazzo Chigi, dove ha risieduto per quasi tre anni. Ebbene quegli oggetti – quadri, tappeti e molto altro – sono stati trasferiti a Rignano sull’ Arno, presso la sede della Eventi 6, l’ azienda di famiglia dei Renzi, e qui sono stati messi a disposizione dei genitori, Tiziano Renzi e Laura Bovoli, ma anche di altri parenti e dei loro collaboratori.

Per esempio gli oggetti più preziosi ed eleganti, secondo la versione di una fonte, sarebbero stati utilizzati per arredare l’ appartamento di Matilde Renzi e del marito Andrea Conticini (indagato a Firenze per riciclaggio nella cosiddetta inchiesta sui fondi Unicef), residenza che si trova proprio sopra gli uffici della Eventi 6. Il magazzino della ditta è diventato una specie di suk dove amici e famigliari entrano ed escono portando via regali di vario tipo con il consenso di babbo (Natale) Renzi.

Molti di questi cadeau hanno inciso sopra il nome del figlio Matteo. Un testimone ci ha riferito che una moneta d’ oro personalizzata sarebbe stata venduta in un Compro oro fuori Provincia per non destare troppa attenzione e avrebbe fruttato 400 euro. Il che fa presumere che avesse un valore ben superiore a quello stabilito dalla legge per i regali che i premier possono conservare per sé.

IL DECRETO PRODI

Le disposizioni che regolamentano la materia sono state introdotte nel 2007 dal governo di Romano Prodi. Il 20 dicembre venne emanato un decreto del presidente del Consiglio dei ministri con l’ obiettivo di disciplinare il trattamento dei cosiddetti doni di rappresentanza ricevuti dai componenti del governo e dai loro congiunti «in ragione dell’ ufficio che ricoprono pro tempore, in occasione di visite ufficiali o di incontri, da parte di autorità o di delegazioni italiane o straniere e che, secondo gli usi di cerimoniale, abbiano carattere protocollare d’ uso e di cortesia».

 Nel decreto è specificato che a partire dal 1° gennaio 2008 i soggetti sopra citati possono trattenere personalmente solo i regali di valore non superiore a 300 euro.

Tutti gli altri vanno restituiti.

Quelli «che, in relazione alla loro tipologia e specificità, possono essere destinati alle sedi ufficiali o di rappresentanza, restano nella disponibilità dell’ amministrazione», gli altri, «di valore superiore a 300 euro, sono destinati dal presidente del Consiglio e dai ministri per iniziative aventi finalità umanitarie, caritatevoli, di assistenza e beneficenza». Chi intenda trattenere i regali che abbiano un valore eccedente l’ importo stabilito è tenuto a versare al dipartimento competente di Palazzo Chigi «la somma di denaro pari alla differenza tra il valore stimato del bene e 300 euro».

Prodi restituì otto gioielli da donna, destinati alla moglie Flavia (due parure d’ oro tempestato di smeraldi, rubini, diamanti, lapislazzuli, zaffiri del valore complessivo di circa 650.000 euro) e un fucile in oro con zaffiri cabochon del valore di 120.000 euro (offerto dagli Emirati). I giornali dell’ epoca parlarono anche di una cassa con palme in un’ oasi, interamente ricoperta con scaglie di oro, e di un vasetto di onice con gazzelle d’ argento. La cassa deve assomigliare a quella ricevuta da Renzi dal sovrano dell’ Arabia saudita il 9 novembre 2015 durante un viaggio in Medio Oriente. Nell’ occasione gli emiri donarono ai membri della delegazione regali assai preziosi e per questo si registrò pure una rissa.

L’ ELENCO

Per la verità, dai tempi del decreto Prodi i premier non hanno brillato per la solerzia nella consegna degli omaggi di rappresentanza. A settembre il deputato di Fratelli d’ Italia Giovanni Donzelli ha richiesto l’ elenco aggiornato.

Nella lista figuravano 19 doni restituiti da Mario Monti (17 mesi e mezzo – 529 giorni – la durata del suo governo), quattro da Enrico Letta (per lui dieci mesi di regno – 300 giorni), 12 da Paolo Gentiloni (in carica per quasi 18 mesi -536 giorni). Non è particolarmente ricco neppure il bottino di Matteo Renzi: 16 regali per 1.024 giorni (34 mesi) di presidenza. In pratica ha depositato in via della Mercede un dono ogni 64 giorni, contro i 28 giorni di media di Monti e i 44 di Gentiloni. Solo Letta ha fatto peggio del fu Rottamatore, con un conferimento ogni 75 giorni. L’ attuale premier Giuseppe Conte starebbe, invece, pensando di organizzare un’ asta con i regali ricevuti e non riutilizzabili dagli uffici della presidenza del Consiglio.

