Il grande editoriale di Marco Travaglio: Si fa presto a dire nuovo

 

Marco Travaglio

 

 

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Il grande editoriale di Marco Travaglio: Si fa presto a dire nuovo

 

Si fa presto a dire nuovo

Forse è solo una cambiale da pagare, in vista delle Regionali, al Partito degli Affari e ai suoi numi tutelari torinesi Chiamparino e Fassino, noti trasformisti ex comunisti, ex dalemiani, ex prodiani, ex veltroniani, ex bersaniani, ex renziani e ora zingarettiani.

Ma Nicola Zingaretti che annuncia come prima mossa la visita ai cantieri-fantasma del Tav all’indomani della bella vittoria alle primarie non è un bel sentire.
Se davvero, come dice, il neosegretario Pd vuole “voltare pagina” rispetto al passato della Ditta e del renzismo, quello era l’ultimo posto dove farsi vedere nel primo giorno della nuova avventura. Anche perché, per parlare al mondo produttivo del Nord, ci sono mille altre occasioni un po’ più moderne e avanzate di un vecchio, costoso, inquinante, inutile buco nelle Alpi che neppure i francesi hanno più alcuna intenzione di finanziare.
Ma siccome domani, anzi oggi, è già un altro giorno, si spera che il nuovo segretario riesca presto a dare qualche segnale di vera novità e discontinuità. Quale Pd abbia in mente pareva chiaro l’estate scorsa, quando disse lucidamente “Meno Macron e più equità”, anticipando i gilet gialli e facendo incazzare le Brigitte di casa nostra e sua. Poi contrasse il morbo veltroniano del ma-anchismo, tentando di tenere insieme tutto e il suo contrario in vista delle primarie.
Ora che ha vinto molto più del previsto, con 2 voti su 3, lasciando le briciole a Martina e Giachetti – gli ultimi due travestimenti del fu Renzi – può finalmente parlare chiaro. E uscire dalle fumisterie del politichese che tanta parte hanno avuto nella dannazione del centrosinistra.
Il popolo delle primarie, anche se sempre più esiguo (4,3 milioni per Prodi nel 2005, 3,5 per Veltroni nel 2007, 3 per Bersani nel 2009, 2,8 per Renzi nel 2013, 1,8 per il Renzi-bis nel 2017 e 1,6 per Zingaretti l’altroieri), ha risposto ancora una volta ai gazebo. Come sempre avviene, appena la politica offre una sia pur minima occasione di cambiamento.
Ma, nella società liquida, il nuovo invecchia in fretta, se non fa nulla per mostrarsi tale. Infatti Renzi, visto cinque anni fa come l’ultima spiaggia contro l’arrembante “antipolitica”, è già il vecchio e chi aveva sperato in lui si affida al suo opposto politico-antropologico: Zingaretti.
Il quale dovrà guardarsi da una tentazione che già si sente aleggiare in certi commenti trionfalistici: quella di pensare che la voglia di novità uscita dalle urne il 4 marzo 2018 sia tramontata e che tutte le caselle dell’Ancien Régime possano tranquillamente tornare al loro posto. Zingaretti non è certo nuovissimo, ma alla sua gente sembra tale.
E ha vinto così bene proprio perché appare il più lontano da Renzi e il più vicino a un’idea di sinistra ancora tutta da costruire. Compatibilmente con un partito che ha i gruppi parlamentari nominati e pilotati da Renzi&C., decisi a vender cara la pelle col ricatto della scissione.
Zingaretti, brava persona e politico navigato, sa distinguere gli amici dai nemici interni. Ora dovrà scegliersi anche quelli esterni. E decidere se l’avversario da battere è la destra a tradizione salviniana con i suoi satelliti berlusconiani e meloniani, oppure se – come ripete il pensiero unico mainstream, sposato in pieno dai Calenda e dai renziani – è quel generico “populismo” o “sovranismo” che somma le mele e le pere, cioè i leghisti e i 5Stelle, accomunati dalla propaganda di Repubblica nella ridicola casella delle “due destre”.
Nel primo caso, volente o nolente, il Pd dovrà tentare di staccare i 5Stelle dalla Lega offrendo loro un secondo forno per frenare Salvini, che gioca sempre su due tavoli.
Nel secondo, il Pd resterà ibernato nel freezer a cui Renzi l’ha condannato, nell’attesa vana che i voti perduti tornino spontaneamente all’ovile e gli restituiscano il 40% per governare da solo o con quel che resta di B.
Se invece quello che solo un anno fa era il secondo partito italiano torna in partita, con o senza la famiglia Renzi, non gli mancano le occasioni per mostrare il suo tasso di cambiamento sulle scelte concrete.
Se la linea è ancora “meno Macron e più equità”, cosa intende fare per i 5 milioni di poveri, i 3 milioni di precari e i 7 milioni di lavoratori sotto i mille euro al mese?
I 5Stelle, al netto dei loro pasticci congeniti, han fatto o tentato in un anno per queste categorie più di quanto il Pd in dieci: il pur timido e incompleto dl Dignità (che ha aumentato i contratti stabili e, malgrado le profezie di sventura, non ha provocato licenziamenti di massa); il reddito di cittadinanza che, con tutti i limiti e problemi applicativi che vedremo nelle prossime settimane, è il maggior investimento mai visto per redistribuire ricchezza verso i ceti più deboli; e l’imminente proposta di un salario minimo per tutti annunciata ieri da Di Maio.
Su questi temi l’ex LeU è aperta al dialogo (l’ha detto ieri Scotto al Fatto) e la Cgil di Landini pur dovrà dire qualcosa: che farà Zingaretti?
Tifare per il fallimento del reddito di cittadinanza, riproporre le ricette del precariato e ignorare i salari da fame, cioè restare il partito di Confindustria, non pare una grande idea. Il governo, almeno fino all’estate, non cadrà e, se poi cadesse, il Pd senza i renziani non avrebbe i numeri in Parlamento per governare col M5S.
Il discorso di nuove alleanze si porrà nella prossima legislatura. Ma chi fa politica deve individuare il nemico principale e agire di conseguenza. Finora il Pd si è associato a FI e Lega, con i rispettivi house organ, nella caccia grossa ai 5Stelle.
Che si sono indeboliti parecchio (anche col loro contributo). Ma a guadagnarci è stato solo Salvini.
Vedremo se Zingaretti capirà chi è il nemico del Pd e del Paese. E cosa farà per combatterlo. Cioè per essere non solo il nuovo segretario, ma anche un segretario nuovo.
“SI FA PRESTO A DIRE NUOVO” di Marco Travaglio sul Il Fatto Quotidiano del 5 marzo 2019

Un’altro brillante, irresistibile, spietato editoriale di Marco Travaglio: “I grillini involontari”

 

Marco Travaglio

 

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Un’altro brillante, irresistibile, spietato editoriale di Marco Travaglio: “I grillini involontari”

 

I grillini involontari

Ogni volta che i 5Stelle perdono un’elezione – cioè praticamente sempre, fuorché alle Politiche e nei Comuni mandati in bancarotta da quelli bravi e competenti – tutti si affrettano a decretarne il decesso. E ad annunciare il lieto ritorno del vecchio caro bipolarismo, cioè di quella roulette truccata dove, comunque vada, vince sempre il banco. Intanto torna in scena la Compagnia della Buona Morte di quelli che si credono i peggiori nemici dei 5Stelle, mentre sono i loro migliori alleati. E, appena l’ammucchiata si riappalesa in tutto il suo orrore e fetore, funge da promemoria per gli elettori smemorati o pentiti. Cioè rammenta loro il motivo per cui avevano votato M5S: per non rivedere mai più certe facce.

Prendete Carlo Calenda: all’apparenza, è difficile immaginare un politico (si fa per dire) più incompatibile con i grillini. Invece è uno dei loro migliori supporter. Le trippe e i bargigli esibiti sui social in riva al lago dei cigni ingoiati a colazione, con lo sguardo languido rivolto all’unico esemplare superstite candidato alla merenda, è un messaggio subliminale (anche per lui) agli elettori: cari italiani, non vorrete mica rivedere uno come me al governo, spero, dunque sapete per chi votare.

