5 maggio 1936 – L’Italia conquista l’Etiopia. Ricordiamo un eroe di questa guerra fascista: Rodolfo Graziani soprannominato in tutto il mondo “Il macellaio d’Etiopia”… Ma che ci volete fare, ai fascisti di oggi bisognerebbe prenderli per i capelli e sbatterli con la testa sui libri di storia…!

 

Etiopia

 

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5 maggio 1936 – L’Italia conquista l’Etiopia. Ricordiamo un eroe di questa guerra fascista: Rodolfo Graziani soprannominato in tutto il mondo “Il macellaio d’Etiopia”… Ma che ci volete fare, ai fascisti di oggi bisognerebbe prenderli per i capelli e sbatterli con la testa sui libri di storia…!

Rodolfo Graziani, per i fascisti un eroe, per il resto del mondo “Il macellaio d’Etiopia”

La figura di Rodolfo Graziani (1882-1955) attraversa la prima metà del Novecento. Poiché di questo ampio lasso di tempo – che conta in sé l’assestamento dello Stato liberale prima, la sua crisi poi, l’affermazione del regime fascista, il suo consolidamento, l’apoteosi come il suo catastrofico declino, fino alla tragedia dei seicento giorni della Repubblica sociale italiana – ne fu un protagonista attivo. In mezzo si collocano due guerre mondiali, ossia un arco di eventi, di relazioni e di individui, tra il 1914 e il 1945, che definiscono quella che in una parte della storiografia è stato riqualificata come la «Seconda guerra dei trent’anni». Per intenderci, la prima, intercorsa tra il 1618 e il 1648, sconquassò l’Europa di quei tempi. Il violento conflitto si concluse con la pace di Vestfalia. Gli eventi bellici modificarono significativamente il precedente assetto politico delle potenze europee. Cose similari, evidentemente, posso allora essere dette riguardo all’arco di tempo in cui ebbe modo di operare Graziani. Il quale si conquistò il ruolo che poi avrebbe recitato nel fascismo, e per il fascismo, partendo dalla “gavetta”. A modo suo, espressione di quel fenomeno di mobilità sociale, ossia di promozione a ruoli di rilievo nella società, di cui il regime mussoliniano seppe farsi interprete a beneficio dei suoi sodali.

Figlio di un medico, originariamente orientato verso studi religiosi, poi interrotti, si rivolse quindi alla vita militare. Non ebbe la possibilità economica di frequentare quelle che erano le fucine dell’ufficialità, la scuola militare napoletana della Nunziatella e l’Accademia di Modena, dovendo invece svolgere il servizio di leva in un’unità di selezione e addestramento di futuri ufficiali in ruolo subalterno. In tale funzione, frequentò il corso allievi ufficiali di complemento al 94° reggimento di fanteria di Roma; il 4 aprile 1903 fu promosso caporale, il 4 luglio sergente, il 1° maggio 1904 sottotenente. Datano a quegli anni, le sue presunte simpatie socialiste, comunque ben presto accantonate. L’istituzione militare, in tutte le sue diramazioni, era peraltro pervasa non solo da un rigido spirito di corpo ma anche da idee conservatrici che, nella sostanza, stavano sempre più spostandosi verso la destra illiberale. Una decina d’anni prima dell’inizio della Grande guerra Graziani divenne ufficiale effettivo del Regio esercito. Già assegnato al 92° fanteria, di stanza a Viterbo, vinse poi il concorso per diventare ufficiale in servizio permanente effettivo e, per la sua alta statura, fu destinato al 1° reggimento granatieri di Roma. Nell’ottobre 1906 si trasferì a Parma per compiervi il corso superiore presso la Scuola di applicazione di fanteria.

