Il 9 maggio del ’78 – 41 anni fa – la magia uccideva Peppino Impastato. Le parole pesanti come il piombo del fratello Giovanni: “La mafia non è l’anti-stato, è proprio nel cuore delle istituzioni”

 

Impastato

 

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Il 9 maggio del ’78 – 41 anni fa – la magia uccideva Peppino Impastato. Le parole pesanti come il piombo del fratello Giovanni: “La mafia non è l’anti-stato, è proprio nel cuore delle istituzioni”

La storia di Giuseppe Impastato è quella di una battaglia iniziata 50 anni fa dal fratello maggiore, Peppino, che lui ha scelto di portare avanti per «restituire dignità alla sua memoria».

È un uomo che negli anni ha visto morire lo zio, il padre ed il fratello, e nonostante tutto ha continuato a combattere con accanto la mamma Felicia, fino al 2004 anno della scomparsa, gli amici di sempre e tante persone comuni che hanno scelto di schierarsi, di prendere una posizione netta.

Un uomo nato in una famiglia mafiosa, che quando ha visto il fratello ribellarsi e morire per le sue idee che facevano paura per la loro portata rivoluzionaria, era un ragazzo che ha trovato la forza di seguire le sue orme, sfidando il proprio temperamento e la società che lo circondava, prendendo in mano il testimone di una lotta che tocca vette altissime per morale, etica e sacrifici.

Un racconto scritto nero su bianco nel libro “Oltre i cento passi”, in cui rievoca la rivoluzione culturale iniziata da Peppino, che non solo ha usato strumenti nuovi e dissacranti per smitizzare il potere mafioso, ma lo ha fatto «operando una rottura storica e culturale perché non avviene solo all’interno della società in cui ha vissuto, ma soprattutto all’interno della propria famiglia, di origine mafiosa». Non lo hanno fermato il ripudio del padre, le minacce di morte e nemmeno la morte del padre stesso, ucciso dalla stessa mafia di cui faceva parte e che aveva tentato di proteggerlo, dopo aver capito che non si sarebbe mai fermato.

Una testimonianza profonda e quanto mai attuale, dopo la recente sentenza sulla trattativa stato-mafia che ha dimostrato come la criminalità organizzata non sia un corpo estraneo in lotta con le istituzioni, ma un’organizzazione che è riuscita a far parte dello stato stesso, condizionandone le decisioni per il proprio tornaconto.

Per la prima volta ha fatto il punto della situazione su mafia e antimafia in Italia con il libro “Oltre i cento passi”. Quali sono le sue principali considerazioni?
La prima è quella di dare la giusta identità alla storia di Peppino, che non è un eroe, non è un mito né un’icona: lo dobbiamo considerare un punto di riferimento. All’interno della sua storia c’è un messaggio che non è solo di impegno civile, di lotta e di speranza, è soprattutto un messaggio educativo per le nuove generazioni. Poi ho voluto chiarire che la mafia non è mai stata l’anti-stato, anzi, è nel cuore dello stato per quanto riguarda la realizzazione delle grandi opere pubbliche, del sistema degli appalti, la gestione del denaro pubblico ed i rapporti con la politica. Le morti di Falcone, Borsellino, del generale Dalla Chiesa e degli uomini delle loro scorte, sono avvenute perché queste persone hanno cercato di bloccare un processo di appropriazione illegale all’interno dello stato. 
La nuova mafia di oggi è la borghesia mafiosa, non più persone con la quinta elementare: oggi la strategia della mafia viene dettata da persone che per estrazione sociale e professione fanno parte della borghesia. I mandamenti ci sono ancora ma si limitano ad eseguire gli ordini.

Ha anche chiarito cos’è per lei il concetto di legalità…
Non è solo il rispetto delle leggi, ma si tratta innanzitutto del rispetto dell’uomo e della vita umana. Questi sono i concetti del libro oltre al racconto del mondo che è nato dopo la realizzazione del film con una serie di incontri con insegnanti e studenti, tutte le iniziative fatte con il coinvolgimento dei giovani che oggi ci troviamo a fianco.

Lei ha raccontato di non aver avuto il coraggio di ribellarsi come suo fratello, ricordando l’episodio in cui si Peppino rifiutò di stringere la mano al boss Badalamenti, ma oggi ha raccolto a pieno il testimone e si batte in prima persona girando l’Italia in modo instancabile…
Abbiamo raccolto il testimone e io sono stato aiutato da tante persone che ho avuto vicino in questi anni: abbiamo camminato con il suo coraggio. Nessuno me l’ha imposto, è stata una scelta mia che sono orgoglioso di avere fatto. Mi sono sentito coinvolto in pieno ed ho voluto lottare per dare dignità alla figura di Peppino che addirittura all’inizio era stato definito come un terrorista.

Si è appena concluso il processo sulla trattativa stato-mafia, che ne pensa?
Sono solidale con i giudici e credo sia stata una sentenza che ha fatto giustizia. Anche se forse il problema va oltre la trattativa perché, come dicevo, la mafia oggi si trova all’interno dello stato e a volte svolge ruoli importanti rendendosi protagonista in negativo di ciò che avviene nel nostro paese. Stiamo molto attenti: non consideriamo la mafia come un corpo estraneo o come un’organizzazione criminale che contrasta lo stato, nulla di tutto questo e questa sentenza ha dimostrato pure che oltre alla trattativa ci sono stati favoritismi e connivenze, per una vicenda scorretta da tutti i punti di vista.

Ci racconta qualcosa del Centro siciliano di documentazione?
È stata la prima associazione antimafia che si è costituita al mondo ed è nato nel 1977, quando Peppino era ancora vivo e poi nel 1980 è stato dedicato alla sua memoria. Ha avuto un ruolo importantissimo in tutti questi anni seguendo la vicenda giudiziaria in modo dettagliato con un grande lavoro di studio e di testimonianza, anche nelle scuole. Il centro Impastato è stato protagonista di tutte le battaglie che abbiamo portato avanti con importanti pubblicazioni come quelle di Umberto Santino, che si può considerare come uno tra i più grandi studiosi e conoscitori della mafia, per cui lascio immaginare a voi il valore di questo centro.

Mentre Casa memoria?

È un’altra cosa: è un’associazione che lavora in concomitanza ed assume un ruolo diverso, finalizzato direttamente alla memoria di Peppino.

Di recente ha scritto una lettera al direttore generale della Rai dopo l’invito a Porta a Porta del figlio di Totò Riina che presentava il libro scritto sul padre…
Sì, e ho anche deciso di pubblicarla nel libro, perché la ritengo importante. Un giornalista come Vespa, che non è la prima volta che si comporta in questo modo in una televisione pubblica pagata con i nostri soldi, aveva deciso di presentare un libro di uno scagnozzo mafioso, figlio di Totò Riina. È una cosa inqualificabile, anche perché il figlio non ha rinnegato il percorso del padre o le sue scelte, e alla domanda di Vespa: “Lei crede nello stato?”, ha risposto: “Lo stato mi ha rubato mio padre”, come se non fosse stato giusto condannarlo per i reati commessi: credo che la Rai non si possa permettere di fare pubblicità al figlio di un mafioso.

In questa battaglia che è innanzitutto culturale, quali sono gli strumenti necessari e i valori che cerca di trasmettere ai giovani?
Io cerco sempre di trasmettere il messaggio di Peppino. Ai ragazzi spiego sempre che bisogna partire dal basso, dal controllo del territorio perché è importante e dobbiamo difenderlo da ogni forma di speculazione e salvare la bellezza delle nostre terre denunciando le persone che commettono illeciti e gli amministratori se fanno male, ricordandosi di appoggiarli se invece fanno bene.

