Gli “ostracismi” sul reddito di cittadinanza coprono la vergogna dei bassi salari… Dicono “Chi avrà il reddito di cittadinanza guadagnerà più di chi lavora” solo e solamente per difendere il loro “diritto” di pagare con 4 soldi i lavoratori…!

 

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Gli “ostracismi” sul reddito di cittadinanza coprono la vergogna dei bassi salari… Dicono “Chi avrà il reddito di cittadinanza guadagnerà più di chi lavora” solo e solamente per difendere il loro “diritto” di pagare con 4 soldi i lavoratori…!

Il presidente dell’INPS Boeri ha voluto lanciare un velenoso messaggio al governo Conte in occasione dell’audizione al Senato per il decreto sul Reddito di Cittadinanza. “Il problema è che il RdC – ha argomentato Boeri – fissa un livello di prestazione molto elevato per un singolo” e che il “45% dei dipendenti privati nel Mezzogiorno ha redditi da lavoro netti inferiori a quelli garantiti dal RdC a un individuo che dichiari di avere un reddito pari a zero”. In sostanza Boeri sta suggerendo al governo di abbassare la soglia dei 780 euro, che è la somma che un single può arrivare a percepire se dimostra di non avere redditi e di vivere in affitto. Il problema del presidente dell’INPS è l’effetto di “scoraggiamento al lavoro” che avrebbe il RdC, soprattutto al sud.
Il primo obiettivo della provocazione di Boeri è quello di influenzare le scelte, che sembrano inevitabili, relative alla spesa complessiva sul RdC. In base ai calcoli dell’INPS infatti la platea dei beneficiari del RdC sarà di 2,4 milioni di persone (secondo l’ISTAT saranno invece 2,7) per una spesa complessiva di 8,5 miliardi, di gran lunga superiore a quella stanziata dal governo Conte sia per il 2019 (6 miliardi) sia per gli anni seguenti (7,5 per il 2020, ecc). Boeri sta quindi suggerendo al governo di abbassare il contributo alle famiglie monoparentali per restare dentro la spesa stanziata ed evitare così di danneggiare le aziende che remunerano i loro dipendenti con salari inferiori a 780 euro mensili!
La questione però è più complessa e non si limita alla sola spesa prevista dal governo per il RdC. La posta in gioco è il livello dei salari nel nostro paese.
Restiamo per un attimo ancora al tema della povertà, che è poi l’oggetto specifico del provvedimento sul RdC. Eurostat, che è l’ISTAT europea, ad ottobre aveva diffuso i dati relativi al 2017, che sono gli ultimi disponibili, dai quali emergeva come l’Italia fosse il paese europeo con il più alto numero di persone a rischio povertà o esclusione sociale, ben 17milioni e 400mila, pari al 28,9% della popolazione, in forte crescita rispetto al 2008 quando erano ancora 15milioni. Di questi, ci dice l’ISTAT, 5milioni e 58mila persone sono in condizioni di povertà assoluta, cioè con capacità di “spesa per consumi pari o inferiore a quella stimata come minima necessaria per acquisire un paniere di beni e servizi (…) considerato essenziale per uno standard di vita minimamente accettabile” (ISTAT audizione al Senato 4 febbraio 2019).
Siamo quindi il paese europeo con più poveri e con una misura appena introdotta – il RdC – che riuscirà a coprire soltanto la metà circa dei poveri assoluti (2milioni e 700mila nella migliore delle ipotesi a fronte di più dei 5milioni calcolati dall’ISTAT). Eppure la preoccupazione del presidente Boeri è lo “scoraggiamento al lavoro”.
Così Boeri, sia pure involontariamente, ha finito per toccare l’argomento tabù quando si parla di povertà, e cioè che non basta trovare un lavoro per avere di che vivere. Sempre secondo Eurostat i working poor sono in Italia l’11,7 della forza lavoro. Vuol dire che 12 lavoratori su 100 pur percependo un salario sono a rischio povertà, e che pertanto ci sono in Italia circa 2,7 milioni di lavoratori poveri. Ad essere più esposti sono ovviamente i part-time e chi ha un impiego temporaneo.
Ma la crescita del lavoro povero è solo un aspetto della più generale tendenza alla riduzione della quota salari sul PIL. In Italia si è passati dal 69,4 del lontano 1960 al 60,6 del 2016, considerando nella quota salari anche i compensi dei CEO e dei top manager superpagati anche mille volte il salario dei propri dipendenti. La distribuzione della ricchezza si è quindi spostata nel nostro paese dalla retribuzione del lavoro verso la rendita e il profitto.
È il rapporto dell’International Labour Organization, il Global Wage Report 2014/15 sui salari che mostra come questa tendenza alla perdita di terreno del lavoro rispetto al capitale abbia un carattere globale e presenti però in Italia una particolare intensità.

Il costo del lavoro (salari e contributi previdenziali versati dai datori di lavoro, integrato da una stima del reddito dei lavoratori autonomi) subisce un forte calo in tutto l’occidente con punte massime negli USA, in Giappone e in Italia, che è l’unico paese dove si registra un crollo di addirittura 9 punti percentuali.
La soluzione di comodo escogitata di fronte a tanta evidenza empirica è quella di scaricare sulla collettività (spesa pubblica) gli eventuali aumenti salariali, attraverso la riduzione della contribuzione per le imprese. Un modo per fingere di cambiare qualcosa, lasciando inalterata l’attuale iniqua distribuzione della ricchezza. È a questo infatti che allude Orioli sul Sole 24 ore del 6 febbraio, suggerendo a Cgil, Cisl, Uil e Confindustria di incamminarsi su questo crinale per stringere ulteriormente il loro Patto per la fabbrica e rispondere alle preoccupazioni di Mario Draghi sulla “debole dinamica delle buste paga italiane”.
Noi abbiamo invece un’idea completamente diversa su come affrontare il gap salariale del nostro paese. Innanzitutto introduzione di un salario minimo mensile per legge, che rispetti il dettato costituzionale – art. 36 Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa – ed impedisca la proliferazione di contratti nazionali di comodo. Stop al part time obbligatorio ed ai contratti flessibili. E sul piano dell’azione sindacale, piattaforme rivendicative in occasione dei rinnovi contrattuali, che consentano il recupero del tanto terreno perso in questi anni.
Sul fronte della povertà e quindi del reddito c’è bisogno di un forte rilancio dell’iniziativa pubblica, soprattutto in quei settori dove il mercato è meno interessato e che invece sono di grande utilità sociale e ambientale. Un solido sistema di servizi costituisce una condizione essenziale per contrastare le disuguaglianze sociali. Un Piano straordinario di assunzioni nella Pubblica Amministrazione, non solo per recuperare il forte gap con gli altri paesi, ma anche per rimettere in sesto zone e settori dell’economia quasi completamente abbandonati.
Qualcuno dirà: ma dove prende l’Italia i soldi per fare tutto questo? Da quelli che ce li hanno rubati in questi anni, risponde l’USB.

Il testo integrale dell’intervento della Usb all’audizione al Senato sul Reddito di Cittadinanza

 

tratto da: http://contropiano.org/news/news-economia/2019/02/15/gli-ostracismi-sul-reddito-di-cittadinanza-coprono-la-vergogna-dei-bassi-salari-0112466?fbclid=IwAR30vxDrzqbAoAkruuhb_P9tzP_xsWa7V47nLDUZztHbX4up7jAhlfeht04

Reddito di cittadinanza? “Raccolta di firme per abrogarlo” – da Pd a Fi e FdI, la casta si mobilita: il primo referendum della storia contro i poveri…!

 

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Reddito di cittadinanza? “Raccolta di firme per abrogarlo” – da Pd a Fi e FdI, la casta si mobilita: il primo referendum della storia contro i poveri…!