FIORE DI CRISTALLO

Nella lista ci sono anche i doni restituiti dai sottosegretari alla presidenza e dai ministri senza portafogli, tutti sotto l’ egida di Palazzo Chigi.

Per esempio Claudio De Vincenti ha consegnato 22 doni, 16 dei quali ricevuti tra ottobre e dicembre 2017 in veste di ministro per la Coesione territoriale e il Mezzogiorno del governo Gentiloni e cinque come sottosegretario di Renzi.

Nella lista anche i due regali restituiti da Barbara Lezzi, attuale ministro per il Sud, i due di Maria Carmela Lanzetta (un fiore di cristallo è stato stimato solo 200 euro e quindi poteva essere trattenuto), già ministro degli Affari regionali con Renzi, oltre a quelli depositati (uno a testa) da Enrico Costa (successore della Lanzetta nei governi Renzi e Gentiloni), dall’ ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio (90 euro di Bambin Gesù in resina decorato) e dal pari grado Gianni Letta (governo Berlusconi), il quale ha restituito una riproduzione del breviario Grimani, stimata dagli esperti 15.000 euro, l’ omaggio più costoso in tabella.

In classifica anche l’ ingombrante e un po’ improbabile scultura ricevuta da Renzi in Arabia Saudita, con palme placcate in oro, valutata 1.000 euro.

Ma gli altri doni ricevuti dal Rottamatore e conservati nella cassaforte e nella quadreria di via della Mercede o nel deposito di Castelnuovo di Porto non sono esattamente imperdibili e per lo più provengono da Paesi africani. Ci sono i presenti (pochi) dei privati, come il ventaglio donato da Jack Ma del gruppo Alibaba o il modellino d’ aereo personalizzato consegnato da alcuni imprenditori turchi, ma la maggior parte dei regali viene da presidenti e primi ministri.

IL RITRATTO

Nel caveau ci sono sei impegnativi bicchieri placcati in argento dell’ Azerbaijan, destinati ad abbellire la tavola di Palazzo Chigi, un ritratto un po’ inquietante di fanciulla proveniente dal Mozambico, un portacandele serbo, una ciotola blu cobalto dell’ Afghanistan, un antico vestito e un piatto originari del Ghana, un dipinto con leoni del Kenya, borsa, quadro e sciarpa etiopi. Ma il regalo più appariscente è probabilmente quello del presidente della Repubblica del Congo che ha fatto preparare da una scuola d’ arte un ritratto dell’ ex premier.

Che però non deve averlo apprezzato, visto che Renzi non l’ ha riscattato e la colorata effigie giace in via della Mercede. Ma l’ ex segretario Pd non ha pagato neppure per le decine di presenti che ha portato con sé in Toscana dopo le dimissioni.

La cosa che colpisce è che alcuni di questi abbiano iniziato a girare per Rignano e per i Comuni limitrofi. Per esempio diversi sono finiti nella disponibilità di Carlo Ravasio, quarantanovenne collaboratore dei genitori di Renzi. Un personaggio di primo piano nella saga renziana: già dipendente della Eventi 6 e consigliere delegato della cooperativa Marmodiv, è stato perquisito nella scorsa primavera nell’ inchiesta che vede indagati Tiziano Renzi e Laura Bovoli per bancarotta fraudolenta. La compagna di Ravasio, Simona S., fa la collaboratrice domestica e ha portato almeno sette regali prelevati dal magazzino della Eventi 6 al suo datore di lavoro, un pensionato di un paese a pochi chilometri da Rignano.

Tra gli omaggi uno spadino dei cadetti dell’ Accademia di Modena dal valore non trascurabile (su Internet viene venduto usato tra i 100 e i 200 euro). C’ è poi una piccozza dorata, testimonianza di un viaggio istituzionale in Valle d’ Aosta di Matteo nel 2015. Su un sito specializzato in alpinismo si trova ancora la notizia della consegna: «Il presidente della Regione Valle d’ Aosta Augusto Rollandin ha regalato al premier Matteo Renzi una piccozza d’ oro Grivel, simbolo di eccellenza manifatturiera, nonché simbolo dell’ alpinismo».

