Gli stipendi in Italia sono fermi a vent’anni fa. Così ci hanno rubato il futuro!

 

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Gli stipendi in Italia sono fermi a vent’anni fa. Così ci hanno rubato il futuro!

La classe politica italiana che ha governato negli ultimi trent’anni ha fallito. Non lo dice un esponente del governo del cambiamento, lo dicono i numeri. Dal 2000 al 2017 gli stipendi dei dipendenti italiani sono aumentati in media soltanto di 400 euro all’anno, mentre nello stesso periodo in Germania si è registrata una crescita media di 5mila euro annui e in Francia la crescita media dei salari ha raggiunto i 6mila euro. Mentre i lavoratori nel resto del continente europeo hanno guadagnato potere di acquisto, la nostra classe media è praticamente scomparsa dai radar, scatenando nel Paese quello che il Censis ha definito “sovranismo psichico” e generando una prevedibile ondata di rancore.

L’Italia ha smesso di crescere da decenni, alternando gravi fasi di recessione a momenti di debole ripresa. Oltre al danno per le finanze pubbliche, l’economia che arranca ha un effetto diretto anche sullo stipendio che arriva nelle tasche degli italiani ogni mese. Così, negli ultimi anni, la forbice salariale si è ulteriormente ampliata a favore di Paesi come la Spagna che all’inizio del nuovo millennio aveva un livello medio salariale molto simile a quello italiano, mentre adesso c’è una distanza reale di circa 2mila euro. D’altronde, se alla mancata crescita aggiungiamo l’assenza di una seria politica industriale in grado di favorire lo sviluppo tecnologico e delle competenze la stagnazione dei salari diventa quasi ineluttabile.

In Italia c’è un evidente problema di produttività: non riusciamo a produrre valore aggiunto e ci accontentiamo di quello che abbiamo, cercando di recuperare quanto abbiamo perso attraverso la svalutazione del lavoro. Il risultato è che i nostri salari si stanno pericolosamente avvicinando a quelli dell’Europa dell’Est, non compensati però dai ritmi di crescita elevati. L’Italia dovrebbe essere in prima linea nelle produzioni ad alto valore aggiunto e nell’erogazione di servizi di eccellenza. Dovremmo puntare sulle competenze specialistiche e operai altamente specializzati. Dovremmo, appunto.

A partire dal secondo dopoguerra, una buona parte della forza lavoro è stata vincolata a contratti collettivi nazionali, con il sindacato che negoziava il compenso minimo per una larga fetta di lavoratori. Negli ultimi trent’anni, la precarietà introdotta nel mercato del lavoro ha ridotto il potere contrattuale esercitato dai sindacati con le imprese e di conseguenza quello, dei loro iscritti. Nel frattempo i dati negativi sulla crescita retributiva e l’aumento del lavoro precario hanno portato al centro del dibattito l’idea di stabilire un salario minimo legale – idea tutt’altro che peregrina. Le decine di migliaia di lavoratori della Gig Economy riceverebbero così il giusto compenso per l’attività svolta, così come i giovani professionisti, che rappresentano la fascia meno tutelata nell’attuale mondo del lavoro.

Se il contratto a tempo indeterminato è diventato una chimera, sono i contratti a tempo determinato e stage a conoscere un vero boom. Tra il 2012 e il 2017 il numero degli stage è cresciuto del 100%, arrivando a 368mila attivazioni in un anno. La precarietà dei tirocini non conosce crisi: più del 10% di quelli attivati riguarda persone di età compresa tra i 35 e i 54 anni e sono in aumento anche gli over 55. La formazione professionale, motivo dell’introduzione degli stage nel mondo del lavoro, viene ignorata dalla maggior parte delle aziende che hanno come unico obiettivo quello di risparmiare sul costo della forza lavoro.