Da Il Fatto Quotidiano:

Reddito di cittadinanza? “Raccolta firme, abrogare”: da esponenti Pd a Fi e FdI, fronte per il referendum contro i poveri

Il primo ad avere l’idea, chiedendo “una grande mobilitazione civica”, è stato l’ex sottosegretario dem Sandro Gozi. E trova il consenso di Vittorio Feltri (“sceneggiata napoletana”), rilanciato a sua volta da Mara Carfagna. Giorgia Meloni, segretaria di Fratelli d’Italia, schiera il suo partito per la raccolta firme. Sostenendo, mentre vuole togliere i soldi a chi non arriva a fine mese, “che lo Stato deve aiutare chi non può”. Intanto la Boschi twitta contro “una vita in vacanza” (e lo Stato Sociale si dissocia)

Una “truffa”, tutta “fuffa mediatica e controproducente”. Una “patacca”. In una parola: da abolire il prima possibile. Le opposizioni, capitanate da esponenti del Partito democratico, hanno avuto questa idea per contrastare il reddito di cittadinanza del Movimento 5 stelle: raccogliere le firme per cancellare la legge. Poco importa se ancora non è entrata in vigore, loro sono già pronti a mobilitarsi: raccolte firme, banchetti e campagne civiche. Tutto finalizzato, di fatto, a un referendum contro i poveri. Perché il problema, per i promotori, non sono le modalità di attuazione, i paletti, i limiti. Ma proprio il reddito in sé.

Il primo ad avere l’idea è stato l’ex sottosegretario agli Affari europei del Pd Sandro Gozi: il grande europeista che rivendica di essere vicino ad Emmanuel Macron, anche ora che il presidente francese è assediato dai gilet gialli. E anzi, dalle colonne del Foglio, ha lanciato l’idea della campagna per un referendum abrogativo. “E’ l’occasione per una grande mobilitazione civica”, è la sua spiegazione. “Sono disposto a metterci subito la facciacontro questo obbrobrio”. Sul carro dei sognatori è salito subito Vittorio Feltri, che sulle pagine di Libero ha lanciato un appello ai berluscones (parole sue) perché si mobilitino contro “la sceneggiata napoletana“. Poco dopo si sono unite l’azzurra Mara Carfagna, che l’ha definita “un’idea da non sottovalutare”, e addirittura la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, teorica della destra sociale, che ha praticamente già iniziato la raccolta firme. Il Partito democratico, in ogni caso, fa il timido: c’è stata sì la spinta di Gozi, ma non tutti hanno ancora avuto il coraggio (o la lucidità) di appoggiarlo pubblicamente. Forse voleva andare in suo aiuto l’ex ministra Maria Elena Boschiquando su Twitter ha evocato direttamente il successo de lo Stato Sociale allo scorso Sanremo e ha attaccato il reddito dei grillini, dicendo che ora l’inno sarà “Una vita in vacanza”. Non l’hanno presa bene quelli della band bolognese, ma neppure molti degli elettori in rete.

Le parole di Gozi hanno sorpreso molti dentro il Partito democratico. Anche perché il primo embrione dell’annunciato reddito di cittadinanza l’avevano studiata loro quando erano al governo. Il famoso Rei, reddito di inclusione, era più o meno questo: un tentativo di riprendere il terreno perso a sinistra rilanciando con una misura simile e che, al tempo, sognava di essere innovativa. Forse l’ex sottosegretario nemmeno era d’accordo ai tempi, sta di fatto che ora ha deciso di guidare la battaglia per cancellare la riforma M5s. “Anche se la legge ancora non c’è, è giunto il momento di dar vita al comitato promotoreper un referendum che abroghi il reddito di cittadinanza, e io sono disposto a metterci subito la faccia”, ha detto Gozi nei giorni scorsi, facendo seguito al suo intervento su il Foglio. “La battaglia per cancellare immediatamente questo reddito di cittadinanza”, è la motivazione del democratico, “coincide con quella di chi afferma che bisogna andare avanti, investire nelle infrastrutture, credere nelle proprie capacità sia a livello personale sia come popolo. Insomma, è la battaglia di chi crede che il lavoro si crei con lo sviluppo, e non con i sussidi”. Anzi, per Gozi, l’idea migliore sarebbe quella di partire “dalla piazza di Torino, dove si manifesta per il sì alla Tav”. Perché le due campagne, sempre secondo Gozi, sarebbero strettamente collegate. Quindi ha chiuso la sua argomentazione con una precisazione: “Questo referendum non sarà per opporsi a chi sostiene che serva una misura di sostegno al reddito, d’inclusione sociale e di accompagnamento al lavoro. No: si tratta di un referendum fatto contro questo reddito di cittadinanza, questo obbrobrio partorito dal governo grilloleghista. Un referendum non contro il principio sacrosanto di aiutare gli ultimi, di accompagnare le persone nella ricerca di un lavoro dignitoso, ma un referendum contro una misura pensata male e scritta peggio, una mancia indegna che non garantisce lavoro e che anzi incentiva il nero”.

Lo Stato Sociale

@lostatosociale

Noi, cara @meb, preferiamo la piena automazione o un reddito di cittadinanza vero, non l’ennesimo sussidio di disoccupazione.
Venite a cena con noi invece che con i leghisti per parlare di cose realmente di sinistra.

maria elena boschi

@meb

Dice Di Maio che col reddito di cittadinanza da oggi cambia lo Stato Sociale. La colonna sonora infatti diventa “Una vita in vacanza”

I colleghi del Pd intanto non sono rimasti a guardare. Se è pur vero che nessuno ha ancora avuto il coraggio di unirsi nella campagna per la raccolta firme per fare il referendum contro i poveri, la maggior parte ha comunque scelto di condannare la riforma come “una truffa su tutta la linea”. “E’ una patacca, infarcita di paletti per ridurre la platea degli utilizzatori, che sarà pagata a caro prezzo da tutti con aumento delle tasse e dell’Iva”, ha detto il senatore Andrea Marcucci su Twitter al grido di “Paga il popolo”. Ma l’azzardo più grosso di tutti l’ha fatto Meb, come si fa chiamare su Twitter Maria Elena Boschi: “Dice Di Maio”, ha scritto subito dopo la conferenza stampa dei due vicepremier, “che col reddito di cittadinanza da oggi cambia lo Stato Sociale. La colonna sonora infatti diventa ‘Una vita in vacanza’”. La citazione è più o meno chiara a tutti: tira in ballo la band bolognese Lo Stato Sociale e uno dei loro più grandi successi. Tanto che il gruppo ha scelto di replicarle, sempre in rete: “Noi preferiamo la piena automazione o un reddito di cittadinanza vero, non l’ennesimo sussidio di disoccupazione. Venite a cena con noi invece che con i leghisti per parlare di cose realmente di sinistra”. Un attacco, ma pur sempre basato sulla cronaca. Perché Meb è stata davvero a cena con Salvini and company per parlare di giustizia.

Eppure a cercare di lanciare un segnale al Pd, ci hanno provato l’ex ministro Cesare Damiano e Maria Luisa Gnecchi del Centro Studi Previdenza di Lavoro e Welfare: “A Quota 100 e al Reddito di cittadinanza non dobbiamo opporci: si tratta di due misure inventate dal Pd per difendere i più deboli. La prima, introdotta nel 2007 dal Governo Prodi; la seconda, da Renzi. La domanda che dovremmo porci è come mai le nostre bandiere sono scivolate nelle mani dei gialloverdi”, hanno dichiarato. Ma a queste frasi, nessuno dei democratici ha preferito replicare.

Dal fronte berlusconiano prendono tempo. Hanno ascoltato l’appello di Feltri, ma sanno che l’iniziativa, cioè fare campagna per un referendum contro i poveri, potrebbe avere qualche effetto negativo. “Un bel referendum sul tema in questione garantirebbe un successo clamoroso a Forza Italia tale da rinvigorirla, rendendola di nuovo protagonista della vita pubblica nazionale”, ha scritto Feltri. Mara Carfagna, già vicepresidente della Camera che studia da leader, ha detto che ci sta, ma ha preferito starsene dietro le quinte per vedere chi va avanti per primo. “È sacrosanto il principio secondo cui lo Stato ha il dovere di combattere la povertà, aiutare i più deboli e sostenere chi ha perso il posto di lavoro”, ha detto per mettere le mani avanti. “Ma è devastante che un governo metta in campo misure come il reddito di cittadinanza che favoriscono evidentemente il lavoro nero, derubando non soltanto chi paga le tasse, ma colpendo anche i lavoratori onesti con l’inevitabile alterazione del mercato del lavoro e dei salari. Per non parlare della vergogna dei disabili che saranno discriminati rispetto agli altri: solo una parte potrà accedere alla stessa cifra destinata a chi non lavora. Per queste ragioni nessuno dovrebbe sottovalutare l’idea di una raccolta di firme e di un referendum contro questo reddito di cittadinanza”.

