FCA, sede fiscale in Olanda, sede legale a Londra, investirà 4,5 miliardi di euro in USA, creando là 21.000 posti di lavoro. Lo dico per quelli che prendono una Fiat al grido di “Io compro italiano”.

 

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FCA, sede fiscale in Olanda, sede legale a Londra, investirà 4,5 miliardi di euro in USA, creando là 21.000 posti di lavoro. Lo dico per quelli che prendono una Fiat al grido di “Io compro italiano”.

 

Fiat Chrysler investirà 4,5 miliardi in Michigan per nuovi suv di Jeep

Il gruppo italo americano ha annunciato un investimento da 4,5 miliardi di dollari per la costruzione di nuovi suv Jeep in Michigan

Alcuni mesi fa la Fiat Chrysler aveva annunciato l’intenzione di investire 4,5 miliardi di dollari in cinque stabilimenti creando dai 6.500 ai 21.000 posti di lavoro nel Michigan. Tra l’altro era prevista la trasformazione di una fabbrica di motori a Detroit in un impianto di assemblaggio per espandere la sua popolare linea di modelli Jeep e produrre modelli ibridi e completamente elettrici.

La mossa arrivava in un momento in cui il mercato statunitense sembrava destinato a calare, con le vendite di nuovi veicoli del 2019 che dovrebbero scendere al di sotto dei livelli del 2018.

L’amministratore delegato di Fiat Chrysler, Mike Manley, aveva dichiarato in una conference call con i giornalisti che gli investimenti della società sono focalizzati sui SUV, un’area “destinata a continuare a crescere”. I piani di FCA includono la trasformazione di una fabbrica di motori a Detroit in un impianto di assemblaggio. Il gruppo italo americano ha detto che i piani includono investimenti per consentire a tre stabilimenti del Michigan di produrre modelli Jeep ibridi e completamente elettrici. Manley ha detto che questi modelli ibridi o modelli elettrici potrebbero essere disponibili entro la fine del 2021.

Tutto questo è successo pochi mesi fa, ma sulla stampa nostrana di tutti questi pii intenti se ne è parlato pochissimo.

E ancor meno risalto ha la notizia che Fiat Chrysler oggi ha già iniziato la costruzione del nuovo impianto a Detroit da 1,6 miliardi di dollari. In questo stabilimento FCA inizierà la produzione di un nuovo SUV a tre file entro la fine del 2020, seguito da una versione rinnovata del Grand Cherokee nella prima metà del 2021. E presyo al via il progetto di un investimento di 900 milioni di dollari per modernizzare e riorganizzare un altro stabilimento di Detroit per realizzare Dodge Durango e Jeep Grand Cherokee.

Tutto bello no? E l’Italia?

Ripeto, dico tutto questo per quelli che prendono una Fiat al grido di “Io compro italiano”.

La grande truffa della tessera sindacale. Parliamo di Un Miliardo di Euro che ogni anno Cgil, Cisl e Uil prendono dalle tasche di lavoratori e pensionati…

 

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La grande truffa della tessera sindacale. Parliamo di Un Miliardo di Euro che ogni anno Cgil, Cisl e Uil prendono dalle tasche di lavoratori e pensionati…

 

La grande truffa della tessera sindacale

Un miliardo. È la cifra che aziende ed enti previdenziali versano ogni anno a Cgil, Cisl e Uiltrattenendola da stipendi e pensioni degli iscritti. Che spesso, magari senza saperlo, continuano a pagare per molti mesi anche dopo aver ritirato la loro delega al sindacato.

La maggiore risorsa economica dei sindacati nazionali sono i contributi pagati ogni anno dagli iscritti, cui vanno sommate le cosiddette quote di servizio, e cioè i quattrini raccolti con la vendita dei testi dei nuovi accordi contrattuali stampati dalle tre centrali.

I lavoratori versano circa l’l% della paga base (anni fa i metalmeccanici della Cisl con un’alzata di ingegno hanno proposto di tassare anche i non iscritti quando questi beneficiano di accordi stipulati dalle tre confederazioni: non è affatto certo che scherzassero).

I pensionati beneficiano di uno sconto e danno un obolo dell’ordine dei 30-40 euro. Ma la tassa non risparmia neanche i disoccupati, i cassintegrati e i lavoratori socialmente utili: l’Inps trattiene a favore dei sindacati il 3% dell’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti (quella che spetta a chi nei due anni precedenti ha lavorato a singhiozzo) e l’1% della Cig ordinaria e straordinaria e del sussidio per gli Lsu. Un esperto della materia come Giuliano Cazzola, già presidente dei sindaci dell’Inps, parla di un miliardo e forse più all’anno. Una cifra impressionante. A voler fare un calcolo della serva, solo per la Cgil che ha 2,5 milioni di lavoratori iscritti e 3 milioni di pensionati, si tratterebbe di 350-400 milioni di euro l’anno.

Questa montagna di soldi, e qua sta la prima anomalia, il sindacato non deve neanche fare la fatica di raccoglierla. L’articolo 26 dello Statuto dei lavoratori del 1970 ha assegnato il compito di esattori del denaro alle aziende, che lo trattengono dalle buste paga dei dipendenti, e agli istituti di previdenza, che lo sottraggono alla fonte dalle pensioni: solo l’Inps nel 2006 ha girato 110 milioni alla Cgil, 70 alla Cisl e 18 alla Uil.