Poi è chiaro che Peppino sia stata una figura unica nella storia del movimento antimafia perché lui non era un poliziotto, non era un carabiniere né un giudice, non era pagato per svolgere questo ruolo e addirittura era figlio di un mafioso: lui opera una rottura storica e culturale perché non avviene solo all’interno della società in cui ha vissuto, ma soprattutto all’interno della propria famiglia, di origine mafiosa. È un messaggio importante. E poi il mezzo: Peppino si scaglia contro la mafia con quell’arma micidiale che è l’ironia; la famosa trasmissione Onda pazza metteva in ridicolo i mafiosi, li ha dissacrati e smitizzati.

Per finire mi riallaccio al contesto attuale ed ai mezzi mediatici di oggi, tra i reality e vari programmi che logorano i cervelli, con la De Filippi che sta facendo rimbecillire intere generazioni: sono cose dannose, oltre che deprimenti; non dico di morire sui libri, o d’impegno, ma ai ragazzi non fa bene passare le giornate davanti a computer e televisione e ci vuole qualcuno che lo dica, visto che non lo fa nessuno.

fonte: https://www.dolcevitaonline.it/giovanni-impastato-la-mafia-non-e-lanti-stato-e-nel-cuore-delle-istituzioni/

Torino: muore in sala d’attesa pronto soccorso. La notizia ha avuto poco clamore perché era solo un clochard – Sveglia gente. Veramente si può morire d’indifferenza, dimenticati in un Ospedale?

 

pronto soccorso

 

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Torino: muore in sala d’attesa pronto soccorso. La notizia ha avuto poco clamore perché era solo un clochard – Sveglia gente. Veramente si può morire d’indifferenza, dimenticati in un Ospedale?

Lo ha scoperto il familiare di un paziente dell’ospedale di Moncalieri: quell’uomo seduto su una sedia della sala d’aspetto era morto. Da ore. Ha dato l’allarme, sono arrivati i carabinieri. Addosso nessun documento. In tasca solo un foglio di dimissioni. Proprio dall’ospedale di Moncalieri, firmato il giorno prima. Così è stata ricostruita per sommi capi la storia di questo clochard – che forse si chiamava Beppe – morto nell’indifferenza in una corsia d’ospedale.

Era arrivato al pronto soccorso con un’ambulanza. I passanti lo avevano visto seduto tra i cartoni, spaesato e debole. Avevano chiamato i soccorsi. Ora il direttore sanitario della struttura dice che non presentava alcuna patologia, i medici gli avevano offerto la colazione e poi lui aveva firmato i fogli per poter lasciare l’ospedale senza sottoporsi ad altri controlli.
Poi la sera dopo è tornato li in ospedale. Si è seduto su una delle sedie della sala d’aspetto e lì è spirato.

Il fatto non ha suscitato particolare clamore: il morto era solo clochard, un barbone…

Ma che cazzo siamo diventati. Il morto era un essere umano…!

Un episodio gravissimo che potrebbe essere l’ennesimo caso di malasanità nelle corsie degli ospedali italiani. E comunque, veramente si può morire d’indifferenza, dimenticati in un Ospedale?

SCUOLA, 250 crolli dal 2013 ad oggi, ma il problema per Salvini sono i grembiulini… E forse non avete pensato ad un’altra cosa: questa cazzata dei grembiulini alla fine la paghiamo noi…!

 

SCUOLA

 

 

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SCUOLA, 250 crolli dal 2013 ad oggi, ma il problema per Salvini sono i grembiulini… E forse non avete pensato ad un’altra cosa: questa cazzata dei grembiulini alla fine la paghiamo noi…!

Edilizia scolastica, da paura: dal 2013 ad oggi ci sono stati oltre 250 crolli e oltre la metà degli edifici è stata costruita prima del 1970. Il patrimonio edilizio scolastico italiano è composto da 40.151 edifici attivi, di proprietà di Comuni, Province e Città metropolitane. Ben 22mila sono stati costruiti prima del 1970.

Solo il 53,2% possiede il certificato di collaudo statico, mentre il 53,8% non ha quello di agibilità/abitabilità. Circa 4 milioni e mezzo di studenti tra i 6 e i 16 anni vivono in province totalmente o parzialmente rientranti in aree con una pericolosità sismica alta o medio-alta, nelle quali si trovano 17.187 edifici scolastici, pari al 43% del totale. Nell’anno scolastico 2017-2018 vi è stato un record di crolli e distacchi di intonaco, ben 50 registrati dalla stampa locale.Mentre dall’inizio dell’anno scolastico in corso la stampa riporta 47 crolli, uno ogni 3 giorni.

L’insicurezza delle scuole ha provocato, a partire dal 2001, 39 giovanissime vittime, ma per Salvini la priorità sono i grembiulini…

E qui siamo già al ridicolo. Al ridicolo si aggiunge poi la beffa. Perché forse nessuno a fatto caso che questo sfizio del cazzo di Salvini costerà caro a noi…

Il grembiule obbligatorio a scuola sarebbe solo un altro balzello a carico delle famiglie e determinerebbe un aggravio dei costi scolastici per i genitori italiani. Il costo medio di un grembiule da scuola per i bambini va dai 15 ai 30 euro. Se Salvini dovesse reintrodurre l’obbligo della divisa scolastica, le famiglie sarebbero costrette a sopportare un costo aggiuntivo che va da 45 a 90 euro mediamente per figlio, che si aggiungerebbe alla spesa per il corredo e a quella relativi ai libri di testo, voci che pesano fino a complessivi 1.100 euro annui a studente.

 

By Eles

 

 

A 41 anni dalla morte di Peppino Impastato, vogliamo ricordare una Grande, Grande, Grande Donna: Felicia Bartolotta Impastato, la fantastica mamma di Peppino!

 

Peppino Impastato

 

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A 41 anni dalla morte di Peppino Impastato, vogliamo ricordare una Grande, Grande, Grande Donna: Felicia Bartolotta Impastato, la fantastica mamma di Peppino!

Chi era Felicia Impastato

La storia della madre di Peppino Impastato, che ottenne che si sapesse chi aveva ucciso suo figlio

Felicia Impastato era la madre di Peppino Impastato, il militante di estrema sinistra che venne ucciso dalla mafia a Cinisi, in provincia di Palermo, il 9 maggio 1978: lo stesso giorno in cui in tutt’altra storia altrettanto drammatica le Brigate Rosse uccidevano a Roma il leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Felicia Impastato ebbe un ruolo determinante e appassionato nella lunga ricerca della verità sull’assassinio di suo figlio, verità che fu a lungo depistata e nascosta dai responsabili dell’omicidio e dalle trascuratezze delle indagini.

“La mafia in casa mia”

Felicia Bartolotta era nata a Cinisi il 24 maggio 1915, in una famiglia di piccola borghesia: il padre era impiegato al Municipio e la madre casalinga. Nel 1947 sposò Luigi Impastato, che proveniva da una famiglia di piccoli allevatori legati alla mafia di Cinisi. Durante il fascismo Impastato era stato condannato a tre anni di confino e nell’ultimo periodo delle Seconda guerra mondiale aveva praticato il contrabbando di generi alimentari. Una sorella di Impastato era la moglie di Cesare Manzella, il capomafia di Cinisi. Il matrimonio con Impastato fu una scelta di Felicia che lei raccontò in un libro intervista del 1986, La mafia in casa mia: «Prima si stava all’obbedienza… e mi feci fidanzata con uno onesto… ma non lo volevo. Arrivai ad esporre il corredo ma quando dovevo andare a sposarmi dissi: Non lo voglio sposare». Decise quindi di sposare l’uomo di cui si era innamorata, Luigi Impastato, del quale però non conosceva i legami con la mafia: «Io allora non ne capivo niente di mafia, altrimenti non avrei fatto questo passo». Dal matrimonio con Impastato, Felicia ebbe tre figli: Giuseppe (Peppino) nel 1948, Giovanni nel 1949, morto a tre anni nel 1952, e un nuovo Giovanni nel 1953.