Non ha dubbi invece Fratelli d’Italia. A Giorgia Meloni non è sembrato vero e ha già lanciato la sua personale campagna di banchetti e piazze. “Fdi è pronta a costituire i comitati per la raccolta delle firme”, ha detto in una lettera a Libero. “Per Fratelli d’Italia lo Stato ha il dovere morale di aiutare chi non può, per ragioni oggettive, lavorare: i bambini (la nostra proposta storica si chiama reddito d’infanzia), gli invalidi (raddoppiando l’assegno di invalidità) e gli anziani (alzando le pensioni minime e anticipando la pensione sociale agli over 60 privi di reddito). Per tutti gli altri, invece, il compito dello Stato è favorire il lavoro, creando i presupposti per la crescita e mettendo chi può assumere in condizione di farlo”. E ha quindi chiuso: “Perché la povertà si sconfigge solo creando ricchezza”. Intanto, mentre si creano le condizioni per aiutare i poveri, la proposta è di abrogare il reddito di cittadinanza e toglierlo ai poveri.
fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/01/18/reddito-di-cittadinanza-raccolta-firme-abrogare-da-esponenti-pd-a-fi-e-fdi-fronte-per-referendum-contro-i-poveri/4906878/

Rutger Bregman: “La povertà non è una mancanza di carattere, è una mancanza di denaro”

 

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La povertà non è una mancanza di carattere, è una mancanza di denaro

di Rutger Bregman – Vorrei iniziare con una domanda semplice: perché i ceti svantaggiati prendono spesso decisioni svantaggiose? Lo so, è difficile rispondere: ma diamo un’occhiata ai dati. I poveri fanno più debiti, risparmiano meno, fumano di più, bevono di più, fanno meno esercizio e mangiano peggio. Perché?

La spiegazione tradizionale la diede una volta il premier inglese Margaret Thatcher. Che definì la povertà “un difetto della personalità.” Una mancanza di carattere, in sostanza.

So che molti di voi non sarebbero così brutali. Ma che ci sia qualcosa di sbagliato nei poveri non lo pensava solo la signora Thatcher. Forse qualcuno di voi crede che i poveri debbano rispondere dei propri errori. E altri potrebbero proporre di aiutarli a prendere decisioni migliori. Ma l’assunto di fondo è lo stesso: c’è qualcosa di sbagliato in loro. Se solo potessimo cambiarli; se solo potessimo insegnare loro come si vive; se solo ci ascoltassero. E a dirla tutta, questa è stata a lungo anche la mia, di opinione. Poi, appena qualche anno fa, ho scoperto che tutto ciò che pensavo di sapere sulla povertà era sbagliato.

Tutto iniziò quando mi imbattei, per caso, nello studio di un gruppo di psicologi americani. Avevano viaggiato per 13.000 chilometri, fino in India, per uno studio affascinante. Il soggetto erano i coltivatori di canna da zucchero. Dovete sapere che questi contadini ricevono il 60 percento circa del loro reddito annuale in un unico trasferimento, appena dopo il raccolto. Sono pertanto relativamente poveri per una parte dell’anno, e ricchi l’altra. I ricercatori li sottoposero a due test del QI, prima e dopo il raccolto. Il confronto dei risultati mi lasciò senza parole. Nel test prima del raccolto, il punteggio era molto inferiore. Pare che gli effetti della povertà corrispondano a una perdita di 14 punti di QI. Per darvi un’idea, l’effetto è paragonabile a una notte insonne, o all’alcoolismo.

Qualche mese dopo, seppi che Eldar Shafir, professore della Princeton University e co-autore di questo studio, stava arrivando in Olanda, dove vivo. Ci incontrammo ad Amsterdam per parlare della sua nuova, rivoluzionaria teoria della povertà. Posso riassumerla in due parole: mentalità della scarsità. Pare che il comportamento delle persone cambi, quando percepiscono una cosa come scarsa. E non importa molto cosa sia quella cosa – può essere tempo, denaro o cibo.

Conosciamo tutti quella sensazione: abbiamo troppo da fare, o abbiamo saltato il pranzo per lavoro e c’è un calo di zuccheri nel sangue. L’orizzonte mentale si restringe alla carenza immediata – al panino che abbiamo bisogno di mangiare ora, alla riunione che inizierà fra 5 minuti o alle bollette da pagare entro domani. E la capacità di pensare a lungo termine va a farsi benedire. Per fare un paragone, pensate a un nuovo computer che esegue 10 programmi pesanti tutti allo stesso tempo. Prima rallenta, e fa errori su errori. E alla fine si inchioda – non perché sia fatto male come computer, ma perché deve eseguire troppe operazioni alla volta. I poveri hanno lo stesso problema. Non prendono decisioni stupide perché sono stupidi, ma perché vivono in un contesto in cui tutti farebbero scelte stupide.

E all’improvviso mi è diventato chiaro perché molti dei nostri programmi di contrasto alla povertà non funzionano. Investire in formazione, ad esempio, si rivela spesso un buco nell’acqua. La povertà non è una mancanza di istruzione. Una recente analisi di 201 studi sui corsi di gestione delle finanze è giunta alla conclusione che non hanno quasi alcun effetto. Non fraintendetemi – non sto dicendo che i poveri abbiano la testa dura: certamente imparano qualcosa di utile. Ma non è abbastanza. Nelle parole del Professor Shafir, “È come insegnare a qualcuno a nuotare, e poi lanciarlo in un mare in tempesta.”

Avremmo potuto arrivarci decenni prima. Questi psicologi non hanno fatto complicate scansioni cerebrali; hanno solo misurato il QI dei coltivatori, e quei test sono stati inventati più di 100 anni fa. Ricordai anche di essermi già imbattuto nella psicologia della povertà. George Orwell, uno dei maggiori scrittori mai vissuti, negli anni ’20 sperimentò la povertà di persona. “L’essenza della povertà,” scrisse all’epoca, è che “cancella il futuro.” E si meravigliava di come, e qui cito, “La gente dia per acquisito il diritto di farti la predica e pregare per te, appena il tuo reddito scende sotto un certo livello.”

Queste parole conservano tutta la loro forza ancora oggi. La questione, ovviamente, è: cosa si può fare? Gli economisti moderni hanno qualche asso nella manica. Potremmo aiutarli a compilare i documenti, o mandare una notifica via sms quando è ora di pagare le bollette. Questo tipo di soluzione è molto popolare tra i politici moderni, soprattutto perché… beh, non costa quasi nulla. Soluzioni come queste, a mio avviso, sono un simbolo di quest’epoca in cui si trattano i sintomi di un male, ignorandone la causa sottostante.

Perciò mi chiesi: perché non cambiamo il contesto in cui vivono i poveri? Oppure, tornando all’analogia del computer: perché continuiamo a ritoccare il software quando potremmo risolvere il problema installando un po’ più di memoria? Lo sguardo del Professor Shafir si fece assente, e dopo qualche secondo disse: “Oh, ho capito. Intendi dare più denaro ai poveri per sradicare la povertà. Certo, sarebbe grandioso. Ma temo che quella marca di sinistra che avete ad Amsterdam non ci sia negli Stati Uniti.”

Ma è davvero una vecchia idea di sinistra? Mi tornò alla mente un’antica proposta, avanzata da alcuni dei più importanti pensatori della Storia. Il filosofo Tommaso Moro fu il primo ad accennarne nel suo libro, “Utopia”, più di 500 anni fa. E ha sostenitori in tutto l’arco politico, da destra a sinistra, dal difensore per i diritti civili, Martin Luther King, all’economista Milton Friedman. Ed è un’idea incredibilmente semplice: il reddito di base garantito.

