Quanto ci manca Stefano Rodotà – Il 23 giugno 2017 se ne andava un gigante. Di cui abbiamo il dovere di raccogliere l’eredità…

 

Stefano Rodotà

 

 

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Quanto ci manca Stefano Rodotà – Il 23 giugno 2017 se ne andava un gigante. Di cui abbiamo il dovere di raccogliere l’eredità…

Quanto ci manca 
Stefano Rodotà, maestro e militante

Solidarietà, sinistra e “diritto di avere diritti”. Il 23 giugno 2017 se ne andava un gigante. Di cui abbiamo il dovere di raccogliere l’eredità

Accade raramente che un “militante politico” (definizione che, pensiamo, non sarebbe dispiaciuta a Stefano Rodotà) attraversi la vita pubblica, e spesso da protagonista, sapendo combinare insieme con tanta efficacia conflitti politico-istituzionali ed elaborazione teorica e scientifica. Così la sua biografia intellettuale accompagna un percorso di conquiste sul piano delle libertà civili e, al tempo stesso, di intuizioni su quello delle nuove generazioni dei diritti. È utile, pertanto, partire da una citazione che gli era cara e che ispira il titolo di uno dei suoi libri più importanti. «Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa»: con queste parole di Hannah Arendt si apriva qualche anno fa “Il diritto di avere diritti” (Laterza, 2012). A chi sia negato il diritto di avere diritti, è negata la stessa appartenenza alla condizione umana, ci dicono Arendt e Rodotà, il primo, fondamentale diritto dell’homo dignus.

L’homo dignus è la nuova manifestazione della personalità umana nel costituzionalismo dei diritti di cui scriveva Rodotà: l’eguale dignità di ciascuno supera l’astrazione del vecchio individualismo liberale e riscopre la centralità della concreta esperienza della persona umana a partire dal suo corpo e dai suoi bisogni. Una nuova morfologia è la chiave interpretativa con cui Stefano Rodotà ci guida per le strade più impervie: la corporeità fisica o elettronica è il centro di attrazione di vecchi e nuovi diritti così come il corpo è il luogo della differenza delle persone e dei loro bisogni, tutte e tutti meritevoli di riconoscimento e di garanzia.

Per chi ha fatto della lotta per i diritti la ragione del proprio impegno, Stefano Rodotà – scomparso il 23 giugno di un anno fa – è stato un maestro e un compagno di strada irrinunciabile, dalle battaglie per le libertà civili degli anni Settanta alle nuove frontiere dell’identità digitale e del post-umano, senza dimenticare l’impegno garantista che lo vide in prima fila nella promozione di “Antigone”, il bimestrale di critica dell’emergenza pubblicato da il manifesto alla metà degli anni Ottanta.

“Il diritto di avere diritti” si apre con una riflessione sul “mondo nuovo dei diritti”. Rodotà, sulla scia di Bobbio, aveva interpretato la fine del Novecento come una finestra di possibilità per una età dei diritti. Già nel suo “Repertorio di fine secolo” (Laterza, 1992) si trovano i temi dei vent’anni successivi: un’agenda per una sinistra profondamente rinnovata, dalle nuove frontiere della democrazia al pluralismo culturale, una inedita concezione della privacy nell’era digitale e le problematiche del bio-diritto. Nel frattempo ulteriori sviluppi maturano in vecchi filoni di ricerca. Come quello sul «terribile, forse non necessario» diritto di proprietà (definizione di Beccaria), cui aveva dedicato una raccolta fondamentale di studi (“Il terribile diritto”, appunto) all’inizio del suo percorso di ricerca. Ricerca che gli consentirà, un quarto di secolo dopo, di elaborare una proposta di riconoscimento giuridico dei “beni comuni”. O, infine, l’approdo al “Diritto d’amore” (Laterza, 2015) di una antica critica dell’uso coattivo del diritto nelle relazioni familiari, critica che in Rodotà si rovescia in opportunità di riconoscimento della libera scelta di convivenza di coppie dello stesso sesso o di sesso opposto.

Ecco, se volessimo definire il lascito di Rodotà per il proseguimento delle battaglie di libertà a cui ci ha introdotto o in cui ci ha accompagnato, innanzitutto si dovrebbe dire questo: se il diritto è un’arma a doppio taglio, ci sarà pure un verso da cui prenderla per ottenere più garanzie e più libertà. Dunque, la critica del diritto esistente, se non vuole essere messianica attesa di una rivoluzione improbabile e (spesso) liberticida, deve essere il fondamento di un diritto possibile, già oggi ricavabile con una lettura rigorosa dei principi e dei valori cui si ispirano la carta costituzionale e il diritto internazionale. Si pensi, per esempio, a quella lettura rigorosa dell’articolo 32 della Costituzione, che ha consentito di dar pace a Eluana Englaro e ai suoi familiari.