Presto però, a causa delle amicizie mafiose del marito, i rapporti tra lui e Felicia si fecero difficili: «Attaccava lite per tutto e non si doveva mai sapere quello che faceva, dove andava» raccontò Felicia. «Io gli dicevo: “Stai attento, perché gente dentro casa non ne voglio. Se mi porti qualcuno dentro, che so, un mafioso, un latitante, io me ne vado da mia madre”».

Nel 1963 il cognato di Felicia Impastato, Cesare Manzella, fu ucciso con un’autobomba durante la cosiddetta “Prima guerra di mafia”. Fu una cosa che fece una grande impressione su Peppino, il quale interruppe i rapporti con il padre, che lo cacciò di casa: e Peppino ancora adolescente si impegnò sempre più in politica nei movimenti di sinistra e contro la mafia. Al contrario, Luigi Impastato continuò a mantenere buoni rapporti con il nuovo boss di Cinisi, Gaetano Badalamenti, che poi sarebbe stato condannato come mandante dell’omicidio del figlio.

Negli anni seguenti, Felicia Impastato difese sempre Peppino dal padre, ma cercò anche di proteggerlo dalle possibili reazioni dei mafiosi ai suoi scritti. Quando il figlio scriveva articoli contro la mafia sul foglio ciclostilato che aveva fondato assieme ai compagni, “L’Idea socialista”, Felicia faceva di tutto per evitarne la diffusione a Cinisi, e cercava di dissuadere in ogni modo Peppino dal parlare di mafia durante i suoi comizi pubblici.

Negli anni Settanta Impastato si impegnò in diverse esperienze politiche nei movimenti di estrema sinistra, tra cui Lotta Continua e Democrazia Proletaria, con cui si candidò alle elezioni nel 1978. Nel 1977 aveva fondato “Radio Aut”, una radio libera e autofinanziata, da cui denunciava gli affari dei mafiosi di Cinisi e del vicino paese Terrasini (in particolare quelli di Badalamenti, chiamato da Impastato “Tano seduto”), che avevano un ruolo di primo piano nel traffico di droga attraverso il controllo dell’aeroporto di Punta Raisi. Nel settembre dello stesso anno Luigi Impastato era morto investito da un’auto, e ai suoi funerali Peppino aveva rifiutato di stringere la mano ai mafiosi di Cinisi.

Quasi al termine di una campagna elettorale in cui attaccò molte volte Badalamenti, nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978 Impastato fu rapito e poi legato ai binari della ferrovia Palermo-Trapani, dove fu ucciso con una bomba al tritolo.

Le indagini sulla morte di Peppino Impastato

Da subito le indagini seguirono, anche contro l’evidenza, l’ipotesi di un attentato terroristico fatto dallo stesso Impastato e finito male, e quella di un suicidio: furono perquisite la casa di Impastato e quelle dei suoi compagni. Dopo qualche giorno, non credendo a nessuna delle due versioni, Felicia Impastato decise di costituirsi parte civile per cercare i colpevoli della morte del figlio e per proteggere l’altro, Giovanni (a quel tempo era possibile chiedere di costituirsi parte civile anche durante la fase istruttoria). Con questa scelta Felicia Impastato ruppe definitivamente con i parenti del marito. Felicia Impastato aprì la sua casa a tutti coloro che volevano conoscere la storia del figlio: «Mi piace parlarci, perché la cosa di mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia. E ne vengono, e con tanto piacere per quelli che vengono! Loro si immaginano: “Questa è siciliana e tiene la bocca chiusa”. Invece no. Io devo difendere mio figlio, politicamente, lo devo difendere. Mio figlio non era un terrorista. Lottava per cose giuste e precise».

Nei giorni successivi all’omicidio, i compagni di Peppino ritrovarono nel casolare in cui lui era stato portato e ucciso delle pietre macchiate di sangue, e il 16 maggio Felicia e Giovanni Impastato inviarono un esposto alla Procura di Palermo, nel quale indicavano come mandante dell’assassinio Gaetano Badalamenti. Per arrivare a una sentenza che riconoscesse la natura mafiosa dell’omicidio, si dovette aspettare il 1984: in maggio il Consigliere istruttore Antonino Caponnetto, proseguendo l’inchiesta avviata dal suo predecessore Rocco Chinnici (ucciso da un’autobomba nel 1983), stabilì che Peppino Impastato era stato ucciso dalla mafia, ma l’omicidio venne attribuito ad ignoti, per mancanza di prove.

Nel 1988 il Tribunale di Palermo inviò una comunicazione giudiziaria a Badalamenti, nel frattempo condannato per mafia negli Stati Uniti a 45 anni di carcere, ma nel maggio 1992 il fascicolo fu di nuovo archiviato: i giudici stabilirono che non era possibile individuare i colpevoli dell’omicidio di Peppino Impastato, ma ipotizzarono la responsabilità dei mafiosi di Cinisi alleati dei corleonesi.

Due anni dopo Felicia e Giovanni Impastato chiesero la riapertura delle indagini e che venisse interrogato sull’omicidio Impastato il mafioso “pentito” Salvo Palazzolo, originario di Cinisi, che indicò come responsabili dell’omicidio Badalamenti e il suo vice, Vito Palazzolo. Nel giugno 1996 l’inchiesta fu formalmente riaperta. Il 5 marzo del 2001 Vito Palazzolo venne condannato a trent’anni di prigione. L’11 aprile del 2002 Gaetano Badalamenti venne condannato all’ergastolo: morì due anni dopo. La giornalista dell’Unità Sandra Amurri scrisse, in un articolo del 2004 sulla morte di Badalamenti:

“È ancora viva nella memoria dei cronisti che hanno assistito al processo, quella piccola donna, che gli anni hanno reso curva, vestita di nero, mentre saliva sul pretorio accompagnata dagli avvocati per rendere la sua coraggiosa testimonianza. Don Tano la osservava, muto, in video conferenza, mentre se ne stava seduto in una stanza del carcere americano: ‘È stato Badalamenti ad uccidere mio figlio. A Cinisi lo sanno tutti’, ha tuonato la signora Felicia”.

Ne frattempo, nel 1998, la Commissione parlamentare antimafia aveva istituito un comitato speciale sul caso Impastato che nel dicembre 2000 approvò una relazione in cui parlava del depistaggio delle indagini sull’omicidio organizzato da alcuni carabinieri che avevano partecipato alle perquisizioni avvenute subito dopo il delitto. L’indagine della procura di Palermo sul depistaggio è iniziata nel 2011 ed è ancora in corso.
Felicia Impastato è morta il 7 dicembre 2004, a 88 anni, per un attacco d’asma. Dopo la sua morte, la casa dove ha vissuto è diventata la “Casa memoria Felicia e Peppino Impastato”.

 

 

Dedicata a Peppino Impastato, e a tutte le persone di buona volontà, perché non dimentichino mai, il passato cosa ha scavato
nei cuori della povera gente!

Quei cento passi

Quei cento passi
separarono
senza esitare
la vita
dalla morte
furono sangue
versato all’istante
nelle vie
del baratro fondo
dell’animo umano
colpirono stelle
uccisero speranze.
Quei cento passi
calpestarono
giorni di risveglio
addosso al cuore
scintille e fuoco
di dolore e lutti
inaspettatamente
incisero
con fredda
insulsa
mano invisibile
grondante sangue
lasciando a terra
il sogno di un uomo
la voce del libero
vivere
in un mondo
migliore.