Nel 1995 Marco Pannella ha tentato di far saltare il meccanismo, proponendo un referendum che abolisse la trattenuta automatica dalle busta paga. Il 12 giugno la maggioranza degli italiani s’è schierata al fianco del vecchio leader radicale. Il 57,1% ha partecipato al referendum. E 56 votanti su 100 si sono espressi per l’abrogazione dell’obbligo alla trattenuta. Un colpo durissimo per il sindacato. “Vogliono ridurci alla colletta” ha commentato acido Sergio Cofferati, all’epoca numero uno dei sindacalisti italiani. Ma il momento di sbandamento è durato poco.

Cgil, Cisl e Uil hanno semplicemente deciso di ignorare l’esito della consultazione popolare.Uscita dalla porta, la trattenuta è rientrata dalla finestra: non più prevista dalla legge, è stata salvata nei contratti collettivi, con la complicità dunque degli imprenditori, che subiscono dei costi ma non hanno alcuna voglia di mettersi a menare le mani con i sindacati.

Con un buco nell’acqua è finita anche, più di recente, l’offensiva di Forza Italia. Gli uomini di Silvio Berlusconi avevano presentato un emendamento al decreto Bersani. In pratica, la delega con cui il pensionato autorizza l’ente previdenziale a effettuare la trattenuta sulla pensione, che oggi è di fatto a vita, avrebbe avuto bisogno di un periodico rinnovo. Non sia mai. I sindacati hanno fatto capire che sarebbero stati pronti a salire sulle barricate. Il governo, già nei guai per conto suo, ha fatto pollice verso. E l’emendamento è saltato.

La delega, dunque, continua a non avere una scadenza. E già questa è una faccenda ben strana. Ma l’argomento assume i contorni di un vero e proprio scandalo se si va a guardare cosa accade quando un dipendente pubblico decide che del sindacato ne ha piene le tasche e dunque non vuole più versargli la sua quota annuale.

È scritto nero su bianco su un librone intitolato Prerogative sindacali e normativa di riferimento, con tanto di stemma della repubblica e intestazione della presidenza del consiglio dei ministri – dipartimento della funzione pubblica. Si legge a pagina 65: “La delega può essere revocata solamente entro il 31 ottobre di ogni anno e gli effetti della revoca decorrono dal  1° gennaio dell’anno successivo”.

Vuol dire che se un travet si sveglia di malumore il 1° gennaio di un certo anno e decide di mandare a quel paese i sindacati continua comunque a pagargli la tessera per un altro anno. Se invece lo storico passo lo compie il 1° novembre allora il contributo lo sborsa addirittura per quattordici mesi, fino al gennaio di due anni dopo. In base a un calcolo matematico un impiegato dello stato che cancella la sua iscrizione al sindacato continua a vedersi effettuare trattenute abusive sulla busta paga, in media, per sette mesi e mezzo. Se il suo versamento annuale fosse intorno ai 100 euro, ecco che se ne vedrebbe sfilare poco meno di 60.

Una truffa in piena regolanella quale lo stato si rende complice del sindacato a danno di quelli che normalmente vengono definiti i suoi assistiti. E sulla quale nessuno, a partire dalla corte dei conti, ha mai pensato di dover alzare il velo.

La micidiale trappola non scatta solo per gli impiegati dello stato. Dal 1973 al 1998, per un quarto di secolo, ha funzionato così anche all’Inps: se la revoca veniva presentata all’istituto entro il mese di settembre il prelievo a favore del sindacato andava comunque avanti fino alla fine dell’anno; se arrivava dopo il 1° ottobre il pensionato continuava a subire la decurtazione dell’assegno mensile addirittura fino alla fine dell’anno successivo: un salasso lungo 15 mesi.

Dal 1998 il prelievo forzoso è stato solo ridotto. Oggi la revoca ha effetto dall’inizio del terzo mese successivo alla data della sua presentazione. Un lasso di tempo sufficiente per il sindacato a contattare il pensionato dimissionario e convincerlo a tornare sui suoi passi. Già, perché dal 1998 al 2001 la prassi era che, appena ricevuta la revoca, l’Inps informava tempestivamente del pericolo in vista la confederazione interessata.

Dal 2002, con l’arrivo di Paolo Sassi come commissario, l’Istituto non si presta più al giochino di spifferare in anticipo a Cgil, Cisl e Uil la possibile perdita di un tesserato e dei relativi contributi. Continua però a prelevare abusivamente per due-tre mesi (che possono ancora oggi arrivare fino a nove per i lavoratori autonomi agricoli) la quota sindacale sulla pensione a chi ha dato la disdetta. Eppure la procedura dev’essere piuttosto semplice, almeno a giudicare dell’esiguità del compenso che l’Inps chiede per metterla in moto.

Le cifre sono contenute nella deliberazione n. 39 del consiglio di amministrazione del 5 febbraio 2002: per la cancellazione della delega l’Istituto fattura ai sindacati 2 euro e 1 centesimo. E infatti la scusa dei tempi tecnici non è solo poco credibile, ma totalmente falsa. La sfasatura temporale tra il ritiro della delega e la cessazione del prelievo è oggetto di accordi scritti (e standardizzati) tra l’Inps le diverse confederazioni.

Lo rivela un documento di 5 pagine, datato 23 novembre 2006 e firmato dal direttore generale dell’Istituto, Vittorio Crecco. Si tratta della circolare n. 135, che ha per oggetto la Convenzione tra l’Inps e il Sindacato autonomo pensionati padani (Sapp) per la riscossione dei contributi associativi sulle pensioni.

In allegato c’è il testo della convenzione che, al quarto comma dell’articolo 3, recita: “Nel caso in cui l’Inps riceva comunicazione direttamente dal pensionato della sua volontà di revocare la delega per la trattenuta sindacale sulla pensione, la struttura periferica dell’Inps procederà all’acquisizione della revoca, che avrà efficacia dal primo giorno del terzo mese successivo a quello in cui è pervenuta alla struttura stessa”.