La Grivel commentò: «Con questo omaggio siamo orgogliosi di poter rappresentare il Monte Bianco, la nostra regione e l’ alpinismo che qui ha avuto la sua nascita e tanta parte di storia». La piccozza d’ oro viene assegnata ai più grandi alpinisti del mondo e corrisponde un po’ al pallone d’ oro del calcio o agli Oscar del cinema. Su Internet una replica della «piolet d’ or» veniva venduta in saldo a più di 300 euro, ma risulta esaurita. Adesso la piccozza d’ oro, con il nome di Renzi intagliato sul manico, si trova a casa del pensionato.

Chissà come saranno contenti gli amministratori della Regione Val d’ Aosta e della Grivel.

Nella casa dell’ uomo si possono ammirare anche un piccolo tappeto dedicato a Istanbul e un elegante scendiletto in stile persiano sulle tonalità del blu, con impresso il nome di Iznik, città dell’ Anatolia nota per le ceramiche, ma anche per i prodotti tessili. Secondo Simona S. quelli erano omaggi a Renzi del presidente Recep Tayyip Erdogan.

Ma nel piccolo mausoleo ci sono altri oggetti degni di nota: un piatto d’ argento di quasi un chilo con stampigliato un simbolo araldico (uno scudo con il profilo di alcuni monti, sormontato da una corona) e la scultura ricordo del summit sull’ immigrazione della Valletta (Malta) del 2015; un importante evento a cui parteciparono più di 60 rappresentanti di Stati europei e africani e il cui fermacarte ricordo si trova oggi sul comodino di un signore che non ha mai avuto l’ occasione di incontrare personalmente Renzi.

SIGNIFICATO SIMBOLICO

Doveva avere un importante significato simbolico anche la filigrana consegnata all’ ex premier dai dipendenti dei Laboratori nazionali del Gran Sasso, in Abruzzo, una delle quattro sedi dell’ Istituto nazionale di fisica nucleare, oltre che il più grande centro di ricerca sotterraneo al mondo.

Gli scienziati hanno regalato all’ ex premier una riproduzione del rosone centrale della basilica Santa Maria di Collemaggio all’ Aquila. La chiesa è stata danneggiata dal sisma del 2009 e i restauri si sono conclusi nel 2017. Ma evidentemente Renzi non ha colto l’ importanza del presente. Altri omaggi si troverebbero ancora nella sede della Eventi 6 e sembra che i genitori di Renzi abbiano chiesto ai collaboratori, a inventario concluso, di gettare gli avanzi delle strenne nei bidoni dell’ immondizia.

IL PIANO DI CANTONE

Restano diversi interrogativi: che valore hanno gli oggetti di cui l’ ex premier si è appropriato? Costano tutti meno di 300 euro? In questo caso la risposta negativa sembrerebbe scontata, visto che qualche oggetto stimabile intorno a quella cifra è finito nella casa di un pensionato che ha solo la ventura di avere come donna delle pulizie una signora che conosce Tiziano Renzi. È probabile che le suppellettili più preziose abbiano trovato una destinazione meno casuale. In tal caso, averle sottratte al controllo di Palazzo Chigi potrebbe comportare conseguenze?

I dirigenti e dipendenti pubblici, compresi quelli della presidenza del Consiglio, hanno l’ obbligo di non accettare i doni di valore superiore ai 150 euro in base a un «codice di comportamento e di tutela e dignità e dell’ etica» reso stringente dal piano triennale di prevenzione della corruzione messo in atto dall’ Autorità diretta da Raffaele Cantone.

Chi contravviene alle regole, rischia sanzioni disciplinari e amministrative. Chissà se anche gli ex premier sono considerati punibili come tutti i dipendenti pubblici oppure le regole (stabilite dal decreto Prodi) valgono, come quasi sempre, solo per i comuni mortali, mentre i presidenti del Consiglio possono scegliere se rispettarle o meno.

Fonte: DAGOSPIA

Leggo due vecchi articoli ed è subito “trova le differenze”: Mujica rinuncia al seggio (e al vitalizio) – Napolitano pensione da 15.000 Euro NETTI al mese, chauffeur, maggiordomo, ufficio da 100 mq e tanti altri privilegi… A noi chi poteva capitare come presidente?