 

 

fonti:

Youtube

https://www.ilpost.it/2016/05/10/felicia-impastato/

https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=191749678129127&id=165276967443065&hc_location=ufi

“Il reddito di cittadinanza è una cazzata” ha dichiarato Briatore dal suo yatch da 20 milioni, mentre beveva champagne …Ora qualcuno potrebbe spigargli che il reddito di cittadinanza ha ridato dignità a chi non ce la faceva economicamente. Ma poi bisognerebbe spiegargli cos’è la “dignità”…!

 

Briatore

 

 

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“Il reddito di cittadinanza è una cazzata” ha dichiarato Briatore dal suo yatch da 20 milioni, mentre beveva champagne …Ora qualcuno potrebbe spigargli che il reddito di cittadinanza ha ridato dignità a chi non ce la faceva economicamente. Ma poi bisognerebbe spiegargli cos’è la “dignità”…!

Flavio Briatore boccia senza mezzi termini il reddito di cittadinanza, una delle misure più volute dall’attuale governo per provare a rilanciare i consumi. A margine dell’assemblea di Federalberghi a Capri, l’imprenditore ritiene il rdc un altro mezzo di sussistenza per i fannulloni. “Il reddito di cittadinanza è una cazzata – dice Briatore – Ci vorrebbero dei contratti stagionali e noi sostituirci al Governo: se il governo dà a un dipendente 700 euro di reddito di cittadinanza per non far niente, bisognerebbe che dessero la possibilità agli imprenditori di pagare la stessa cifra, gestire il lavoratore per aiutarlo a crescere e poi, se è bravo, dargli un contratto a tempo indeterminato”

Quest’idiota, quindi, vorrebbe pagare 700 Euro al mese un barista che da solo gli fa guadagnare, nei suoi locali, 200.000 euro a sera…

Un miserabile accattone, arricchito che non sa neanche cos’è la dignità, ma che si permette di pontificare sul reddito di cittadinanza e sulla gente che, in quanto a dignità, potrebbe insegnargli tantissimo…

Da parte nostra, tutto il nostro nauseato schifo per Briatore e gente come lui…

Il 6 maggio 2013 moriva Giulio Andreotti – Ma non è che se uno muore, di colpo diventa santo… Ecco perché beatificare Andreotti é beatificare la MAFIA

 

 

Andreotti

 

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Il 6 maggio 2013 moriva Giulio Andreotti – Ma non è che se uno muore, di colpo diventa santo… Ecco perché beatificare Andreotti é beatificare la MAFIA

“Di feste in mio onore – disse una volta Giulio Andreotti al Corriere – ne riparleremo quando compirò cent’anni”. Oggi il Divo non c’è più, eppure avrebbe motivo di orgoglio nel vedere come l’Unione europea celebrerà il centenario della sua nascita. Il grande evento si è tenuto il 6 marzo: “Celebration of 100 years since the birth of President Giulio Andreotti”, nella sede del Parlamento di Bruxelles. A fare gli onori di casa è stato il Partito Popolare Europeo, il gruppo a cui appartengono anche Forza Italia e Udc.

In quell’occasione, l’omertà sulle ombre politiche e giudiziarie di Andreotti, ormai accertate da sentenze definitive è stata d’obbligo…! Come quelle relative ai rapporti con la mafia, che hanno portato la Corte d’appello di Palermo ad assolvere il Divo per i fatti successivi al 1980, riconoscendolo però colpevole – seppur prescritto – del reato di associazione a delinquere per il periodo precedente, come poi ribadito in Cassazione.

Tutti argomenti per i quali Ignazio Corrao, eurodeputato 5 Stelle, si ribellò: “Un convegno su Andreotti significa beatificare la mafia, chiudere gli occhi su una delle pagine più buie del nostro Paese e per altro mai chiusa”.

Quella di Giulio Andreotti è stata, sì, una vita costellata di incarichi prestigiosi. Ma come ogni storia di vicende umane, il lato oscuro non è mancato. Al netto delle supposizioni, delle dietrologie, delle dicerie che tra corridoi e redazioni sono filtrate a volte incontrollate, il nome del Divo, oltre a una serie pressoché infinita di personalità spesso finite alla sbarra, è stato associato alla responsabilità certa di alcuni crimini nel corso della sua pluridecennale esperienza in politica.

Vediamo, dunque, i processi che hanno portato alla condanna, o quantomeno alla prescrizione, dell’imputato illustre Giulio Andreotti, assieme a qualche frequentazione poco nobile comprovata nelle ricostruzioni storiche e dibattimentali.

Innanzitutto, naturalmente, l’odissea giudiziaria del processo per mafia. Come noto, Andreotti evitò il carcere anche dopo la concessione dell’autorizzazione a procedere arrivata dal Senato nel 1993, grazie all’intercorrere della prescrizione, scattata il 21 dicembre 2002. La sentenza della Corte di Cassazione infatti venne pronunciata quasi due anni dopo il via all’estinzione del reato, il 15 ottobre 2004. L’impianto accusatorio, che vedeva Andreotti come referente delle cosche mafiose nelle istituzioni, venne confermato fino alla primavera del 1980, data entro la quale Andreotti sarebbe stato riconosciuto colpevole per associazione semplice, visto che l’aggravante mafiosa venne inclusa nel Codice penale soltanto a partire dal 1982. Nel 1985, però, stando alle ricostruzioni del sovrintendente capo Francesco Stramandino, già responsabile della sicurezza di Andreotti alla Farnesina, si sarebbe tenuto un incontro tra Andreotti e il capo mafioso Andrea Manciaracina (vicino a Totò Riina), circostanza confermata dall’imputato che, però, giustificò il faccia a faccia come un confronto sulla legislazione della pesca. Dunque, dopo un’assoluzione in primo grado e una sentenza in cui veniva riconosciuto all’imputato di aver commesso il reato di associazione per delinquere, a scombinare i piani dell’accusa intervenne la prescrizione. Nella sentenza, si parla di “un’autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell’imputato verso i mafiosi”. Sugli incontri provati anche a seguito del 1980 tra Andreotti e uomini affiliati a Cosa nostra, la Corte ravvisò la totale assenza di prove per poter ricostruire i contenuti dei dialoghi intercorsi.

Così, la sentenza definitiva conferma che “la Corte palermitana non si è limitata ad affermare la generica e astratta disponibilità di Andreotti nei confronti di Cosa Nostra e di alcuni dei suoi vertici, ma ne ha sottolineato i rapporti con i suoi referenti siciliani (del resto in armonia con quanto ritenuto dal Tribunale), individuati in Salvo Lima, nei cugini Salvo e, sia pure con maggiori limitazioni temporali, in Vito Ciancimino, per poi ritenere (in ciò distaccandosi dal primo giudice) l’imputato compartecipe dei rapporti da costoro sicuramente intrattenuti con Cosa Nostra, rapporti che, nel convincimento della Corte territoriale, sarebbero stati dall’imputato coltivati anche personalmente (con Badalamenti e, soprattutto, con Bontate) e che sarebbero stati per lui forieri di qualche vantaggio elettorale”. VAI AL TESTO COMPLETO DELLA SENTENZA

Piena di colpi di scena è invece stata la vicenda processuale sulla morte del giornalista Mino Pecorelli,ucciso a Roma nel 1979. Secondo le testimonianze del pentito Tommaso Buscetta, infatti, le inchieste di Pecorelli, direttore del giornale Osservatorio politico, avrebbero messo a serio rischio la carriera politica di Andreotti – forse per le informazioni che stava raccogliendo circa il memoriale in cui Aldo Moro aveva rilasciato le sue confessioni alle Brigate Rosse che lo avevano imprigionato – ragion per cui il suo omicidio “fu commissionato dai cugini Salvo per conto di Giulio Andreotti”. Fu questo il primo procedimento in ordine temporale in cui Andreotti si trovò coinvolto – quello per cui palazzo Madama concesse l’autorizzazione a procedere nel 1993. Sei anni più tardi, nel 1999, la sentenza di primo grado riconobbe Andreotti innocente ma le ricostruzioni dei pentiti “attendibili”. Quindi, nel 2002, l’Appello ribaltò l’esito del primo giudizio, condannando il politico 83enne a 24 anni di reclusione in qualità di mandante dell’assassinio. Infine, l’ultima parola venne pronunciata dalla Cassazione, che nel 2003 annullò senza rinvio la sentenza di Appello, rendendo così definitiva l’assoluzione di primo grado.