Prendete Renzi: giura “Non dirò mai una parola contro i giudici” e intanto li attacca gridando al complotto giudiziario a orologeria contro i genitori; dice “Il rancore lo lascio agli altri” e poi ci campa a colazione, pranzo e cena, schizzando bile contro chiunque osi non essere Renzi, con particolare riferimento ai 5Stelle. Messaggio subliminale (anche per lui): ragazzi, io ormai sono un caso umano ambulante, ma ho una sola possibilità di tornare, cioè la sconfitta dei 5Stelle, quindi sappiatevi regolare.

Prendete Maria Elena Boschi: l’altra sera s’è presentata su La7 travestita da professorina occhialuta, riuscendo a sfoderare un look ancor più antipatizzante del solito (e non era facile) e argomenti ancor più suicidi del consueto (e pareva impossibile): con tutto quel che han combinato lei e il padre su Banca Etruria, s’è messa a disquisire dei genitori di Di Maio e Di Battista, rammentando il suo monumentale conflitto d’interessi familiar-finanziario a chi se lo fosse scordato. Messaggio subliminale (anche per lei): nonostante tutto Di Maio e Di Battista sono meglio di me, perché han preso le distanze dai piccoli pastrocchi dei padri, mentre io continuo a difendere mio padre e i suoi pranzetti con Flavio Carboni, ma anche me stessa e i miei giri delle sette chiese per salvare la banca che lui amministrava così bene.

Prendete i tre candidati del Pd. Ieri, nel primo e unico confronto su Sky, avevano l’ultima occasione per far capire agli elettori cosa vogliono, cosa li divide, con chi intendono allearsi contro l’avanzata delle destre (ammesso che per loro sia un problema), quali cose di sinistra hanno in mente (reddito universale? salario minimo? patrimoniale? manette agli evasori? energie alternative?), insomma quale partita si gioca domenica e perché è importante andare ai gazebo. Ma l’hanno astutamente mancata: nessuno ha capito perché siano in tre, visto che dicono più o meno le stesse cose, a parte l’aspetto storico-archeologico del giudizio sulle “riforme” renziane (già peraltro anticipato dagli elettori). Messaggio subliminale (anche per loro): cari elettori di sinistra che avevate votato 5Stelle e ve ne stavate pentendo nel timore dell’ondata di destra, restate pure dove siete e non guardate a noi, perché qui non cambierà mai nulla, la sinistra ci fa schifo (patrimoniale pussa via) e l’ondata di destra non è un problema, semmai un’opportunità, dunque meglio lasciare al governo il M5S a sorvegliare un po’ la Lega e a far qualcosa per i deboli, perché noi sull’economia, lo sviluppo e il lavoro la pensiamo come Salvini&B.

Prendete Sergio Chiamparino, presidente uscente e si spera mai più rientrante del Piemonte: annuncia un referendum sul Tav per tutti “i piemontesi”, “il 26 maggio insieme alle elezioni europee e regionali”, sul “governo che blocca i lavori della Torino-Lione”, in base “all’articolo 86 dello Statuto regionale”. Ora, come spiega il giurista Pepino a pag. 2, quel che ha in mente il buontempone non è né un referendum né un voto per i piemontesi: l’art. 86 dello Statuto prevede una “consultazione” (peraltro consultiva, non vincolante, inutile) “di particolari categorie o settori della popolazione su provvedimenti di loro interesse”. E qui non si sa quali siano i provvedimenti da contestare, visto che il governo non ne ha adottato neanche uno, salvo disporre un’analisi costi-benefici non soggetta a referendum. Ma soprattutto si ignora quali siano le categorie o i settori interessati al Tav. A parte gli abitanti della Val di Susa infestati dal cantiere. Gli altri piemontesi, dai torinesi ai cuneesi, dagli astigiani agli alessandrini, dai novaresi ai verbanesi, hanno lo stesso interesse per il Tav dei lombardi, dei veneti, dei lucani e dei sardi, visto che tutti gli italiani lo pagherebbero caro e salato con le loro tasse. Ma, a tagliare la testa al toro, c’è il fatto che la Regione Piemonte, anche per promuovere questa ridicola “consultazione” tra non si sa bene chi e su che cosa, dovrebbe varare una legge ad hoc. E non l’ha mai varata, né avrebbe il tempo per vararla ora e organizzare il voto, visto che la campagna elettorale sta per partire. Quindi non è un referendum né una consultazione, ma solo la supercazzola di un candidato disperato a caccia di pubblicità. Messaggio subliminale (anche per lui): cari grillini, se noi siamo quelli competenti, meglio che vi teniate i vostri incompetenti, che magari saranno dei pasticcioni, ma almeno non sono dei truffatori.

“I grillini involontari” di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 1 Marzo 2019

Tutti fumo e niente arresto – Il grande editoriale di Marco Travaglio sull’arresto di Formigoni…

 

Marco Travaglio

 

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Tutti fumo e niente arresto – Il grande editoriale di Marco Travaglio sull’arresto di Formigoni…

Tutti fumo e niente arresto

A leggere le dolenti e lacrimanti dichiarazioni di politici e intellettuali di destra, centro e sinistra per l’arresto di Roberto Formigoni, condannato definitivamente dalla Cassazione a 5 anni e 10 mesi, cui farà seguito il consueto pellegrinaggio di vedove e orfani inconsolabili nella cella del nuovo Silvio Pellico, una domanda sorge spontanea. Ma che deve fare un politico italiano, per 18 anni governatore della Lombardia, per guadagnarsi un minimo di riprovazione sociale, se non bastano nemmeno 6,6 milioni di tangenti (su un totale di 80) sotto forma di ville in Costa Smeralda, yacht in Costa Azzurra, vacanze ai Caraibi e in Sardegna, banchetti a base di champagne in ristoranti stellati, benefit vari e finanziamenti elettorali illeciti rubati al sistema sanitario nazionale, cioè sulla pelle dei malati?

L’altroieri il Pg della Cassazione, chiedendo la conferma della condanna d’appello a 7 mesi e mezzo (poi un po’ ridotta per la solita prescrizione), ricordava “l’imponente baratto corruttivo… tenuto conto del suo ruolo e con riferimento all’entità e alla mole della corruzione, che fanno ritenere difficile ipotizzare una vicenda di pari gravità”. Siccome una sentenza irrevocabile, non il teorema della solita Procura di Milano, ha accertato che tra il 2001 e il 2011, dalle casse della Fondazione Maugeri e del San Raffaele (cliniche private convenzionate e foraggiate dalla Regione, con l’aggiunta di favori indebiti per 200 milioni di denaro pubblico), sono usciti rispettivamente 70 milioni e 8-9 milioni, poi transitati su conti di società estere “schermate” e finiti nelle tasche dell’imprenditore Pierangelo Daccò, dell’ex assessore Antonio Simone, di Formigoni e di suoi prestanome, tutti ciellini di provata fede, la classe dirigente di un Paese serio si congratulerebbe con i magistrati per aver neutralizzato e assicurato alla giustizia un pericoloso focolaio d’infezione che per quattro lustri ha depredato la sanità pubblica di una delle regioni più prospere d’Italia. Invece chi candidò questo bell’esemplare di nababbo a spese nostre col voto di povertà, chi lo sostenne (da FI ai centristi Udc alla Lega), chi finse di fargli l’opposizione (il Pd) e chi lo votò si vergognerebbe come un ladro. E tutti ringrazierebbero i 5Stelle per due meriti indiscutibili, acquisiti prima della cura Salvini: aver costretto i partiti a dare una mezza ripulita alle liste del 4 marzo 2018, cancellando almeno i più impresentabili fra gli impresentabili (senza i famigerati “grillini”, FI avrebbe ricandidato Formigoni per la sesta volta); e aver approvato la Spazzacorrotti che equipara la corruzione ai reati di mafia.