 

Mujica

 

 

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Leggo due vecchi articoli ed è subito “trova le differenze”: Mujica rinuncia al seggio (e al vitalizio) – Napolitano pensione da 15.000 Euro NETTI al mese, chauffeur, maggiordomo, ufficio da 100 mq e tanti altri privilegi… A noi chi poteva capitare come presidente?

Leggo due vecchi articoli dal web, uno dopo l’altro è mi sono chiesto… Chi poteva mai capitare a noi come Presidente?

Josè “Pepe” Mujica rinuncia al seggio (e al vitalizio): “Ma finché la mia mente funziona, non rinuncerò a lottare”

E’ questo il titolo di un articolo di agisto di Huffington Post, che continua: l‘ex presidente uruguaiano ha giustificato le dimissioni dal Senato per motivi personali e per “stanchezza dopo un lungo viaggio”

‘Pepe’ Mujica precisa anche che “il carattere di rinuncia volontaria e la legislazione vigente segnalano che non mi spetta il sussidio previsto (per gli ex senatori)”, e che quindi “mi sottometterò al sistema pensionistico” normale…

Le parole di Mujica – che già da presidente rinunciava all’85% del suo stipendio – mi hanno subito ricordato un’altro presidente…

Sono andato subito a rileggere un vecchio articolo del 2015 de Il Fatto Quotidiano che titolava così:

Napolitano, pensione dorata: chauffeur, maggiordomo. E ufficio da 100 mq

L’articolo continua… Nonostante i tagli annunciati nel 2007, per i presidenti emeriti della Repubblica rimane una lunga lista di benefit: una segreteria di almeno una decina di persone, un assistente “alla persona”, una serie di linee telefoniche dedicate. Ridurre i privilegi? Il suo ufficio stampa: “Ha avuto impegni tali da non consentirgli di deliberare sulla materia”

Il Fatto poi si dilunga su segreteria, guardarobiere, scorta, telefoni satellitari, collegamenti televisivi e telematici, uno staff nutritissimo, maggiordomo,  auto con autista, cento metri quadrati di ufficio privato in Palazzo Giustiniani con vista su San Ivo, 15mila euro mensili netti e tanti altri ammennicoli e benefit…

Beh, comunque, paragonare Mujica a Napolitano ricorda tanto quella storia della merda e la cioccolata…

By Eles

 

Ce lo chiede l’Europa: disoccupazione, disuguaglianza e precarietà…!

 

Europa

 

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Ce lo chiede l’Europa: disoccupazione, disuguaglianza e precarietà…!

Potere al Popolo! ha recentemente lanciato un invito al dibattito ed al confronto sull’Europa, in vista delle elezioni europee del 2019. Accogliamo l’invito e pubblichiamo il nostro secondo contributo sul tema.

Cosa ci chiede l’Europa lo sappiamo fin troppo bene: con la sua disciplina fiscale ci chiede di tagliare la spesa pubblica in sanità, istruzione, cultura, sicurezza, infrastrutture e di ridurre le pensioni; con il suo modello di economia di mercato ci chiede di competere con i salari di paesi dove lo stipendio mensile lordo non supera 400 euro, di accettare una crescente precarietà del lavoro e dei tempi di vita attraverso le liberalizzazioni, di rinunciare a qualsiasi forma di controllo pubblico sull’economia, dalle grandi reti infrastrutturali ai servizi pubblici locali. Ci chiede, insomma, tutto quello che i Governi degli ultimi 30 anni hanno scrupolosamente realizzato: che partissero da centrosinistra, da centrodestra, oggi addirittura da una piattaforma populista, tutti hanno seguito la stessa direzione, quell’austerità che ha portato in Europa una crisi che in tempi di pace non si vedeva da quasi un secolo. Ma perché l’Europa ci chiede questo?