Da ultimo, Andreotti annovera, una sentenza di condanna, questa sì definitiva, emanata nel 2010, dove fu riconosciuto colpevole di diffamazione per aver “oltrepassato il limite della continenza e del diritto di critica”, nei confronti del giudice Mario Almerighi, in alcune interviste rilasciate nel 1999.

Tra le innumerevoli, e ben poco raccomandabili, conoscenze ascritte al curriculum dello stesso Andreotti, è confermata quella con Michele Sindona, iscritto alla loggia P2 e implicato in numerosi crimini, tra cui il delitto Ambrosoli, di cui è riconosciuto in qualità di mandante. A favore di Sindona, secondo le ricostruzioni, Andreotti si sarebbe speso in prima persona per evitare l’estradizione nel periodo in cui si trovava latitante a New York.

 

5 maggio 1936 – L’Italia conquista l’Etiopia. Ricordiamo un eroe di questa guerra fascista: Rodolfo Graziani soprannominato in tutto il mondo “Il macellaio d’Etiopia”… Ma che ci volete fare, ai fascisti di oggi bisognerebbe prenderli per i capelli e sbatterli con la testa sui libri di storia…!

 

Etiopia

 

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5 maggio 1936 – L’Italia conquista l’Etiopia. Ricordiamo un eroe di questa guerra fascista: Rodolfo Graziani soprannominato in tutto il mondo “Il macellaio d’Etiopia”… Ma che ci volete fare, ai fascisti di oggi bisognerebbe prenderli per i capelli e sbatterli con la testa sui libri di storia…!

Rodolfo Graziani, per i fascisti un eroe, per il resto del mondo “Il macellaio d’Etiopia”

La figura di Rodolfo Graziani (1882-1955) attraversa la prima metà del Novecento. Poiché di questo ampio lasso di tempo – che conta in sé l’assestamento dello Stato liberale prima, la sua crisi poi, l’affermazione del regime fascista, il suo consolidamento, l’apoteosi come il suo catastrofico declino, fino alla tragedia dei seicento giorni della Repubblica sociale italiana – ne fu un protagonista attivo. In mezzo si collocano due guerre mondiali, ossia un arco di eventi, di relazioni e di individui, tra il 1914 e il 1945, che definiscono quella che in una parte della storiografia è stato riqualificata come la «Seconda guerra dei trent’anni». Per intenderci, la prima, intercorsa tra il 1618 e il 1648, sconquassò l’Europa di quei tempi. Il violento conflitto si concluse con la pace di Vestfalia. Gli eventi bellici modificarono significativamente il precedente assetto politico delle potenze europee. Cose similari, evidentemente, posso allora essere dette riguardo all’arco di tempo in cui ebbe modo di operare Graziani. Il quale si conquistò il ruolo che poi avrebbe recitato nel fascismo, e per il fascismo, partendo dalla “gavetta”. A modo suo, espressione di quel fenomeno di mobilità sociale, ossia di promozione a ruoli di rilievo nella società, di cui il regime mussoliniano seppe farsi interprete a beneficio dei suoi sodali.

Figlio di un medico, originariamente orientato verso studi religiosi, poi interrotti, si rivolse quindi alla vita militare. Non ebbe la possibilità economica di frequentare quelle che erano le fucine dell’ufficialità, la scuola militare napoletana della Nunziatella e l’Accademia di Modena, dovendo invece svolgere il servizio di leva in un’unità di selezione e addestramento di futuri ufficiali in ruolo subalterno. In tale funzione, frequentò il corso allievi ufficiali di complemento al 94° reggimento di fanteria di Roma; il 4 aprile 1903 fu promosso caporale, il 4 luglio sergente, il 1° maggio 1904 sottotenente. Datano a quegli anni, le sue presunte simpatie socialiste, comunque ben presto accantonate. L’istituzione militare, in tutte le sue diramazioni, era peraltro pervasa non solo da un rigido spirito di corpo ma anche da idee conservatrici che, nella sostanza, stavano sempre più spostandosi verso la destra illiberale. Una decina d’anni prima dell’inizio della Grande guerra Graziani divenne ufficiale effettivo del Regio esercito. Già assegnato al 92° fanteria, di stanza a Viterbo, vinse poi il concorso per diventare ufficiale in servizio permanente effettivo e, per la sua alta statura, fu destinato al 1° reggimento granatieri di Roma. Nell’ottobre 1906 si trasferì a Parma per compiervi il corso superiore presso la Scuola di applicazione di fanteria.

Nel 1908, essendo destinato – per sua stessa sollecitazione, non sopportando la vita di caserma così come l’onerosità economica impostagli dalla residenza in Roma – alla missione militare in Eritrea, ebbe modo di imparare la lingua araba e poi quella tigrina. Anche per questa ragione iniziò a disegnarsi la fama di un esperto delle questioni africane, elemento che poi avrebbe contribuito alla sua futura carriera. La quale proseguì con la mancata partecipazione, essendosi nel mentre ammalato di malaria, alla guerra italo-turca del 1911-1912, il conflitto che avrebbe originato la moderna Libia. Un luogo – quest’ultimo – dove comunque fu stanziato per un primo tempo nel 1914. Ritornato in Italia, partecipò attivamente alla Prima guerra mondiale, che terminò con il grado di colonnello, un buon risultato per un ufficiale ancora giovane, che non proveniva dai ranghi dell’Accademia.

La Libia e l’impiccagione di Omar al-Muktar

In Libia ci tornò nel 1921 (rimanendoci poi per ben tredici anni), incaricato di domare la ribellione delle popolazioni locali, incalzate dalla Senussia, e di estendere il controllo italiano dalle zone litoranee a quelle interne della Cirenaica e della Tripolitania. In tali vesti servì i governi liberali di Bonomi e Facta e poi quello fascista di Mussolini. Grazie ai risultati ottenuti, basati sull’applicazione di una concezione – già sperimentata sui campi di battaglia della Grande guerra – di costante movimento alla quale destinava la truppa (con il supporto della cavalleria locale, composta da reparti indigeni), altrimenti adibita a meri competi di presidio, a 48 anni fu nominato vicegovernatore della Cirenaica. Anche in tali vesti, perfezionando le sue tecniche di direzione e comando delle «unità mobili» nelle quali aveva riorganizzato un considerevole numero di unità del Regio esercito, proseguì nella repressione delle sollevazioni anti-italiane. Così afferma Domenico Quirico: «Aveva intuito la strategia giusta per battere la guerriglia che ci aveva angosciato per vent’anni: mobilità, rapidità negli spostamenti, bisogna essere più veloce del nemico, non dargli tregua, arrivare sempre prima di lui. E gli ascari eritrei e libici, i meharisti e la cavalleria indigena servirono perfettamente allo scopo; integrati nelle “colonne mobili” diedero un apporto fondamentale alla repressione della rivolta libica, grazie alle autoblinde, ai camion, all’aviazione che consentivano di spingersi nel cuore dei santuari nemici dove fino ad allora l’asprezza del deserto aveva fermato perfino l’impeto degli àscari» (in Lo squadrone bianco, Milano, Mondadori, Le Scie, 2002, pp. 309-310).