Cioè la rende “ostativa” ai benefici penitenziari, pene alternative e altre scappatoie. E ci risparmia per il futuro il consueto spettacolo del potente di turno che “sconta” la pena ai domiciliari o ai servizi sociali senza un giorno di galera. Invece siamo un popolo che, non avendo conosciuto la Riforma protestante, non sa cosa sia l’etica della responsabilità. Infatti, all’ennesimo arresto di “uno del giro”, il coro delle prefiche ha ripreso a lacrimare, passando senza soluzione di continuità da casa Renzi alla cella di Forchettoni. Il messaggio classista di queste lamentazioni è che i “signori” non si arrestano mai, neppure quando ce la mettono tutta per finire in galera nel Paese che li respinge sulla soglia, e alla fine ci riescono. In fondo, la nostra infima “classe dirigente” rimpiange quei tempi e quei figuri. E anche nella presunta sinistra fioccano le riabilitazioni di B. purché ci (anzi li) salvi dal “populismo”.

Cominciarono Scalfari e De Benedetti (“Meglio B. di Di Maio”), proseguì Renzi (“Chiediamo scusa a B.”), poi arrivò lo scrittore Veronesi (“Firmerei col sangue per il ritorno di B.”). E ora Augias, su Repubblica, per poter sostenere restando serio che “questo governo è il peggiore della storia repubblicana”, deve scrivere che i governi B. furono acqua fresca: “B. badava ai suoi affari e a scansare la galera” con qualche “legge su misura”, che sarà mai, “ma non ha danneggiato struttura ed equilibri dello Stato come rischiano di fare questi”. In effetti B. si limitò a consegnare la democrazia e le istituzioni a un’associazione per delinquere che ha rapinato l’Italia, in miliardi e in diritti, per un quarto di secolo. Basta ricordare la lista dei condannati, imputati e indagati di quello che chiamiamo spiritosamente “centrodestra”.

Due dei tre leader fondatori, B. e Bossi, sono pregiudicati passati dai servizi sociali. L’altro, Fini, è imputato per riciclaggio. I creatori di FI, Dell’Utri e Previti, sono pregiudicati l’uno per mafia e l’altro per corruzione giudiziaria. Il leader della Campania, Cosentino, ha già totalizzato 25 anni di carcere per camorra. Quello della Calabria, Matacena, è latitante a Dubai. E prima di Formigoni erano stati indagati, o arrestati, o condannati in vari gradi di giudizio o prescritti i governatori di centrodestra di quasi tutte le Regioni: Cota (Piemonte), Biasotti (Liguria), Maroni (Lombardia), Galan (Veneto), Polverini (Lazio), Pace (Abruzzo), Iorio (Molise), Fitto (Puglia), Scopelliti (Calabria), Drago, Cuffaro e Lombardo (Sicilia), Cappellacci (Sardegna). En plein. Per non parlare dei membri di Parlamenti e governi: Verdini, Scajola, Brancher, Papa, Luigi Grillo, Frigerio, Alfredo Vito, Matteoli, Sirchia, Romani, Angelucci, Sgarbi, Belsito, Sciascia, Minzolini, Farina per citare solo i migliori.

Un esercito di perseguitati politici, un battaglione di vittime della malagiustizia.

Prima c’erano quelli che “un avviso di garanzia non è una condanna” e “aspettiamo la sentenza definitiva”. Ora piangono anche dopo le condanne in Cassazione. Formigoni non è ancora entrato in galera e già lo vogliono fuori. Con tutta la fatica che ha fatto per meritarsela.

“TUTTI FUMO E NIENTE ARRESTO” di Marco Travaglio sul Il Fatto Quotidiano del 23 febbraio 2019

Il grande editotiale di Marco Travaglio sull’ipocrisia dei Francesi: “Sovranisti per forza”

 

Marco Travaglio

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Il grande editotiale di Marco Travaglio sull’ipocrisia dei Francesi: “Sovranisti per forza”

Cioè: il governo francese che…

Nasconde da quarant’anni decine di terroristi, assassini e tagliagole italiani…

Manda i suoi gendarmi a sconfinare oltre la frontiera italiana per riportarci i migranti che non vuole…

Paragona i vincitori delle elezioni italiane a “una lebbra che cresce un po’ ovunque in Europa”…

Da dei “bugiardi” ai nostri governanti che parlano di crisi migratoria, mentre ordina respingimenti e tiene chiusi i porti…

Intima al nostro governo di “fare pulizia in casa propria”…

Chiama i nostri governanti “piccoli Mussolini”…

Definisce vomitevole la linea del governo italiano sui migranti…

Ha destabilizzato la Libia con la guerra del 2011 ed ora continua a soffiare sul fuoco sostenendo il noto galantuomo Haftar…

…ora si offende per le dichiarazioni di Di Maio?

MA PER FAVORE…!

 

Sovranisti per forza di Marco Travaglio

Uno fa di tutto per non diventare sovranista, poi legge che il Fondo monetario internazionale accusa l’Italia nientemeno che di “frenare l’economia mondiale”: e solo oggi, all’improvviso, tutto d’un botto.

Prima no, anzi, eravamo l’ombelico del mondo, la locomotiva della galassia, il capofila dell’universo e non ce n’eravamo mai accorti. Poi il 4 marzo, per la prima volta nella loro storia, gli italiani hanno sbagliato a votare, e zac! Ora qualunque disastro accada sull’orbe terracqueo è colpa nostra.

Se, puta caso, la pizza di fango del Camerun perde potere d’acquisto, c’è lo zampino dell’Italia. Spiace per le sorti degli aborigeni australiani, delle zingare del deserto, dei lama tibetani, delle balinesi nei giorni di festa e delle cavigliere del Kathakali: se se la passano male, sanno a chi dire grazie. Ai soliti italiani.

Uno fa di tutto per non diventare sovranista, poi scopre che il governo Macron ha convocato l’ambasciatrice italiana per le “dichiarazioni ostili e immotivate” di Di Maio e Di Battista sul neocolonialismo francese. Che è un po’ come se il governo egiziano convocasse l’ambasciatore italiano per la nostra scarsa collaborazione sul delitto Regeni.

Cioè: il governo francese nasconde da quarant’anni decine di terroristi, assassini e tagliagole italiani aiutandoli a sottrarsi alla nostra giustizia e spacciandoli per perseguitati politici; il governo francese manda la sua Gendarmerie a sconfinare oltre la frontiera italiana per riportare migliaia di migranti che non ha intenzione di accogliere e poi accusa l’Italia di non essere abbastanza accogliente; il presidente francese Emmanuel Macron paragona i vincitori delle elezioni italiane a “una lebbra che cresce un po’ ovunque in Europa” e dava dei “bugiardi” ai nostri governanti che parlano di crisi migratoria, mentre ordina migliaia di respingimenti di migranti a Ventimiglia e tiene ben chiusi i porti francesi; la ministra francese Nathalie Loiseau intima al nostro governo di “fare pulizia in casa propria”, mentre il commissario francese dell’Ue Moscovici chiama i nostri governanti “piccoli Mussolini”; il portavoce del partito di Macron definisce “vomitevole la linea del governo italiano sui migranti”; il governo francese, dopo aver destabilizzato la Libia con la guerra del 2011, continua a soffiare sul fuoco sostenendo il noto galantuomo Haftar; e ora chi convoca chi? Ma per favore.

Uno fa di tutto per non diventare sovranista, poi trova su La Stampa un’articolessa di Bernard-Henri Lévy che racconta la prossima tournée teatrale di Bernard-Henri Lévy. Siccome tocca fare tutto a lui, ora deve “fermare il populismo”. Con le nude mani. “Il mio – spiega il noto paraguru – è il contributo di uno scrittore alla nuova resistenza europea che deve organizzarsi senza tardare”.

Mi raccomando, non prendete impegni: si parte il 5 marzo da Milano e si prosegue in “venti tappe in Europa prima del voto”, “con La Stampa media partner”. “Perché far partire da Milano una campagna contro l’avanzata del populismo?”, domanda Henri Lévy a Henri Lévy. Che, cortesemente, si risponde: “Perché è proprio lì, a Milano, che tutto è cominciato”. Con Mussolini? Con Craxi? No, con B. Ha impiegato appena 25 anni per accorgersene, meglio tardi che mai: “È dagli studi berlusconiani che sono uscite tutte quelle facce clonate, labbra arroganti, silicone e dentifricio, gel per i capelli e sorrisi da rappresentante, che sono diventate il marchio di fabbrica delle ‘democrature’ europee”.