Le risposte più comuni a questa domanda, affatto banale, sono due. La risposta dell’Europa e degli europeisti è la seguente: in Italia, così come in tutta la periferia europea, abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, con un modello di sviluppo incompatibile con la dimensione globale che il progresso tecnico impone ai sistemi produttivi moderni; i sacrifici derivanti dall’abbandono di questa organizzazione sociale obsoleta e insostenibile sarebbero più che compensati dal futuro radioso che l’affermazione di una moderna economia di mercato spontaneamente realizzerà. La risposta di molti euroscettici non mette in discussione gli obiettivi dichiarati dalle istituzioni europee, che sarebbero sempre quelli di garantirci un futuro migliore nel turbinio della globalizzazione, ma critica piuttosto la messa in pratica di questo progetto: secondo alcuni l’Europa sarebbe un grande errore, un’istituzione mal congegnata, un’unione economica incompleta condannata al fallimento dalle teorie economiche sbagliate su cui è disegnata. Questi critici dell’Europa, dunque, tendono a dipingere l’ostinazione con cui le istituzioni comunitarie procedono sul solco dell’austerità come una mera follia, frutto di fanatismo ideologico e causa di una prossima implosione del progetto di integrazione europea. In quanto segue, proveremo a tracciare i contorni di una terza risposta.

Una volta inserito nella storia della lotta di classe, il progetto di integrazione europea si mostra per quello che è: un formidabile strumento di disciplina dei lavoratori concepito per ribaltare i rapporti di forza che si erano andati consolidando fino agli anni Settanta, la forma assunta dalla restaurazione neoliberista in un’Europa dove i diritti conquistati metro dopo metro dai lavoratori iniziavano a mettere in discussione l’ordine economico e sociale. Quando le principali economie europee viaggiavano verso la piena occupazione, il ricatto del licenziamento si faceva meno opprimente ed i lavoratori trovavano il coraggio e la forza di organizzare le loro lotte sia sul piano sindacale che sul piano politico, fino a progettare la rivoluzione verso un modello alternativo di società fondato su principi di uguaglianza e solidarietà che, pur con mille contraddizioni, dimostrava di poter esistere appena oltre la cortina di ferro e, anche solo per questo motivo, toglieva il sonno agli sfruttatori di tutta l’Europa occidentale.

Libertà di movimento di merci e capitali, ovvero libertà di sfruttamento del lavoro

Sebbene il percorso di integrazione europea prenda avvio con il Trattato di Roma del 1957, che istituisce la Comunità Economica Europea (CEE), solo nel 1968 viene sancito il primo vero passaggio verso la costruzione del mercato unico europeo: la completa liberalizzazione dei movimenti di merci con l’abbattimento dei dazi. Negli anni ’80 si procede a passi da gigante alla liberalizzazione dei movimenti di capitale, con l’Atto Unico del 1986 che definisce le linee guida dell’apertura integrale delle frontiere ai movimenti di denaro, apertura che verrà sancita definitivamente con il Trattato di Maastricht del 1992. Da allora i capitali sono liberi di migrare da un paese ad un altro senza alcuna restrizione e senza pagare alcuna imposta per il loro trasferimento. Il combinato disposto di queste due libertà è un salto di qualità nella capacità di sfruttamento del lavoro: se i lavoratori di un Paese non si piegano, e pretendono salari elevati e diritti, la libertà di movimento dei capitali consente alla produzione di trasferirsi altrove e la libertà di movimento delle merci garantisce che non sia compromessa la capacità di vendere quel prodotto nel mercato unico, incluso il paese da cui si è delocalizzata la produzione. Sulla libertà di merci e capitali si costruisce dunque l’oppressione del lavoro. È infatti evidente che qualsiasi normativa che volesse aumentare i gradi di tutela dei lavoratori, ridurre l’orario di lavoro, fissare un salario minimo orario, aumentare le norme di sicurezza sui luoghi di lavoro, mettere al bando tutti i contratti precari, ripristinare una disciplina restrittiva sulla libertà di licenziamento e via dicendo, si scontrerebbe sempre con la minaccia di una fuga di capitali verso sistemi normativi più favorevoli ai profitti.

Il medesimo ricatto si propone anche sul piano della tassazione, dove si crea una concorrenza al ribasso sui sistemi tributari: qualsiasi impresa è chiamata a competere con quelle residenti nei paesi a minor pressione fiscale sul capitale. Il risultato è una pressione competitiva che si scarica sui salari dei lavoratori e si traduce nella minaccia di delocalizzazione, producendo in ultima istanza una spinta tutta politica alla compressione delle tasse sui redditi da capitali – progressivamente ridotte in tutta Europa. Senza controlli dei movimenti di merci e capitali appare impossibile esercitare una seria redistribuzione del reddito attraverso un sistema fiscale progressivo.