Dietro l’insopportabile strumentalizzazione che è in atto sulla questione dell’immigrazione si nasconde un altro dramma diametralmente opposto, e ignorato, l’emigrazione. I cittadini italiani vanno all’estero per cercare un’occupazione ben pagata e in linea con le loro competenze professionali. Soltanto nel 2017 hanno lasciato il Paese circa 130mila cittadini italiani, confermando un dato che cresce anno dopo anno. Addirittura secondo i dati elaborati dal centro studi Idos, il numero di italiani che sono emigrati nello stesso periodo raggiungerebbe addirittura 285mila. Secondo l’Istat, il 64% dei 244mila i giovani che negli ultimi 5 anni sono andati a cercare un futuro all’estero possiede un diploma o una laurea. Tanto per capirci, negli anni Cinquanta lasciavano l’Italia circa 290 mila persone ogni anno. Stiamo raggiungendo livelli di emigrazione vicini a quelli del secondo dopoguerra ma ci appassioniamo alle vicende di 47 migranti che scappano dalle torture libiche.

In un contesto simile, l’idea che il solo reddito di cittadinanza possa migliorare la qualità del lavoro in Italia e il livello dei salari è un’illusione che non ha nessuna conferma nella realtà, soprattutto se si paragona il livello dei salari medi del Sud Italia con le cifre promesse dal governo con il reddito di cittadinanza. Nell’analisi depositata al Senato dal presidente dell’Inps Tito Boeri viene messo nero su bianco che circa il 45% dei lavoratori subordinati privati del Meridione guadagna meno dei 780 euro che verranno percepiti da alcuni dei beneficiari della misura simbolo del M5S. Chi riceve un reddito da lavoro dipendente potrebbe rimanere spiazzato da questo intervento, arrivando a pensare che mettersi nelle mani dello Stato sia un’alternativa migliore allo sfruttamento da parte di un privato per uno stipendio troppo basso. Se i partiti all’opposizione, centrosinistra in testa, denunciano l’eccessiva generosità delle cifre previste dal reddito di cittadinanza, nessuno riporta l’attenzione sul fatto che l’Italia è diventata un’economia basata sul precariato con milioni di italiani e stranieri sottopagati.

Vent’anni di pessima politica ci hanno portato fino a qui. Schiavi del nostro debito pubblico, innamorati del clientelismo, incapaci di innovare e, soprattutto, diffidenti verso ogni sforzo volto al miglioramento. L’Italia ha ancora le risorse sociali e tecnologiche per rimettere al centro del suo sistema produttivo i lavoratori, le loro competenze e la creatività. Sì, di strada da fare ce n’è parecchia, ma iniziare riconoscendo il giusto compenso a chi lavora è un ottimo punto di partenza.

 

fonte: https://thevision.com/attualita/stipendi-italia-futuro/

Per rinfrescarVi la memoria – La proposta di Draghi: abbassare gli stipendi per salvare l’Euro! La nostra proposta: Perchè non vi togliete dalle palle tu e l’Euro così ci salviamo noi??

 

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La proposta di Draghi: abbassare gli stipendi per salvare l’Euro! La nostra proposta: Perchè non vi togliete dalle palle tu e l’Euro così ci salviamo noi??

 

La proposta di Draghi: abbassare gli stipendi per salvare l’Euro! La nostra proposta: Perchè non vi togliete dalle palle tu e l’Euro così ci salviamo noi??

Per rinfrescarVi la memoria:

L’ultima di Draghi: abbassare gli stipendi per salvare l’euro

Svalutazione non monetaria ma salariale. Bce vuole abbassare remunerazioni mantenendo l’obiettivo di una inflazione vicina alla soglia del 2%.

La Bce vuole abbassare le remunerazioni degli europei pur mantenendo l’obiettivo di una inflazione vicina alla soglia del 2% prestabilita. Draghi ha lanciato un appello nemmeno troppo velato in cui chiede di poter aggiustare gli stipendi per aiutare l’euro. Si tratta in pratica di una svalutazione non monetaria bensì salariale nel blocco a 18. Abbandonare così come salvare la moneta unica ha un prezo. “Il prezzo da pagare per voler mantenere a tutti i costi l’euro comporta dei costi economici, ma anche dei costi in termina di perdita di crescita e dei costi sociali”, dice Charles Sannat, giornalista e analista ‘contrarian’, professore di economia in diverse università di business parigine. Ricapitolando, nelle sue ultime uscite ufficiali in pubblico, Draghi ha detto che “ogni economia deve essere abbastanza flessibile da trovare e sfruttare i suoi vantaggi concorrenziali, per poter beneficiare del mercato unico”. Aggiungendo anche ogni paese deve essere abbastanza flessibile da “rispondere agli shock di breve termine, inclusi gliaggiustamenti al ribasso degli stipendi o il ribilanciamento delle risorse tra i settori“.