Nel 1908, essendo destinato – per sua stessa sollecitazione, non sopportando la vita di caserma così come l’onerosità economica impostagli dalla residenza in Roma – alla missione militare in Eritrea, ebbe modo di imparare la lingua araba e poi quella tigrina. Anche per questa ragione iniziò a disegnarsi la fama di un esperto delle questioni africane, elemento che poi avrebbe contribuito alla sua futura carriera. La quale proseguì con la mancata partecipazione, essendosi nel mentre ammalato di malaria, alla guerra italo-turca del 1911-1912, il conflitto che avrebbe originato la moderna Libia. Un luogo – quest’ultimo – dove comunque fu stanziato per un primo tempo nel 1914. Ritornato in Italia, partecipò attivamente alla Prima guerra mondiale, che terminò con il grado di colonnello, un buon risultato per un ufficiale ancora giovane, che non proveniva dai ranghi dell’Accademia.

La Libia e l’impiccagione di Omar al-Muktar

In Libia ci tornò nel 1921 (rimanendoci poi per ben tredici anni), incaricato di domare la ribellione delle popolazioni locali, incalzate dalla Senussia, e di estendere il controllo italiano dalle zone litoranee a quelle interne della Cirenaica e della Tripolitania. In tali vesti servì i governi liberali di Bonomi e Facta e poi quello fascista di Mussolini. Grazie ai risultati ottenuti, basati sull’applicazione di una concezione – già sperimentata sui campi di battaglia della Grande guerra – di costante movimento alla quale destinava la truppa (con il supporto della cavalleria locale, composta da reparti indigeni), altrimenti adibita a meri competi di presidio, a 48 anni fu nominato vicegovernatore della Cirenaica. Anche in tali vesti, perfezionando le sue tecniche di direzione e comando delle «unità mobili» nelle quali aveva riorganizzato un considerevole numero di unità del Regio esercito, proseguì nella repressione delle sollevazioni anti-italiane. Così afferma Domenico Quirico: «Aveva intuito la strategia giusta per battere la guerriglia che ci aveva angosciato per vent’anni: mobilità, rapidità negli spostamenti, bisogna essere più veloce del nemico, non dargli tregua, arrivare sempre prima di lui. E gli ascari eritrei e libici, i meharisti e la cavalleria indigena servirono perfettamente allo scopo; integrati nelle “colonne mobili” diedero un apporto fondamentale alla repressione della rivolta libica, grazie alle autoblinde, ai camion, all’aviazione che consentivano di spingersi nel cuore dei santuari nemici dove fino ad allora l’asprezza del deserto aveva fermato perfino l’impeto degli àscari» (in Lo squadrone bianco, Milano, Mondadori, Le Scie, 2002, pp. 309-310).

Data a quegli anni il sodalizio competitivo, basato su una costante collaborazione, a tratti compiaciuta, altre volte sospettosa, con Pietro Badoglio, tra i molti generali italiani senz’altro il maggiore dei fiduciari della Corona. L’azione italiana di controllo del territorio e di distruzione delle “bande” di insorti autoctoni si basava anche sul trasferimento coatto di una parte della popolazione civile in campi di internamento, per tagliare completamente i rapporti tra il partigianato cirenaico e il suo milieu civile e sociale. Le drastiche misure intraprese, come l’impietosa deportazione di massa delle comunità del Gebel (tra il 1929 e il 1931), che comportò il trasferimento coatto e la detenzione amministrativa di circa centomila cirenaici in tredici campi situati nelle regioni arse e inospitali della Sirtica, ottennero l’effetto desiderato. Mentre la resistenza locale si affievoliva (fino alla cattura e all’impiccagione del suo leader, l’imam e «sceicco dei martiri» Omar al-Muktar, il 16 settembre 1931), la popolazione si ridusse considerevolmente, perdendo un terzo dei suoi componenti a causa, perlopiù, delle miserande condizioni in cui era stata obbligata. La stessa struttura civile, sociale ed economica autoctona, piegata agli interessi della colonia italiana, ne risultò completamente alterata. In quello stesso periodo Rodolfo Graziani fece erigere un reticolato di confine della lunghezza quasi di trecento chilometri per separare la Cirenaica dall’Egitto. Nel deserto libico, in quegli anni, il transito di armi, munizioni, viveri così come di rivoltosi era una cosa abituale. Mai l’Italia riuscì peraltro a garantirsi il totale controllo dei territori unificati sotto la sua presenza coloniale.