È la tassa da pagare per uscire dal sindacato, la cui figura in questo caso richiama alla mente la banda Bassotti più che i tre porcellini. In barba al referendum, tutto è dunque rimasto come prima.

*Tratto da L’altra casta – Stefano Livadiotti 

Gli stipendi in Italia sono fermi a vent’anni fa. Così ci hanno rubato il futuro!

 

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Gli stipendi in Italia sono fermi a vent’anni fa. Così ci hanno rubato il futuro!

La classe politica italiana che ha governato negli ultimi trent’anni ha fallito. Non lo dice un esponente del governo del cambiamento, lo dicono i numeri. Dal 2000 al 2017 gli stipendi dei dipendenti italiani sono aumentati in media soltanto di 400 euro all’anno, mentre nello stesso periodo in Germania si è registrata una crescita media di 5mila euro annui e in Francia la crescita media dei salari ha raggiunto i 6mila euro. Mentre i lavoratori nel resto del continente europeo hanno guadagnato potere di acquisto, la nostra classe media è praticamente scomparsa dai radar, scatenando nel Paese quello che il Censis ha definito “sovranismo psichico” e generando una prevedibile ondata di rancore.

L’Italia ha smesso di crescere da decenni, alternando gravi fasi di recessione a momenti di debole ripresa. Oltre al danno per le finanze pubbliche, l’economia che arranca ha un effetto diretto anche sullo stipendio che arriva nelle tasche degli italiani ogni mese. Così, negli ultimi anni, la forbice salariale si è ulteriormente ampliata a favore di Paesi come la Spagna che all’inizio del nuovo millennio aveva un livello medio salariale molto simile a quello italiano, mentre adesso c’è una distanza reale di circa 2mila euro. D’altronde, se alla mancata crescita aggiungiamo l’assenza di una seria politica industriale in grado di favorire lo sviluppo tecnologico e delle competenze la stagnazione dei salari diventa quasi ineluttabile.

In Italia c’è un evidente problema di produttività: non riusciamo a produrre valore aggiunto e ci accontentiamo di quello che abbiamo, cercando di recuperare quanto abbiamo perso attraverso la svalutazione del lavoro. Il risultato è che i nostri salari si stanno pericolosamente avvicinando a quelli dell’Europa dell’Est, non compensati però dai ritmi di crescita elevati. L’Italia dovrebbe essere in prima linea nelle produzioni ad alto valore aggiunto e nell’erogazione di servizi di eccellenza. Dovremmo puntare sulle competenze specialistiche e operai altamente specializzati. Dovremmo, appunto.

A partire dal secondo dopoguerra, una buona parte della forza lavoro è stata vincolata a contratti collettivi nazionali, con il sindacato che negoziava il compenso minimo per una larga fetta di lavoratori. Negli ultimi trent’anni, la precarietà introdotta nel mercato del lavoro ha ridotto il potere contrattuale esercitato dai sindacati con le imprese e di conseguenza quello, dei loro iscritti. Nel frattempo i dati negativi sulla crescita retributiva e l’aumento del lavoro precario hanno portato al centro del dibattito l’idea di stabilire un salario minimo legale – idea tutt’altro che peregrina. Le decine di migliaia di lavoratori della Gig Economy riceverebbero così il giusto compenso per l’attività svolta, così come i giovani professionisti, che rappresentano la fascia meno tutelata nell’attuale mondo del lavoro.

Se il contratto a tempo indeterminato è diventato una chimera, sono i contratti a tempo determinato e stage a conoscere un vero boom. Tra il 2012 e il 2017 il numero degli stage è cresciuto del 100%, arrivando a 368mila attivazioni in un anno. La precarietà dei tirocini non conosce crisi: più del 10% di quelli attivati riguarda persone di età compresa tra i 35 e i 54 anni e sono in aumento anche gli over 55. La formazione professionale, motivo dell’introduzione degli stage nel mondo del lavoro, viene ignorata dalla maggior parte delle aziende che hanno come unico obiettivo quello di risparmiare sul costo della forza lavoro.

Dietro l’insopportabile strumentalizzazione che è in atto sulla questione dell’immigrazione si nasconde un altro dramma diametralmente opposto, e ignorato, l’emigrazione. I cittadini italiani vanno all’estero per cercare un’occupazione ben pagata e in linea con le loro competenze professionali. Soltanto nel 2017 hanno lasciato il Paese circa 130mila cittadini italiani, confermando un dato che cresce anno dopo anno. Addirittura secondo i dati elaborati dal centro studi Idos, il numero di italiani che sono emigrati nello stesso periodo raggiungerebbe addirittura 285mila. Secondo l’Istat, il 64% dei 244mila i giovani che negli ultimi 5 anni sono andati a cercare un futuro all’estero possiede un diploma o una laurea. Tanto per capirci, negli anni Cinquanta lasciavano l’Italia circa 290 mila persone ogni anno. Stiamo raggiungendo livelli di emigrazione vicini a quelli del secondo dopoguerra ma ci appassioniamo alle vicende di 47 migranti che scappano dalle torture libiche.