Il banchiere centrale ha spiegato che l’unione monteraria, sebbene irrevocabile rimane ancora incompleta senza il trasferimento del budget permanente tra i paesi e senza una forte mobilità di disoccupati tra i confini dell’Europa.

“La mancanza di riforme strutturali ha creato lo spettro di una divergenza economica permamente tra i membri del blocco a 18″, ha osservato Draghi.

Interrogato sui rischi di ritornare al sistema del XIX secolo, in cui i salari e i prezzi potevano abbassarsi e aumentare fortemente, Draghi ha difeso la necessità di adottare una “svalutazione interna” (ovvero abbassare i costi di un paese se non è possibile abbassare i tassi di cambio). La principale lezione, secondo Draghi, che ci ha fornito la crisi è che “in seno all’Ue dobbiamo stare attenti a non lasciare che i salari e i prezzi deviino”. “Dobbiamo stare molto attenti a mantenere i paesi competitivi“. Ma senza aggiustamenti monetari, non restano che aggiustamenti dei salari. La sola maniera relativamente rapida per ritrovare la competitività è abbassare gli stipendi, come è successo in Grecia e in Spagna.

In media gli spagnoli sono pagati 675 euro al mese e un greco 480 euro. Ma il vero problema è che la riduzione delle buste paga non è accompagnata da un calo dei prezzi necessari per poter veramente ritrovare la crescita economica o piuttosto dell’attività economica. In pratica anche in caso di salario dimezzato, se l’affitto passasse da 600 euro al mese a 100 ovviamente il contraente ne uscirebbe vincitore. Ma non è il caso nel Sud d’Europa. Parlando di “aberrazione economica” di proporzioni “storiche”, Sannat scrive che se la Bce ci chiede di abbassare i salari, lo stesso Draghi vuole mantenere l’inflazione vicina al 2%, ovvero un rincaro dei prezzi al consumo rispetto ai valori bassi attuali. Il board della Bce dovrebbe decidere a maggioranza sulle nuove misure non convenzionali anti-deflazione, tra cui l’acquisto di titoli di Stato. Lo ha detto il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, secondo cui nella riunione della Banca centrale europea giovedì “mi sembra di aver capito chiaramente” che si va verso una “decisione a maggioranza”. “Mi aspetto ragionevolmente delle scelte che non siano penalizzate da qualcuno che deve essere contrario per forza”.

Perché l’Italia deve rimanere nell’Euro? Semplice, quando una moneta non si può svalutare si svalutano salari e stipendi… E indovinate un po’ chi lo prende a quel posto?

 

 

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Perché l’Italia deve rimanere nell’Euro? Semplice, quando una moneta non si può svalutare si svalutano salari e stipendi… E indovinate un po’ chi lo prende a quel posto?

 

La stragrande maggioranza del personale politico e media mainstream all’unisono tuonano che l’Italia non può permettersi di uscire dalla moneta unica. É quindi giunto il momento di rovesciare il paradigma ed evidenziare perché per l’Italia sia insostenibile la permanenza nella gabbia monetaria europea.

di Fabrizio Verde

Le recenti e arcinote vicende che hanno portato allo scontro istituzionale tra il presidente della Repubblica Mattarella e la maggioranza parlamentare M5S-Lega, con il conseguente veto sul nome di Paolo Savona evidentemente sgradito a Berlino e Bruxelles, hanno riportato in auge il mai sopito dibattito sulla permanenza dell’Italia nell’euro. Una forma coercitiva di governo più che una semplice moneta.

La stragrande maggioranza del personale politico e media mainstream all’unisono tuonano che l’Italia non può permettersi di uscire dalla moneta unica. É quindi giunto il momento di rovesciare il paradigma ed evidenziare perché per l’Italia sia insostenibile la permanenza nella gabbia monetaria europea.

Una situazione dove l’Italia si era già cacciata negli anni del fascismo, quando Mussolini decise che per ragioni di prestigio internazionale la Lira dovesse raggiungere e mantenere la parità con la Sterlina inglese.

