Come si fa a portare un partito (Il Pd) dal 40% a meno del 20%…? Oltre alle porcate di Renzi, alle banche della Boschi ed ai delinquenti in doppio petto, basta avere gente tipo LUIGI ZENDA, che in un momento così critico, PROPONE L’AUMENTO DEGLI STIPENDI DEI PARLAMENTARI…!

 

ZENDA

 

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Come si fa a portare un partito (Il Pd) dal 40% a meno del 20%…? Oltre alle porcate di Renzi, alle banche della Boschi ed ai delinquenti in doppio petto, basta avere gente tipo LUIGI ZENDA, che in un momento così critico, PROPONE L’AUMENTO DEGLI STIPENDI DEI PARLAMENTARI…!

 

Zanda suicida il Pd: alziamo gli stipendi dei parlamentari

IL NUOVO TESORIERE – PRIMA HA PROPOSTO DI RIPRISTINARE IL FINANZIAMENTO PUBBLICO AI PARTITI, ORA DI FAR SALIRE GLI ASSEGNI. E ZINGARETTI RINGRAZIA

(di Ilaria Proietti – Il Fatto Quotidiano) – Ma quale casta e casta. Il neo tesoriere del Pd, Luigi Zanda, ha le idee chiare: bisogna ribellarsi alle pulsioni della pancia del Paese che si ostina a ritenere indennità e vitalizi parlamentari come un odioso privilegio della politica. E allora per scongiurare che vengano messe ancora le mani nelle tasche degli eletti, bisogna agganciare i loro stipendi a quelli dei parlamentari europei. Che sono più alti anche di 5 mila euro rispetto ai 14 mila che di media spettano in Italia.

Senza timore di sollevare polemiche, Zanda ha presentato un progetto di legge che, se approvato, arricchirà le buste paga dei colleghi di Camera e Senato dove siede da anni. Del resto, per Zanda, sono in ballo i sacri principi, più che gli onorevoli portafogli: “In tutti gli ordinamenti democratici di stampo liberale ai membri del Parlamento è riconosciuto uno status volto a garantire la dignità e l’indipendenza dovute a chi rappresenta il popolo sovrano”, ha scritto nel testo depositato a Palazzo Madama a fine febbraio, pochi giorni prima di assumere il nuovo incarico a cui lo ha chiamato Nicola Zingaretti.

Un documento in cui stigmatizza i tagli e i tagliuzzi intervenuti negli ultimi anni. E adottati “in nome di un’impropria e allarmante identificazione del trattamento economico dei parlamentari con un odioso privilegio”. Poco più che “pulsioni” che, a suo dire, bisogna avere il coraggio di ignorare in nome della Costituzione. Perchè i ritocchi agli stipendi degli eletti hanno contribuito a una “sistematica erosione della credibilità della funzione parlamentare”. Proprio così. E del resto era stato lo stesso Zanda a rilanciare l’idea di un tesoretto da 90 milioni da distribuire ai partiti per limitare i danni connessi alla fine del finanziamento pubblico.

Un uno-due in puro stile Tafazzi, destinato a mette a dura prova il Pd. Di cui peraltro al Nazareno non sentivano il bisogno dopo gli ultimi tracolli elettorali: ovunque si sia votato nell’ultimo anno è stato un bagno di sangue. Ma evidentemente si punta a fare di più: in fondo a maggio ci sono pure le Europee, meglio non correre il rischio di vincerle. Ora la fortuna del neo-segretario Zingaretti è che è già di suo sulla via della calvizie. Ma sicuramente gli è andato di traverso il dileggio del capogruppo del Movimento 5 Stelle, che ieri ha festeggiato l’ok al decretone brindando alla buvette del Senato con un prosecco di cittadinanza con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte: “Cosa dice Zingaretti su questo? È d’accordo con le proposte del suo tesoriere? Perché mentre il suo partito vuole dare più soldi ai partiti e ai politici, rigetta un confronto con Di Maio sul salario minimo orario e critica il reddito di cittadinanza?”, ha scritto su Facebook, Stefano Patuanelli. Contento come una Pasqua non solo per le misure appena approvate, ma pure per il regalo inatteso che gli ha fatto Zanda per la prossima campagna elettorale.

Ma che prevede la sua ricetta di revisione? Sostanzialmente l’aggancio degli stipendi dei parlamentari italiani a quelli dei loro colleghi dell’Europarlamento. D’altronde se l’orizzonte politico è continentale non c’è niente di strano: solo che l’europeismo, a livello di stipendi, facendo due conti significa un discreto aumento. Se, infatti, l’indennità lorda è più bassa (motivo per cui Zanda sostiene che con la sua legge lo stipendio “è leggermente inferiore), salgono assai sia la diaria per le spese di soggiorno che “un’indennità erogata a titolo di rimborso delle spese generali”: entrambe voci esentasse e, nella nuova formulazione, la seconda esente pure dalla fastidiosa incombenza di essere decurtata per pagare i cosiddetti “portaborse” (a quelli si provvede in un altro comma, in cui – grazie a Zanda – si stabilisce che il rimborso sia concesso solo in presenza di spese “effettive”, così come per i viaggi, oggi pagati invece a forfait).

Quanto al resto, a parte l’ incasso mensile che – a stare alla media dell’Europarlamento oscillerebbe tra i 16 e i 19mila euro contro gli attuali 14mila – il nuovo tesoriere del Pd si preoccupa di prevedere anche un’indennità transitoria a carattere temporaneo, il cui diritto matura allo scadere del mandato parlamentare (una sorta di liquidazione); una pensione di sostegno in caso di invalidità insorta nel corso del mandato; infine un trattamento differito per garantire agli ex parlamentari una meritata serenità al compimento del 63esimo anno di età: insomma un vitalizio non di natura previdenziale, ma assicurativa, calcolato sul metodo contributivo e non con il sistema retributivo come per gli europarlamentari, ma, del resto, non si può avere tutto dalla vita.

Ricapitoliamo: Tiziano Renzi querela Il Fatto Quotidiano per 4 articoli ritenuti diffamatori. Il giudice dà ragione al Fatto (gli articoli “diffamatori” sono VERI), ma lo condanna solo per il tenore di un titolo e 2 commenti. E c’è perfino un deficiente che festeggia…

 

Tiziano Renzi

 

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Ricapitoliamo: Tiziano Renzi querela Il Fatto Quotidiano per 4 articoli ritenuti diffamatori. Il giudice dà ragione al Fatto (gli articoli “diffamatori” sono VERI), ma lo condanna solo per il tenore di un titolo e 2 commenti. E c’è perfino un deficiente che festeggia…

 

Tiziano Renzi, il Fatto assolto per quattro articoli d’inchiesta e condannato per due commenti e un titolo

Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha anche condannato il padre dell’ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli – firmati con Gaia Scacciavillani – sono stati ritenuti perfettamente veri.