In un contesto simile, l’idea che il solo reddito di cittadinanza possa migliorare la qualità del lavoro in Italia e il livello dei salari è un’illusione che non ha nessuna conferma nella realtà, soprattutto se si paragona il livello dei salari medi del Sud Italia con le cifre promesse dal governo con il reddito di cittadinanza. Nell’analisi depositata al Senato dal presidente dell’Inps Tito Boeri viene messo nero su bianco che circa il 45% dei lavoratori subordinati privati del Meridione guadagna meno dei 780 euro che verranno percepiti da alcuni dei beneficiari della misura simbolo del M5S. Chi riceve un reddito da lavoro dipendente potrebbe rimanere spiazzato da questo intervento, arrivando a pensare che mettersi nelle mani dello Stato sia un’alternativa migliore allo sfruttamento da parte di un privato per uno stipendio troppo basso. Se i partiti all’opposizione, centrosinistra in testa, denunciano l’eccessiva generosità delle cifre previste dal reddito di cittadinanza, nessuno riporta l’attenzione sul fatto che l’Italia è diventata un’economia basata sul precariato con milioni di italiani e stranieri sottopagati.

Vent’anni di pessima politica ci hanno portato fino a qui. Schiavi del nostro debito pubblico, innamorati del clientelismo, incapaci di innovare e, soprattutto, diffidenti verso ogni sforzo volto al miglioramento. L’Italia ha ancora le risorse sociali e tecnologiche per rimettere al centro del suo sistema produttivo i lavoratori, le loro competenze e la creatività. Sì, di strada da fare ce n’è parecchia, ma iniziare riconoscendo il giusto compenso a chi lavora è un ottimo punto di partenza.

 

fonte: https://thevision.com/attualita/stipendi-italia-futuro/

Per rinfrescarVi la memoria – La proposta di Draghi: abbassare gli stipendi per salvare l’Euro! La nostra proposta: Perchè non vi togliete dalle palle tu e l’Euro così ci salviamo noi??

 

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La proposta di Draghi: abbassare gli stipendi per salvare l’Euro! La nostra proposta: Perchè non vi togliete dalle palle tu e l’Euro così ci salviamo noi??

 

La proposta di Draghi: abbassare gli stipendi per salvare l’Euro! La nostra proposta: Perchè non vi togliete dalle palle tu e l’Euro così ci salviamo noi??

Per rinfrescarVi la memoria:

L’ultima di Draghi: abbassare gli stipendi per salvare l’euro

Svalutazione non monetaria ma salariale. Bce vuole abbassare remunerazioni mantenendo l’obiettivo di una inflazione vicina alla soglia del 2%.

La Bce vuole abbassare le remunerazioni degli europei pur mantenendo l’obiettivo di una inflazione vicina alla soglia del 2% prestabilita. Draghi ha lanciato un appello nemmeno troppo velato in cui chiede di poter aggiustare gli stipendi per aiutare l’euro. Si tratta in pratica di una svalutazione non monetaria bensì salariale nel blocco a 18. Abbandonare così come salvare la moneta unica ha un prezo. “Il prezzo da pagare per voler mantenere a tutti i costi l’euro comporta dei costi economici, ma anche dei costi in termina di perdita di crescita e dei costi sociali”, dice Charles Sannat, giornalista e analista ‘contrarian’, professore di economia in diverse università di business parigine. Ricapitolando, nelle sue ultime uscite ufficiali in pubblico, Draghi ha detto che “ogni economia deve essere abbastanza flessibile da trovare e sfruttare i suoi vantaggi concorrenziali, per poter beneficiare del mercato unico”. Aggiungendo anche ogni paese deve essere abbastanza flessibile da “rispondere agli shock di breve termine, inclusi gliaggiustamenti al ribasso degli stipendi o il ribilanciamento delle risorse tra i settori“.

Il banchiere centrale ha spiegato che l’unione monteraria, sebbene irrevocabile rimane ancora incompleta senza il trasferimento del budget permanente tra i paesi e senza una forte mobilità di disoccupati tra i confini dell’Europa.

“La mancanza di riforme strutturali ha creato lo spettro di una divergenza economica permamente tra i membri del blocco a 18″, ha osservato Draghi.

Interrogato sui rischi di ritornare al sistema del XIX secolo, in cui i salari e i prezzi potevano abbassarsi e aumentare fortemente, Draghi ha difeso la necessità di adottare una “svalutazione interna” (ovvero abbassare i costi di un paese se non è possibile abbassare i tassi di cambio). La principale lezione, secondo Draghi, che ci ha fornito la crisi è che “in seno all’Ue dobbiamo stare attenti a non lasciare che i salari e i prezzi deviino”. “Dobbiamo stare molto attenti a mantenere i paesi competitivi“. Ma senza aggiustamenti monetari, non restano che aggiustamenti dei salari. La sola maniera relativamente rapida per ritrovare la competitività è abbassare gli stipendi, come è successo in Grecia e in Spagna.

In media gli spagnoli sono pagati 675 euro al mese e un greco 480 euro. Ma il vero problema è che la riduzione delle buste paga non è accompagnata da un calo dei prezzi necessari per poter veramente ritrovare la crescita economica o piuttosto dell’attività economica. In pratica anche in caso di salario dimezzato, se l’affitto passasse da 600 euro al mese a 100 ovviamente il contraente ne uscirebbe vincitore. Ma non è il caso nel Sud d’Europa. Parlando di “aberrazione economica” di proporzioni “storiche”, Sannat scrive che se la Bce ci chiede di abbassare i salari, lo stesso Draghi vuole mantenere l’inflazione vicina al 2%, ovvero un rincaro dei prezzi al consumo rispetto ai valori bassi attuali. Il board della Bce dovrebbe decidere a maggioranza sulle nuove misure non convenzionali anti-deflazione, tra cui l’acquisto di titoli di Stato. Lo ha detto il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, secondo cui nella riunione della Banca centrale europea giovedì “mi sembra di aver capito chiaramente” che si va verso una “decisione a maggioranza”. “Mi aspetto ragionevolmente delle scelte che non siano penalizzate da qualcuno che deve essere contrario per forza”.