Il 18 agosto del 1926 in un discorso tenuto a Pesaro, Benito Mussolini, annunciò per la Lira una politica di rivalutazione nei confronti della Sterlina, la valuta mondiale di riferimento a quel tempo. Il regime, esclusivamente per motivi di prestigio e credibilità internazionale, adottò una politica di forte rivalutazione della moneta fissando l’obiettivo alla «prestigiosa quota 90». L’obiettivo stabilito e raggiunto nel dicembre del 1927 con l’introduzione da parte di Mussolini del Gold Standard Exchange, fu quello di condurre il tasso di cambio da 153,68 Lire per una Sterlina, a 90 Lire per una Sterlina. Una rivalutazione di ben il 19% per la moneta italiana.

Passano due anni con la Lira sempre attestata sulla fatidica «quota 90», il fascismo arroccato alla strenua difesa della prestigiosa quota e la Grande Depressione del 29′ in arrivo dagli Stati Uniti d’America relegata in qualche trafiletto semi-nascosto, giacché i giornali del regime sono impegnati a narrare agli italiani le mirabolanti conquiste del corporativismo fascista. Intanto il tenore di vita degli italiani peggiora notevolmente. I forti tagli salariali sono stati già definitivamente sanciti attraverso l’approvazione della «Carta del Lavoro». Il costo della crisi e del supposto prestigio derivante dalla moneta forte è scaricato per intero sulla classe lavoratrice.

Quando non si può svalutare la moneta si svaluta il lavoro attraverso i salari.

L’analogia con l’Euro è lampante su questo punto.

La «Lira forte» è una delle bandiere del regime tanto che Mussolini di dichiara pronto a «difendere la Lira fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo sangue». Appaiono inquietanti certe analogie con i difensori dell’Euro a spada tratta, costi quel che costi. Inoltre, altra analogia (già richiamata in precedenza) con l’attuale scenario, per sostenere il rialzo della Lira si dovette ricorrere a politiche deflattive sui salari che tra il 1927 e il 1928, e senza soluzione di continuità sino ai primi anni 30′ subirono diminuzioni dal 10% al 20% a seconda delle categorie. Una scure calò sui salari degli operai che videro peggiorare le loro già miserevoli condizioni di vita.

Arriviamo così al 1930: la Lira è sempre arroccata a «quota 90» nei confronti della valuta inglese e la situazione continua a peggiorare, complice anche la Grande Depressione che porta i banchieri privati americani a richiedere indietro i milioni di dollari dati in prestito a comuni, enti e società italiane a partire dal 1925. A pagare il prezzo più alto è sempre la classe lavoratrice: i disoccupati aumentano di 140 mila unità rispetto all’anno precedente, i salari subiscono una stretta ulteriore (25% lavoratori agricoltura – 10% lavoratori industria – forti decurtazioni settore statale), tanto da divenire i più bassi dell’intero continente. Mentre la discesa dei prezzi non fu altrettanto ripida come quella dei salari. Tanto che il Corriere della Sera scriveva, «il salariato fa questo ragionamento molto semplice: se il costo della vita va giù del 5%, ed i miei salari van giù del 10%, chi gode della differenza?».

Oggi come allora: diminuzione dei salari, crollo della produzione, esponenziale aumento della disoccupazione, progressiva proletarizzazione degli strati sociali intermedi, forte crescita della povertà. Quelli appena citati sono gli effetti classici di un processo di aggancio a uno standard nominale forte.

Lo scenario deprimente a cui assistiamo dall’ingresso nell’eurozona che è equivalso sostanzialmente ad un aggancio della Lira al Marco tedesco.

Alla luce di una siffatta situazione la domanda è: per quale motivo l’Italia dovrebbe restare nell’Euro?

Fonte L’antidiplomatico

L’ultima carognata del Pd di Renzi: vietato pagare gli stipendi in contanti. Perché le loro amiche Banche devono essere padrone dei soldi degli italiani!

 

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L’ultima carognata del Pd di Renzi: vietato pagare gli stipendi in contanti. Perché le loro amiche Banche devono essere padrone dei soldi degli italiani!

 

Stipendio, addio contanti: pagamento solo con bonifico.