Assoluzione per i quattro articoli di inchiesta, condanna per il titolo a uno di essi e per due commenti. Il Tribunale di Firenze ha condannato il Fatto Quotidiano a risarcire Tiziano Renzi con 95mila euro. Il padre dell’ex premier, a leggere la sentenza del giudice Lucia Schiaretti, è stato diffamato da due commenti del direttore Marco Travaglio (60mila euro) e da un titolo di un articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano e da ilfattoquotidiano.it agli inizi di gennaio 2016. Nell’annunciare la notizia via social, l’ex segretario del Pd ha parlato di “enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti”. Ciò che Matteo Renzi omette è che sul contenuto dei quattro articoli contestati, il giudice ha assolto il Fatto Quotidiano. Nella richiesta di risarcimento danni per 300mila euro, infatti, Tiziano Renzi aveva definito le nostre inchieste giornalistiche una campagna di stampa contro di lui. Secondo la sentenza, però, i fatti riportati sono veri e di interesse pubblico, quindi non diffamatori. Gli interessi, i legami imprenditoriali e i movimenti di Tiziano Renzi nel mondo degli outlet del lusso erano e restano un fatto conclamato. Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha condannato il padre dell’ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli – firmati con Gaia Scacciavillani – sono stati ritenuti perfettamente veri.

“In linea generale può senz’altro ritenersi che le attività economiche e politiche (quale esponente locale del Pd) del padre del Presidente del Consiglio in carica possano rivestire un pubblico interesse” ha scritto il giudice Schiaretti nella sentenza. I quattro articoli del Fatto Quotidiano contestati da Tiziano Renzi parlavano proprio di questo: dei rapporti (anche economici) del padre dell’allora presidente del Consiglio con gli ideatori e gli sviluppatori degli outlet del lusso targati The Mall. Nella fattispecie, si tratta di tre centri commerciali: quello di Leccio Reggello in provincia di Firenze e dei progetti per realizzare altrettanti mall a Sanremo e a Fasano, in provincia di Brindisi. Il Fatto ha analizzato i ruoli e gli intrecci societari tra tutti i protagonisti dei progetti, la maggior parte dei quali legati a Tiziano Renzi. Che si è sentito diffamato dal contenuto dell’inchiesta e da due commenti del direttore e ha chiesto 300mila euro di risarcimento a Marco Travaglio e Peter Gomez (direttori responsabili del giornale e del sito) e a Gaia Scacciavillani e Pierluigi Giordano Cardone, gli autori dell’inchiesta.

Nella sentenza, il giudice Lucia Schiaretti ha analizzato i sei articoli incriminati e ha deciso che quello in cui si parla dei legami tra Tiziano Renzi e gli imprenditori dell’outlet di Reggello “non contiene informazioni lesive della reputazione di Tiziano Renzi“. Il motivo? “L’articolo evidenzia in primis la partecipazione di personaggi del mondo toscano e vicini al Partito democraticoquali Rosi, di Banca Etruria, Bacci, finanziatore della Fondazione Big Bang, Sergio Benedetti, Sindaco di Reggello, Niccolai, con il quale Tiziano Renzi costituirà la Party s.r.l. e che erano già in precedenza conosciuti dall’attore, che a Rignano vive da sempre e dove ha sempre svolto la sua attività politica”. Non è lesivo neanche l’articolo che ricostruiva un processo all’epoca in corso ad Arezzosulla famiglia Moretti. Scive il giudice: “Né si può ritenere lesivo della reputazione del Renzi l’accostamento a personaggi indagati, vicini a lui e al figlio. La rilevanza del fatto narrato si desume dal fatto che il figlio di Tiziano Renzi, Matteo Renzi, era all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri e, dunque, da ciò deriva l’interesse del lettore a conoscere il comportamento della di lui famiglia e di coloro che, come amici o imprenditori, si muovono intorno alla politica del Pd”.

Simile il ragionamento che porta il giudice a ritenere non diffamatorio il terzo articolo della serie, che dà conto di alcune perquisizioni ai danni di società che fanno parte del settoreoutlet. “Nel corpo dell’articolo – si legge nella sentenza di Lucia Schiaretti – si specifica che tra le società perquisite c’è anche la Nikila Invest, che controlla il 40% della Party, di cui è socio Tiziano Renzi, padre del Presidente del Consiglio, e amministratore unico la madre del premier Laura Bovoli. L’articolo si colloca, insieme agli altri di cui è causa – prosegue il giudice – nell’ottica di evidenziare i collegamenti di Tiziano Renzi a imprenditori sottoposti a indagini e a Lorenzo Rosi di Banca Etruria; tuttavia, nessuna informazione falsa o lesiva della reputazione dell’attore risulta ivi riportata. L’essere in affari, infatti, è circostanza oggettivamente neutra e nulla ha fatto l’autore dell’articolo per indurre a ritenere che Tiziano Renzi fosse responsabile di alcunché. Deve, dunque, escludersi la natura diffamatoria dell’articolo in oggetto”. Il Fatto Quotidiano, come detto, è stato invece condannato a pagare 95mila euro per due singole parole contenute in altrettanti editoriali del direttore Marco Travaglio (“bancarotta” e “affarucci”) e per un titolo (“Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari adesso è nel mirino dei pm”) ritenuto non sufficientemente chiaro su un pezzo giudicato invece veritiero. Tradotto: il contenuto degli articoli è vero, corretto, di interesse pubblico e non diffamatorio.

 

tratto da: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/10/22/tiziano-renzi-il-fatto-assolto-per-quattro-articoli-dinchiesta-e-condannato-per-due-commenti-e-un-titolo/4711490/

“L’altro delinquente” – L’editoriale con cui Marco Travaglio rade al suolo Sallusti

 

Sallusti

 

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“L’altro delinquente” – L’editoriale con cui Marco Travaglio rade al suolo Sallusti

L’altro delinquente, di Marco Travaglio

Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano del 18 maggio 2018 – Alcuni lettori mi domandano perché l’altra sera, a Dimartedì, non ho risposto ad Alessandro Sallusti che mi dava del delinquente, diffamatore, condannato in Italia e pure “in Europa” (ma sì, abbondiamo: abbondantis abbondandum!). La risposta è semplice: il mio intervento era registrato, il suo in diretta. Meglio così, altrimenti saremmo finiti – come sempre, con gli impiegati di B. travestiti da giornalisti – a parlare di me, anziché di B. La mia condanna, per la cronaca, è una multa di 1.000 euro a Cesare Previti (bi-pregiudicato per corruzione di giudici) per un mio vecchio articolo sull’Espresso che, a causa di un taglio redazionale, era risultato monco di una circostanza favorevole all’ex ministro ed era stato ritenuto diffamatorio. Non ne ho mai fatto mistero, anzi mi sono appuntato la sentenza al petto come una medaglia.