Smurtfit Kappa di Anzio: un altro operaio sacrificato all’altare del dio profitto – Un giovane 22enne morto sul lavoro, di cui i media, che notoriamente non amano dare dispiaceri alle multinazionali, non hanno detto niente…!

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Smurtfit Kappa di Anzio: un altro operaio sacrificato all’altare del dio profitto – Un giovane 22enne morto sul lavoro, di cui i media, che notoriamente non amano dare dispiaceri alle multinazionali, non hanno detto niente…!

Smurtfit Kappa di Anzio: un altro operaio ucciso dal profitto

Alla lunga lista di omicidi sul lavoro, sabato 23 febbraio si è aggiunto Marian Robert Neacsu operaio di 22 anni, dipendente della cooperativa Lazio Nord addetta alla manutenzione degli impianti dello stabilimento Smurfit Kappa di Anzio. La Smurtfit è una multinazionale che produce prevalentemente imballaggi e cartoni.

Marian Robert Neacsu stava lavorando assieme ad altri lavoratori della Lazio Nord allo svuotamento di un cassone con materiale di risulta verso un cestello più piccolo con l’ausilio di un “muletto” manovrato da un collega. Dalle prime ricostruzioni sembra che sia stato investito dal cestello, forse in seguito ad un colpo di vento che in quella giornata soffiava forte e sia rovinato a terra travolto dal cassone e dal materiale.

Nei prossimi giorni sapremo se Marian Robert Neacsu e i suoi colleghi erano stati muniti dei dispositivi di sicurezza individuali. Quali criteri di sicurezza erano stati adottati dalla Smurtfit e dalla Lazio Nord. Perché, nonostante la legge lo vieti, si movimentavano cestelli alla presenza di raffiche di vento superiori ai 7 metri il secondo?

In questa tragedia non c’è casualità, con tutta probabilità se Smurfit Kappa e la Lazio Nord avessero rispettato la vita e l’incolumità di Marian e di quanti lavorano nello stabilimento, oggi non saremmo qui a piangere l’ennesimo lavoratore che non ha fatto ritorno a casa.

I dati e le cronache confermano che laddove c’è un morto o un ferito sul lavoro, c’è un’azienda che ha risparmiato sulla sicurezza, che ha imposto ritmi e condizioni di lavoro che mettono in pericolo i lavoratori.

Sempre più spesso si tratta di lavoratori precari, di aziende e cooperative con appalti ribassati, cui sono affidati lavori pericolosi o poco redditizi, come la manutenzione.

E’ tempo di alzare la testa e rispondere a questa che ha assunto i numeri di una guerra a bassa intensità, che se da un lato vede le aziende fare risparmi e profitti, dall’altra ogni anno si contano centinaia di lavoratori uccisi, intossicati e feriti a volte irrimediabilmente.

Respingiamo con forza le ipocrisie di una classe dirigente politica, sindacale e industriale che ha sostenuto con leggi, accordi e con l’applicazione delle indicazioni dell’UE, il peggioramento delle condizioni di sicurezza dei lavoratori.

 

fonte: http://contropiano.org/news/lavoro-conflitto-news/2019/02/25/smurtfit-kappa-di-anzio-un-altro-operaio-ucciso-dal-profitto-0112766?fbclid=IwAR3lAyMs5ycy_blc5G3d6VTzng-oVIL_AcrGyihaLad2yp9VlWOTNR6acvM

Una storia: “Faccio la commessa per 3,20€ l’ora, a nero e senza tutele” – È questa l’Italia dei 30enni…!?!

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Una storia: “Faccio la commessa per 3,20€ l’ora, a nero e senza tutele” – È questa l’Italia dei 30enni…!?!

 

“Faccio la commessa per 3,20€ l’ora, a nero e senza tutele: questa è l’Italia dei 30enni”

Storia di Veronica, poco più che trentenne, che da più di un anno lavora sottopagata, sfruttata, 10-12 ore al giorno per un negozio di generi alimentari a Roma.

“Da più di un anno ho una situazione di lavoro a dir poco imbarazzante. Lavoro come commessa in un punto vendita di generi alimentari di buon livello a Roma. Da più di un anno lavoro sottopagata, sfruttata, 10-12 ore al giorno. A 3,20 euro l’ora, a nero. Circa 800 euro al mese. Ho lavorato festivi e domeniche e non sono stata retribuita.

Tredicesima e quattordicesima non esistono, così come la malattia”.

Questa è la storia di Veronica (nome di fantasia ndr), una ragazza poco più che trentenne, impiegata, si fa per dire, in un negozio di alimentari in una zona centrale della Capitale. Veronica racconta a TPI del suo limbo senza alternative: costretta a lavorare per pochissimi euro al giorno, senza prospettive concrete o possibilità di tutele contrattuali.

Veronica lavora con altri italiani, tutti ormai rassegnati di fronte alle precarie condizioni lavorative.

Il lavoro nero si conferma come uno dei più grandi problemi per l’Italia e le casse dello Stato. Sono circa 1,5 milioni i lavoratori ‘invisibili’ a fronte di 5,7 milioni di aziende attive sul territorio italiano. Un fenomeno che produce un “buco” di circa 20 miliardi di euro per l’erario, secondo le stime di un’analisi condotta dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro.

Come hai conosciuto questo posto? Come ci sei finita a lavorare?

Tramite il passaparola ho saputo che c’era un’opportunità di lavoro.