Che cos’è? È molto semplice. Si tratta di un reddito mensile per coprire i bisogni di base: cibo, riparo, istruzione. È completamente incondizionato, quindi nessuno ti dirà cosa devi fare per averlo, né come devi spenderlo. Il reddito di base non è un favore, ma un diritto. Non comporta alcuno stigma sociale. Così, quando capii la reale natura della povertà, iniziai a chiedermi senza sosta: è questa l’idea che tutti aspettavamo? Potrebbe essere davvero così semplice? E nei tre anni successivi, lessi tutto ciò che potevo sul reddito di base. Navigai tra le dozzine di esperimenti condotti in tutto il mondo, e in breve mi imbattei nella storia di una città che ci era riuscita – aveva sradicato la povertà. Ma poi… quasi tutti se ne dimenticarono.

La città senza povertà

Questa storia inizia a Dauphin, in Canada. Nel 1974, in quella piccola città fu garantito a tutti un reddito di base, affinché nessuno cadesse al di sotto della soglia di povertà. All’inizio dell’esperimento, un esercito di ricercatori scese in città. Per quattro anni, tutto andò bene. Poi però un nuovo Governo salì al potere, e non vide molte ragioni di condurre un esperimento così costoso. E quando fu chiaro che mancavano i fondi per analizzare i risultati, i ricercatori decisero di chiudere i fascicoli in 2.000 scatole. Passarono 25 anni, e un giorno Evelyn Forget, una professoressa canadese, trovò quei risultati. Per tre anni sottopose i dati a ogni tipo di analisi statistica. E comunque li manipolasse, il risultato era sempre lo stesso: l’esperimento era stato un clamoroso successo.

Evelyn Forget scoprì che gli abitanti di Dauphin erano diventati non solo più ricchi, ma anche più sani e intelligenti. Il rendimento scolastico dei ragazzi migliorò sensibilmente. Il tasso di ospedalizzazione diminuì addirittura dell’8,5%. Diminuirono le violenze domestiche e anche le denunce di disagio mentale. E la gente non abbandonò il posto di lavoro. Gli unici che lavorarono un po’ meno furono le neo-mamme e gli studenti, che studiavano più a lungo. E risultati analoghi sono emersi, da allora, in moltissimi altri esperimenti in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’India.

Quindi … ecco cosa ho imparato: quando si parla di povertà, noi, i ricchi, non dovremmo pretendere di saperla più lunga. Dovremmo smetterla di mandare scarpe e giocattoli a poveri che non abbiamo mai visto. E dovremmo sbarazzarci della pletora di burocrati paternalisti, destinando i loro stipendi a quei poveri che dovrebbero aiutare.

Perché il bello del denaro è che possiamo usarlo per acquistare ciò che ci serve, e non ciò che presunti “esperti” ritengono che ci serva. Pensate a quanti brillanti scienziati, imprenditori e scrittori come George Orwell, stanno oggi appassendo nel bisogno. Pensate a quante energie e talenti potremmo liberare se ci sbarazzassimo della povertà una volta per tutte. Penso che un reddito di base agirebbe da capitale di rischio per le persone. E non possiamo permetterci di non farlo, perché la povertà è estremamente costosa. Guardate quanto costa, ad esempio, la povertà infantile negli Stati Uniti. È un costo stimato di 500 miliardi di dollari all’anno, in termini di maggiori costi sanitari, abbandoni scolastici e criminalità. È un incredibile spreco di potenziale umano.

Ma parliamo del problema principale: come finanziamo un reddito di base garantito? In realtà costa molto meno di quanto pensiate. A Dauphin è stato finanziato con un’imposta sul reddito negativa. Perciò ricevete un’integrazione appena scendete sotto la soglia di povertà. E in questo scenario, stando alle migliori stime degli economisti, per un costo netto di 175 miliardi – un quarto del budget militare, o l’1% del PIL, degli Stati Uniti – potreste sollevare gli americani indigenti dalla soglia di povertà. Potreste sradicare la povertà. E dovrebbe essere quello, l’obiettivo.

Il tempo del pensiero debole e delle spinte gentili è finito. Credo davvero che sia giunto il momento di idee nuove e radicali, e il reddito di base è molto di più dell’ennesima politica sociale. È anche un completo ripensamento del concetto di lavoro. E in questo senso, libererà non solo i poveri, ma anche il resto di noi.

Oggi, milioni di persone sentono che il loro lavoro ha poco senso. Una recente inchiesta tra 230.000 impiegati in 142 nazioni ha scoperto che solo il 13 percento degli impiegati ama il proprio lavoro. Un altro sondaggio ha scoperto che il 37 percento dei lavoratori inglesi svolge un lavoro che loro per primi pensano non dovrebbe esistere. Nelle parole di Brad Pitt in “Fight Club”, “Troppo spesso facciamo lavori che odiamo per comprare cazzate che non ci servono.”

Ora, non fraintendetemi – non sto parlando di insegnanti, netturbini e addetti alla cura alla persona. Se loro smettessero di lavorare, allora sì che saremmo nei guai. Parlo di tutti quei professionisti strapagati, con curriculum stellari, che si guadagnano lo stipendio con… riunioni tra pari di transazioni strategiche con focus sulla co-creazione dirompente nella società della rete.

O qualcosa del genere. Pensate solo a quanto talento stiamo sprecando, solo perché diciamo ai nostri ragazzi che dovranno “guadagnarsi da vivere”. O a un brillante matematico di facebook, che qualche anno fa lamentava: “Le migliori menti della mia generazione cercano di convincere la gente a cliccare sulla pubblicità.”

Sono uno storico. E se la Storia ci insegna qualcosa, è che le cose possono cambiare. Non c’è niente di inevitabile nell’attuale struttura della società e dell’economia. Le idee possono cambiare il mondo, e lo cambiano. E soprattutto negli ultimi anni, è diventato più che chiaro che lo status quo è insostenibile: servono nuove idee.

So che molti di voi sono assaliti dal pessimismo, davanti a un futuro di diseguaglianze, xenofobia e cambiamenti climatici. Ma non basta sapere a cosa opporsi: serve anche una causa da sostenere. Martin Luther King non disse, “Io ho un incubo”. Aveva un sogno, lui.

Ecco quindi il mio, di sogno: io credo in un futuro in cui il valore del vostro lavoro non si misuri dalla busta paga, ma da quanta felicità diffondete e da quanto “significato” apportate. Credo in un futuro in cui l’educazione non serva a prepararvi all’ennesimo lavoro inutile, ma a vivere bene la vita. Credo in un futuro in cui una vita senza povertà non sia un privilegio, ma un diritto di tutti. È questo il punto. Abbiamo la ricerca, le prove e le risorse.

Oggi, oltre 500 anni dopo che Tommaso Moro iniziò a scrivere sul reddito di base, e 100 anni dopo che George Orwell ha scoperto la vera natura della povertà, è tempo di aggiornare la nostra visione del mondo, perché la povertà non è una mancanza di carattere. La povertà è una mancanza di denaro.

L’AUTORE


Rutger Bregman è uno dei giovani pensatori più importanti d’Europa. Olandese, 28 anni, storico e autore di successo, ha pubblicato quattro libri su storia, filosofia ed economia. Il suo libro “Utopia per realisti”, sul reddito di base universale e altre idee radicali, è stato tradotto in più di 20 lingue. Il suo lavoro è stato descritto su The Washington Post, The Guardian e nella BBC.

 

tratto da: http://www.beppegrillo.it/la-poverta-non-e-una-mancanza-di-carattere-e-una-mancanza-di-denaro/?fbclid=IwAR0oJp6kzVHwGU0uWp2XiFYnO4B9FhGvSGzpkQjqZmTC23Fx1czVctM_WnU

Perché siamo diventati POVERI – Analisi e spiegazione Economica in 6 passi – Tutta la verità su come stanno distruggendo la Tua vita e quella dei Tuoi figli…!