Pagamento stipendio solo con bonifico: sarà vietato pagare le retribuzioni dei lavoratori in contanti, a disporlo è la legge Di Salvo approvata dalla Camera.

Stipendio solo con bonifico o altri mezzi di pagamento tracciabili: è questo il perno della Legge numero 1041 dell’Onorevole Di Salvo approvata dalla Camera.

Nuove regole per i datori di lavoro, per i quali viene introdotto il divieto di pagamento degli stipendi in contanti al fine di evitare la cattiva pratica di false buste paga e minacce di licenziamento.

La nuova legge passa ora al Senato; le norme, si ricorda, non sono ancora in vigore poiché è necessaria l’approvazione definitiva e la pubblicazione del provvedimento in Gazzetta Ufficiale.

L’obbligo di pagare lo stipendio a mezzo di bonifico bancario o postale è un passo importante per la tutela dei lavoratori, sia se assunti con contratto di lavoro subordinato che impiegati in forma di collaborazione o assunti come soci di cooperative.

Cosa prevede la legge e quali sono gli obblighi e le regole che dovranno rispettare i datori di lavoro? Ecco le novità e le regole circa l’obbligo di pagamento a mezzo bonifico.

Stipendio, addio contanti: pagamento solo con bonifico

Il pagamento delle retribuzioni dovrà avvenire esclusivamente mediante mezzi tracciabili e la firma della busta paga non costituirà più prova dell’avvenuto pagamento degli stipendi.

È questo il fulcro della legge n. 1041 a firma dell’on. Titti Di Salvo che la Camera ha approvato il 15 novembre 2017.

La nuova normativa della legge in materia di “Disposizioni in materia di modalità di pagamento delle retribuzioni ai lavoratori” attende ora l’approvazione definitiva al Senato prima della sua entrata in vigore.

Verosimilmente, a scanso di particolari difficoltà, la legge potrebbe essere approvata già entro la fine dell’anno, entrando così in vigore a partire dal 2018.

Cosa cambia per i datori di lavoro? Nuove regole e controlli, per evitare il fenomeno di false buste paga, di lavoratori pagati meno di quanto previsto da CCNL e di minacce di licenziamento.

Pagamento stipendio con bonifico, nuove regole per i datori di lavoro

Tutti i datori di lavoro titolari di partita IVA dovranno, dal momento dell’entrata in vigore della legge, effettuare il pagamento delle retribuzioni esclusivamente tramite bonifico bancario e postale.

All’articolo uno della proposta di legge approvata dalla Camera si legge che:

“La retribuzione ai lavoratori (e ogni anticipo di essa) può essere corrisposta dal datore di lavoro solo attraverso un istituto bancario o un ufficio postale con uno dei seguenti mezzi (comma 1):

  • accredito diretto sul conto corrente del lavoratore;
  • pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale;
  • emissione di un assegno da parte dell’istituto bancario o dell’ufficio postale consegnato direttamente al lavoratore o ad un suo delegato in caso di comprovato impedimento, che si intende verificato quando il delegato è il coniuge, il convivente o un familiare, in linea retta o collaterale, del lavoratore, purché di età non inferiore a sedici anni.”

Dal momento dell’entrata in vigore delle nuove regole il pagamento dello stipendio in favore di qualsiasi tipologia di lavoratore assunto come dipendente o collaboratore non potrà più avvenire a mezzo di assegni o contanti.

Stipendio in contanti solo per lavoratori domestici

Le nuove norme prevedono alcune esclusioni: saranno esonerati dall’obbligo di pagare lo stipendio con metodi tracciabili i datori di lavoro non titolari di partita Iva, i rapporti di lavoro domestico e quelli che rientrano nella sfera applicativa dei contratti collettivi nazionali per gli addetti a servizi familiari e domestici.

In sintesi, i datori di lavoro domestico potranno continuare a pagare colf, badanti e baby sitter in contanti, in quanto tale tipologia di rapporto di lavoro rispetta ambedue i requisiti previsti, ossia assenza di partita Iva e tipologia di lavoratore retribuito.

Gli obblighi del datore di lavoro

L’articolo 2 della legge stabilisce quali sono gli obblighi del datore di lavoro o committente del co.co.pro. al fine di rispettare le nuove norme sui pagamenti degli stipendi a mezzo bonifico.