In 35 anni di carriera giornalistica, con 20mila articoli, 35 libri e centinaia di partecipazioni tv (sempre su temi un po’ più delicati del giardinaggio), è l’unica mia condanna penale. Poteva andarmi peggio: nel nostro mestiere il rischio di sbagliare, o di superare i labili confini della “continenza”, è sempre in agguato. In Italia ricadono nella diffamazione i comportamenti più diversi: l’errore in buona fede, magari già rettificato; le campagne di stampa fondate su menzogne e reiterate nel tempo a dispetto delle smentite; la critica o la satira ritenute troppo aspre (“incontinenti”, appunto: va’ a sapere cosa lo è e non lo è). E non c’è verso di ottenere una riforma che distingua una condotta dall’altra.

Tutto avrei immaginato nella vita, fuorché di prendere lezioni sulla diffamazione da un diffamatore incallito come Sallusti (un po’ come prendere lezioni sul femminicidio da Donato Bilancia). E dire che nel 2011 ero stato così ingenuo da spendermi per risparmiargli la galera, convinto com’ero che fosse sproporzionata persino a lui.

Il 17 giugno 2011 Sallusti era stato condannato in appello a 14 mesi di carcere, senza la sospensione condizionale (era pluripregiudicato e plurirecidivo, con ben 7 precedenti penali), per un articolo pubblicato nel 2007 su Libero (da lui diretto all’epoca) con lo pseudonimo “Dreyfus”. Il diffamato era il giudice tutelare Giuseppe Cocilovo, accusato falsamente di aver costretto una ragazzina di 13 anni ad abortire contro la sua volontà: in realtà l’aveva solo autorizzata all’aborto – secondo la legge – su espressa richiesta dell’interessata e della madre. In caso di conferma in Cassazione, Sallusti avrebbe dovuto scontare la pena in carcere o, a sua richiesta, ai domiciliari e ai servizi sociali.

Scrissi che avrebbe potuto rettificare sia pur tardivamente la notizia falsa, scusarsi con Cocilovo e risarcirgli il danno, nella speranza che questi ritirasse la querela. Il diffamato si disse disponibile. Ma Sallusti non solo non rettificò, non si scusò e non risarcì: andò pure a Porta a Porta a proclamare di non aver nulla da farsi perdonare e a diffamare anche i suoi giudici (“sentenza politica”, “magistrati in malafede da condannare e radiare per abuso di potere”). Alla vigilia della Cassazione, il portavoce di Napolitano annunciò che “il Presidente segue il caso e si riserva di acquisire tutti gli elementi utili di valutazione”. Senza spiegare a che titolo interveniva a piedi giunti sulla Corte alla vigilia di un verdetto.

Ma il 26 settembre la Cassazione non si lasciò intimidire e confermò la sentenza d’appello, sottolineando la “spiccata capacità a delinquere” di Sallusti e ricordando che il suo giornale aveva ripubblicato la falsa notizia, già smentita dall’Ansa e dalla Rai, in un altro articolo. L’ennesima prova della sua “coscienza, volontà… e consapevolezza di aggredire la reputazione altrui”. Immantinente, dal Quirinale, partì un nuovo monito: “Il Presidente esaminerà con attenzione la sentenza… relativa alla posizione del direttore del Giornale”. Senza neppure attendere le motivazioni.

Subito, in Parlamento e sui media, partì la mobilitazione generale per fare di Sallusti un cittadino al di sopra della legge: le Camere furono sequestrate per votare una legge su misura per riformare la diffamazione, mentre l’Ordine, la Fnsi e l’intera casta pennuta levavano alti lai contro i “giornalisti in galera”. Peccato che in Italia le condanne inferiori ai 3 anni possano essere scontate in libertà, purché il condannato ne faccia richiesta. Ma Sallusti annunciò che non l’avrebbe fatta: voleva andare in carcere per fare il martire e offrire al padrone un altro pretesto per attaccare i giudici.

A questo punto, in uno Stato di diritto, la giustizia fa il suo corso e il condannato sconta la pena. Ma non nella diarchia di B.& Napolitano. Pur non avendoli chiesti, Sallusti ottenne i domiciliari dalla generosa Procura di Milano, che cambiò le sue prassi apposta per lui. E il 1° dicembre fu prelevato in redazione dalla Digos per essere condotto nella residenza prescelta: quella della fidanzata Daniela Santanchè. Di lì evase subito, sotto gli occhi esterrefatti degli agenti. E si guadagnò un nuovo processo per evasione, da cui fu assolto perché il gesto era “simbolico”. Non contento, Re Giorgio gli concesse la “grazia parziale”, commutando la pena detentiva in una multa da 15mila euro. E fu l’ennesimo abuso di potere: nel 2006 la Consulta ha stabilito che la clemenza presidenziale può essere soltanto un atto “umanitario” per i condannati che abbiano scontato parte della pena e riconosciuto l’errore commesso; non certo un gesto politico che sconfessa una sentenza appena pronunciata, per giunta a vantaggio di un soggetto che insulta i suoi giudici, non fa un minuto di carcere e non si scusa con la vittima.

Così Sallusti prese la sua “spiccata capacità a delinquere” e tornò a diri

Fantastico Andrea Scanzi: “Due parole su quel che resta di Sgarbi”

Sgarbi

 

 

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Fantastico Andrea Scanzi: “Due parole su quel che resta di Sgarbi”

Due parole su quel che resta di Sgarbi

Devo confidarvi un segreto: c’è Vittorio Sgarbi, o quel che ne resta, che da tre giorni mi manda sms di insulti. Mercoledì notte: “Inutile, inetto”. Ieri: “Coglione e disonesto”. E via così. Senza ovviamente che io me lo sia mai filato di pezza. Già solo questo ci dà contezza di come Basaglia, purtroppo, abbia fallito. Evidentemente il poveruomo non ha ancora metabolizzato la figuraccia raccattata martedì a Cartabianca. Infatti è sempre lì a scrivere (male) di me su Il Giornale, scavando ogni giorno di più.

Non riesce proprio a metabolizzare lo smacco. Anche se non sembra, Sgarbi o quel che ne resta è però un uomo tenero. Per questo voglio dedicargli pensieri saturi di affetto e stima.

1. Sgarbi scrive: “Ricordo (a Scanzi, NdA) che, in quarant’anni, ne ho visti tanti come lui, sparire. Mentre io ci sono ancora. E me lo mangio”. Ohi ohi: è già nella fase terminale in cui si fa i complimenti da solo e si convince allo specchio di avercelo lungo. Sgarbi non si rende conto che, in questi quarant’anni, è lui ad essere scomparso da un pezzo. E’ postumo in vita da anni, ma purtroppo non pare rendersene conto. Voglio però rassicurarlo: non ho mai fatto la corsa su di lui, semplicemente perché non amo vincere facile. E più ancora perché non sono necrofilo.

2. Sgarbi straparla di fascismo e grillismo, dicendo che ogni fascismo ha i giornalisti che si merita e quello del grillismo sarei io.Ciao core. Dirmi che sono “grillino” è come dire a Sgarbi che è bello: una sciocchezza in sé, ontologicamente. E’ poi vero che ogni epoca ha pure i suoi cortigiani. O le sue meretrici di basso rango, nonché malamente avvizzite.