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Perché siamo diventati POVERI – Analisi e spiegazione Economica in 6 passi – Tutta la verità su come stanno distruggendo la Tua vita e quella dei Tuoi figli…!

 

Perché siamo diventati POVERI – Analisi e spiegazione Economica in 6 passi

 

Passo 1: Cambio del modello economico.

Partiamo da una lettura rovesciata della storia economica: e se non ci fosse stata nessuna crisi nel 2007?

E infatti, non c’è stata nessuna crisi. C’è stato un cambiamento pianificato e deliberato di sistema economico. A livello europeo, l’adesione al modello unico di pensiero economico neo liberista ha portato all’ingresso nell’Euro.

Taluni sostengono sia stata la nostra salvezza; noi riteniamo sia stata la nostra sciagura.

Senza molti discorsi, è sufficiente guardare la produzione industriale, vero motore della ricchezza di un Paese. Si guardi il grafico, di produzione del Centro Studi WIN the BANK.

Osservate la direzione del rapporto tra produzione italiana e tedesca dal 1970 ai giorni nostri; in verde è il trend quando operiamo in un sistema di cambi flessibili, in rosso quando entriamo prima nel sistema monetario europeo e poi definitivamente nell’Euro, cioè in un sistema a cambi fissi.

 

Passo 2: Crollo di risparmi e investimenti

I posti di lavoro sono creati direttamente – lo si dimentica sempre – solo dagli imprenditori. Tutte le altre misura di politica economica (compresi i posti di lavoro creati dallo Stato) dipendono indirettamente da questo. Quando, come conseguenza di cambiamenti pianificati di modello economico, si genera una “crisi”, questa è una conseguenza e non una causa.

Sul telegiornale ogni giorno, da anni, parlano di indicatori stupidi basati sui sondaggi, come la fiducia dei risparmiatori, la propensione alla spesa e via discorrendo, con tanto di filmati di rito sui negozi del centro.

Scempiaggini: ciò che conta sono il tasso di risparmio e di investimento.

La povertà – con politiche del governo di austerità, cioè pro cicliche – innesca un circolo vizioso di altra povertà.

Andamento e rapporto tra Risparmio ed Investimento

 

 

Passo 3: Differenziale di fatica

Questo mette in moto ciò che definisco un “differenziale di fatica”. Quando Paesi adatti a modelli economici differenti vengono costretti da una visione scorretta a competere nello stesso modello con la scusa della “globalizzazione”, gli effetti sono che alcuni lavorano molto più degli altri, per potersi permettere molto di meno.

Semplicemente, il loro motore non è adatto a quel combustibile e la resa è molto più bassa.

In altri termini, è una concorrenza sleale a livello non di impresa ma di Stato.Sarebbe come far correre alcuni liberi e altri dentro a un sacco. Come se non bastasse, nella retorica neo liberista che occupa tutti i principali organi di informazione si parla da anni di menzogne come la “spesa pubblica improduttiva” o la “mancanza di produttività degli italiani” o ancora la “scarsa propensione al lavoro dei popoli del sud”.

In realtà, vi stanno deridendo, perché le cose non stanno affatto così, come dimostra questo grafico elaborato dal Centro Studi WIN the BANK.

 

Passo 4: Divaricazione tra produzione e salario

Tutto questo fa parte di un disegno mondiale, molto più ampio.
Per comprenderlo, occorre ampliare lo sguardo e guardare cosa sia successo dalla fine del XIX secolo ai giorni nostri. Nel grafico, si nota l’effetto di quella che noi chiamiamodivaricazione tra produzione e salario dei lavoratori dipendenti.

Ore medie lavorate dai principali Stati Europei in base al reddito.

 

Passo 5: Distribuzione di ricchezza e povertà

Ora, torniamo ad accorciare lo sguardo solo a ciò che succede da quando le due curve del grafico precedente iniziano a divergere, cioè dagli inizi degli anni ’50 del XX Secolo.

Ecco quale è il disegno del pensiero unico internazionale; fare divergere la retta rossa e quella blu, cioè il tasso di crescita di ricchezza dei ricchi e dei poveri.

Riprendiamo la domanda della slide: è un trend equo e sostenibile?

Per rispondere, si tratta di capire dove ci sta portando questo trend.

Il grafico rappresenta la distribuzione di ricchezza e povertà dal 1949 ad oggi

 

Passo 6: Concentrazione della ricchezza

Nei decenni che vanno dalla fine della seconda guerra mondiale fino ai primi anni ’80, gli italiani erano un popolo sostanzialmente benestante, con un sistema di welfare crescente e con tassi di ricchezza crescenti, dimostrati dall’aumento dei tassi del risparmio delle famiglie, documentati in altri nostri articoli.

Lentamente, negli scorsi decenni, le politiche delle privatizzazioni, della globalizzazione, della perdita della sovranità monetaria e dell’introduzione di politiche di austerità sono stati i quattro cavalieri dell’Apocalisse economica del nostro Paese.

Ma il disegno è mondiale e il nostro piccolo Stato non è in grado di contrastarlo, soprattutto perché alcuni nostri governanti hanno venduto la propria anima alla carriera internazionale, facendo compiere negli scorsi decenni scelte anti democratiche (poiché non condivise né votate dalla gente), come spiegato in altri articoli.

Ma qual è il disegno mondiale del pensiero unico in Economia?

E’ concentrare la ricchezza nelle mani di pochi; per la precisione, ricchi e ricchissimi.

Questo disegno è volto a far ridurre la classe media e sostituirla con una classe crescente di poveri.

Perché?

Perché i poveri sono deboli e accetteranno l’elemosina, rappresentata da varie forme di sussidio di Stato, diversamente denominate nei decenni; negli anni ’80 era il voto di scambio, domani sarà il reddito di cittadinanza (entrambe versioni diverse del panem et circenses di latina memoria).

In questo modo, i poveri accetteranno nuove forme elemosina dei ricchi, consentendo loro di attuare tutte le manovre di politica economica, poiché il solo uomo che può essere libero è l’uomo che si sostenta da solo con il proprio lavoro, ben retribuito e stabile.

Solo chi ha un lavoro adeguatamente retribuito è libero.

 

Conclusione

Non siamo diventati poveri perché siamo più stupidi dei nostri genitori, perché lavoriamo meno, siamo più spendaccioni o meno orientati allo studio, al risparmio e alla fatica.

Queste sono le retoriche di sistema, che attraverso il controllo dei principali organi di informazione tende ad attuare un meccanismo di condizionamento collettivo: il senso di colpa. Se ti senti in colpa, ti faranno accettare le politiche di “rigore” che aumenteranno il divario tra la ricchezza di ricchi e poveri. Il vecchio “divide et impera” dei latini viene usato ancora oggi; si creano messaggi di scontro generazionale, conditi con altri messaggi di contrapposizione generazionale.

Si convincono gli anziani che si devono pagar le medicine perché ormai sono un lusso e i giovani ad avere un lavoro precario, per colpa degli sprechi delle pensioni dei genitori. Si racconta ai ragazzi che oggi non hanno un lavoro per gli sperperi dei padri che hanno avuto cose che “non potevano permettersi”.

Si parla continuamente di sprechi, di tagli e di austerità; recentemente l’Unione Europea arriva addirittura a parlare di contenimento degli anni di didattica nelle scuole superiori con l’incredibile motivazione del taglio della spesa e del risparmio. Come se investire sulla cultura delle future generazioni sia un costo e non una ricchezza da coltivare.

Tanti ci chiedono cosa si possa fare

A livello generale, l’unica risposta democratica può essere quella dell’esercizio del diritto di voto e protesta, ed esula dagli scopi di questo blog, che non tratta di politica. Noi vi abbiamo fornito una diversa chiave di lettura della storia economica; a voi credere alla nostra o a quella ufficiale, e trarre vostre libere conclusioni.

A livello personale, noi non possiamo dar risposte concrete a tutti ma solo a una nicchia di persone composte da liberi professionisti e imprenditori. La nostra riposta operativa e concreta, per il ristretto ambito della nostra competenza, sta nella volontà individuale di uscire dal disegno della povertà. Siamo convinti che, una volta compreso che sia del tutto inutile piangersi addosso, pubblicare aforismi su Facebook e attendere l’aiuto dello Stato o l’ ”uscita dalla crisi” (perché non è una crisi ma un cambiamento deliberato e pianificato di sistema economico), un libero professionista e un imprenditore abbiano in mano le sorti della propria vita.