Innanzitutto viene previsto che il datore di lavoro dovrà inserire, nella comunicazione obbligatoria fatta al centro per l’impiego, gli estremi dell’istituto bancario o dell’ufficio postale che provvede al pagamento della retribuzione (ovvero una dichiarazione di tale istituto o ufficio attestante l’attivazione del canale di pagamento a favore del lavoratore).

L’annullamento dell’ordine di pagamento potrà essere effettuato solo inviando alla banca o all’ufficio postale indicato nella comunicazione obbligatoria, una copia della lettera di licenziamento o di dimissioni del lavoratore o del prestatore d’opera, fermo restando l’obbligo di effettuare tutti i pagamenti dovuti dopo la risoluzione del rapporto di lavoro.

In caso di trasferimento dell’ordine di pagamento ad altro istituto bancario o ufficio postale, deve darne comunicazione scritta, tempestiva ed obbligatoria, al lavoratore (tale trasferimento non può comunque comportare ritardi nel pagamento della retribuzione).

Sanzioni per i datori di lavoro che pagano lo stipendio in contanti

Pesanti sanzioni per i datori di lavoro che non rispetteranno la nuova legge. Nel caso di pagamento dello stipendio in contanti e non tramite metodi tracciabili, il datore di lavoro o committente sarà sottoposto a sanzione amministrativa pecuniaria:

  • da 5.000 euro a 50.000 euro, in caso di violazione dell’obbligo di provvedere al pagamento della retribuzione attraverso un istituto bancario o un ufficio postale attraverso uno dei mezzi indicati;
  • pari a 500 euro, in caso di violazione dell’obbligo di comunicazione al centro per l’impiego competente per territorio degli estremi dell’istituto bancario o dell’ufficio postale.

Il testo della nuova legge, approvata dalla Camera, passa ora all’esame del Senato per la conclusione dell’iter legislativo che precede l’entrata in vigore delle nuove regole.

 

 

tratto da: https://www.informazionefiscale.it/stipendio-in-contanti-addio-pagamento-bonifico-legge-regole-novita

Ricapitoliamo, povertà in Italia: oltre due milioni senza il cibo in tavola, ma per questa idiota la priorità è “Parificare gli stipendi tra calciatori e calciatrici” – E perchè non parificare gli stipendi della Casta a quelli della gente?

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Ricapitoliamo, povertà in Italia: oltre due milioni senza il cibo in tavola, ma per questa idiota la priorità è “Parificare gli stipendi tra calciatori e calciatrici” – E perchè non parificare gli stipendi della Casta a quelli della gente?

In un Paese dove 2 milioni di persone non possono mettere il piatto a tavola, chi ci governa ha la priorità è “Parificare gli stipendi tra calciatori e calciatrici” …e Voi ancora Vi chiedete perchè stiamo nella merda?

La sottosegretaria alla presidenza del Consiglio dei Ministri, Maria Elena Boschi, ha proposto sui suoi profili social di seguire l’esempio della Norvegia e parificare lo stipendio dei giocatori di calcio, siano essi donne o uomini. L’idea però non è piaciuta a gran parte degli utenti, che ne hanno sottolineato l’inutilità rispetto a ploblemi più urgenti.

La nostra cara “sottosegretaria alla presidenza del Consiglio dei Ministri”, prima di sparare puttanate, dovrebbe leggere questo:

Povertà in Italia: oltre due milioni senza il cibo in tavola

Dall’ultimo rapporto Gli italiani e il cibo. Un’eccellenza da condividere” del Censis, osservatorio indipendente sulle condizioni sociali in Italia, è emerso che sono oltre due milioni le persone nel nostro Paese che non hanno avuto soldi sufficienti per comprare il cibo necessario. Negli ultimi sette anni i numeri sono più che raddoppiati: nel 2007 erano un milione e ciò vuol dire che l’incremento da quando è iniziata la crisi è dell’84, 8%.