In effetti, dalle ragazze del Drive In a Orbán il passo è breve: una lettura così profonda che ci fa rivalutare persino il Biscione. Anche perché il primo Paese europeo dove B. riuscì a esportare le sue tette e i suoi culi siliconati fu proprio la Francia, grazie a Mitterrand che spalancò le porte a La Cinq quando l’ex trotzkista e maoista BHL gli suonava la trombetta. L’avvocato di B. era tal Sarkozy, poi asceso all’Eliseo fra i perepé di BHL.

Ma su questi e altri dettagli il paraguru sorvola, impegnato com’è a spiegare agli italiani quel che non capisce dell’Italia. Si pensava che si sarebbe preso una pausa, dopo la cattura di Battisti, il pluriassassino latitante che lui spacciava per uno “scrittore arrabbiato e imprigionato” e paragonava a Dreyfus.

Invece coglie l’occasione per scagliarsi con chi l’ha finalmente assicurato alle patrie galere: “un dottore con credenziali false (Conte), un gradasso affetto da un’insana megalomania (Salvini) e un Pulcinella più pusillanime che capace (Di Maio)”, senza dimenticare la Raggi, che si porta su tutto e “consegna Roma alle erbacce e alla prevaricazione in proporzioni mai viste dai tempi di Catone il Censore” (viva Mafia Capitale!).

Insomma: una “riedizione post-moderna del fascismo” agli “ordini di Mosca” e coi soldi degli “amici di Bannon”. In attesa che questo coiffeur pour dames esibisca, sul giornale che combatte le fake news (altrui), uno straccio di prova sulla falsa laurea di Conte, sui cablo di Mosca e sui dollari di Bannon, apprendiamo che gli manca tanto Renzi: ah quelle “sagge decisioni prese in passato, in un anno (febbraio 2014-dicembre 2016, ndr), dal vulcanico Matteo Renzi: diminuzione delle tasse (mai vista, ndr)… modernizzazione della giustizia (ma quando mai, ndr), fine degli sprechi delle Regioni (ma de che, ndr) …”!

Che nostalgia! Purtroppo gli elettori non hanno apprezzato. Cose che càpitano, quando fai votare il popolo al posto di BHL. Il quale ora è molto “arrabbiato” e marcia su Milano “per via di Stendhal”, ma anche degli altrettanto incolpevoli “Dario Fo (che votava 5Stelle, ndr), Leopardi, Verdi, Brecht e i suoi Quattro Soldi”.

Che poi erano tre, ma dev’essere l’inflazione.

Per rinfrescarvi la memoria – 6 gennaio 1980, 39 anni fa, “cosa nostra” uccise Piersanti Mattarella… Chissà se ogni tanto il Presidente Mattarella incrociando Berlusconi gli ricorda che il fratello fu ucciso da un “eroico stalliere”…

 

Berlusconi

 

 

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Per rinfrescarvi la memoria – 6 gennaio 1980, 39 anni fa, “cosa nostra” uccise Piersanti Mattarella… Chissà se ogni tanto il Presidente Mattarella incrociando Berlusconi gli ricorda che il fratello fu ucciso da un “eroico stalliere”…

Domenica 6 gennaio 1980 – In Via della Libertà a Palermo, non appena entrato in una Fiat 132 insieme con la moglie, i due figli e la suocera per andare a messa, si avvicinò un sicario al finestrino e lo freddò a colpi di pistola…

Il sicario potrebbe essere uno dei tanti eroici stallieri di cui l’Italia è silenziosamente piena. Uno dei tanti eroici stallieri di cui il nostro buon Silvio amava circondarsi…

Eroico stalliere…

Giusto come pro-memoria Vi riportiamo di seguito un breve passo delle motivazioni della sentenza di condanna di Dell’Utri.

Leggete e rabbrividite:

Tra il 16 ed il 19 maggio 1974 si svolgeva a Milano un incontro cui prendevano parte Marcello Dell’Utri, Silvio Berlusconi, Gaetano Cinà (legato alla “famiglia” mafiosa Malaspina) Stefano Bontade (capo della “famiglia” mafiosa S. Maria del Gesù ed esponente, fino a poco prima, insieme con Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio, del “triunvirato” massimo organo di vertice di “cosa nostra”), Mimmo Teresi (sottocapo della “famiglia” mafiosa S. Maria del Gesù), Francesco Di Carlo (“uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa Altofonte, di cui, all’epoca, era consigliere e di cui, in seguito, sarebbe diventato capo).

In tale occasione veniva raggiunto l’accordo di reciproco interesse, in precedenza ricordato, tra “cosa nostra” rappresentato dai boss mafiosi Bondante e Telesi, e l’imprenditore Berlusconi, accordo realizzato grazie alla mediazione di Dell’Utri che aveva coinvolto l’amico Gaetano Cinà, il quale, in virtù dei saldi collegamenti con i vertici della consorteria mafiosa, aveva garantito la realizzazione di tale incontro.

L’assunzione di Mario Mangano (all’epoca dei fatti affiliato alla “famiglia” mafiosa di Porta Nuova, formalmente aggregata al mandamento di S. Maria del Gesù, comandato da Stefabo Bondante) ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974 costituiva l’espressione dell’accorso concluso, grazie alla mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di cosa nostra e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa di quest’ultimo.

In cambio della protezione assicurata Silvio Berlusconi aveva cominciato a corrispondere, a partire dal 1974, agli esponenti di “cosa nostra” palermitana, per il tramite di Dell’Utri, cospicue somme di denaro che venivano materialmente riscosse da Gaetano Cinà.

QUI la sentenza completa

Il passaggio che Vi abbiamo riportato è a pagina 48.

………………………

Ecco due interessanti video: Telefonata tra Berlusconi e Dell’Utri intercettata dalla Polizia con commento di Marco Travaglio

…E ancora Marco Travaglio, incontenibile…!

Strategia della pensione – Il geniale editoriale di Marco Travaglio sulle pensioni: “La famiglia Boschi per i pensionati ha fatto molto, forse troppo” …Perchè quando la penna di Travaglio si imbatte nell’aretina pidiota è una goduria da orgasmo!

Marco Travaglio

 

 

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Strategia della pensione – Il geniale editoriale di Marco Travaglio sulle pensioni: “La famiglia Boschi per i pensionati ha fatto molto, forse troppo” …Perchè quando la penna di Travaglio si imbatte nell’aretina pidiota è una goduria da orgasmo!

Strategia della pensione

Noi fortunati che abbiamo seguito in tv il cosiddetto dibattito parlamentare sulla manovra di bilancio abbiamo attraversato un’ampia gamma di sentimenti contrastanti. L’invidia per l’atletica prestanza di Emanuele Fiano, che balza felino verso i banchi del governo, si divincola dal placcaggio rugbistico dei colleghi, offre il petto seminudo alla pugna contro gli odiati sovranisti e infine aggira la barriera dei commessi col lancio liftato di un dossier che centra in pieno volto il sottosegretario Garavaglia.

L’entusiasmo per l’intrepido Michele Anzaldi, ieri epuratore e fucilatore di chiunque si permettesse di non beatificare Renzi nella Rai tutta renziana e oggi inconsolabile per la fine del pluralismo in viale Mazzini.

L’idolatria per Filippo Sensi, che fino all’altroieri diramava le veline di Renzi & Gentiloni e ora lacrima come una vite tagliata per il taglio dei fondi pubblici a giornali e Radio Radicale, scambiandoli per “pluralismo”.

La gioia per Giachetti e Fiano che accusano Fico di parzialità perché non silenzia la pentastellata Manzo che accusa imprecisate opposizioni di aver favorito i truffatori delle banche, ma poi tacciono quando le pidine Serracchiani e Bruno Bossio danno della truffatrice alla Manzo.