3. Prima di dire che il grillismo fosse fascismo, il flatulente seriale di Ferrara andava a pranzo con Grillo e diceva che in fondo i grillini non erano male. Poi, visto che tra i 5 Stelle non se l’è filato nessuno, ha provato la carta Renzi sfruttando la sponda Farinetti. Niente. Quindi è tornato a fare il giullare moscio del Berlusca, dopo una parentesi tragicomica con Tremonti e uno straparlare afono di Rinascimento. Una prece.

4. Essendo sconnesso da un bel pezzo, Sgarbi mi accusa di avere molti meno spettatori e lettori di lui. Ricordate: quando un vecchietto accusa uno più giovane di non avere pubblico, sta solo provando a ricordare a se stesso di essere ancora vivo. Oltretutto Sgarbi, che ormai non ne indovina una neanche per sbaglio, ha pure scelto il momento peggiore per dirmelo: il mio libro Renzusconi ha raggiunto le sei edizioni ed è in classifica da più di tre mesi, sideralmente davanti al libretto di Sgarbi uscito nell’anonimato. E il mio spettacolo omonimo ha fatto più spettatori e sold out in un mese che i suoi (discreti) show logorroici in un anno.

Caro Vittorio, non sei neanche il passato. Non sei. E basta.

5. Sgarbi non capisce nulla di politica e non ha mai indovinato non solo un’esperienza di governo (Salemi forever), ma nemmeno un’analisi. Cinque anni fa, dopo una puntata a L’Aria che tira, invitò a casa sua sia me che Cuperlo. Ci promise di farci pranzare e se ne dimenticò (o forse costava troppo). In compenso parlò due ore di fila. Ci disse che Cuperlo era il futuro del Pd. Cuperlo si toccò le palle e capì all’istante che era già finito tutto. Dopo il Referendum costituzionale disse che Renzi aveva vinto, perché “quel 40% è tutto suo”. E infatti si è visto. Anche come politologo, per parafrasarlo in amicizia, è una capra stitica.

6. Sgarbi non ha un pubblico “suo”. Ogni volta che ha provato a fare qualcosa da solo in tivù, tipo prime serate sulla Rai, ha avuto meno pubblico di Socci con Excalibur. Funziona, sempre meno, come sciroccato bollito che urla a caso. Va bene come opinionista alla Pupa e il Secchione. O come zimbello virale quando si fa riprendere sulla tazza del cesso, nel tentativo disperato di espellere se stesso. Senza peraltro riuscirci (la stipsi è una brutta bestia).

7. Sgarbi non ha elettori, politicamente vale meno di un Alfano coi capelli e ad Acerra non lo ha votato neanche il gatto. Dopo la figuraccia epocale con Di Maio, nella quale è stato in grado di perdere con 43 (ahahahahaha) punti di distacco, avrebbe dovuto ritirarsi in un eremo. Invece blatera ancora perché si è salvato col paracadute come un Carbone qualsiasi. Politicamente ha il peso di Ferrara e Adinolfi. Senza però averne (più) l’intelligenza.

8. Sgarbi capisce di storia dell’arte, ma non è l’unico a capirne. UnTomaso Montanari gli mangia in testa e lui è il primo a saperlo. Questa cosa che Sgarbi “ha un carattere pessimo però quando parla di quadri è bravo”, ha stancato: sarebbe come dire che quell’idraulico che ti ha bombardato e raso al suolo la casa, in fondo, il rubinetto te l’ha aggiustato benino. Quindi potresti anche richiamarlo. Sveglia ragazzi, dai.

9. Lo Sgarbi “politico” fa più assenze di Salvini al Parlamento Europeo e lo Sgarbi provocatore si dichiara poi coraggiosamente nullatenente quando si becca una querela. Basta farsi un giro in Rete, ma anche solo chiedere di lui, per trovarne tanti che ti raccontano come lui e la sua corte dei miracoli se ne siano andati senza pagare la cena o l’albergo. Forse millantano. E forse no.

10. Sgarbi è ormai una mesta caricatura di se stesso. Un Bufalo Bill esibito nel circo mediatico per il piacere del pubblico che sghignazza guardando il nonnetto che sbrocca o magari scorreggia a Le Iene. Gli unici a difenderlo ancora sono due o tre siti anti-grillini e il poro Cruciani. Lo stesso Cruciani che Sgarbi, a Radio Belva (programma durato come un pensiero forte di Gasparri), battezzò così: “Ti piscio in testa, tazza di merda”. Vamos.

11. Sgarbi è un po’ umorale. E’ capace di venire da me a Reputescion (garbatissimo) e subito dopo andare da Cruciani e urlargli di tutto: è successo davvero, era proprio lo stesso giorno. Idem con Peter Gomez. Prima fece la persona piacevole a la Confessione sul Nove. Poi, pochi giorni dopo, accusò Gomez di ogni nequizia a Piazzapulita. E’ sconnesso da se stesso, dal mondo, da tutto.

12. Prima di caderci come una pera cotta con me, Sgarbi fece una figura persino peggiore con Piero Ricca, che lo demolì perculandolo. Riguardatevi i filmati su YouTube: me-ra-vi-glio-si. Sgarbi, impavido come una prugna secca, minacciò di chiamare la polizia e diede a Ricca della “checca”. L’ha fatto anche con me: quando è in difficoltà ti dà del “finocchietto” e “rotto in culo”. Già il solo fatto di usare (a caso) il tema dell’omosessualità come “insulto” dà la misura del personaggetto, o quel che ne resta. Inutile poi che vi ricordi come quelli che si autoincensano per le proprie doti amatorie siano i primi che, quando se lo cercano, spesso non se lo trovano. E di questo, almeno di questo, non vorrei che Sgarbi s’intendesse sin troppo. (Metaforicamente, s’intende)

13. Durante la sua sclerata a Cartabianca, Sgarbi mi ha gridato anche questo: “Ti attacchi al tram!”. Non lo sentivo dai tempi dell’asilo. Nido.

14. La definizione di “puttana reale” mi ha fatto sorridere, perché in questi anni me l’hanno detto molte donne. Più che altro me lo dicono ancora molte ex. Ognuno ha i suoi punti deboli: io ho le donne, Sgarbi ha Sgarbi.

15. Il solo fatto che uno come Sgarbi sia deputato è umiliante per il nostro paese. E’ avvilente che uno che ha detto quelle cose lì su CaselliDi Pietro e troppi altri, compresi milioni di elettori, sieda dove sieda. Ed è altrettanto triste che uno così sia sempre in tivù, urlando fonemi beceri.

16. Conoscendo la sua dimestichezza con water e flatulenze, quel che resta di Sgarbi potrebbe ipotizzare un’uscita di scena alla sua altezza: sedersi sulla tazza del cesso, premere “push” e farsi inghiottire da esso. Sarebbe sublime.