Il Rapporto ha evidenziato che Puglia (16,1%) Campania (14, 2%) e Sicilia (13,3 %) sono le prime tre regioni con la quota più alta di persone che vivono in condizioni di disagioalimentare. Il 9,2% delle famiglie italiane, di cui 830 mila con figli minori, non ha accesso al cibo in tavola.  Le spese alimentari sono calate in media del 12,9 % dal 2007 (17,3 % per le famiglie a carico di un operaio e 9,7% per quelle con capofamiglia dirigente o impiegato). Le famiglie con più figli sono quelle in maggiore difficoltà: – 15,6% le coppie con due figli, – 18,2% le coppie con tre o più bambini.

Dalla ricerca del Censis è emerso che gli italiani restano comunque grandi amanti del cibo: 29,4 milioni si definiscono appassionati, 12,6 milioni intenditori e 4,1 milione veri esperti. Per il 17, 9% la cucina made in Italy è motivo d’orgoglio nazionale. La crisi si fa sentire sono in famiglia: nel 2014 le esportazioni sono state di 28,4 miliardi con un 30,1% in più rispetto a cinque anni prima.

Per il presidente del Censis, Giuseppe De Rita “È  fondamentale esportare il modello italiano delle tipicità, non solo i prodotti. Solo così anche le esportazioni delle nostre nicchie saranno più facili. Nella battaglia fra biodiversità e industrializzazione di massa, bisogna puntare sulle scelte individuali: la voglia di diversità è una voglia di democrazia”.

Una situazione a doppia faccia: dal punto di vista culturale ed economico buona, ma scarsa da quello sociale. C’è da dire, inoltre, che i dati forniti sono da prendere con le pinze: qualcuno potrebbe vivere il dramma di non riuscire a sfamarsi, ma non averlo reso pubblico. Visti i dati altalenanti di disoccupazione, che non sembra fornire dinamiche positive, l’ipotesi è più che plausibile. Dal Rapporto del Censis emerge, quindi, che dal punto di vista sociale la strada è ancora tortuosa e che c’è ancora molto da lavorare in Parlamento.

Vincenzo Nicoletti

fonte: http://www.liberopensiero.eu/2017/10/14/poverta-in-italia-oltre-due-milioni-senza-il-cibo-in-tavola/?utm_source=dlvr.it&utm_medium=twitter

Sindacati, stipendi d’oro (300mila euro annui, più di quanto guadagna Obama) e pensioni da nababbi. Gli operai, con i loro 1200 Euro al mese, mantengono nel lusso chi dovrebbe tutelarli!

 

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Sindacati, stipendi d’oro (300mila euro annui, più di quanto guadagna Obama) e pensioni da nababbi. Gli operai, con i loro 1200 Euro al mese, mantengono nel lusso chi dovrebbe tutelarli!

 