Hai parlato con il titolare?
Sì. Il titolare mi aveva detto la metà delle ore, a un altro prezzo. Per un anno mi ha illuso che mi avrebbe fatto il contratto. L’accordo era di sei ore.

Poi cosa è successo?

La cosa si è ribaltata, io mi sono opposta più volte ma il titolare è anche una persona aggressiva che intimorisce. Mi fa le scenate, mi bestemmia in faccia, sono abbastanza terrorizzata.

I turni chi li decide?

Non esistono turni: entro la mattina alle 9 ed esco la sera alle 20.00.

Ci sono altre persone che lavorano lì? Cosa dicono?

Non ne sono contenti, ma sostanzialmente non dicono nulla. Sono arresi.

Sono italiani i tuoi colleghi?

Sì, certo. Persone mature.

È stancante il lavoro?

A volte non c’è nemmeno il tempo di mangiare, o bisogna mangiare in cinque minuti.

Come ti vengono dati i soldi?

A mano, a fine mese.

Come ha funzionato all’inizio?

Gli accordi erano che avrei preso gli stessi soldi ma per meno ore. La prima settimana è andata bene. I patti erano rispettati. Poi mi ha cominciato a dire che dovevo restare di più e a mano a mano le ore sono aumentate.

Quando eri malata come andava?

Se ero malata non mi pagava, e tratteneva i soldi dallo stipendio.

Sei consapevole che se accadesse qualcosa mentre lavori non sei per nulla tutelata?

Sì, ci penso spesso. Ma non so assolutamente come fare.

E ora cosa è successo?

Mi ha detto che dovrò andare via e che non può più pagarmi.

Perché non te ne sei andata prima spontaneamente?

Quando io protestavo e gli spiegavo che non era il modo di lavorare, lui mi rispondeva dicendomi che il mese seguente mi avrebbe fatto il contratto. Mi ha presa in giro. “Non è il momento questo. Di cosa hai paura?”, e così andava a oltranza. Ci ho pensato tante volte ad andarmene, poi speravo che le cose potessero cambiare.

Però un anno è tanto …

Ogni mese diceva questa cosa e ogni mese mi illudeva. In questi ultimi tempi peraltro trovare un lavoro è davvero complicato, ho avuto difficoltà e quindi ho resistito.

Il negozio va bene? C’è la clientela?

Sì, certo.

Secondo te quindi sarebbe nelle condizioni di offriti un salario migliore e delle condizioni migliori?

Secondo me sì.

“Il Ministro Di Maio dimostri davvero che ha a cuore la piaga del lavoro nero – dichiara Francesco Iacovone, del Cobas nazionale – perché non siamo alle Iene e non parlo del papà ormai più famoso d’Italia. Siamo nel mondo del commercio dove centinaia di milioni di cittadini/lavoratori subiscono soprusi di ogni genere”.

“Dal lavoro in nero a quello ‘in grigio’, con contratti regolari a metà e il resto fuori busta – prosegue il rappresentante sindacale – che rappresentano un’enorme evasione contributiva e fiscale e un ingente danno per i conti dello Stato. Tutti fanno finta di non vedere, ma in realtà questa degenerazione la conoscono tutti”.

“E non finisce qui, perché al lavoro nero si aggiungono il superamento delle soglie di precarietà contrattuale, le dimissioni in bianco, le discriminazioni di genere, i part time imposti, le condizioni di sicurezza inesistenti. Insomma, ci vuole davvero una task force di ispettori che faccia luce su uno dei settori produttivi più sfruttati”.

 

tratto da: https://www.tpi.it/2018/12/07/lavoro-nero-commessa-roma/?fbclid=IwAR0KNtOFsHFGpes224h90FEU0VeEOq_1IDbhqvvTzJZnVqGtyylD-ZbKtP0

La verità sui furbetti del cartellino – Tanti annunci clamorosi, tanta propaganda sui media, ma poi la fanno franca quasi tutti: meno di 4 su 100 alla fine vengono licenziati…!

 

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La verità sui furbetti del cartellino – Tanti annunci clamorosi, tanta propaganda sui media, ma poi la fanno franca quasi tutti: meno di 4 su 100 alla fine vengono licenziati…!

Quasi tutti i procedimenti disciplinari si chiudono con provvedimenti soft o archiviazioni. Sono solo pochi i casi in cui si giunge al licenziamento.

La lotta ai cosiddetti “fannulloni” o “furbetti del cartellino” è un cavallo di battaglia di ogni ministro della pubblica amministrazione: da Renato Brunetta, che nel 2008 aveva prolungato l’orario di reperibilità dei lavoratori malati, a Marianna Madia, che si era inventata il fantomatico, mai visto, “licenziamento sprint”. Fino a Giulia Bongiorno che con il suo “ddl concretezza” ha annunciato rilevazioni biometriche e videosorveglianza per stanare i fannulloni.

Ma qual è la reale portata del fenomeno? Secondo i dati pubblicati da La Stampa i “licenziati per motivi disciplinari sarebbero meno di 4 su 100”.

L’approfondimento, basato sulla rielaborazione dei dati grezzi raccolti dall’Ispettorato della funzione pubblica e sugli interventi di qualificati specialisti, certifica che il numero dei licenziati per motivi disciplinari sul totale dei dipendenti pubblici è marginale: uno ogni 10mila nel 2017 (0,009%). Mentre la percentuale dei procedimenti disciplinari che si chiudono con l’allontanamento del lavoratore è stata del 3,77% nello scorso anno.