L’ammirazione per i trafelati scopritori della centralità del Parlamento, o di quel che ne resta dopo il loro passaggio, le loro leggi incostituzionali, le loro mozioni sulla nipote di Mubarak, i loro canguri e ghigliottine, le loro destituzioni di dissidenti, le loro compravendite di parlamentari, i loro decreti senza necessità né urgenza, le loro fiducie smodate (107 solo nella scorsa legislatura), i loro salvataggi impunitari di fior di delinquenti. Il rimpianto per l’assenza in Parlamento di misure d’ordine pubblico, tipo il Daspo, già previste nelle ben più educate curve degli stadi.

E infine una grande empatia per la sofferenza di Graziano Delrio e Maria Elena Boschi dinanzi alle sorti degli adorati pensionati, scippati dalla manovra giallo-verde.

Delrio li chiama tutti in piazza, la Boschi trattiene a stento le lacrime: “La legge di Bilancio taglia tutte le pensioni, non solo quelle d’oro o di platino. Conte dovrebbe pulirsi la bocca quando attacca i pensionati”. In effetti la famiglia Boschi per i pensionati ha fatto molto, forse troppo. Il pensiero corre al pensionato Luigi D’Angelo, che il 28 novembre 2015 si impiccò a Civitavecchia perché aveva appena perso i risparmi di una vita: 100mila euro affidati a Etruria, dopo che il governo Renzi-Boschi aveva azzerato dal giorno alla notte, col cosiddetto dl Salva-banche, il valore delle azioni e delle obbligazioni subordinate.

Del resto il Pd, per i pensionati, ha sempre avuto un occhio di riguardo. Tipo quando votò il blocco dell’indicizzazione delle pensioni, senza la piena rivalutazione per l’inflazione, ininterrottamente dal 2011 a oggi.

Vediamo nel dettaglio cosa votarono gli attuali paladini dei pensionati. Tra 2012 e 2013, col blocco totale per le pensioni superiori a tre volte il minimo (dai 1500 euro in su), chi prendeva ogni mese 1600 euro lordi ne perdeva 500-600 l’anno; chi percepiva 2100 euro ne perdeva 1500; chi aveva 2600 euro ne perdeva 1800.

Nel 2015 la Consulta bocciò la legge in quanto incostituzionale e ordinò al governo di restituire la refurtiva. Intanto, ai 5,5 milioni di pensionati, erano stati rapinati 8-9 miliardi di euro.

Ma Renzi ne rimborsò appena 2,2 (che secondo l’Upb corrispondeva ad appena il 12% medio delle perdite di ogni pensionato) ed ebbe pure la spudoratezza di chiamare quella mancia “bonus Poletti”: come se quello non fosse un furto con destrezza, ma addirittura un gentile omaggio.

Intanto nel 2014 il governo Letta aveva fatto altri danni: un sistema di perequazioni in cinque fasce, che lasciava quasi intatta la rivalutazione delle pensioni fino al quadruplo della minima, mentre tagliava del 25% la rivalutazione per quelle sopra i 2000 euro lordi e del 50% oltre i 2500. I governi Renzi e Gentiloni prorogarono quel blocco fino al 1° gennaio 2019, lasciando la patata bollente ai successori.

Secondo la Uil, la mancata perequazione delle pensioni fra il 2011 e il 2018, votata da centrodestra e centrosinistra (Monti e Letta) e poi dal solo centrosinistra (Renzi e Gentiloni) è costata 79 euro al mese e 1000 all’anno a ciascun pensionato da 1500 euro mensili. Chi invece percepiva 1900 euro al mese nel 2011 ha perso 1500 euro lordi, pari a una intera mensilità netta.

Che fa ora il governo Conte sulle pensioni?

Tre cose. Abbrevia l’età pensionabile per chi vuole ritirarsi prima (quota 100). Aumenta le minime fino a 780 euro per chi non ha altri redditi (pensione di cittadinanza). E “raffredda” il blocco delle indicizzazioni varato da Letta, Renzi e Gentiloni, rendendolo un po’ meno penalizzante per le pensioni più basse e lasciandolo pressoché inalterato sopra ai 3mila euro.

La battuta di Conte (“Non se ne accorgerebbe nemmeno l’Avaro di Molière”), per quanto infelice, rende l’idea.

Rivalutazione quasi totale, senza blocchi, per le pensioni fino al quadruplo della minima (cioè fino a 2030 euro mensili lordi).
E sacrifici graduali per le pensioni più alte.

La Cgil stima che chi intasca 2030 euro al mese perderà 1 euro nel 2019, 1 euro nel 2020 e 2 euro nel 2021. Chi supera i 2537 euro al mese, dovrà rinunciare a 70 euro l’anno (meno di 7 euro al mese). Chi supera i 3mila euro al mese, “restituirà” circa 180 euro all’anno (15 euro al mese).

E così via a salire, con prelievi più sostanziosi per i pensionati d’oro (già toccati dal contributo di solidarietà). Anche così si finanzieranno il reddito di cittadinanza e quota 100.

Si chiama “redistribuzione della ricchezza” e un tempo era una battaglia della sinistra.

Infatti ora, sulle barricate, ci sono Forza Italia e il Pd.

“STRATEGIA DELLA PENSIONE”, di Marco Travaglio sul Il Fatto Quotidiano del 30 dicembre2018

Marco Travaglio: “Ormai la libertà di stampa è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai giornalisti”

 

Marco Travaglio

 

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Marco Travaglio: “Ormai la libertà di stampa è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai giornalisti”

 

Pesi e misure

di Marco Travaglio

La butto lì, casomai qualcuno volesse riflettere seriamente sul ruolo dell’informazione nell’Italia del 2018, uscendo per un attimo dalle opposte trincee del giornalismo embedded: avete idea di quanti articoli di giornale, servizi di tg e dibattiti da talk show e da social sono stati dedicati ai guai del padre di Di Maio e alla sentenza sulla trattativa Stato-mafia? Da una parte abbiamo tre o quattro operai in nero, tre o quattro abusi edilizi, una betoniera, una carriola e un mucchietto di mattoni abbandonati nella microditta dei genitori di Di Maio (che per ora non risulta aver fatto un bel nulla). Dall’altra abbiamo la Corte d’assise di Palermo che condanna penalmente Marcello Dell’Utri, inventore di FI (il partito che ha dominato la scena politica dal 1994 all’altroieri), e i massimi vertici del Ros dei Carabinieri del 1992-’96, per aver aiutato gli stragisti di Cosa Nostra a ricattare lo Stato a suon di stragi; e condanna politicamente i governi Amato (1992), Ciampi (1993), Berlusconi (1994) per aver subìto quel ricatto mafioso senza mai né respingerlo né denunciarlo.

In quella sentenza si legge, fra l’altro, che: l’allora presidente Scalfaro mentì sotto giuramento ai pm sostenendo di non sapere nulla dell’avvicendamento ai vertici del Dap fra il duro Nicolò Amato e il molle Adalberto Capriotti, mentre era stato proprio lui a imporlo per ammorbidire il 41-bis che un anno prima era costato la vita a Falcone; molti altissimi rappresentanti delle istituzioni mentirono o dimenticarono per anni il proprio ruolo in quel turpe negoziato, ostacolando l’accertamento della verità; l’allora premier Giuliano Amato fu informato nell’estate ’92 della trattativa fra il Ros e il mafioso Ciancimino dalla sua capo-segretaria Fernanda Contri, ma non fece nulla per bloccarla e non ricordò un bel nulla dinanzi ai pm; Violante, presidente dell’Antimafia, fu avvicinato dal colonnello Mori, che gli caldeggiò invano un incontro riservato con Ciancimino, e non ne avvertì mai i pm di Palermo, né allora né quando seppe che indagavano sulla trattativa; mentre B. era al governo, Dell’Utri riceveva nella sua villa a Como il boss Mangano e gli spifferava in anteprima le leggi pro mafia; B. continuò – come faceva da 20 anni – a finanziare Cosa Nostra con versamenti semestrali in contanti almeno fino al dicembre ’94, cioè mentre era premier; senza la trattativa Ros-Ciancimino-Riina-Provenzano, non ci sarebbe stata l’“accelerazione” che indusse Cosa Nostra a sterminare Borsellino e la sua scorta appena 57 giorni dopo aver assassinato Falcone, la moglie e la scorta.