Un abbraccio, caro Vittorio. Ti sia lieve il crepuscolo.

 

Fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/03/10/due-parole-su-quel-che-resta-di-sgarbi/4216911/

Berlusconi propone ancora il Ponte sullo Stretto – Ecco come il Sindaco di Messina massacrò Renzi quando ci provò pure lui: “O ha fatto una battuta o ci prende in giro. Dovrebbe farsi spiegare dal geologo Mario Tozzi e che lì dove vuole piazzare i pilastri c’è la faglia sismica più pericolosa del Mediterraneo…

Ponte sullo Stretto

 

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Berlusconi propone ancora il Ponte sullo Stretto – Ecco come il Sindaco di Messina massacrò Renzi quando ci provò pure lui: “O ha fatto una battuta o ci prende in giro. Dovrebbe farsi spiegare dal geologo Mario Tozzi e che lì dove vuole piazzare i pilastri c’è la faglia sismica più pericolosa del Mediterraneo…

Berlusconi: “In Sicilia faremo il ponte sullo Stretto e il casinò a Taormina”
Realizzazione del ponte sullo Stretto, creazione di un casinò a Taormina e abolizione delle tasse per chi dall’estero torna in Sicilia: sono queste le proposte lanciate da Silvio Berlusconi per la Sicilia in vista delle elezioni regionali del 5 novembre.

Berlusconi ci riprova. E noi vogliamo ricordarVi come il Sindaco di Messina massacrò Renzi quando ci provò pure lui: “O ha fatto una battuta o ci prende in giro. Dovrebbe farsi spiegare dal geologo Mario Tozzi e che lì dove vuole piazzare i pilastri c’è la faglia sismica più pericolosa del Mediterraneo…

Da Il Fatto Quotidiano del 28.09.2016

Ponte sullo Stretto, “Renzi? O ha fatto una battuta o ci prende in giro. Qui le autostrade restano chiuse per frana”

Intervista al sindaco di Messina Renato Accorinti: “Ho visto il premier poco tempo fa in Calabria e diceva che non era totalmente contrario al Ponte ma che prima ci volevano le infrastrutture. In ogni caso posso assicurare che non si farà mai. E’ bastato un semplice No di Virginia Raggi e le Olimpiadi di Roma sono evaporate. La teoria dei posti di lavoro? Ha rotto”

“Io spero che quella di Matteo Renzi sia una battuta, anzi lo sarà sicuramente”. Altrimenti? “Altrimenti è un atteggiamento ingiusto oltre che offensivo”. È furioso Renato Accorinti, il sindaco di Messina che si è visto piovere dal nulla la riapertura da parte del premier alla costruzione del Ponte sullo Stretto. “Renzi l’ho visto poco tempo fa in Calabria per l’inaugurazione dell’elettrodotto Terna: diceva che non era totalmente contrario al Ponte ma che prima ci volevano le infrastrutture. Quindi o quella di oggi è una battuta o ci prende in giro”, dice il primo cittadino peloritano, raggiunto al telefono da ilfattoquotidiano.it.

Eppure il senso delle parole del premier sembra chiaro: rilanciare il progetto del Ponte.
“Ma quale Ponte? Di che cosa sta parlando? Qui abbiamo un sistema ferroviario da seconda guerra mondiale, a binario unico, a gasolio. Sulla Messina – Catania è arrivata una frana e l’autostrada è ancora interrotta. Messina e Catania: due città metropolitane che non sono più collegate tra loro. Che cosa avrebbero fatto se invece una cosa simile si fosse verificata tra Torino e Milano?”

Cosa avrebbero fatto?
“Avrebbero subito ripristinato la rete autostradale: subito! Qua noi non riusciamo a parlare al telefono perché io sono in macchina e dato che non ci sono i ripetitori cade la linea (che infatti cade 4 volte in pochi minuti, ndr). Non ci sono le strade, i porti, i porti commerciali, le autostrade: non abbiamo le basi per poter vivere e ci parlano di Ponte”.

Eppure secondo il premier proprio il Ponte sarebbe un’infrastruttura utile per il Sud.
“Le strade sono utili, le scuole sono utili, le opere culturali sono utili. Io non sono contro il cemento: il cemento quando viene utilizzato bene è sinonimo di sviluppo. Ma il Ponte è utile a che cosa? Non diciamo stupidaggini”.

Utile a togliere la Calabria dall’isolamento e ad avvicinare la Sicilia, così almeno sostiene sempre il presidente del consiglio.
“Ma quale isolamento? Il Giappone è isolato solo perché è un’isola? Noi abbiamo bisogno di infrastrutture che ci portino dal medioevo alla modernità, da mezzo secolo siamo abbandonati a noi stessi. Abbiamo bisogno delle basi per avere sviluppo, per potere lanciare nel mondo le nostre bellezze naturali, artistiche e architettoniche”.

Però il premier sostiene che il Ponte potrebbe creare posti di lavoro: ha parlato di 100 mila nuovi occupati.
“Adesso basta, questa teoria dei posti di lavoro ha davvero rotto i coglioni. È fastidiosa e populista oltre che falsa. Anche fare i buchi a terra per poi assumere gente che li copre crea lavoro: è un’offesa alla nostra intelligenza. Non capiscono che se rilanciassero davvero il Sud sarebbe l’intero Paese a beneficiarne: il Mezzogiorno è il gioiello d’Italia dimenticato da tutti. È come avere una gamba che va in cancrena e fregarsene”.

Lei parla di Sud dimenticato dallo Stato, di medioevo, però forse qualche colpa la hanno anche i cittadini di quel Mezzogiorno così sottosviluppato: o è tra quelli che scarica tutte le responsabilità su Roma?
“Ovvio che abbiamo le nostre colpe. I politici, i nostri politici prima di tutto sono colpevoli: banditi che per decenni se ne sono fregati, svendendo il nostro futuro e la nostra sopravvivenza. È quello che ho intenzione di dire all’Anci”.

Cosa ha intenzione di dire all’Anci?
“Che l’Anci è – o meglio dovrebbe essere – unica da Trento a Trapani. É quindi è arrivato il momento di creare una sezione dei comuni italiani del Sud che abbia una sede al Sud. Dove non ci sono solo decenni di politici banditi ma anche gente che ha tantissima voglia di lavorare. Sono i cittadini del Sud Italia che hanno costruito il resto del Paese: quelli che emigravano a Nord, all’estero, in Belgio”.

Ecco adesso potrebbero lavorare costruendo il Ponte…
Le posso assicurare che non avverrà mai. Renzi dica quello che vuole ma è bastato un semplice No di Virginia Raggi e le Olimpiadi di Roma sono evaporate. Io sono il sindaco di Messina e per anni ho guidato gli attivisti che dicevano No al Ponte: abbiamo cominciato in 10, siamo arrivati ad essere 25mila per le strade della città pur avendo partiti e giornali contro. Ma poi cosa pensano di risolvere con un ponte di 3 chilometri se poi ad essere collegate sono due regioni dove non c’è assolutamente nulla?”.