Secondo lo staff della Bongiorno “metà dei lavoratori è incline a farsi gli affari propri”, quindi gli assenteisti sarebbero circa il 50% del totale. Un dato non condiviso dai sindacati. “Mi attengo ai dossier, dai quali deduciamo che l’assenteismo non è una piaga così diffusa e men che meno eclatante”; ha detto Florindo Oliverio, responsabile nazionale della contrattazione enti pubblici per la Cgil. In ogni caso i furbetti, una volta pizzicati, se la passerebbero liscia in quanto “la maggior parte dei procedimenti terminano con provvedimenti soft o archiviazione”.

Dai dati emerge anche che nei Comuni si licenzia meno che all’Università: nel primo caso la percentuale è meno del 2% dal 2013 a oggi, mentre nel secondo la media è del 7,5%. Secondo Luca Failla, giuslavorista e fondatore dello studio Lab/Law di Milano, i licenziamenti nel pubblico sono bassi perché la sensibilità di un manager pubblico in materia è inferiore a quella di un privato”. E conclude: “Ministeri, atenei, municipi se hanno sospetti si rivolgono a carabinieri e alle Procure. Ma poi il processo impaluda i tempi e offre alibi ai funzionari inerti”. Di conseguenza i licenziamenti reali alla fine sono marginali. Basti recordare la “retata di Sanremo” del 2015 che ha portato sotto inchiesta 200 dipendenti su 470. Ma a distanza di tre anni sono stati 32 i licenziati in via definitiva, 23 dei quali hanno fatto ricorso e uno è stato reintegrato.

L’analisi impietosa del quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung: i giovani Italiani guadagnano meno dei coetanei Polacchi. Al Sud 1 su 2 è senza lavoro.

 

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L’analisi impietosa del quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung: i giovani Italiani guadagnano meno dei coetanei Polacchi. Al Sud 1 su 2 è senza lavoro.

 

GIORNALI TEDESCHI: ”NEL SUD ITALIA DISOCCUPAZIONE AL 46,6%. I GIOVANI ITALIANI GUADAGNANO MENO DEI COETANEI POLACCHI”

“Nel Sud Italia la disoccupazione giovanile e’ del 46,6 per cento, il doppio rispetto al resto del paese. Con i loro mini-lavori precari – scrive oggi in prima pagina il quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung – i giovani italiani guadagnano meno dei coetanei polacchi”.

L’articolo prosegue così: “Dei 716.000 italiani meridionali che si sono trasferiti al Nord negli ultimi 15 anni, oltre il 70 per cento aveva meno di 34 anni. Luca di Montezemolo, ex capo della Ferrari, avverte: “Il Sud e’ oggi il problema numero uno in Italia”. Il trionfo populista alle elezioni del 4 marzo e’ stato uno shock. Nel ricco Nord, coloro che si sentono esclusi dal processo della globalizzazione hanno scelto la Lega, che promette tariffe punitive e la drastica riduzione delle tasse al 15 per cento”.

“Il Movimento 5 stelle di Luigi Di Maio – prosegue il Sueddeutsche Zeitung  – ha invece trionfato al Sud con lo slogan “piu’ Stato”. Cio’ dimostra che il divario tra le due parti del paese e’ aumentato drasticamente durante la crisi economica. Il nuovo parlamento riflette questa divisione. Tuttavia il risultato delle elezioni sembra non essere stato un shock per il produttore di freni Brembo che il giorno dopo ha registrato un aumento azionario alla Borsa di Milano. Ad aiutare la buona situazione e’ anche la Bce che sta ancora utilizzando il suo programma di acquisto per aiutare gli italiani troppo indebitati. Un altro fattore stabilizzante e’ che la quota di creditori stranieri e’ diminuita drasticamente dopo la quasi bancarotta nel 2011″.

“Ma soprattutto – aggiunge il giornale – la ripresa ha cambiato l’Italia. Il deficit di bilancio nel 2017 e’ stato inferiore dell’1,9 per cento rispetto a quanto pianificato. Entro il 2018, il disavanzo e’ destinato a ridursi all’1,6 per cento. Il rapporto debito – Pil e’ sceso leggermente per la prima volta in dieci anni, al 131,5 per cento. “Lasciamo un budget ordinato”, ha twittato il ministro delle Finanze uscente, Pier Carlo Padoan. Ottimista anche il capo di Uni Credit Jean Pierre Mustier: “Riteniamo che la crescita continuera’ in Italia e il paese sara’ tra i vincitori in Europa”, ha affermato il francese”.

“Mario Draghi – scrive ancora il Sueddeutsche Zeitung – ha parlato piu’ cautamente da Francoforte. “Un’instabilita’ politica duratura puo’ minare la fiducia”, ha avvertito il capo della Bce, senza menzionare l’Italia. Allo stato attuale, il clima di fiducia nell’economia italiana e’ migliore di quanto lo sia stato dalla crisi del 2008. Il surplus commerciale dell’industria metalmeccanica ha raggiunto i 52 miliardi di euro. L’ex primo ministro Mario Monti confida nell’Unione europea e nelle sue regole, che limita il margine di manovra dei governi. Gli ottimisti, conclude pero’ la “Sueddeutsche Zeitung”, ignorano quanto l’Italia stia andando alla deriva. Nel Nord-Est la produzione industriale e’ in crescita, ma la Sicilia ha perso in termini di competitivita’. Tra il 2001 e il 2016, l’economia italiana del Sud si e’ ridotta del 7,2 per cento”.  E’ un’Italia divisa politicamente in due parti che puntano in direzioni opposte.