Senza la trattativa – scrivono i giudici – le stragi mafiose si sarebbero interrotte con l’arresto di Riina il 15 gennaio ’93, dunque fu la trattativa a causare gli eccidi della primavera-estate ’93 a Roma, Firenze e Milano (10 morti e 30 feriti). Da due settimane il caso Di Maio (padre) occupa le prime pagine dei quotidiani, le homepage dei loro siti, i titoli dei tg, i dibattiti nei talk e sui social, i discorsi nei bar. Invece all’agghiacciante sentenza Trattativa, che chiude in primo grado uno dei processi più cruciali dell’ultimo cinquantennio, la Norimberga sulle classi dirigenti di sinistra&destra che hanno dominato, e ancora in parte dominano, il potere italiano, giornali e tg hanno dedicato un paio di servizi il primo giorno, e nemmeno fra i principali. Poi silenzio. Zero dibattiti, approfondimenti, inseguimenti modello Iene. Zero domande e dunque zero risposte, autocritiche, scuse al popolo italiano da chi collaborò a metterlo per 25 anni sotto il ricatto mafioso.
Sui guai di suo padre, che non hanno prodotto non dico una sentenza, ma neppure un avviso di garanzia, il vicepremier Di Maio è stato intervistato quattro volte dalle Iene, e bene ha fatto a rispondere, anziché fuggire dal retro e far cacciare i cronisti dalla scorta, come facevano quelli di prima, o seppellirli sotto valanghe di cause civili o minacciare di spezzargli le gambe, come fanno i berluscones e i rignanos. E bene ha fatto suo padre ad ammettere le sue colpe e a mettersi a disposizione delle autorità in due video sul web e un’intervista al Corriere. Ma a voi pare normale che nessuno abbia mai chiesto nulla ad Amato, magari attendendolo sotto casa o davanti alla Consulta, su quel che gli disse la Contri sulla trattativa con la mafia che aveva appena ucciso Falcone e Borsellino? Che nessun politico di destra e di sinistra abbia dovuto scusarsi di aver promosso e coperto Mori&C., anziché degradarli sul campo per aver trattato con Cosa Nostra, omesso di perquisire e sorvegliare il covo di Riina, fatto fuggire Santapaola e Provenzano? Che non una sola domanda sia stata rivolta a B. sui soldi versati alla mafia anche dopo Capaci e via D’Amelio? E che dunque nessuno abbia mai dovuto spiegare o discolparsi per fatti lievemente più gravi di una vasca posticcia, tre ruderi e quattro laterizi? Quale devastazione intellettuale, quale tsunami culturale ha ridotto l’informazione in questo stato comatoso, impermeabile al senso della notizia e financo del ridicolo? Si dirà: le 5.252 pagine della sentenza Trattativa non le ha lette nessuno. Giovedì ne pubblicheremo con Paperfirst una sintesi di un decimo, nel libro Padrini fondatori curato da Marco Lillo e dal sottoscritto. Ma sappiamo tutti che non è questo il punto. Dalla saga Spelacchio alla sitcom Casa Di Maio, quella che chiamiamo “informazione” non ha più nulla a che vedere col diritto-dovere di informare. Quanti pensano di usare il nulla per gettare discredito su chi ha l’unico torto di aver vinto le elezioni, non si accorgono che stanno sputtanando se stessi e l’intera categoria. Ormai la libertà di stampa è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai giornalisti.

Da Il Fatto Quotidiano

Marco Travaglio: Avete notato quanto sono diventati simpatici i Casamonica, ora che la Raggi gli ha abbattuto i villini? Prima che la sindaca facessero ciò che nessuno ha fatto in 21 anni, parevano la più pericolosa organizzazione criminale del mondo…!

Marco Travaglio

 

 

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Marco Travaglio: Avete notato quanto sono diventati simpatici i Casamonica, ora che la Raggi gli ha abbattuto i villini? Prima che la sindaca facessero ciò che nessuno ha fatto in 21 anni, parevano la più pericolosa organizzazione criminale del mondo…!

“Avete notato quanto sono diventati simpatici i Casamonica, ora che la Raggi gli fa svuotare e abbattere i villini?”.

Così Marco Travaglio nel suo straordinario editoriale.

Il giornalista osserva che mentre nel 2015 sembravano “la più pericolosa organizzazione criminale del mondo”, dopo il blitz effettuato dalla Raggi con 600 agenti della Polizia Locale di Roma capitale, i giornaloni “la menano sulla ‘passerella’, lo ‘spot’, il ‘défilé’ di Raggi, Conte e Salvini, come se non fosse una buona notizia che le massime autorità della capitale e del Paese mettano la faccia sulla restituzione di un pezzo di territorio nazionale ai cittadini onesti”.

Travaglio fa anche notare che i giornaloni applicano due pesi e due misure sulla legalità, considerato da questi “un principio intermittente, da applicare ai nemici e ignorare per gli amici”. E cita due casi: quello noto del sindaco di Riace Mimmo Lucano e il più recente della nave Aquarius, che è stata sequestrata per aver scaricato nei porti italiani decine di tonnellate di rifiuti pericolosi.

Garantismi e gargarismi

Avete notato quanto sono diventati simpatici i Casamonica, ora che la Raggi gli fa svuotare e abbattere i villini? Qualche estate fa, dopo il vistoso e fastoso funerale in stile Padrino per il loro patriarca, parevano la più pericolosa organizzazione criminale del mondo. Ora che la sindaca e i vigili di Roma fanno ciò che avrebbero dovuto fare da 21 anni i loro tremebondi predecessori, i giornaloni la menano sulla “passerella”, lo “spot”, il “défilé” di Raggi, Conte e Salvini, come se non fosse una buona notizia che le massime autorità della capitale e del Paese mettano la faccia sulla restituzione di un pezzo di territorio nazionale ai cittadini onesti. La legalità non è più un valore in sé, ma un principio intermittente, da applicare ai nemici e ignorare per gli amici. Se Mimmo Lucano, sindaco di Riace, usa i pubblici poteri per violare la legge, e i giudici lo bloccano, è un martire e un eroe, perché certe leggi non vanno rispettate. Quali, lo decidono lui e i suoi amici. Se la benemerita Ong (francese) Medici senza frontiere scarica nei porti (italiani) 24 tonnellate di rifiuti tossici, infettati da vari virus e dunque pericolosi per la salute pubblica, come fossero bucce di banana, e i giudici la bloccano, l’indagine diventa “accanimento” e la legge “cavillo” (Repubblica) anche per chi vorrebbe imporre l’obbligo vaccinale pure contro le unghie incarnite.

L’altra sera abbiamo appreso dall’autorevole Bruno Vespa che le manette sono una brutta cosa, soprattutto in mano a un giudice tipo Davigo, così come il bisturi in mano al chirurgo e il volante all’autista (a proposito: indovinate che mestiere fa la moglie di Vespa). Arrestare chi commette reati, o auspicare che ciò avvenga, non significa schierarsi dalla parte della legge: ma essere “giustizialisti” e dunque poco “garantisti”. Infatti il Foglio spiega che l’emendamento infilato nell’Anticorruzione (ribattezzata per l’occasione Procorruzione) da Lega, Pd e FI per depenalizzare il peculato nei processi di Rimborsopoli, è “benedetto” perché “ci salva da una legge manettara” e “giustizialista”: cioè dal Codice penale che incredibilmente, dopo tanto “garantismo”, punisce ancora il peculato e l’abuso d’ufficio, cioè chi deruba lo Stato o usa i pubblici poteri per farsi i cazzi propri. Intanto non gli avvocati (ce ne sono di serissimi), ma le loro lobby delle Camere penali e di altre sigle sindacali, scioperano per difendere la prescrizione, definita nientepopodimenoché “diritto costituzionale” e “conquista di civiltà” in nome della “ragionevole durata dei processi” (che in Italia è irragionevole anche grazie alla prescrizione).