La disciplina fiscale e il ricatto del debito

Il Trattato di Maastricht, inoltre, fissa una serie di vincoli all’uso del bilancio pubblico, stabilendo limiti al ricorso al debito pubblico attraverso due parametri: il rapporto tra debito pubblico e PIL deve tendere al 60% del PIL ed il rapporto tra disavanzo pubblico (la differenza tra spese ed entrate dello Stato nell’anno) e PIL non può superare il 3%. L’Italia, proprio a partire dai primi anni Novanta ed in coerenza con quei vincoli, ha realizzato una serie praticamente ininterrotta di avanzi primari (un eccesso di entrate sulle spese, escluse le spese per interessi sul debito) che hanno sottratto ogni anno risorse all’economia, alimentando la disoccupazione, indebolendo la domanda aggregata e creando le condizioni per l’attuale situazione di stagnazione. Il ricorso alla spesa pubblica in disavanzo è storicamente, infatti, lo strumento principale per stimolare l’economia e perseguire l’obiettivo della piena occupazione, proprio quella piena occupazione che negli anni Settanta aveva dato linfa alla lotta di classe dei subalterni. Nel 2012 le istituzioni europee approfittano dell’instabilità politica generata dalla crisi per far sottoscrivere ai Paesi membri il Fiscal Compact, che inasprisce la disciplina fiscale in Europa imponendo il principio del pareggio di bilancio, dunque mettendo fuori legge il ricorso al disavanzo pubblico.

Oltre alla disciplina fiscale inscritta nei Trattati, l’Europa impone ai Paesi membri anche la disciplina dei mercati finanziari, attraverso l’operato della Banca Centrale Europea (BCE). La politica monetaria è la chiave di volta della stabilità finanziaria di un Paese, perché la banca centrale ha il potere di emettere moneta e può impiegarlo per sostenere il corso delle attività finanziarie che hanno una rilevanza sistemica, in primis i titoli del debito pubblico. La crisi finanziaria USA è stata arginata attraverso acquisti incondizionati di Treasuries, i titoli pubblici americani, da parte del Federal Reserve System, ossia la banca centrale degli Stati Uniti. Lo stesso non è successo in Europa dove la BCE – a partire dalla Grecia – ha negato quel sostegno incondizionato al debito pubblico che da solo può garantire la stabilità finanziaria; al contrario, l’autorità monetaria europea ha subordinato il suo intervento, di volta in volta, all’accettazione delle politiche neoliberiste del rigore fiscale, della deflazione salariale, delle liberalizzazioni e privatizzazioni. Attraverso la BCE, l’Europa ha posto l’austerità come condizione della stabilità finanziaria dei paesi Membri: se un Paese non è perfettamente allineato ai dettami della Commissione Europea, perde il sostegno della banca centrale sui mercati finanziari e finisce per essere esposto alla speculazione finanziaria. È il ricatto dello spread che ha messo in ginocchio l’intera periferia europea a partire dal 2009. In questa maniera la politica monetaria è diventata uno strumento disciplinante delle politiche economiche nazionali, strumento adoperato dalle istituzioni europee per imporre il disegno politico neoliberista dell’austerità.

La camicia di forza del cambio fisso

L’architettura istituzionale europea si completa con un terzo pilastro, costituito dal processo di fissazione del tasso di cambio tra paesi che hanno poi aderito alla moneta unica, l’euro, a partire dal 2002. Anche questo processo prende avvio negli anni Settanta, con la creazione del cosiddetto ‘Serpente monetario’ nel 1972 – un primo margine di fluttuazione ristretto per i cambi dei paesi europei – e poi con la formazione del Sistema Monetario Europeo nel 1979, il preludio all’Unione Monetaria sancita dal Trattato di Maastricht.