Le soluzioni – tuttavia – si cercano una volta acquisita la consapevolezza.

 

L’unica vera barriera è quella mentale, data dallo scetticismo, la sfiducia, il sospetto, la diffidenza e la paura.

Fonte malvezzieuropei

 

Istat, oltre 5 milioni di italiani vivono in povertà assoluta: è il dato peggiore dal 2005 …Forse, caro Salvini, c’è qualcosa di più importante da fare che censire Rom e cacciare ambulanti dalle spiagge…

 

 

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Istat, oltre 5 milioni di italiani vivono in povertà assoluta: è il dato peggiore dal 2005 …Forse, caro Salvini, c’è qualcosa di più importante da fare che censire Rom e cacciare ambulanti dalle spiagge…

 

Istat, oltre 5 milioni di italiani vivono in povertà assoluta: è il dato peggiore dal 2005

I dati Istat certificano un aumento delle persone e delle famiglie che vivono in condizioni di povertà assoluta: nel 2017 sono quasi 2 milioni le famiglie e oltre 5 milioni gli individui in difficoltà economiche, è il dato più alto dal 2005. A influire sui valori ci sono vari fattori: età, area geografica, istruzione e occupazione.

Più di cinque milioni di italiani vivono in una condizione di povertà assoluta: è il peggior dato riguardante l’Italia da quando sono iniziate le rilevazioni su questi criteri nel 2005. Il rapporto dell’Istat si basa su due stime che misurano la povertà: quella assoluta e quella relativa. Per povertà assoluta si intende l’incidenza che viene calcolata sulla base di una soglia: la soglia corrisponde alla spesa mensile minima necessaria per acquisire beni e servizi considerati essenziali per una vita minimamente accettabile. Tutte le famiglie che si trovano al di sotto di questo limite – che varia in base alle caratteristiche delle famiglie ma anche alla posizione geografica – sono considerate in condizioni di povertà assoluta. La povertà relativa, invece, si calcola sulla base dei consumi: è considerata povera una famiglia di due componenti che ha una spesa per consumi inferiore alla spesa media per consumi pro-capite.

Più di 5 milioni di italiani in povertà assoluta
Nel 2017 si trovano in condizioni di povertà assoluta 1 milione e 778mila famiglie che comprendono, in totale, 5 milioni e 58mila persone. Ad allarmare è il fatto che la povertà assoluta cresce rispetto al 2016 sia in termini di famiglie che di individui. L’incidenza arriva al 6,9% per le famiglie, contro il 6,3% del 2016, e all’8,4% per gli individui (l’anno prima era il 7,9%). In parte (per lo 0,2%) questo dato si registra anche a causa dell’inflazione che è stata registrata nel 2017. Si tratta dei valori più alti della seria storica Istat che è iniziata nel 2005.

La distribuzione geografica
L’incidenza della povertà assoluta aumenta soprattutto al Sud, sia per quanto riguarda le famiglie (dove cresce di due punti percentuali e arriva al 10,3%) sia per gli individui (arrivando all’11,4%). I dati più critici si registrano soprattutto nei comuni delle aree metropolitane, con numeri quasi raddoppiati in un anno. Ma anche in molti comuni sotto i 50mila abitanti il dato è in aumento. La povertà assoluta aumenta anche nelle aree metropolitane del Nord.

Età e lavoro
L’incidenza diminuisce con l’aumentare dell’età. Non a caso i valori minimi si registrano per gli over 64, mentre quelli massimi per gli under 35. Si registra un tasso di povertà assoluta più alta tra i non occupati e ovviamente minore tra lavoratori sia dipendenti che indipendenti. I valori sono più alti per famiglie che hanno come persona di riferimento un operaio, con valori più che doppi rispetto ai pensionati. Incide anche il tasso di istruzione: la povertà è più elevata per le famiglie con persona di riferimento che ha la licenza elementare, mentre è molto più bassa per chi ha almeno il diploma.

Cresce anche la povertà relativa
Anche i dati riguardanti la povertà relativa sono in crescita rispetto al 2016: nel 2017 il fenomeno riguarda 3 milioni e 171 famiglie (12,3% contro il 10,6% dell’anno precedente), per un totale di 9 milioni e 368 persone. Si tratta di un dato che colpisce soprattutto le famiglie con quattro, cinque o più componenti e formate da persone più giovani, con un picco per gli under 35. Più alto il tasso per operai e persone in cerca di occupazione, con un peggioramento rispetto al 2016. Molte difficoltà anche per le famiglie di soli stranieri: l’incidenza è del 34,5% e si registra un forte dislivello tra le varie zone del territorio italiano, con al Sud un tasso che si avvicina al 60%.

Salvini: ‘Priorità agli italiani’
A commentare i dati resi noti dall’Istat è stato il ministro dell’Interno Matteo Salvini: “I dati usciti oggi sugli oltre 5 milioni di persone che vivono in povertà assoluta – afferma il titolare del Viminale – mi confermano nella giustezza dell’obiettivo che ci siamo dati con tutto il governo, ovvero mettere al centro gli italiani e dare priorità assoluta alle loro necessità”. Intanto il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio ribadisce l’importanza di realizzare al più presto il reddito di cittadinanza, definito come la “priorità più grande”. Dal Pd, invece, il capogruppo alla Camera Graziano Delrio chiede che proprio il tema della povertà sia “il cuore della prossima manovra di bilancio” con l’obiettivo di completare e rafforzare il reddito di inclusione, una proposta lanciata negli scorsi giorni dal Partito Democratico.

fonte: https://www.fanpage.it/istat-oltre-5-milioni-di-italiani-vivono-in-poverta-assoluta-e-il-dato-peggiore-dal-2005/

Sanità, aggiornamento – Sono 13 milioni gli italiani che non hanno i soldi per curarsi… Ma non Vi preoccupate, avranno pure tagliato la Sanità, ma hanno aumentato le spese militari… Insomma, crepate pure, ma tranquilli: se dobbiamo bombardare qualche le armi ce le abbiamo.

Sanità

 

 

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Sanità, aggiornamento – Sono 13 milioni gli italiani che non hanno i soldi per curarsi… Ma non Vi preoccupate, avranno pure tagliato la Sanità, ma hanno aumentato le spese militari… Insomma, crepate pure, ma tranquilli: se dobbiamo bombardare qualche le armi ce le abbiamo.

Fino a ieri il dato era di 11 milioni di Italiani che non avevano i soldi per curarsi. Siamo saliti a 13 milioni. Ricordiamo che un anno fa erano 10 milioni e prima del miracoloso governo Renzi-Gentiloni erano 7 milioni…

Niente da dire, un grande successo… Soprattutto se si considera i tagli voluti da Renzi e Lorenzin…

Ma non Vi preoccupate. Per obbedire ai padroni, abbiamo sì tagliato la Sanità, ma abbiamo aumetato gli stanziamenti per le spese militari che ora superano i 21 mliardi!

Insomma, crepate pure, ma tranquilli: se dobbiamo bombardare qualche le armi ce le abbiamo.

Sanità, 13 milioni di italiani non hanno i soldi per curarsi

Una larga fetta della popolazione ha difficoltà a far fronte alle spese sanitarie. E c’è chi è costretto a prosciugare i risparmi per pagare prestazioni e farmaci.

Mentre il PD, media compiacenti e intellettuali di sinistra s’interrogano ancora sulla disfatta elettorale, loro che decantavano un’immaginifica Italia in ripresa, 13 milioni di italiani hanno difficoltà a comprare le medicine per curarsi. E quasi 8 milioni (7,8) hanno prosciugato tutti i risparmi per far fronte alle spese sanitarie rispetto a 2 milioni di persone che aumentano la categoria della nuova povertà.