Siamo così abituati a sentire spacciare l’impunitarismo per “garantismo” da aver dimenticato il significato del termine. Cesare Beccaria teorizzava un insieme di regole per tutelare il diritto dell’imputato a difendersi nel processo per essere giudicato equamente, non dal processo per farla franca. Le garanzie devono valere per tutti, ma andrebbero modellate su misura degli innocenti, non dei colpevoli. L’innocente vorrebbe uscire al più presto dal processo: invece i processi sono eterni. L’innocente indagato ingiustamente vorrebbe spiegare subito al pm le proprie ragioni: invece il pm non è obbligato a sentirlo durante l’indagine e può chiederne il giudizio senza averlo mai visto. L’innocente, se viene archiviato o assolto, vorrebbe almeno che l’avvocato glielo pagasse lo Stato o chi l’ha denunciato ingiustamente: invece le spese legali deve pagarsele lui. Se i “garantisti” lo fossero davvero, invocherebbero queste norme di ordinaria civiltà. Invece difendono la prescrizione, riservata ai colpevoli: per gl’innocenti c’è l’assoluzione (in caso di prescrizione, l’innocente può rinunciarvi per farsi assolvere nel merito oltre i termini: il che è consigliabile a tutti per i reati infamanti).

Ho appena messo le mani sulla seconda sentenza del Tribunale civile di Firenze che mi ha visto soccombente contro Tiziano Renzi per una banale frase del tutto veritiera sul caso Consip. Il giudice l’ha ritenuta diffamatoria perché ha dato ragione all’unica parte presente al processo: l’“attore” Renzi sr., mentre io, il “convenuto”, ero contumace. Il postino, non trovandomi in casa, mi aveva lasciato nella buca delle lettere un avviso di giacenza (dell’atto di citazione) che, evidentemente, s’è perso. Così non l’ho ritirato e il processo è partito senza di me. Nel civile pare che sia normale: non ti avvisano neppure una seconda volta, come per le multe per divieto di sosta prima che scatti la maggiorazione. E, se sei contumace, non c’è né un pm che indaghi anche per te né un avvocato d’ufficio che ti difenda.
Conta solo la parola dell’“attore”, che ovviamente sa del processo. Così, ignaro di tutto, non ho potuto mandare il mio avvocato con le carte che dimostrano la veridicità della mia frase. Perciò sono stato condannato a 50 mila euro. Lo scrive il giudice: “È financo intuitivo che, a fronte dell’allegazione di… affermazioni astrattamente diffamatorie, compete al convenuto invocare l’esimente del diritto di cronaca o critica e provare, tra l’altro, la veridicità del fatto narrato… Il convenuto non si è costituito, così rinunciando a spiegare le proprie difese e, quindi, a far valere una eventuale causa di giustificazione ed a provare che i fatti riferiti nella trasmissione televisiva fossero veri… A fronte della contumacia del giornalista, questo giudice non deve né può chiedersi… se operi o meno la scriminante del diritto di cronaca o di critica”. Avete mai visto un “garantista” battersi contro questo abominio, cioè chiedere una prima notifica brevi manu e le successive allo studio del difensore (per evitare le fughe di chi non si fa più trovare)? Questi “garantisti” all’italiana parlano di Cesare Beccaria e pensano a Cesare Previti.

Garantismi e gargarismi, di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 23 novembre 2018

Ricapitoliamo: Tiziano Renzi querela Il Fatto Quotidiano per 4 articoli ritenuti diffamatori. Il giudice dà ragione al Fatto (gli articoli “diffamatori” sono VERI), ma lo condanna solo per il tenore di un titolo e 2 commenti. E c’è perfino un deficiente che festeggia…

 

Tiziano Renzi

 

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Ricapitoliamo: Tiziano Renzi querela Il Fatto Quotidiano per 4 articoli ritenuti diffamatori. Il giudice dà ragione al Fatto (gli articoli “diffamatori” sono VERI), ma lo condanna solo per il tenore di un titolo e 2 commenti. E c’è perfino un deficiente che festeggia…

 

Tiziano Renzi, il Fatto assolto per quattro articoli d’inchiesta e condannato per due commenti e un titolo

Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha anche condannato il padre dell’ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli – firmati con Gaia Scacciavillani – sono stati ritenuti perfettamente veri.

Assoluzione per i quattro articoli di inchiesta, condanna per il titolo a uno di essi e per due commenti. Il Tribunale di Firenze ha condannato il Fatto Quotidiano a risarcire Tiziano Renzi con 95mila euro. Il padre dell’ex premier, a leggere la sentenza del giudice Lucia Schiaretti, è stato diffamato da due commenti del direttore Marco Travaglio (60mila euro) e da un titolo di un articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano e da ilfattoquotidiano.it agli inizi di gennaio 2016. Nell’annunciare la notizia via social, l’ex segretario del Pd ha parlato di “enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti”. Ciò che Matteo Renzi omette è che sul contenuto dei quattro articoli contestati, il giudice ha assolto il Fatto Quotidiano. Nella richiesta di risarcimento danni per 300mila euro, infatti, Tiziano Renzi aveva definito le nostre inchieste giornalistiche una campagna di stampa contro di lui. Secondo la sentenza, però, i fatti riportati sono veri e di interesse pubblico, quindi non diffamatori. Gli interessi, i legami imprenditoriali e i movimenti di Tiziano Renzi nel mondo degli outlet del lusso erano e restano un fatto conclamato. Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha condannato il padre dell’ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli – firmati con Gaia Scacciavillani – sono stati ritenuti perfettamente veri.

“In linea generale può senz’altro ritenersi che le attività economiche e politiche (quale esponente locale del Pd) del padre del Presidente del Consiglio in carica possano rivestire un pubblico interesse” ha scritto il giudice Schiaretti nella sentenza. I quattro articoli del Fatto Quotidiano contestati da Tiziano Renzi parlavano proprio di questo: dei rapporti (anche economici) del padre dell’allora presidente del Consiglio con gli ideatori e gli sviluppatori degli outlet del lusso targati The Mall. Nella fattispecie, si tratta di tre centri commerciali: quello di Leccio Reggello in provincia di Firenze e dei progetti per realizzare altrettanti mall a Sanremo e a Fasano, in provincia di Brindisi. Il Fatto ha analizzato i ruoli e gli intrecci societari tra tutti i protagonisti dei progetti, la maggior parte dei quali legati a Tiziano Renzi. Che si è sentito diffamato dal contenuto dell’inchiesta e da due commenti del direttore e ha chiesto 300mila euro di risarcimento a Marco Travaglio e Peter Gomez (direttori responsabili del giornale e del sito) e a Gaia Scacciavillani e Pierluigi Giordano Cardone, gli autori dell’inchiesta.

Nella sentenza, il giudice Lucia Schiaretti ha analizzato i sei articoli incriminati e ha deciso che quello in cui si parla dei legami tra Tiziano Renzi e gli imprenditori dell’outlet di Reggello “non contiene informazioni lesive della reputazione di Tiziano Renzi“. Il motivo? “L’articolo evidenzia in primis la partecipazione di personaggi del mondo toscano e vicini al Partito democraticoquali Rosi, di Banca Etruria, Bacci, finanziatore della Fondazione Big Bang, Sergio Benedetti, Sindaco di Reggello, Niccolai, con il quale Tiziano Renzi costituirà la Party s.r.l. e che erano già in precedenza conosciuti dall’attore, che a Rignano vive da sempre e dove ha sempre svolto la sua attività politica”. Non è lesivo neanche l’articolo che ricostruiva un processo all’epoca in corso ad Arezzosulla famiglia Moretti. Scive il giudice: “Né si può ritenere lesivo della reputazione del Renzi l’accostamento a personaggi indagati, vicini a lui e al figlio. La rilevanza del fatto narrato si desume dal fatto che il figlio di Tiziano Renzi, Matteo Renzi, era all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri e, dunque, da ciò deriva l’interesse del lettore a conoscere il comportamento della di lui famiglia e di coloro che, come amici o imprenditori, si muovono intorno alla politica del Pd”.