Data a quegli anni il sodalizio competitivo, basato su una costante collaborazione, a tratti compiaciuta, altre volte sospettosa, con Pietro Badoglio, tra i molti generali italiani senz’altro il maggiore dei fiduciari della Corona. L’azione italiana di controllo del territorio e di distruzione delle “bande” di insorti autoctoni si basava anche sul trasferimento coatto di una parte della popolazione civile in campi di internamento, per tagliare completamente i rapporti tra il partigianato cirenaico e il suo milieu civile e sociale. Le drastiche misure intraprese, come l’impietosa deportazione di massa delle comunità del Gebel (tra il 1929 e il 1931), che comportò il trasferimento coatto e la detenzione amministrativa di circa centomila cirenaici in tredici campi situati nelle regioni arse e inospitali della Sirtica, ottennero l’effetto desiderato. Mentre la resistenza locale si affievoliva (fino alla cattura e all’impiccagione del suo leader, l’imam e «sceicco dei martiri» Omar al-Muktar, il 16 settembre 1931), la popolazione si ridusse considerevolmente, perdendo un terzo dei suoi componenti a causa, perlopiù, delle miserande condizioni in cui era stata obbligata. La stessa struttura civile, sociale ed economica autoctona, piegata agli interessi della colonia italiana, ne risultò completamente alterata. In quello stesso periodo Rodolfo Graziani fece erigere un reticolato di confine della lunghezza quasi di trecento chilometri per separare la Cirenaica dall’Egitto. Nel deserto libico, in quegli anni, il transito di armi, munizioni, viveri così come di rivoltosi era una cosa abituale. Mai l’Italia riuscì peraltro a garantirsi il totale controllo dei territori unificati sotto la sua presenza coloniale.

L’Abissinia, l’iprite e il fosgene

Nel 1934 Graziani lasciò la Libia per andare a comandare le operazioni militari contro l’Abissinia. A quel punto, la fama di comandante abile e tatticamente scaltro, capace di affrontare non solo una guerra “africana” ma anche e soprattutto mobile (di contro alla dottrina ancora prevalente tra il Regio esercito, che privilegiava la stanzialità o la mobilità rallentata), si era definitivamente consolidata. Così lo raffigura Angelo Del Boca, tra i massimi studioso del colonialismo italiano: «a ogni conquista si rinsaldava la fama del Graziani, astro nascente nel firmamento coloniale libico. Una fama che il fascismo, in cerca di consensi e di nuovi miti, aveva tutto l’interesse a consolidare, anche se le penne compiacenti che già paragonavano il Graziani a Publio Cornelio Scipione l’Africano avevano chiaramente oltrepassato la misura. Lo stesso Mussolini teneva d’occhio il giovane generale, nel quale individuava quelle qualità di fierezza e di audacia che egli attribuiva all’italiano nuovo, rigenerato dal fascismo […]. A meno di cinquant’anni era l’ufficiale più celebrato in Italia, godeva della protezione di De Bono, diventato nel frattempo ministro delle Colonie, ed era ora alle dirette dipendenze del maresciallo Badoglio, nuovo governatore della Libia» (così nell’Enciclopedia Treccani online, all’omonima voce).

L’azione di combattimento di Graziani (e del suo sodale, superiore e competitore Badoglio) iniziò quindi ad avvalersi del ricorso ai gas asfissianti. Il ricorso all’iprite, al fosgene e a sostanze altrimenti vietate dalla Convenzione di Ginevra del 1925, fu autorizzato dallo stesso Mussolini (che in pubblico, tuttavia, negò tale circostanza, benché la documentazione archivista comprovi insindacabilmente l’esatto opposto). La vicenda della gassazione all’aperto di combattenti e civili da parte delle regie forze armate costituisce un capitolo a sé di una guerra di conquista che sommava già tutti gli elementi dell’azione criminale: deportazione dei civili, violenze sistematiche contro gli inermi e gli indifesi, ricorso ad armi proibite, distruzione della cultura locale (etnocidio), negazione se non omissione dell’evidenza. A riscontro della cattiva coscienza italiana è sufficiente rimandare allo stesso Graziani quando, alcuni anni dopo, nella redazione di un suo memoriale in forma di libro intitolato «Fronte Sud», sostenne che il ricorso a misure e ad armi non convenzionali fosse motivato esclusivamente dalla necessità di dare seguito alle rappresaglie contro le atrocità attribuite agli avversari (tra di esse, la tortura dei prigionieri italiani e l’evirazione dei cadaveri).

Se nel 1932 era già stato promosso a generale di corpo d’armata e due anni dopo a generale d’armata (il grado più elevato nel Regio esercito), nel 1936, infine, fu nominato Maresciallo d’Italia (nonché marchese di Neghelli), carica condivisa con pochi altri esponenti dell’élite militare. Divenuto quindi vicerè d’Etiopia, in sostituzione di Badoglio, continuò ad adoperarsi nella durissima repressione della resistenza autoctona così come nell’edificazione (grazie anche all’abbondante disponibilità di manodopera locale e di materia prima a basso costo) di edifici pubblici e villaggi che avrebbero dovuto concorrere all’opera di definitiva colonizzazione del territorio dell’Africa orientale italiana. La resistenza autoctona, tuttavia, era ben lontana dall’essere domata. In questo quadro, per nulla idilliaco, si inserì quindi l’attentato, con il conseguente ferimento, che Graziani subì il 19 febbraio del 1937, durante una manifestazione pubblica ad Addis Abeba. La rappresaglia che ne derivò nei giorni successivi avrebbe portato ad una serie di eccidi, con la morte – mai definitivamente accertata nell’esatto numero – di migliaia di etiopi. Peraltro le violenze proseguirono nelle settimane e nei mesi successivi, con l’uccisione di una parte del clero copto, considerato ispiratore e corresponsabile del colpo di mano contro il vicerè. Solo la nomina del Duca d’Aosta, nel novembre del 1937, al posto di Graziani (già soprannominato «macellaio d’Etiopia»), nel mentre ristabilitosi dalla lunga degenza e dalla convalescenza, diminuì l’intensità (e la gratuità) delle violenze.

La sconfitta

Ritornato in Italia, ad Arcinazzo Romano, quando nel 1938 sottoscrisse il «manifesto della razza» contro gli ebrei, divenne quindi capo di stato maggiore dell’Esercito. In realtà, la carica – mal congegnata per un militare d’azione qual era – lo consegnava a dipendere da Badoglio e da Vittorio Emanuele III, nei confronti dell’operato dei quali nutriva crescenti perplessità che, verso il primo, si trasformavano ben presto in una malcelata avversione. Per Graziani, dopo l’intesa pressoché perfetta in Libia e quella maggiormente aggressiva in Etiopia, l’approssimarsi della guerra comportò infatti l’apertura di un sordo conflitto politico sempre più evidente con Badoglio, accusato di nascondere a Mussolini il vero grado di assoluta impreparazione del Regio esercito. Con l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale fu quindi inviato da Mussolini in Libia, in sostituzione di Italo Balbo, nel mentre ucciso dalla contraerea italiana sui cieli di Tobruk. Oltre a diventarne governatore avrebbe quindi dovuto invadere l’Egitto, scalzando i britannici. Benché il presidio italiano fosse numeroso di uomini e quindi di molto superiore a quello inglese, difettava tuttavia della mobilità e di una logistica in grado di tenere il passo negli spostamenti in aree perlopiù desertiche e ad ampia estensione. Gli avversari, inoltre, si rivelarono da subito abilissimi nel condurre una guerra di movimento, sfibrando sapientemente i reparti italiani.