È ancora la citazione di Hannah Arendt a ricordarcelo: la prospettiva dell’homo dignus è l’umanità dei diritti e dunque il loro universalismo, senza barriere né confini. Non a caso, dai suoi primi studi sulla proprietà fino a uno dei suoi ultimi libri, parola chiave nella lingua di Rodotà è la solidarietà: quel che ci tiene insieme, ognuno con la propria differenza, ognuno con la propria dignità. E lo spazio della umanità dei diritti non può essere rinchiuso nelle piccole patrie, non solo per i conflitti identitari che esse inevitabilmente generano tra chi vi appartiene e chi no, ma anche per la realistica considerazione che nel mondo globale, diritti e solidarietà si muovono in una dimensione globale. Non a caso, Rodotà resterà fino alla fine legato alla sua idea di un’Europa dei diritti, quella della Carta che contribuì a scrivere: un’Europa come attore istituzionale sovranazionale all’altezza della sfida dei diritti umani nell’epoca della globalizzazione e dei grandi poteri privati su scala mondiale.

Infine c’è l’agenda: i beni comuni, il diritto al cibo e alla conoscenza; il diritto all’esistenza, anche attraverso il riconoscimento universale di un diritto al reddito; l’autodeterminazione nelle scelte procreative e in quelle sulla propria vita; la tutela della riservatezza e della identità digitale e l’uso della rete per il rafforzamento della partecipazione democratica alle scelte di convivenza. Ciascuna di esse, ovviamente, aprirebbe uno spazio infinito di riflessioni e di iniziative, ben oltre le caricature che ne vengono date in alcune versioni politiche correnti. E ciascuna di esse, d’altra parte, consente di trascrivere ogni capitolo dell’elaborazione teorica di un intellettuale così curioso e innovativo, in uno specifico passaggio della storia italiana dell’ultimo mezzo secolo. Si pensi a un testo (del 1974!) dal titolo “Elaborazione elettronica e controllo sociale” (era l’epoca in cui i computer si chiamavano processori o calcolatori) che dice bene quale fosse la capacità di analisi di Rodotà delle trasformazioni in atto, fin quasi alla preveggenza.

Così, ogni tappa della sua elaborazione coincide, quando non anticipa, la sequenza delle mobilitazioni della società italiana intorno a cruciali battaglie di libertà. Rodotà, insieme ai radicali e a una parte della sinistra ancora riottosa, è lì, a battersi per il divorzio, l’interruzione volontaria di gravidanza, le garanzie nel processo e nell’esecuzione penale (ovvero quel garantismo che deve a lui e a Luigi Ferrajoli le poche espressioni di limpidezza politica e intellettuale conosciute in Italia), fino alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e alla Dichiarazione dei diritti in Internet. E si pensi a una questione tanto circoscritta e altrettanto ignorata quanto simbolicamente dirompente come il riconoscimento anagrafico della condizione transgender. Insomma, il pensiero di questo studioso così intellettualmente irrequieto ha contribuito più di tante manifestazioni collettive e di tante parole parlamentari a fare dell’Italia un paese più civile.

Tratto da L’Espresso del 22 giugno 2018

 

 

L’allarme di Ferruccio De Bortoli – L’Italia ormai spende più per pagare gli interessi sul debito che per la scuola – Ecco l’eredità che stiamo lasciando ai nostri figli…!

 

De Bortoli

 

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L’allarme di Ferruccio De Bortoli – L’Italia ormai spende più per pagare gli interessi sul debito che per la scuola – Ecco l’eredità che stiamo lasciando ai nostri figli…!

 

Spendiamo più per il debito che per la scuola: l’eredità lasciata ai nostri figli

Nell’ultimo rapporto Censis si ricorda che l’Italia ha la più alta percentuale di giovani, tra i 15 e 29 anni, né al lavoro né allo studio. La stima più recente dell’Istat, riferita al 2017, è del 24,1 per cento. Uno su quattro non fa nulla. Una immensa «prigione sociale» o, se volete, un’invisibile «discarica» di forze e talenti giovanili. Nel 2017 poi in Italia si registrava una quota di adulti iscritti ad attività di apprendimento del 7,9 per cento contro una media europea del 10,9. Percentuale che scendeva tra i disoccupati al 5,3 per cento. La partecipazione degli adulti a corsi di aggiornamento decresce con l’aumentare dell’età ma più velocemente che in altri Paesi e con una marcata discriminazione di genereÈ come se lievitasse, a tutti i livelli di età, una sorta di sfiducia su formazione e cultura come mezzi di promozione economica e sociale. Secondo Eurostat, nel 2017 solo il 60,9 per cento delle persone tra i 25 e i 64 anni aveva un diploma. La media europea a 28 era del 77,5 per cento. Nella fascia di età tra i 30 e i 34 anni la quota di laureati in Italia era al 26,9 per cento, in Europa al 39,9. Dopo dieci anni di calo sono tornate ad aumentare le uscite precoci dal sistema scolastico. Il 14 per cento dei giovani tra i 18 e 24 con la licenza media si ferma o si arrende. Se mai il reddito di cittadinanza dovesse essere applicato — lasciamo per un attimo da parte i costi — avrebbe assai poche possibilità di trasformarsi, in un clima di questi tipo, con un capitale umano così impreparato e disilluso, in un motore di nuova occupazione.