Simile il ragionamento che porta il giudice a ritenere non diffamatorio il terzo articolo della serie, che dà conto di alcune perquisizioni ai danni di società che fanno parte del settoreoutlet. “Nel corpo dell’articolo – si legge nella sentenza di Lucia Schiaretti – si specifica che tra le società perquisite c’è anche la Nikila Invest, che controlla il 40% della Party, di cui è socio Tiziano Renzi, padre del Presidente del Consiglio, e amministratore unico la madre del premier Laura Bovoli. L’articolo si colloca, insieme agli altri di cui è causa – prosegue il giudice – nell’ottica di evidenziare i collegamenti di Tiziano Renzi a imprenditori sottoposti a indagini e a Lorenzo Rosi di Banca Etruria; tuttavia, nessuna informazione falsa o lesiva della reputazione dell’attore risulta ivi riportata. L’essere in affari, infatti, è circostanza oggettivamente neutra e nulla ha fatto l’autore dell’articolo per indurre a ritenere che Tiziano Renzi fosse responsabile di alcunché. Deve, dunque, escludersi la natura diffamatoria dell’articolo in oggetto”. Il Fatto Quotidiano, come detto, è stato invece condannato a pagare 95mila euro per due singole parole contenute in altrettanti editoriali del direttore Marco Travaglio (“bancarotta” e “affarucci”) e per un titolo (“Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari adesso è nel mirino dei pm”) ritenuto non sufficientemente chiaro su un pezzo giudicato invece veritiero. Tradotto: il contenuto degli articoli è vero, corretto, di interesse pubblico e non diffamatorio.

 

tratto da: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/10/22/tiziano-renzi-il-fatto-assolto-per-quattro-articoli-dinchiesta-e-condannato-per-due-commenti-e-un-titolo/4711490/

Il geniale editoriale di Marco Travaglio: “L’Armata Brancaleone” – Una lucida e sagace analisi dell’attuale situazione politica.

 

Marco Travaglio

 

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Il geniale editoriale di Marco Travaglio: “L’Armata Brancaleone” – Una lucida e sagace analisi dell’attuale situazione politica.

Quando vai alla guerra, prima studi il nemico, poi ti guardi intorno in cerca di alleati, infine prepari le armi più efficaci per vincere. Oppure ti vedi L’Armata Brancaleone e poi fai il contrario. Ora, non c’è dubbio che il governo giallo-verde abbia deciso di andare alla guerra contro tutti i poteri, nazionali e internazionali, palesi e occulti, che governano per davvero l’Italia e l’Europa: Commissione Ue, Bce, Fmi e i famosi “mercati”, cioè la grande finanza e i grandi speculatori che scommettono immense fortune su o contro questo o quel Paese. E giù giù a cascata fino ai nostri poterucoli da riporto: Quirinale, Bankitalia, ragionerie e burocrazie ministeriali, Confindustria, lobby varie, partiti sconfitti nelle urne e vincenti nei media. Il primo atto di guerra è stato vincere le elezioni, sbaragliando i due partiti-architrave del sistema che sognavano l’ennesima ammucchiata, Pd e FI, e lasciando in gramaglie un bel po’ di prenditori, lobbisti e giornalisti vedovi inconsolabili. Il secondo è stato profanare alcuni santuari da sempre intoccabili: il precariato del Jobs Act, la corruzione impunita, i prenditori privati delle concessionarie pubbliche (vedi Autostrade Spa dopo il crollo del ponte), la lobby del gioco d’azzardo, i vitalizi, il business della cosiddetta accoglienza ai migranti. Il terzo, il più imperdonabile, è la prima manovra finanziaria non concordata con l’Ue, dunque non recessiva e non tagliata su misura dei ricchi.

Quando, in quattro mesi, si lanciano tutte queste bombe contro chi ha sempre comandato sarebbe folle non prevedere una reazione uguale e contraria. E non comportarsi di conseguenza. La reazione è sotto gli occhi di tutti: scomuniche europee, moniti quirinaleschi, toni apocalittici su tutti i media che gridano pure alla censura di regime (domenica, in prima serata, Rai1 mandava in onda gli anatemi di Cottarelli e Burioni, noti portabandiera della tirannide giallo-verde), spread a 300 e Borsa in crollo. Non c’è nessun complotto: c’è, semplicemente, il rabbioso sgomento di un intero sistema che non si dà pace di non comandare più. Quando i soliti noti raccontano che “i mercati sono neutrali” perché badano al sodo, anzi al soldo, viene da scompisciarsi: è proprio perché badano al sodo, cioè al soldo, che non sono neutrali. Immaginiamo che accadrebbe se, puta caso, il governo varasse una legge appena più drastica della Fornero, che imponesse il suicidio obbligatorio a tutti i pensionati: i mercati e le Borse festeggerebbero, lo spread e il deficit-Pil finirebbe sottozero. Idem se una legge prevedesse lo sterminio di tutti i poveri.

Per questo esiste il suffragio universale: per evitare che comandino quelli che badano al sodo, cioè al soldo. Infatti, da quando gli elettori han cominciato a votare “male”, si studia il sistema di mandare alle urne solo chi vota “bene”. Avrete notato con quali facce disgustate si parla dei populisti che, non contenti di prendere tanti voti, pretendono pure di mantenere le promesse elettorali. E con quali occhietti estasiati si guarda a Cottarelli, a Calenda, a Monti e ad altri noti frequentatori di se stessi, celebratissimi proprio perché non hanno mai preso un voto (infatti già si riparla di un bel governo tecnico). I mercati, si dice, fanno il loro mestiere: verissimo. Ma il loro mestiere è speculare, non dirigere o rovesciare i governi, fare o disfare le leggi. Questo è compito della politica. Purtroppo però la politica non può governare contro i mercati, capaci di mangiarsi non uno, ma dieci Def con un colpo di spread. Dunque la politica deve farci i conti, mediare e rassicurarli. E qui casca l’asino dei giallo-verdi: sono andati alla guerra in ordine sparso, spensieratamente, cazzeggiando. Il ministro Tria ha garantito – chissà perché e a nome di chi – all’Ue e ai mercati un deficit-Pil all’1,6%,ben sapendo che basterebbe a malapena per scongiurare l’aumento dell’Iva ereditato dai predecessori, senza avviare una sola delle riforme promesse. E ha azzerato il suo potere negoziale. Poi, tomo tomo cacchio cacchio, ha comunicato la novità del 2,4%. E ha azzerato la sua credibilità. Intanto ministri e urlatori vari davano i numeri più disparati sulla manovra e per giunta insultavano come ubriacone Juncker e cialtrone Moscovici. I quali sono entrambe le cose e anche peggio. Ma, finché non verranno spazzati via dagli elettori (i loro partiti sono già morti), hanno potere di vita o di morte sul nostro governo. E lo esercitano nel più sleale dei modi, per puri scopi elettorali: gabellano pochi decimali di deficit in più per la fine del mondo (dopo aver digerito ben di peggio da Francia, Germania, Spagna, persino Italia). E contribuiscono allo sfascio sui mercati con le loro sparate razziste contro l’Italia e il suo legittimo governo. Moscovici l’ha confessato spudoratamente al Pais: “Non si possono confrontare Italia e Spagna” non solo per le differenze di debito e deficit, ma anche perché “Madrid ha un governo pro-europeo” e l’Italia no. Intanto il Fmi e i suoi valletti di Bankitalia avvertono il governo di non toccare la Fornero e il Jobs Act. Dal che si deduce che l’Europa, come la intendono i suoi tenutari, è incompatibile con la nostra Costituzione: la sovranità non appartiene più al popolo, che vota chi gli pare (nel nostro caso, due partiti che vogliono cambiare l’Europa, il Jobs Act e la Fornero); bensì a pochi tecnocrati che non rappresentano nessuno (a parte i soliti “giri”), ma contano più di milioni di elettori. Nemici come questi si combattono senza cedere di un millimetro, ma con la massima serietà: non una parola di troppo; solo atti formali inattaccabili; e tanta mediazione e persuasione. Finora i giallo-verdi han fatto l’opposto: hanno visto L’Armata Brancaleone e, anziché evitarla, l’hanno imitata.

“L’Armata Brancaleone”, di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 10 ottobre 2018