Dati più che eloquenti della situazione di disagio e sofferenza nella quale è immerso il nostro Paese. In un contesto nel quale sono sempre di più gli italiani che pagano cure di tasca propria: circa 35 milioni di euro per una spesa di 35 miliardi di euro, di questi solo 5 miliardi sono stati intermediati da forme sanitarie integrative (12 milioni italiani (il 19%) fanno ricorso alla ‘spesa intermediata’ di cui il 55% sono dipendenti e il 14% autonomi) e tale settore gestisce circa 5 milioni della spesa (2%). Del rapporto futuro tra servizio sanitario pubblico e privato e il suo impatto sulla società si è parlato al centro della School di Padova 2018, evento organizzato da Motore Sanità.

fonte: http://www.ilpopulista.it/news/14-Aprile-2018/25293/sanita-13-milioni-di-italiani-non-hanno-i-soldi-per-curarsi.html

Leggi anche:

Altra notizia che i TG hanno dimenticato di dare: la Pinotti annuncia euforica: “L’Italia avrà altri due sommergibili per un investimento di un miliardo di euro”! …Vi ricordiamo Gino Strada che si chiedeva: “A chi cazzo dobbiamo fare la guerra?” …Aggiungerei, ma un miliardo non poteva essere speso meglio?

Gli ultimi dati Eurostat – Lavoriamo sempre più e guadagniamo sempre meno! Peggio di noi solo Romania, Spagna e Grecia… Eppure qualcuno fino a ieri, in campagna elettorale, ci pigliava per i fondelli con una fantomatica “ripresa”…

Eurostat

 

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Gli ultimi dati Eurostat – Lavoriamo sempre più e guadagniamo sempre meno! Peggio di noi solo Romania, Spagna e Grecia… Eppure qualcuno fino a ieri, in campagna elettorale, ci pigliava per i fondelli con una fantomatica “ripresa”…

 

Lavoriamo sempre più e guadagniamo sempre meno, peggio dell’Italia solo Romania, Spagna, e Grecia

Ultimi dati Eurostat sulla povertà in Europa. Un operaio su dieci è a rischio povertà e, in media, tre figli di migranti su 10 rischiano l’indigenza. L’Italia si colloca agli ultimi posti: peggio di noi Romania, Spagna e Grecia.

Questa settimana, Eurostat ha pubblicato nuovi dettagli e dati aggiornati relativi al problema della povertà in Europa. In particolare, l’istituto statistico europeo ha rilasciato i numeri relativi al rischio-povertà dei minori con trascorsi migratori in famiglia e dei cosiddetti “working poor”, ovvero lavoratori e lavoratrici che non sfuggono alla trappola della povertà, pur essendo impiegati.

In media, il 35 per cento dei minori che provengono da famiglie composte da almeno un genitore con trascorsi migratori rischia di ritrovarsi in una situazione di povertà. Per i figli di autoctoni, la percentuale scende, in media, al 18 per cento. La differenza di prospettiva è particolarmente marcata in Svezia dove il rapporto è di 1 a 6. L’Italia si colloca alla sesta posizione nella classifica dei tassi di rischio di povertà dei minori con background migratorio. Ai primi posti, e in ordine decrescente, ci sono Svezia, Spagna, Lituania, Slovenia e Francia. Eppure, il differenziale, non gioca sempre a sfavore dei minori figli di migranti. In Polonia, Bulgaria e Ungheria, sono i minori delle famiglie autoctone a soffrire un maggiore rischio di povertà.

Per quanto riguarda i rischi di povertà tra gli occupati, nel 2016, quasi 1 impiegato su 10 nell’Ue era a rischio di povertà lavorativa. Come scrive Eurostat, il rischio è “fortemente influenzato dal tipo di contratto di lavoro in essere”. Tra gli impiegati part-time il rischio di povertà raddoppia (15,8 per cento) rispetto alla forza lavoro a tempo pieno (7,8). Allo stesso tempo, chi ha un contratto a tempo determinato è quasi tre volte più a rischio povertà di quanto non lo sia un indeterminato (rispettivamente, 16,2 e 5,8 per cento).

Nella classifica dei Paesi con i tassi più alti di “lavoratori poveri”, l’Italia si classifica al 5 posto (11,7 per cento), al seguito (in ordine decrescente) di Romania, Grecia, Spagna e Lussemburgo. Il Belpaese figura anche tra i Paesi con l’incremento più alto del tasso dal 2010 a oggi (+2,2 per cento). Peggio, hanno fatto Ungheria (+4,3), Bulgaria (+3,7), Estonia (+3,1) e, seppur di poco, la Germania (+ 2,3).

 

 

fonte: http://www.linkiesta.it/it/article/2018/03/22/lavoriamo-sempre-piu-e-guadagniamo-sempre-meno-peggio-dellitalia-solo-/37518/

Italiani e povertà – Per la Banca d’Italia è record storico… Scusate, ma prima delle Elezioni Gentiloni e Renzi non andavano raccontando che la crisi era finita, che eravamo in piena ripresa e che gli Italiani, finalmente, stavano molto meglio?

 

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Italiani e povertà – Per la Banca d’Italia è record storico… Scusate, ma prima delle Elezioni Gentiloni e Renzi non andavano raccontando che la crisi era finita, che eravamo in piena ripresa e che gli Italiani, finalmente, stavano molto meglio?

 

Italiani e povertà, Banca d’Italia: record storico

Nel 2016 la quota di italiani residenti (quindi nati sia in Italia che all’estero) a rischio di povertà è salita al 23%: si tratta del massimo storico da quando la Banca d’Italia ha iniziato questo tipo di rilevazioni. Il livello di povertà è quello di persone che dispongono di un reddito equivalente inferiore al 60% di quello mediano.

L’analisi fornita da Via Nazionale mostra come rispetto al 2006 la quota di rischio – valutata in base alle caratteristiche del capofamiglia – sia cresciuta (spesso in maniera notevole) per quasi tutte le fasce di età, geografiche e condizione professionale. Unica eccezione i pensionati, la cui percentuale di individui a rischio è scesa dal 19,0% del 2006 al 16,6% del 2016.

In netta salita invece le ‘difficoltà’ per i nuclei con capofamiglia di età inferiore a 35 anni (quota salita dal 22,6 al 29,7%), per chi vive al Nord (dall’8,3 al 15%) e soprattutto per gli immigrati, dove il rischio povertà è balzato dal 33,9 al 55%. Stabile, invece, pur se a livelli molto elevati, la percentuale di rischio povertà al Sud, che rimane al 39,4% (valore pressoché identico a dieci anni prima).

RICCHEZZA – Si confermano le forti disparità di distribuzione della ricchezza delle famiglie italiane. L’indagine di Bankitalia sui loro bilanci mostra infatti come il 30% di famiglie più povere detiene l’1% della ricchezza netta mentre il 5% più ricco ne controlla il 30%.

REDDITO MEDIO – Nel 2016 il reddito equivalente medio delle famiglie italiane è cresciuto del 3,5% rispetto al 2014, interrompendo la caduta, pressoché continua, avviatasi nel 2006. Via Nazionale tuttavia sottolinea come il reddito equivalente resti ancora inferiore di 11 punti percentuali a quello di dieci anni prima. ADNKRONOS

 

fonte: http://www.imolaoggi.it/2018/03/12/italiani-e-poverta-banca-ditalia-record-storico/

Sale il reddito delle famiglie italiane. Ma non vi fate prendere per i fondelli dalla propaganda di Renzi e dei media del “regime”. A beneficiarne sono solo i più ricchi…!

 

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Sale il reddito delle famiglie italiane. Ma non vi fate prendere per i fondelli dalla propaganda di Renzi e dei media del “regime”. A beneficiarne sono solo i più ricchi…!

 

Da La Repubblica:

Sale il reddito delle famiglie italiane, ma a beneficiarne sono solo i più ricchi

Lo certifica l’Istat nella sua ricerca sulle condizioni di vita dei nuclei familiari del Paese. In media il reddito è appena sotto i 30mila euro. Ma le diseguaglianze aumentano. Un italiano su tre è a rischio povertà, soprattutto se risiede al Sud e vive in famiglie numerose o di origine straniera.