L’Abissinia, l’iprite e il fosgene

Nel 1934 Graziani lasciò la Libia per andare a comandare le operazioni militari contro l’Abissinia. A quel punto, la fama di comandante abile e tatticamente scaltro, capace di affrontare non solo una guerra “africana” ma anche e soprattutto mobile (di contro alla dottrina ancora prevalente tra il Regio esercito, che privilegiava la stanzialità o la mobilità rallentata), si era definitivamente consolidata. Così lo raffigura Angelo Del Boca, tra i massimi studioso del colonialismo italiano: «a ogni conquista si rinsaldava la fama del Graziani, astro nascente nel firmamento coloniale libico. Una fama che il fascismo, in cerca di consensi e di nuovi miti, aveva tutto l’interesse a consolidare, anche se le penne compiacenti che già paragonavano il Graziani a Publio Cornelio Scipione l’Africano avevano chiaramente oltrepassato la misura. Lo stesso Mussolini teneva d’occhio il giovane generale, nel quale individuava quelle qualità di fierezza e di audacia che egli attribuiva all’italiano nuovo, rigenerato dal fascismo […]. A meno di cinquant’anni era l’ufficiale più celebrato in Italia, godeva della protezione di De Bono, diventato nel frattempo ministro delle Colonie, ed era ora alle dirette dipendenze del maresciallo Badoglio, nuovo governatore della Libia» (così nell’Enciclopedia Treccani online, all’omonima voce).

L’azione di combattimento di Graziani (e del suo sodale, superiore e competitore Badoglio) iniziò quindi ad avvalersi del ricorso ai gas asfissianti. Il ricorso all’iprite, al fosgene e a sostanze altrimenti vietate dalla Convenzione di Ginevra del 1925, fu autorizzato dallo stesso Mussolini (che in pubblico, tuttavia, negò tale circostanza, benché la documentazione archivista comprovi insindacabilmente l’esatto opposto). La vicenda della gassazione all’aperto di combattenti e civili da parte delle regie forze armate costituisce un capitolo a sé di una guerra di conquista che sommava già tutti gli elementi dell’azione criminale: deportazione dei civili, violenze sistematiche contro gli inermi e gli indifesi, ricorso ad armi proibite, distruzione della cultura locale (etnocidio), negazione se non omissione dell’evidenza. A riscontro della cattiva coscienza italiana è sufficiente rimandare allo stesso Graziani quando, alcuni anni dopo, nella redazione di un suo memoriale in forma di libro intitolato «Fronte Sud», sostenne che il ricorso a misure e ad armi non convenzionali fosse motivato esclusivamente dalla necessità di dare seguito alle rappresaglie contro le atrocità attribuite agli avversari (tra di esse, la tortura dei prigionieri italiani e l’evirazione dei cadaveri).