Dopo la prima avanzata seguì quindi la controffensiva inglese che travolse le truppe italiane. Graziani, che dirigeva le operazioni da un posto di comando lontano più di cento chilometri dalla linea del fronte, si rivelò incapace di fare fronte alle truppe inglesi, comunque ben addestrate, rifornite, attrezzate e motivate. Nel febbraio del 1941 la Cirenaica risulta quindi totalmente perduta e con essa almeno centomila militari con i rispettivi equipaggiamenti pesanti. Dinanzi al rischio che anche la Tripolitania finisse in mani inglesi intervenne il corpo di spedizione tedesco, l’Afrika Korps, comandato dal generale Erwin Rommel. Da quel momento, gli italiani furono di fatto subordinati, tatticamente e strategicamente, alla volontà e ai calcoli di Berlino. Graziani, sull’orlo del tracollo emotivo, dopo una serie di patetici e retorici messaggi rivolti ad un Mussolini sempre più adirato, fu richiamato in Italia, venendo quindi sottoposto all’indagine di una commissione appositamente nominata per analizzare il succedersi degli eventi (ma in realtà incaricata di esautorarlo, essendo inviso oramai a diversi gerarchi fascisti, a partire da Roberto Farinacci). Il risultato, tuttavia, fu un nulla di fatto.

Il ministro delle Forze Armate della Rsi

Rodolfo Graziani sembrava comunque a quel punto avere terminato il suo impegno di comandante militare, vivendo perlopiù ad Anagni, nel frusinate, in una sorte di esilio in patria. Il suo ritorno sulla scena fu segnato dal tracollo militare dell’8 settembre 1943. Anche se in origine pare avesse manifestato qualche reticenza, all’atto di divenire ministro della Difesa nazionale (poi, dal gennaio del 1944, ministero delle Forze armate), già nel primo autunno di quell’anno, avviò la pratica di firmare ripetutamente bandi di arruolamento obbligatorio che prevedevano l’incorporazione delle leve giovanili comprese tra il 1920 e il 1926 (ed infine anche di quelle nate dal 1916) nei reparti della Repubblica sociale italiana, di fatto al servizio esclusivo del «camerata germanico». L’inadempienza dell’obbligo era sanzionata dalla fucilazione dei renitenti.

Nei fatti Graziani si impegnò per contrastare quelli che per lui erano i due maggiori pericoli ai quali erano sottoposte le milizie repubblichine: la dispersione in una serie di gruppi in competizione tra di loro (e completamente incapaci di contrastare militarmente gli avversari) e la loro politicizzazione attraverso l’azione del Partito fascista repubblicano. Il maresciallo d’Italia era consapevole della completa dipendenza dalla Germania, da tutti i punti di vista, ma cercava di sottrarre al segretario del partito Alessandro Pavolini la discrezionalità che quest’ultimo cercava invece di garantirsi. Solo con l’estate del 1944, quando fu sanzionata formalmente, con un decreto di Mussolini, la nascita di un unico esercito nazionale repubblicano, Graziani poté considerarsi soddisfatto. Anche se il “suo” esercito, a quel punto, era ridotto a ben poca cosa, senza nessuna reale capacità operativa. Da una parte i tedeschi non intendevano offrirgli alcuna autonomia, diffidando degli italiani in generale e dei fascisti in particolare. L’obiettivo strategico di Berlino era di tenere lontani dai confini del Reich (corrispondenti al Brennero), gli angloamerciani. Dall’altro, l’effetto dei bandi di arruolamento (in parte preventivato dallo stesso Graziani) era stato quello di incrementare la renitenza, le diserzioni tra gli stessi incorporati e, più in generale, la capacità offensiva del partigiano italiano.

Operativamente Graziani rivestì tra il 1944 e il 1945 il ruolo di comandante delle armate repubblicane (comprese prima nell’«Armata Liguria», e poi nel «Gruppo Armate» che operava sulla linea Gotica). La veste formale era quella di un capo militare, quella reale era di esecutore, molto ai margini, della volontà tedesca. Nella seconda metà di aprile del 1945, quando lo sfondamento della linea del Po da parte degli Alleati e l’azione partigiana nelle aree urbane decretarono il tracollo della pencolante Rsi, Graziani si assicurò di potersi consegnare agli americani attraverso la mediazione dei servizi segreti di Washington. Fu quindi considerato prigionieri di guerra, recluso a Roma, in Algeria e poi, infine, a Procida, quando venne consegnato alla giustizia italiana. Quella che gli americani offrirono all’oramai ex Maresciallo d’Italia fu non solo la protezione della vita da pressoché certe ritorsioni, essendo considerato diretto corresponsabile delle condotte della Rsi, ma anche dalle ripetute richieste di incriminazione come criminale di guerra, avanzate dalle autorità etiopiche.

La condanna senza pena e il Msi

Un robusto velo di calcolate tutele, giocate sul piano politico e diplomatico, impedì a Graziani di dovere rispondere delle sue responsabilità in Africa. Un processo si aprì, invece, nell’ottobre del 1948 dinanzi alla Corte d’assise straordinaria di Roma per ciò che concerneva il suo ruolo nei seicento giorni della Repubblica di Salò. Tra alterne vicende, come il trasferimento del procedimento ad un tribunale militare, Graziani fu condannato a diciannove anni per «collaborazionismo», vedendosene però condonati la maggior parte. Da ciò, la liberazione che seguì nei mesi successivi alla pronuncia stessa della sentenza. Nei fatti l’imputato fu generosamente giudicato come incapace di incidere per davvero sulle scelte politiche di fondo della Rsi. Nel 1952, infine, poco prima della sua morte avvenuta tre anni dopo, entrò nel Movimento sociale italiano di cui poi fu nominato presidente onorario.

Ciò che resta di Graziani, sul piano storico come soprattutto su quello storiografico, è la figura di un militare privo di effettiva autonomia, dotato di alcune competenza tattiche, senz’altro ispirato dalle moderne dottrine di combattimento ma incapace di elaborare una strategia di ampio respiro, cosa che invece fu interpretata, e con efficacia, da altri protagonisti della scena bellica, che fossero tedeschi o angloamericani. Irrisolto risultò poi il rapporto con Badoglio, al quale lo legava prima una reciprocità e poi un’insofferenza cortesemente ricambiategli. Quest’ultimo, tra i veri registi dell’Italia in guerra, artefice di primo piano di tutte le vicende più importanti del Paese, soprattutto dal 1943 al 1945, poté sempre e comunque contrapporre a Graziani il suo pedigree monarchico. Mentre Graziani, che non poteva vantare una diretta filazione fascista tale da contrastare la forza del primo, dopo esserne stato un fedele e zelante esecutore, si trovò a dovervi frizionare ripetutamente. Peraltro di Mussolini fu comunque un estimatore (dopo il 1940 non ricambiato), applicando tutte le dottrine di controllo del territorio che questi andava proponendo, soprattutto all’atto della costruzione dell’«impero». La sua attività ai tempi della Repubblica di Salò fu sospesa tra l’attivismo vuoto e irresponsabile di chi si trovava a recitare il ruolo di marionetta in mano ai tedeschi, e la funzione notarile di esecutore delle mortifere volontà dell’ultimo fascismo. Non pagò comunque, per l’una e l’altra cosa.