Il grafico che pubblichiamo in questa pagina è, a giudizio di chi scrive, più importante di qualsiasi altro, dello spread, della crescita, del risparmio. L’Italia spende ormai, per pagare gli interessi sul proprio debito, più che per la scuola e l’università. La domanda che tutti ci dovremmo porre alla vigilia di Natale, che anche per un laico è occasione di nascita e speranza, è quale futuro abbia un Paese che finanzia di più il proprio passato del proprio futuro. Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha da poco pubblicato per Il Mulino una nuova edizione di Investire in conoscenza . Un libro prezioso. Ha ricordato nella prefazione una celebre frase, ormai di tre secoli fa, di Benjamin Franklin, scienziato, politico, editore. L’investimento nel sapere, nello studio, paga i migliori interessi. Sempre. «Esso può contribuire in modo profondo — scrive Visco — all’innalzamento del senso civico e del capitale sociale, valori in sé, indipendentemente dai loro effetti positivi sulla crescita economica, fattori importanti di coesione sociale e di benessere dei cittadini». Un recente studio della Banca d’Italia — scritto da Luigi Cannari e Giovanni D’Alessio — ha fotografato la paralisi dell’ascensore sociale. I figli seguono i percorsi di istruzione e di reddito dei padri e delle madri. Contano le condizioni di partenza. L’Italia è nel novero dei Paesi a più bassa mobilità intergenerazionale.

Senza un solido patto generazionale, il futuro del Paese è ancora più incerto se non compromesso. Che cosa si può realisticamente fare? Il discorso non riguarda solo questo governo. Ha ereditato un debito schiacciante, oscilla tra sogni e ambizioni. Per salvarsi dalla procedura d’infrazione ha tagliato ancora gli investimenti. «Il governo — ha detto in sostanza il premier Giuseppe Conte parlando degli aggiustamenti alla manovra — intende definanziare il fondo per favorire lo sviluppo, il capitale immateriale, la produttività e la competitività». Il tema del patto generazionale riguarda però l’intera classe dirigente, la borghesia produttiva, i ceti professionali. Chi sta meglio dovrebbe riflettere e fare un esame di coscienza. Parlare di tasse è sempre antipatico in un Paese in cui chi le paga ne paga troppe. Gli evasori sono una costituency molto forte. Una platea corteggiata dalla politica. Anche dai legastellati che hanno promosso diverse forme di condono. Guardiamo però per un attimo alla curiosa vicenda dell’imposta sulle successioni e donazioni, che per sua natura dovrebbe avere in sé i valori intrinseci di un patto generazionale allargato alla società nel rispetto dei legami familiari. Il governo Berlusconi la soppresse con l’articolo 13 della legge 383, in vigore dal 25 ottobre del 2001. Il successivo esecutivo Prodi la ripristinò, con larghe eccezioni in fatto di aliquote e franchigie, in base al decreto legge 262, entrato in vigore il 3 ottobre del 2006. Attualmente per le successioni in linea retta è prevista una franchigia di un milione per ciascun beneficiario. Per gli immobili la base imponibile è determinata sui valori catastali applicando determinati coefficienti. Si corrispondono ovviamente le imposte ipotecarie e catastali. Oltre le diverse franchigie, l’aliquota varia tra il 4 e l’8 per cento a seconda degli aventi diritto. L’Italia, in confronto alla legislazione degli altri maggiori Paesi europei, è di fatto un paradiso fiscale. «Meglio morire da voi», dicono all’estero. Con un milione di eredità in Germania si pagano 75 mila euro di imposte, in Francia 195mila, in Gran Bretagna 250mila Euro. Da noi ZERO

Una rimodulazione intelligente dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni potrebbe portare a convogliare il nuovo gettito (nel 2017 è stato di appena di 789 milioni) in un fondo esclusivamente dedicato alla scuola, all’università, a progetti di riqualificazione dei giovani che non studiano né lavorano. Questo fondo contro la dispersione scolastica e umana potrebbe poi essere alimentato da contributi liberali portati in detrazione nelle dichiarazioni dei redditi. Avrebbe un grande significato civico. Un gesto di solidarietà civile. Un investimento sul futuro delle prossime generazioni. Gli interessi pagati sul debito vanno a favore di chi presta capitali al Paese, un terzo stranieri. E ci auguriamo che continuino a farlo. Gli interessi sociali di un fondo di solidarietà di questo tipo sarebbero più elevati e diffusi a favore di chi ha maggior bisogno. E, soprattutto, all’istruzione pubblica, alla quale tutti dobbiamo enorme riconoscenza. Chi paga un po’ più di tasse avrebbe la certezza che non verrebbero disperse in spese inutili. Ma forse è soltanto un’utopia… che tutte le feste si porteranno via.

Ferruccio De Bortoli

 

Articolo tratto da: www.corriere.it

https://www.corriere.it/economia/18_dicembre_25/spendiamo-piu-il-debito-che-la-scuola-siamo-paradiso-fiscale-le-tasse-successione-bbb86d92-082a-11e9-9efd-ce3c5bf3dd59.shtml