Se nel 1932 era già stato promosso a generale di corpo d’armata e due anni dopo a generale d’armata (il grado più elevato nel Regio esercito), nel 1936, infine, fu nominato Maresciallo d’Italia (nonché marchese di Neghelli), carica condivisa con pochi altri esponenti dell’élite militare. Divenuto quindi vicerè d’Etiopia, in sostituzione di Badoglio, continuò ad adoperarsi nella durissima repressione della resistenza autoctona così come nell’edificazione (grazie anche all’abbondante disponibilità di manodopera locale e di materia prima a basso costo) di edifici pubblici e villaggi che avrebbero dovuto concorrere all’opera di definitiva colonizzazione del territorio dell’Africa orientale italiana. La resistenza autoctona, tuttavia, era ben lontana dall’essere domata. In questo quadro, per nulla idilliaco, si inserì quindi l’attentato, con il conseguente ferimento, che Graziani subì il 19 febbraio del 1937, durante una manifestazione pubblica ad Addis Abeba. La rappresaglia che ne derivò nei giorni successivi avrebbe portato ad una serie di eccidi, con la morte – mai definitivamente accertata nell’esatto numero – di migliaia di etiopi. Peraltro le violenze proseguirono nelle settimane e nei mesi successivi, con l’uccisione di una parte del clero copto, considerato ispiratore e corresponsabile del colpo di mano contro il vicerè. Solo la nomina del Duca d’Aosta, nel novembre del 1937, al posto di Graziani (già soprannominato «macellaio d’Etiopia»), nel mentre ristabilitosi dalla lunga degenza e dalla convalescenza, diminuì l’intensità (e la gratuità) delle violenze.

La sconfitta

Ritornato in Italia, ad Arcinazzo Romano, quando nel 1938 sottoscrisse il «manifesto della razza» contro gli ebrei, divenne quindi capo di stato maggiore dell’Esercito. In realtà, la carica – mal congegnata per un militare d’azione qual era – lo consegnava a dipendere da Badoglio e da Vittorio Emanuele III, nei confronti dell’operato dei quali nutriva crescenti perplessità che, verso il primo, si trasformavano ben presto in una malcelata avversione. Per Graziani, dopo l’intesa pressoché perfetta in Libia e quella maggiormente aggressiva in Etiopia, l’approssimarsi della guerra comportò infatti l’apertura di un sordo conflitto politico sempre più evidente con Badoglio, accusato di nascondere a Mussolini il vero grado di assoluta impreparazione del Regio esercito. Con l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale fu quindi inviato da Mussolini in Libia, in sostituzione di Italo Balbo, nel mentre ucciso dalla contraerea italiana sui cieli di Tobruk. Oltre a diventarne governatore avrebbe quindi dovuto invadere l’Egitto, scalzando i britannici. Benché il presidio italiano fosse numeroso di uomini e quindi di molto superiore a quello inglese, difettava tuttavia della mobilità e di una logistica in grado di tenere il passo negli spostamenti in aree perlopiù desertiche e ad ampia estensione. Gli avversari, inoltre, si rivelarono da subito abilissimi nel condurre una guerra di movimento, sfibrando sapientemente i reparti italiani.

Dopo la prima avanzata seguì quindi la controffensiva inglese che travolse le truppe italiane. Graziani, che dirigeva le operazioni da un posto di comando lontano più di cento chilometri dalla linea del fronte, si rivelò incapace di fare fronte alle truppe inglesi, comunque ben addestrate, rifornite, attrezzate e motivate. Nel febbraio del 1941 la Cirenaica risulta quindi totalmente perduta e con essa almeno centomila militari con i rispettivi equipaggiamenti pesanti. Dinanzi al rischio che anche la Tripolitania finisse in mani inglesi intervenne il corpo di spedizione tedesco, l’Afrika Korps, comandato dal generale Erwin Rommel. Da quel momento, gli italiani furono di fatto subordinati, tatticamente e strategicamente, alla volontà e ai calcoli di Berlino. Graziani, sull’orlo del tracollo emotivo, dopo una serie di patetici e retorici messaggi rivolti ad un Mussolini sempre più adirato, fu richiamato in Italia, venendo quindi sottoposto all’indagine di una commissione appositamente nominata per analizzare il succedersi degli eventi (ma in realtà incaricata di esautorarlo, essendo inviso oramai a diversi gerarchi fascisti, a partire da Roberto Farinacci). Il risultato, tuttavia, fu un nulla di fatto.