Claudio Vercelli, storico, Università cattolica del Sacro Cuore

tratto da: http://www.patriaindipendente.it/idee/editoriali/affile-e-il-macellaio-di-etiopia/

5 maggio 2013 – L’addio a Agnese Borsellino, la moglie di Paolo Borsellino che gridava “chi sa parli…” – Per ricordarla, la lettera con il suo “grazie” a Paolo…

 

Borsellino

 

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5 maggio 2013 – L’addio a Agnese Borsellino, la moglie di Paolo Borsellino che gridava “chi sa parli…” – Per ricordarla, la lettera con il suo “grazie” a Paolo…

 

5 maggio 2013

oggi è morta Agnese Borsellino..
Moglie di Paolo Borsellino..

poco tempo fa aveva detto.. “chi sa parli..”

questa è una sua lettera..
un suo “grazie” a Paolo..

“Caro Paolo, da venti lunghi anni hai lasciato questa terra per raggiungere il Regno dei cieli, un periodo in cui ho versato lacrime amare; mentre la bocca sorrideva, il cuore piangeva, senza capire, stupita, smarrita, cercando di sapere.
Mi conforta oggi possedere tre preziosi gioielli: Lucia, Manfredi, Fiammetta; simboli di saggezza, purezza, amore, posseggono quell’amore che tu hai saputo spargere attorno a te, caro Paolo, diventando immortale.

Hai lasciato una bella eredità, oggi raccolta dai ragazzi di tutta Italia; ho idelamente adottato tanti altri figli, uniti nel tuo ricordo dal nord al sud – non siamo soli. Desidero ricordare: sei stato un padre ed un marito meraviglioso, sei stato un fedele, sì un fedelissimo servitore dello Stato, un modello esemplare di cittadino italiano, resti per noi un grande uomo perché dinnanzi alla morte annunciata hai donato senza proteggerti ed essere protetto il bene più grande, “la vita”, sicuro di redimere con la tua morte chi aveva perduto la dignità di uomo e di scuotere le coscienze. Quanta gente ahi convertito!!! Non dimentico: hai chiesto la comunione presso il palazzo di giustizia la vigilia del viaggio verso l’eternità, viaggio intrapreso con celestiale serenità, portando con te gli occhi intrisi di limpidezza, uno sguardo col sorriso da fanciullo, che noi non dimenticheremo mai.
In questo ventesimo anniversario ti prego di proteggere ed aiutare tutti i giovani sui quali hai sempre riversato tutte le tue speranze e meritevoli di trovare una degna collocazione nel mondo del lavoro, dicevi: ‘Siete il nostro futuro, dovete utilizzare i talenti che possedete, non arrendetevi di fronte alle difficoltà’. Sento ancora la tua voce con queste espressioni che trasmettono coraggio, gioia di vivere, ottimismo. Hai posseduto la volontà di dare sempre il meglio di te stesso. Con questi ricordi tutti ti diciamo ‘grazie Paolo’.

queste altre sue parole.. “Io non perdo la speranza in una società più giusta e onesta. Sono, anzi, convinta che sarete capaci di rinnovare l’attuale classe dirigente e costruire una nuova Italia”

Ciao Agnese..
per non dimenticare..

 

fonte: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=538744852834290&set=a.120023534706426.7615.100000963407383&type=3&theater

La mamma di uno degli stupratori di Viterbo già due anni fa aveva lanciato l’allarme: “CasaPound ritrovo di falliti e violenti che si cibano di luoghi comuni e scemenze varie”

stupratori

 

 

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La mamma di uno degli stupratori di Viterbo già due anni fa aveva lanciato l’allarme: “CasaPound ritrovo di falliti e violenti che si cibano di luoghi comuni e scemenze varie”

La lettera della madre di uno degli stupratori di Viterbo: “Casapound un ritrovo di falliti, hanno rubato mio figlio”

La madre di Francesco Chiricozzi aveva scritto una lettera aperta contro Casapound due anni fa, quando il figlio era finito in carcere per aver picchiato un coetaneo.

Francesco Chiricozzi, consigliere comunale di Casapound da qualche giorno in carcere perché accusato di aver stuprato una 36enne, non è nuovo a grane con la giustizia: nel 2017, quando era ancora minorenne, Chiricozzi aveva picchiato un ragazzo perché su Facebook aveva pubblicato un meme contro Casapound. Ha ancora un processo in corso, presso il Tribunale dei Minori.
All’epoca, la madre di Chiricozzi fece una scleta molto coraggiosa, ossia quella di schierarsi contro il figlio e contro Casapound, pubblicando una lettera presso il quotidiano online Il Viterbese intitolata ‘La banalità del male’ e in cui affermava che Casapound è “un ritrovo di falliti e violenti, che mi hanno rubato mio figlio”.
Il fatto di avere un figlio sottrattomi in maniera subdola da quattro farneticanti di CasaPound, sia locale che provinciale, ritrovo di falliti e violenti che si cibano di luoghi comuni e scemenze varie, non esclude di farmi schierare dalla parte di Paolo (la vittima del pestaggio) e di sua madre che conosco personalmente e con cui mi scuso per ciò che ha dovuto subire” scriveva la signora.
“‘La banalità del male’ colpisce sempre e vedere come trasforma i propri figli, toglie il respiro. So per certo che questi quattro deficienti hanno bisogno di visibilità per esistere e per sentirsi appagati. Togliamogliela e isoliamoli il più possibile. Devono stare da soli e cibarsi le loro Acca Larentia, le ‘loro’ foibe, le spade di Thor, le loro cinghiamattanze, i loro falsi miti romani. Dico alle mamme di controllare i loro figli. So per certo che ci sono nuove prede attratte dal miele di questi quattro soggetti deliranti. Non li fate avvicinare a loro” continua la lettera.

Uno degli stupratore di CasaPound aveva mandato al padre il video della violenza per vantarsi… Avete capito bene, al padre! Un padre che invece di sfracellare di botte un figlio così, ne va fiero… Ma c’è poco da stupirsi, i fascisti sono così…!

 

CasaPound

 

 

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Uno degli stupratore di CasaPound aveva mandato al padre il video della violenza per vantarsi… Avete capito bene, al padre! Un padre che invece di sfracellare di botte un figlio così, ne va fiero… Ma c’è poco da stupirsi, i fascisti sono così…!

Da Globalist:

Uno stupratore di CasaPound aveva mandato al padre il video della violenza per vantarsi

Nella lista c’era anche il padre di Licci, che consiglia al figlio di gettare via il telefono: «Riccardo, butta il cellulare subito».

Si tratta di quattro video e quattro foto raccapriccianti. I fotogrammi della sopraffazione violenta e bestiale, l’audio con i flebili lamenti della vittima e le bestemmie degli stupratori che cercano la luce migliore per fare le riprese. «Cancellare obbligatoriamente. Reset del telefono» come si legge su IlMessaggero.it.
Il comando in chat è chiaro: quei video devono sparire. Così come i filmati della telecamera di sorveglianza esterna del pub Old Manners, il circolo culturale di CasaPound dove la notte tra l’11 e il 12 aprile Francesco Chiricozzi e Riccardo Licci, due giovani militanti di vent’anni, hanno trascinato una donna con la scusa di bere gratis per poi stuprarla.
I video, descritti con dettagli raccapriccianti nell’ordinanza che ha portato all’arresto dei due indagati, sono state recuperati dagli investigatori il giorno successivo alla violenza. Dal telefono di Chiricozzi erano già stati rimossi. Amici e parenti glielo consigliavano nella chat di Blocco studentesco, l’organizzazione neofascista dove le immagini erano state condivise e nella quale c’era anche il padre di Licci, che consiglia al figlio di gettare via il telefono: «Riccardo, butta il cellulare subito», scrive. Un altro suggerisce: «Fai l’hard reset del telefono».

fonte: https://www.globalist.it/news/2019/05/01/uno-stupratore-di-casapound-aveva-mandato-al-padre-il-video-della-violenza-per-vantarsi-2040818.html