Eppure da Bettino Craxi fino a Renzi, passando ovviamente da Silvio Berlusconi il Ponte sullo Stretto non è praticamente mai uscito dall’agenda politica italiana: secondo lei come mai?
“Perché è facile populismo Nell’immaginario collettivo un nuovo ponte è sempre un cosa positiva. Peccato che questa sia solo un’opera dai costi enormi, sorpassata dalla storia e anche dall’economia. Secondo lei come mai non è arrivato nessun privato a metterci i soldi? Parlano di project financing, ma gestirlo non converrebbe mai a nessuno: solo a chi lo costruisce con fondi pubblici. Senza considerare il rischio terremoto”.

Che è poi un’altra delle grandi questioni sollevata dai contrari alla grande opera.
“Matteo Renzi sa cosa dovrebbe fare? Dovrebbe chiamare il geologo Mario Tozzi e farsi spiegare che lì dove loro vogliono piazzare i pilastri c’è la faglia sismica più pericolosa del Mediterraneo: se lo faccia spiegare e poi costruisca pure il suo Ponte”.

Il premier aveva detto anche che prima del Ponte doveva arrivare l’acqua a Messina: è mai arrivata?
“Ecco appunto. Sa cosa è successo qua? Non hanno mai messo in sicurezza una montagna, che è caduta danneggiando l’acquedotto. Noi abbiamo trovato una soluzione per ripristinare tutto con un bypass ma la montagna non è ancora stata messa in sicurezza. Cosa fanno ai piani alti? Fanno capire che la colpa è del sindaco: ma in quale Paese le infrastrutture sono a carico dei comuni? Questo è un atteggiamento criminale: non possiamo andare avanti così. Altro che Ponte”.

fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/09/28/ponte-sullo-stretto-renzi-o-ha-fatto-una-battuta-o-ci-prende-in-giro-qui-le-autostrade-restano-chiuse-per-frana/3061058/

Il fantastico editoriale di Marco Travaglio: Benvenuti in Culonia

Marco Travaglio

 

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Il fantastico editoriale di Marco Travaglio: Benvenuti in Culonia

Ci sono giornate che cominciano uggiose e non inducono proprio al buonumore. Poi giunge notizia che Antonio Tajani, a nome di FI e dunque di B., si è molto congratulato con la Merkel per il suo quarto cancellierato e ha rivelato che lei e Silvio hanno appena avuto “due lunghi e approfonditi incontri, non sono mai stati così vicini”, e uno subito si rianima. Siccome siamo un Paese senza memoria che confida nella smemoratezza altrui, ecco un breve riepilogo dei rapporti bilaterali Berlino-Arcore.

Quand’era premier, sinceramente offeso dall’intollerabile serietà della Cancelliera, B. le provò tutte per sbeffeggiarla e umiliarla: una volta le fece il cucù, un’altra la lasciò per mezz’ora sotto il sole mentre lui era al telefono (“con Erdogan”, disse poi, essendo un madrelingua turco) e così via. Lei lo ripagò il 23 ottobre 2011 con la famosa risata in duo con Sarkozy, e chissà se sapeva che un anno prima il Fatto aveva riferito una voce ricorrente in Transatlantico: i fedelissimi di B. erano terrorizzati che uscissero, dalle procure di Milano o Napoli o Bari, intercettazioni compromettenti fra lui, i suoi papponi e le sue escort. Compromettenti non per l’attività di puttaniere, che anzi faceva punteggio. Ma per l’abitudine a catechizzare, nelle cene eleganti pre-bungabunga, le papigirl sulle sue mosse diplomatiche ai vertici internazionali, e a condire il tutto con sapidi aneddoti e soprannomi. Purtroppo quello della Merkel era “culona inchiavabile”.

Le intercettazioni poi non uscirono (o non c’erano, o furono stralciate per irrilevanza penale), ma chi lo conosceva giurava che il Gran Simpatico la chiamava così, amichevolmente, con tutti. Infatti la stessa voce fu raccolta da Selvaggia Lucarelli nel suo blog. L’indiscrezione, rimbalzata sui giornali tedeschi, da Bild a Die Welt, cadde nel più impenetrabile silenzio dell’entourage berlusconiano: nessun commento né smentita. Poi, un anno più tardi, subito dopo la risata Merkel-Sarkozy, B. perse la maggioranza e si dimise. Poi prese ad accusare apertamente la Merkel, in combutta con Sarkò, Obama, Napolitano e il mago Otelma, di aver congiurato contro il suo governo, in quello che doveva essere, se non andiamo errati, il quarto o il quinto “golpe” ai suoi danni dal ’94. Lo ribadì papale papale nel gennaio 2013 a Servizio Pubblico, accusando il governo tedesco di aver aizzato la Deutsche Bank a vendere titoli di Stato italiani per far schizzare lo spread. La Costamagna gli mostrò una lettera di smentita della banca tedesca, ma lui rispose che allora sarà stata la Bundesbank (finiva sempre per bank).

Intanto i suoi giornali, parlando con cognizione di causa e sapendo di far cosa gradita al Capo, avevano iniziato a chiamare la Merkel con quel grazioso vezzeggiativo. Cominciò Libero di Belpietro: “Angela è davvero una culona. Il primo a dirlo fu Kohl” (27.11.2011). Proseguì il Giornale di Sallusti: “La caduta di Berlusconi: è stata la culona” (31.12.2011). E così via, anche a sproposito, persino negli eventi sportivi. Tipo quando la nostra Nazionale eliminò la Germania agli Europei 2012: “Ciao ciao culona” (il Giornale, 29.6.12). “Vaffanmerkel”, “Due calci nel culone” (Libero, 29.6.12). Angela perdeva 10 chili? “Merkel a dieta: anche lei si vede culona” (Libero, 7.5.2014). Così, dando ormai la cosa per fatto notorio, un giornalista della Bbc, Jeremy Paxman, pose a B. la domanda che nessun collega italiano aveva mai osato fare: “Scusi, è vero che ha definito Angela Merkel ‘culona inchiavabile’?”. L’interrogativo sortì sul Lord Brummel brianzolo l’effetto del gas paralizzante: una lunga, interminabile paresi, tipo fermo-immagine (il tempo per l’interprete di riaversi dallo choc e trovare le parole per tradurre un’espressione non proprio tipica del linguaggio politico diplomatico), seguita dal moto ondulatorio e sussultorio della mano destra che faceva cenno di passare alla domanda successiva. Deborah Bergamini, la sventurata portavoce, dovette vergare una nota ufficiale per smentire qualsivoglia imbarazzo, incolpare la Bbc di un taglio politico, precisare che nella versione integrale B. smentiva di aver mai insultato Merkel o altri, spiegare l’apparente paralisi con la vigile attesa della traduzione.