CISL: DIRIGENTI CON STIPENDI DI 300 MILA EURO ANNUI, PIU’ DI OBAMA E MERKEL, GLI OPERAI CON I LORO 12OO EURO MESE MANTENGONO NEL LUSSO CHI DOVREBBE TUTELARLI
Cisl, scoppia il caso dei mega-stipendi. Dirigente li denuncia ma verrà espulso. Nel dossier firmato da Fausto Scandola un atto d’accusa corredato di nomi e cifre: retribuzioni che sfiorano i 300mila euro l’anno.
È un lungo sfogo di un dirigente sindacale inviato via mail a troppe persone e questo, probabilmente, gli costerà l’espulsione dalla Cisl: la raccomandata infatti gli è già arrivata a casa. Un atto d’accusa corredato di nomi e cifre che fanno una certa impressione, vista la crisi generale del sindacato e quella ancor più complessiva del mondo del lavoro: ci sono sindacalisti dell’organizzazione guidata da Annamaria Furlan che si portano a casa stipendi che neanche Barack Obama, superando di slancio pure il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Sfiorando i 300mila euro annui.
Il mini-dossier firmato dal veneto Fausto Scandola sta creando più di un imbarazzo al sindacato cattolico, anche perché a seguito di una vicenda simile, di fatto, dovette lasciare il suo posto l’ex numero uno Raffaele Bonanni; il quale, giusto poco prima della pensione, si era ritoccato all’insù il compenso, mossa utile per aumentare il successivo assegno a carico dei contribuenti. “I nostri rappresentanti e dirigenti ai massimi livelli nazionali della Cisl – scrive Scandola – si possono ancora considerare rappresentanti sindacali dei soci finanziatori, lavoratori dipendenti e pensionati? I loro comportamenti, lo svolgere dei loro ruoli, come gestiscono il potere, si possono ancora considerare da esempio e guida della nostra associazione che punta a curare gli interessi dei lavoratori? “.
Ecco qualche nome e cifra in lista: Antonino Sorgi, presidente nazionale dell’Inas Cisl, nel 2014 si è portato a casa 256mila euro lordi: 77.969,71 euro di pensione, 100.123,00 euro di compenso Inas e 77.957,00 euro come compenso Inas immobiliare. Valeriano Canepari, ex presidente Caf Cisl Nazionale, nel 2013 ha messo insieme 97.170,00 euro di pensione, più 192.071,00 euro a capo della Usr Cisl Emilia Romagna: totale annuo, 289.241,00 euro. Ermenegildo Bonfanti, segretario generale nazionale Fnp Cisl, 225mila euro in un anno, di cui 143mila di pensione. Pierangelo Raineri, gran capo della Fisascat Cisl, 237 mila euro grazie anche ai gettoni di presenza in Enasarco, più moglie e figlio assunti in enti collegati alla stessa Cisl.
Di mezzo, nella denuncia, ci va anche la stessa Furlan. Il 9 luglio scorso – è sempre la denuncia di Scandola, che racconta – il comitato esecutivo nazionale confederale della Cisl approva all’unanimità un nuovo regolamento presentato dalla segretaria generale. Dove si parla di trasparenza, fissando finalmente delle regole precise sugli stipendi. Confrontando tutti i livelli della Cisl cosa ne esce fuori? Che l’aumento tabellare tra il 2008 (anno di inizio di una crisi non ancora conclusa) e il 2015 è pari al 12,93 per cento. A conti fatti, va detto, sarebbe l’inflazione. Se Furlan nel 2008 portava a casa un totale lordo di 99mila euro, ora potrebbe arrivare a 114mila. Sarà questo lo stipendio massimo consentito. Al mese fanno 3.326 euro netti più un altro 30 per cento di indennità.

Un’altra notizia “sfuggita” ai Tg: con un abile colpo di coda il Pd mette a segno uno degli obiettivi della defunta riforma (uno degli obiettivi di cui però Renzi non parlava quando era da Barabara D’Urso): blindare i privilegi dei superburocrati parlamentari…!

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Un’altra notizia “sfuggita” ai Tg: con un abile colpo di coda il Pd mette a segno uno degli obiettivi della defunta riforma (uno degli obiettivi di cui però Renzi non parlava quando era da Barabara D’Urso): blindare i privilegi dei superburocrati parlamentari…!

 

IL PD BLINDA GLI STIPENDI DEI SUPERBUROCRATI PARLAMENTARI: ORA SARÀ DI FATTO IMPOSSIBILE TAGLIARLI. #RENZIVERGOGNA!

Con un colpo di coda di fine legislatura, il Pd mette a segno uno degli obiettivi della defunta riforma: blindare i privilegi dei superburocrati parlamentari. L’Ufficio di Presidenza ha approvato il ruolo unico dei dipendenti di Camera e Senato. Ora il trattamento giuridico ed economico dei funzionari dei due rami del Parlamento sarà regolato da un unico testo. Quindi ogni modifica futura ai loro stipendi dovrà essere decisa non più come avviene oggi solo dalla Camera o dal Senato, ma da entrambi contemporaneamente. Servirà una maggioranza bulgara e di fatto non si potrà più tagliare.

Era esattamente ciò che prevedeva la riforma incostituzionale bocciata dai cittadini. Gli stipendi degli alti funzionari, che il Pd ha già aumentato fino a 2.200 euro in più al mese, saranno in pratica intoccabili. Invece di avvicinare le istituzioni al Paese reale, Renzi rottama le promesse elettorali per alimentare il proprio sistema di potere. Calpesta la volontà popolare che ha bocciato la controriforma, smantella i diritti e nega il reddito di cittadinanza per salvaguardare sprechi e privilegi: questo è il Pd! Dobbiamo liberarcene al più presto, poi ci penserà il M5S a ristabilire la giustizia sociale in questo Paese.

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