Nel contesto del mercato unico, dominato dalla libertà di movimento dei capitali e delle merci, la fissazione dei rapporti di scambio tra le valute dei paesi europei impone alle economie nazionali un vincolo esterno, concentrando tutta la pressione derivante dalla concorrenza internazionale sul costo del lavoro. Il meccanismo dei cambi fissi prevede infatti l’impossibilità di ricorrere alla svalutazione della moneta nazionale, e dunque sottrae dall’alveo della politica economica uno strumento fondamentale di stimolo della produzione. La leva del tasso di cambio permette, infatti, ad un Paese di rendere le proprie merci più competitive all’estero riducendone il prezzo senza dover comprimere direttamente i salari dei lavoratori: le cosiddette svalutazioni competitive rappresentavano, nell’Italia del dopoguerra, un vero e proprio compromesso tra le rivendicazioni dei lavoratori e le resistenze delle imprese. Il vincolo esterno dei cambi fissi ha reso impossibile questo compromesso, costringendo così le imprese – esposte alla concorrenza internazionale – a guadagnare margini di competitività solo sulla pelle dei lavoratori.

L’Unione Europea appare, nella sua evoluzione, come uno strumento pensato esattamente per depotenziare il conflitto di classe dal basso verso l’alto, un’arma di difesa del profitto agitata contro i lavoratori per imporre la restaurazione neoliberista in Europa. Per questo le istituzioni europee ci appaiono programmaticamente e strutturalmente irriformabili: la loro funzione essenziale è proprio quella di disciplinare il lavoro e sottometterlo – attraverso disoccupazione, disuguaglianze e precarietà – al dominio del capitale. Il progetto di integrazione europea ha costruito uno spazio non politico e non contendibile, sottraendo alla maggioranza della popolazione qualsiasi forma di controllo sul governo dell’economia e sull’organizzazione sociale. La riprova della irriformabilità dell’Unione Europea può essere trovata facilmente anche sul piano giuridico: per modificare i trattati istitutivi occorre raggiungere l’unanimità dei 27 Paesi membri, il che significa che risulta impossibile concepire una qualsiasi forzatura dell’architettura istituzionale europea verso una maggiore attenzione ai temi sociali e ai diritti dei lavoratori; se pure tutti i Paesi dell’Unione tranne il Lussemburgo si convincessero della necessità di allentare l’austerità, quei 600.000 lussemburghesi basterebbero a frenare il progresso sociale di 500 milioni di europei.

L’Unione Europea è allora la forma storica assunta nei paesi europei dalla lotta di classe dall’alto verso il basso, per eludere la concretezza del conflitto tra sfruttati e sfruttatori che negli anni Settanta aveva condotto ad importanti conquiste per i lavoratori. Con la mera applicazione di politiche economiche proclamate come inevitabili, tecniche, disegnate da centri decisionali lontani e inarrivabili, sono state applicate misure ispirate al più profondo ed estremo neoliberismo. Culturalmente si è plasmato e diffuso per anni un nuovo approccio politico, fondato sull’idea che non ci sia più niente da fare, perché vi sono forze oggettive invalicabili che determinano il funzionamento di un sistema economico contro cui non è possibile ribellarsi, se non in modo testimoniale. Non resterebbe allora che il misero adeguamento alla realtà e, al limite, debolissime lotte di retroguardia per rendere questo adeguamento il meno traumatico possibile. Questa cultura dell’impossibilità di incidere ha fatto a pezzi decenni di politica attiva, facendo precipitare i protagonisti di una stagione di lotte e conquiste nel nichilismo o, peggio ancora, nell’entusiasta adesione all’esistente visto come inevitabile fine della storia. Lottare contro l’Unione Europea significa quindi innanzitutto lottare contro la fine stessa della politica come luogo del conflitto e dell’elaborazione di un diverso progetto di società.

Così come il processo di emancipazione degli sfruttati era stato accompagnato dalla costruzione di un quadro di politiche economiche favorevoli alla piena occupazione, alla difesa del lavoro, al rigido controllo statale e alla programmazione economica, allo stesso modo la fase successiva di arretramento realizzata a partire dagli anni Settanta è stata contrassegnata da una vera e propria controrivoluzione liberista, le cui forme istituzionali coincidono con le tappe del progetto di integrazione economica e monetaria europea. L’Europa si presenta, dunque, come il dispositivo storico concreto della lotta di classe mossa dagli sfruttatori contro gli sfruttati: fuori dall’ideologia europeista dell’inevitabilità della globalizzazione, fuori dall’illusione di un’Europa dominata dalla finanza a cui contrapporre la politica dell’Europa dei popoli, il progetto di integrazione europea appare tutt’altro che un fallimento, bensì come il grande successo di chi ha voluto reprimere nella povertà e nella precarietà decenni di conquiste sociale da parte delle classi subalterne.

di Coniare Rivolta*

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/