Da: Il Fatto Quotidiano del 28/09/2017.

 

Sappiamo tutti che le lobby, per mantenere il loro potere, sono culo e camicia con la Politica – Ecco l’ultimissima: la lobby del tabacco arruola il figlio di Mattarella!

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Sappiamo tutti che le lobby, per mantenere il loro potere, sono culo e camicia con la Politica – Ecco l’ultimissima: la lobby del tabacco arruola il figlio di Mattarella!

 

La lobby del tabacco arruola Mattarella figlio

da Il Fatto Quotidiano

 

Nel mondo del tabacco le decisioni politiche determinano i profitti dei colossi in perenne guerra fra di loro. Sarà per questo che qualcuno ricorre ai servizi di chi conosce bene gli ambienti ministeriali per averli frequentati a lungo. Come Bernardo Giorgio Mattarella, primo dei tre figli del presidente della Repubblica. A lui si è rivolta la British American Tobacco che gli ha commissionato un dettagliato parere legale che da settimane gira nel ministero del Tesoro dove i tecnici lavorano a un incremento delle accise sulle bionde per contribuire alla manovra correttiva da 3,4 miliardi chiesta da Bruxelles.

Mattarella l’ha consegnato il 5 ottobre. Fino al 2 ottobre è stato capo dell’ufficio legislativo del ministero della Funzione pubblica di Marianna Madia di cui poi è diventato consulente dal 4 novembre a titolo gratuito (l’incarico è scaduto a marzo). Cosa dice il parere? Che il Tesoro non può alzare le tasse sulle sigarette oltre un certo limite senza fare una legge. Bat, infatti, non vuole un incremento dell’imposta minima, che colpirebbe i suoi marchi. Il parere le dà man forte, complicando la vita ai tecnici ministeriali.

IL CALIBRO del personaggio spiega perché il colosso inglese abbia richiesto i suoi servigi. Classe 1968, Mattarella Jr si è laureato in Giurisprudenza a Palermo con 110 e lode, master in Legge a Berkeley, ordinario di Diritto amministrativo a soli 35 anni. Vanta circa 300 pubblicazioni e ottime frequentazioni anche nel mondo che gravita intorno all’ex presidente Giorgio Napolitano: è stato assistente dell’ex giudice costituzionale Sabino Cassesse, amico di Napolitano e siede insieme al figlio Giulio nella fondazione Astrid guidata da Franco Bassanini e nell’Irpa, il centro studi sulla pubblica amministrazione fondato da Cassese.

Accreditato di grande competenza, già componente di Commissioni di studio e di indagine ministeriali, nel 2013 – governo Letta – viene nominato capo dell’Ufficio legislativo del ministero dell’Istruzione. Caduto Letta, viene chiamato alla Funzione pubblica da Marianna Madia. Da lì ha curato la riforma della Pa. Professore ordinario in aspettativa a Siena, è approdato alla Luiss, l’università della Confindustria a Roma.

TRE GIORNI DOPO l’uscita dal ministero, firma il parere come “Ordinario di Diritto amministrativo alla Luiss”e spiega che gli è stato richiesto dalla Bat, insomma, una consulenza accademica. Tema: l’interpretazione di alcuni commi del decreto legislativo 188 del 2014. È il testo che ha riordinato la disciplina fiscale dei tabacchi al centro di una guerra senza sconti tra le lobby delle bionde. Il decreto fissa tre imposte: una uguale per tutti, il carico fiscale minimo; e due proporzionali al prezzo, l’accisa e l’aliquota. Il nodo vero è la prima: essendo uguale per tutti, alzandola si colpiscono più quelli di fascia bassa, tipo le Lucky Strike e le Rothmans di Bat e meno i marchi di fascia alta come la Marlboro di Philip Morris, che infatti la caldeggia. Il decreto assegna al ministero dell’Economia il potere di modificare le imposte con un semplice decreto ministeriale, sentita l’Agenzia dei Monopoli: i valori di riferimento per le modifiche del 2015 sono quelli del 2014, e dal 2016 in poi quelli fissati “dall’ultima modifica”. In teoria, quindi, senza limiti.

Mattarella nel suo parere spiega invece che l’interpretazione più autentica è che valgono i limiti massimi fissati nel 2015 stenza in materia di diritto amministrativo” è stato conferito “il 28 settembre, a valersi con efficacia dal primo ottobre”, cioè quando Mattarella era formalmente ancora al ministero come capo dell’Ufficio legislativo. L’incarico per il parere è stato retribuito con 3.500 euro e “rientra in una più generale consulenza fino al 31 dicembre 2016”. Tutto legittimo visto che la legge Frattini sul conflitto d’interessi non dice nulla al riguardo, ma il caso arricchisce una già lunga lista composta da super esperti che vanno e vengono dai ministeri e poi lavorano anche per aziende private. In questo caso con un cognome di peso. Il Fatto ha provato per tutto il giorno ad avere la versione di Mattarella sull’opportunità di accettare la consulenza, senza però ottenere risposta.

LA ZAVORRA fiscale regressiva, che colpisce i marchi di gamma bassa, ora servirebbe allo Stato per non perdere gettito visto che il mercato è in calo e anche per fare cassa. Nell’ottobre scorso si studiava un incremento dell’onere minimo da 170 a 178-179 euro al chilo. Ora, nelle ipotesi al Tesoro, si è scesi a 175 euro e si studia se inserire il tutto nel decreto della manovra correttiva. Probabile che il parere portato da Bat abbia influito. Sul decreto del 2014 le lobby diedero battaglia senza risparmiare colpi: testi che apparivano e scomparivano nei pre-Consigli dei ministri, emendamenti e cavilli infilati all’ultimo e via dicendo. A ottobre, in piena guerra, Matteo Renzi andò a inaugurare lo stabilimento bolognese di Philip Morris che chiedeva un rialzo stellare del carico fiscale minimo. Bat è risultata invece il principale finanziatore della Fondazione Open, la cassaforte politica del renzismo che paga gli eventi come la Leopolda. Poi c’è la guerra dei pareri legali.

Dai soldi alla Fondazione di Renzi agli show in fabbrica: le industrie che vivono di politica

Pressioni – I produttori di sigarette lottano fino all’ultimo emendamento sulle tasse

Poche lobby, come quella del tabacco, vivono dei rapporti con la politica. Dalle accise lo Stato ricava ogni anno circa 14 miliardi di euro, una cifra che lo rende un settore delicatissimo. La lista dei punti di contatto tra i due mondi è lunga, ed è cresciuta soprattutto con il governo di Matteo Renzi, che si è trovato a discutere nel 2014 un decreto che ha riordinato, su input di una direttiva europea, l’intero mondo dei tabacchi.

LA GUERRA di lobby è stata furiosa, e ogni cosa fa gioco. La sfida è sempre stata tra colossi come Philip Morris, che chiedono di alzare l’accisa minima, e quelli come British american tobacco o Imperial tobacco che hanno marchi di fascia bassa di prezzo e quindi vengono colpiti di più.