 

tratto da: http://www.ilnord.it/c-5498_GIORNALI_TEDESCHI_NEL_SUD_ITALIA_DISOCCUPAZIONE_AL_466_I_GIOVANI_ITALIANI_GUADAGNANO_MENO_DEI_COETANEI_POLACCHI

 

Aboubakar Soumahoro, il sindacalista nero che urla cose scomode – “Noi migranti uguali a voi italiani: sfruttati dai padroni…!”

 

 

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Aboubakar Soumahoro, il sindacalista nero che urla cose scomode – “Noi migranti uguali a voi italiani: sfruttati dai padroni…!”

Aboubakar Soumahoro: noi migranti uguali a voi italiani sfruttati dai padroni

Forse la Puglia ha trovato un altro Giuseppe Di Vittorio. Ed è nero. E sa ricordare i morti di oggi e quelli di ieri, a Marcinelle. Sa dedicare la protesta a Paola Clemente, uccisa in quei campi dalla fatica.

Aboubakar Soumahoro, sindacalista della Usb, ha la voce ferma quando chiama i braccianti di Puglia a scioperare. Nella piazza di San Severo chiede un minuto di silenzio per ricordare i 16 “compagni, i fratelli morti”. Fratelli uccisi in due differenti incidenti che aprono uno squarcio sulle condizioni inaccettabili dei braccianti in Italia, a nord come a sud.

Aboubakar Soumahoro urla in un megafono e per prima cosa ricorda le vittime di Marcinelle, i minatori italiani uccisi in Belgio. “Siete stati emigranti anche voi. Eravamo sfruttati ieri, siamo sfruttati oggi”. E’ un discorso forte, potente, vibrante. Quando Aboubakar dice che lo sciopero di oggi in Puglia è in memoria di Paola Clemente, la bracciante uccisa dalla fatica, si alza un applauso. “Perché il suo sacrifico è il nostro, perché la sua fatica è la nostra, tutti i giorni sui campi a spaccarci la schiena. Prendiamo un euro l’ora. I pomodori che trovate nei supermercati li abbiamo colti noi, ma la grande distribuzione ci schiaccia, i padroni ci sfruttano. Non date la colpa agli autisti che guidavano i pullmini, andate a cercare in alto, più sopra di noi”.

Aboubakar Soumahoro urla: stesso lavoro, stessa paga, e i migranti africani, i lavoratori della terra urlano con lui. Poi si rivolge al ministro Di Maio. Dice: “Lei parla di dignità ma si metta gli stivali e venga nei campi con noi. Non chiuda i centri di occupazione ma semmai le agenzie interinali. Sono anche loro i caporali, quelli che sfruttano, ci sfruttano”. E infine manda un messaggio a Salvini: “Chi lavora, come lavoriamo noi migranti, va regolarizzato. Noi produciamo per voi”

Forse la Puglia ha trovato un altro Giuseppe Di Vittorio, il sindacalista dalla parte degli invisibili, dei contadini, degli sfruttati. E’ un Giuseppe Di Vittorio nero che non ha paura di chiamare le cose con il loro nome, di ricordare all’Italia che non accoglie ma che sfrutta che la strada dei diritti è uguale per tutti.

fonte: https://www.globalist.it/news/2018/08/08/aboubakar-soumahoro-noi-migranti-uguali-a-voi-italiani-sfruttati-dai-padroni-2029171.html

Luigi Paragone alza la voce in aula: ‘Non esiste la dignità del lavoro senza la dignità dei lavoratori’

 

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Luigi Paragone alza la voce in aula: ‘Non esiste la dignità del lavoro senza la dignità dei lavoratori’

“Non pensavo onestamente che la parola ‘dignità’ creasse il panico e che addirittura scatenasse terrore l’espressione ‘dignità dei lavoratori’, e invece a quanto pare siamo a questi livelli”.

Così il senatore del M5S Gianluigi Paragone intervenendo ieri in aula.

“È vero” ha proseguito “il lavoro non si crea attraverso una legge, non si crea attraverso un decreto, ma pessime leggi hanno cancellato la dignità dei lavoratori, questo è accaduto. Pessime leggi hanno di fatto reso invisibile il lavoratore, come se si dovesse piegare ogni volta ad un modello low-cost anche del lavoro, e quindi anche il lavoratore diventa un soggetto interscambiabile”.

Paragone ha poi spiegato che “la potenza del decreto dignità è che per la prima volta proprio attraverso la parola dignità il lavoratore ricompare. Perché è impossibile pensare di poter rimettere a fuoco il concetto del lavoro quando è fuori fuoco il concetto di lavoratore, ma è il lavoratore che è agganciato al lavoro. È il lavoratore che è carico di diritti. E quando si parla di diritti del lavoratore non si può pensare che il contratto a tempo indeterminato sia un colpo di fortuna che capita nella vita, ecco perché è importante cominciare a rimasticare il concetto di un contratto solido, di un contratto che dà prospettiva”.

“E invece” ha proseguito Paragone “devo registrare delle frasi incredibili, come quelle di Zoppas, il presidente di Confindustria Veneto, che evidentemente parla lo stesso linguaggio di alcuni senatori appartenenti a quest’aula. Ma lui è andato oltre, ha detto: ‘Il Decreto Dignità per noi imprenditori è un cappio al collo’. Cioè il presidente di Confindustria sta citando una drammatica situazione che imprenditori del Veneto hanno purtroppo vissuto. E quegli imprenditori del Veneto si sono suicidati perché non volevano licenziare”.

 

tratto da: https://www.silenziefalsita.it/2018/08/07/paragone-non-esiste-la-dignita-del-lavoro-senza-la-dignita-dei-lavoratori/