Sorpresa. Il reddito medio delle famiglie italiane è salito. Solo che, e c’era da attenderselo, la crescita più intensa si registra per il quinto più ricco della popolazione. A quello più povero toccano le briciole. Tant’è che al 20% dei meno abbienti va poco più del 6% del reddito totale. Detto questo, il reddito delle famiglie è comunque salito tra il 2014 e il 2016. Niente balzi sproporzionati in avanti, ma certo un passo in più c’è stato. Lo dicono le statistiche dell’Istat sulla condizione di vita delle famiglie nel 2016. Rispetto al 2014 c’è stato un aumento dell’1,8% in termini nominali e dell’1,7% rispetto al potere di acquisto. Mediamente il reddito medio annuo per famiglia è pari a 29.988 euro, più o meno 2.500 euro al mese. Ma essendo una media quei quasi 30mila euro l’anno non sono per tutti. Metà dei nuclei familiari residenti possono contare su un reddito netto che non supera i 24.522 euro (circa 2.016 euro al mese, con un +1,4% rispetto al 2014). Il che vuol dire che c’è una bella fetta di famiglie che a quella media non arriva. Anzi, con una certa velocità, rischia di finire ai margine del tessuto sociale.

Le diseguaglianze crescono, come del resto accade in molti Paesi occidentali. Nel Rapporto, quella che ormai viene rappresenta come una bomba sociale, è ben rappresentata da numeri e cifre. Nel 2016 c’è stata “una significativa e diffusa crescita del reddito disponibile e del potere d’acquisto delle famiglie (se riferito al 2015), ma anche un aumento della disuguaglianza economica e del rischio di povertà o esclusione sociale”, scrive l’Istat.  Gli italiani che rischiano di finire ai margini sono uno su tre. Un numero altissimo, che fa lievitare la popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale alla cifra di 18.136.663 persone. Una nazione a sè. E le differenze si vedono sui territori, inutile negarlo. Chi risiede al Sud e nelle Isole ricade più spesso nel primo quinto più a rischio (33,2%), rispetto a chi vive al Centro (15,8%) e nelle aree geografiche del Nord-ovest e Nord-est (13,2% e 10,1%).

Le famiglie più ricche, in parallelo, si trovano al Nord (oltre il 26%), ma anche nel Centro (22,8%), per calare poi bruscamente nel Mezzogiorno (10%). Ed è chi vive in nuclei numerosi, con tre o più figli, a riempire il quinto più povero della popolazione (36,5%). Un aspetto, spiega l’Istat, che “si lega anche alla maggiore presenza di minori nel segmento inferiore della distribuzione dei redditi, soprattutto se vivono in famiglie numerose”. Quando in famiglia vi è almeno un minore si ha una concentrazione del 25% nel primo quinto più povero, percentuale che sale al 39,5% nel caso i figli siano tre o anche di più. E non è un caso se le nascite ormai segnino il passo e non più solo al Nord, ma anche al Sud.

Le coppie senza figli o con un solo figlio ricadono infatti meno frequentemente tra quelle a rischio povertà (meno del 15% dei casi) mentre si concentrano tra quelle più ricche (27,2% e 24,1%). Fortemente svantaggiati i componenti di famiglie straniere, che per il 36% dei casi rientrano nella fascia dei più poveri. E una maggiore vulnerabilità colpisce chi appartiene a famiglie dove il principale percettore di reddito ha meno di 35 anni (27,8% nel primo quinto), ha solo la licenza media (28,2%) è in condizione di disoccupazione (59,1%) o inoccupazione (38,6%). Una disuguaglianza dei redditi, quella italiana, più accentuata se confrontata con la media dei paesi europei, che ci pone alla ventesima posizione. La certificazione di una realtà che da tempo è stata denunciata ed è sotto gli occhi di tutti.

fonte:

-http://www.repubblica.it/economia/2017/12/06/news/sale_il_reddito_delle_famiglie_italiane_ma_a_beneficiarne_di_piu_sono_i_benestanti-183218563/

Ricapitoliamo, povertà in Italia: oltre due milioni senza il cibo in tavola, ma per questa idiota la priorità è “Parificare gli stipendi tra calciatori e calciatrici” – E perchè non parificare gli stipendi della Casta a quelli della gente?

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Ricapitoliamo, povertà in Italia: oltre due milioni senza il cibo in tavola, ma per questa idiota la priorità è “Parificare gli stipendi tra calciatori e calciatrici” – E perchè non parificare gli stipendi della Casta a quelli della gente?

In un Paese dove 2 milioni di persone non possono mettere il piatto a tavola, chi ci governa ha la priorità è “Parificare gli stipendi tra calciatori e calciatrici” …e Voi ancora Vi chiedete perchè stiamo nella merda?

La sottosegretaria alla presidenza del Consiglio dei Ministri, Maria Elena Boschi, ha proposto sui suoi profili social di seguire l’esempio della Norvegia e parificare lo stipendio dei giocatori di calcio, siano essi donne o uomini. L’idea però non è piaciuta a gran parte degli utenti, che ne hanno sottolineato l’inutilità rispetto a ploblemi più urgenti.

La nostra cara “sottosegretaria alla presidenza del Consiglio dei Ministri”, prima di sparare puttanate, dovrebbe leggere questo:

Povertà in Italia: oltre due milioni senza il cibo in tavola

Dall’ultimo rapporto Gli italiani e il cibo. Un’eccellenza da condividere” del Censis, osservatorio indipendente sulle condizioni sociali in Italia, è emerso che sono oltre due milioni le persone nel nostro Paese che non hanno avuto soldi sufficienti per comprare il cibo necessario. Negli ultimi sette anni i numeri sono più che raddoppiati: nel 2007 erano un milione e ciò vuol dire che l’incremento da quando è iniziata la crisi è dell’84, 8%.

Il Rapporto ha evidenziato che Puglia (16,1%) Campania (14, 2%) e Sicilia (13,3 %) sono le prime tre regioni con la quota più alta di persone che vivono in condizioni di disagioalimentare. Il 9,2% delle famiglie italiane, di cui 830 mila con figli minori, non ha accesso al cibo in tavola.  Le spese alimentari sono calate in media del 12,9 % dal 2007 (17,3 % per le famiglie a carico di un operaio e 9,7% per quelle con capofamiglia dirigente o impiegato). Le famiglie con più figli sono quelle in maggiore difficoltà: – 15,6% le coppie con due figli, – 18,2% le coppie con tre o più bambini.

Dalla ricerca del Censis è emerso che gli italiani restano comunque grandi amanti del cibo: 29,4 milioni si definiscono appassionati, 12,6 milioni intenditori e 4,1 milione veri esperti. Per il 17, 9% la cucina made in Italy è motivo d’orgoglio nazionale. La crisi si fa sentire sono in famiglia: nel 2014 le esportazioni sono state di 28,4 miliardi con un 30,1% in più rispetto a cinque anni prima.

Per il presidente del Censis, Giuseppe De Rita “È  fondamentale esportare il modello italiano delle tipicità, non solo i prodotti. Solo così anche le esportazioni delle nostre nicchie saranno più facili. Nella battaglia fra biodiversità e industrializzazione di massa, bisogna puntare sulle scelte individuali: la voglia di diversità è una voglia di democrazia”.

Una situazione a doppia faccia: dal punto di vista culturale ed economico buona, ma scarsa da quello sociale. C’è da dire, inoltre, che i dati forniti sono da prendere con le pinze: qualcuno potrebbe vivere il dramma di non riuscire a sfamarsi, ma non averlo reso pubblico. Visti i dati altalenanti di disoccupazione, che non sembra fornire dinamiche positive, l’ipotesi è più che plausibile. Dal Rapporto del Censis emerge, quindi, che dal punto di vista sociale la strada è ancora tortuosa e che c’è ancora molto da lavorare in Parlamento.

Vincenzo Nicoletti

fonte: http://www.liberopensiero.eu/2017/10/14/poverta-in-italia-oltre-due-milioni-senza-il-cibo-in-tavola/?utm_source=dlvr.it&utm_medium=twitter