Bat, per dire, ha versato 150 mila euro alla renziana fondazione Open, i primi 100 mila dopo il primo luglio 2014. Qualche settimana prima il premier aveva incontrato Nicandro Durante, il gran capo di Bat: era la vigilia di approvazione del decreto, poi slittato a più riprese. Già a fine 2013 Philip Morris era riuscita a far comparire in un collegato alla manovra un super aumento dell’imposta minima che penalizzava i concorrenti, poi saltato.

A ottobre 2014, in piena guerra di lobby, Renzi va alla posa della prima pietra, con uno show senza precedenti, dello stabilimento bolognese da “600 posti di lavoro e 500 milioni di investimento” dove Philip Morris produce la sua sigaretta di nuova generazione (che otterrà uno sconto del 50% sull’accisa). Nel colosso americano, peraltro, siede come direttore non esecutivo anche Sergio Marchionne, con cui Renzi vanta una solida amicizia.

Nei vari pre-consigli dei ministri compaiono testi che poi cambiano all’ultimo, segnale di una certa confusione negli uffici legislativi dove succede di tutto. Anche sui testi che riguardano i “prodotti di nuova generazione” i commi appaiono e scompaiono. Ma la lista, come detto, è lunga. Il Fatto, per esempio, ha rivelato che a luglio scorso la Bat ha finanziato con 17.324 euro un incontro organizzato a luglio dall’associazione Ares presieduta dal sottosegretario dem al Tesoro Pier Paolo Baretta, che tra le sue deleghe ha quella dei giochi ma non quella del tabacco.

AL TAVOLO, peraltro, c’erano personaggi illustri come l’ex sottosegretario Vieri Ceriani, consigliere del ministro Pier Carlo Padoan, vero esperto della materia.

Cosa c’è dietro la Tap, quella per cui stanno assassinando gli Ulivi Pugliesi? Riciclaggio di soldi della ‘ndrangheta… Ce lo raccontano Il Fatto Quotidiano e L’Espresso!

Tap

 

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Cosa c’è dietro la Tap, quella per cui stanno assassinando gli Ulivi Pugliesi? Riciclaggio di soldi della ‘ndrangheta… Ce lo raccontano Il Fatto Quotidiano e L’Espresso!

 

Da Il Fatto Quotidiano:

Tap, “un caso di riciclaggio di soldi della ‘ndrangheta dietro la società madre del gasdotto che approderà in Puglia”

A raccontare la vicenda è L’Espresso, che ricostruisce un’indagine antimafia su una lavanderia di denaro sporco con al centro Viva Transfer, fondata da Raffaele Tognacca. Il manager fino al 2007 è stato numero uno di Egl Produzione Italia, che ha ricevuto finanziamenti europei per realizzare progetti preliminari e studi di fattibilità dell’opera. Il gruppo Tap: “Inaccettabile, quereliamo autori e direttore”

Un manager implicato in un caso di riciclaggio internazionale di denaro della mafia ha guidato per sette anni la società “madre” del gasdotto Tap. C’è anche questo, stando a quanto scrive L’Espresso di questa settimana, dietro il progetto della grande opera che dovrebbe portare il gas azero in Europa approdando sulle coste del Salento. Progetto contro il quale in queste ore continuano a protestare i cittadini di Melendugno e dintorni, contrari all’espianto di poco più di 200 ulivi dal tracciato del microtunnel del gasdotto da 4mila chilometri, iniziato dopo che il Consiglio di Stato ha dato il via libera alla realizzazione del Tap e ha respinto gli appelli proposti dalla Regione Puglia e dal Consiglio comunale di Melendugno. Il gruppo Tap ha annunciato querela nei confronti degli autori e del direttore, definendo “arbitrario, infondato ed evidentemente inaccettabile l’accostamento del progetto alla parola mafia”.

Secondo quanto ricostruito dal settimanale, in edicola domenica, è stata una società “finora ignota”, Egl Produzione Italia, controllata dalla svizzera Axpo, a ricevere nel 2004 e 2005 due finanziamenti europei a fondo perduto da 3 milioni di euro per i progetti di fattibilità e gli studi preliminari propedeutici all’opera. Lo dimostrano documenti che la ong Re:Common ha chiesto e ottenuto dalla Commissione europea. La parte più interessante, si legge nell’inchiesta di Paolo Biondani e Leo Sisti, è che fino al 2007 il numero uno dell’azienda è stato un cittadino svizzero, Raffaele Tognacca, che in seguito, dopo aver lavorato in Italia per Erg, tornato in patria ha fondato Viva Transfer. Una finanziaria finita al centro di un’indagine antimafia arrivata ora al processo.

Nel 2014, scrive L’Espresso, le Fiamme Gialle scoprirono un presunto clan di narcotrafficanti legati alla ‘ndrangheta. Stando alle confessioni dei corrieri del gruppo, capeggiato da un calabrese, il milione e mezzo di euro da versare ai narcos sudamericani in cambio della cocaina fu portato “in contanti, dentro due trolley, a Lugano, nella sede della Viva Transfer”. E a ricevere i pacchi di banconote fu “Raffaele Tognacca in persona”. Al processo, in corso a Roma, i pm hanno formulato l’accusa di riciclaggio e, si legge nel servizio, hanno chiesto ai magistrati svizzeri di indagare sulla parte estera. Tognacca sostiene tuttavia di non essere “stato oggetto di nessuna misura istruttoria e/o procedimento penale, né in Italia, né in Svizzera”. La Egl, nel 2012, ha cambiato nome in Axpo, che compare tra i soci di Tap Ag (nata nel 2007) insieme a Bp, Snam, Fluxys, Enagas e all’azera Az-Tap.

Tap dal canto suo ha diffuso nel pomeriggio una nota in cui annuncia che “provvederà nelle prossime ore a sporgere querela contro gli autori e il direttore del giornale, riservandosi la facoltà di adire anche il tribunale civile per il risarcimento del gravissimo danno reputazionale, annunciando fin d’ora che esso sarà devoluto all’associazionismo antimafia”. “E’ arbitrario, infondato ed evidentemente inaccettabile“, si legge nel comunicato, “l’accostamento di Tap Ag e del progetto del gasdotto transadriatico alla parola mafia effettuato con un suggestivo titolo sul numero in uscita domani del settimanale l’Espresso“. “Tap – prosegue la nota della multinazionale – è impegnata con verificabile e verificata coerenza nella più rigorosa applicazione delle leggi e dei regolamenti italiani ed europei nella attribuzione di appalti e subappalti ed ha da tempo sottoposto alla Prefettura di Lecce un protocollo antimafia che garantisca la massima trasparenza della conduzione dei lavori”.

fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/04/01/tap-un-caso-di-riciclaggio-di-soldi-della-ndrangheta-dietro-la-societa-madre-del-gasdotto-che-approdera-in-puglia/3491333/