Il ministro delle Forze Armate della Rsi

Rodolfo Graziani sembrava comunque a quel punto avere terminato il suo impegno di comandante militare, vivendo perlopiù ad Anagni, nel frusinate, in una sorte di esilio in patria. Il suo ritorno sulla scena fu segnato dal tracollo militare dell’8 settembre 1943. Anche se in origine pare avesse manifestato qualche reticenza, all’atto di divenire ministro della Difesa nazionale (poi, dal gennaio del 1944, ministero delle Forze armate), già nel primo autunno di quell’anno, avviò la pratica di firmare ripetutamente bandi di arruolamento obbligatorio che prevedevano l’incorporazione delle leve giovanili comprese tra il 1920 e il 1926 (ed infine anche di quelle nate dal 1916) nei reparti della Repubblica sociale italiana, di fatto al servizio esclusivo del «camerata germanico». L’inadempienza dell’obbligo era sanzionata dalla fucilazione dei renitenti.

Nei fatti Graziani si impegnò per contrastare quelli che per lui erano i due maggiori pericoli ai quali erano sottoposte le milizie repubblichine: la dispersione in una serie di gruppi in competizione tra di loro (e completamente incapaci di contrastare militarmente gli avversari) e la loro politicizzazione attraverso l’azione del Partito fascista repubblicano. Il maresciallo d’Italia era consapevole della completa dipendenza dalla Germania, da tutti i punti di vista, ma cercava di sottrarre al segretario del partito Alessandro Pavolini la discrezionalità che quest’ultimo cercava invece di garantirsi. Solo con l’estate del 1944, quando fu sanzionata formalmente, con un decreto di Mussolini, la nascita di un unico esercito nazionale repubblicano, Graziani poté considerarsi soddisfatto. Anche se il “suo” esercito, a quel punto, era ridotto a ben poca cosa, senza nessuna reale capacità operativa. Da una parte i tedeschi non intendevano offrirgli alcuna autonomia, diffidando degli italiani in generale e dei fascisti in particolare. L’obiettivo strategico di Berlino era di tenere lontani dai confini del Reich (corrispondenti al Brennero), gli angloamerciani. Dall’altro, l’effetto dei bandi di arruolamento (in parte preventivato dallo stesso Graziani) era stato quello di incrementare la renitenza, le diserzioni tra gli stessi incorporati e, più in generale, la capacità offensiva del partigiano italiano.

Operativamente Graziani rivestì tra il 1944 e il 1945 il ruolo di comandante delle armate repubblicane (comprese prima nell’«Armata Liguria», e poi nel «Gruppo Armate» che operava sulla linea Gotica). La veste formale era quella di un capo militare, quella reale era di esecutore, molto ai margini, della volontà tedesca. Nella seconda metà di aprile del 1945, quando lo sfondamento della linea del Po da parte degli Alleati e l’azione partigiana nelle aree urbane decretarono il tracollo della pencolante Rsi, Graziani si assicurò di potersi consegnare agli americani attraverso la mediazione dei servizi segreti di Washington. Fu quindi considerato prigionieri di guerra, recluso a Roma, in Algeria e poi, infine, a Procida, quando venne consegnato alla giustizia italiana. Quella che gli americani offrirono all’oramai ex Maresciallo d’Italia fu non solo la protezione della vita da pressoché certe ritorsioni, essendo considerato diretto corresponsabile delle condotte della Rsi, ma anche dalle ripetute richieste di incriminazione come criminale di guerra, avanzate dalle autorità etiopiche.

La condanna senza pena e il Msi

Un robusto velo di calcolate tutele, giocate sul piano politico e diplomatico, impedì a Graziani di dovere rispondere delle sue responsabilità in Africa. Un processo si aprì, invece, nell’ottobre del 1948 dinanzi alla Corte d’assise straordinaria di Roma per ciò che concerneva il suo ruolo nei seicento giorni della Repubblica di Salò. Tra alterne vicende, come il trasferimento del procedimento ad un tribunale militare, Graziani fu condannato a diciannove anni per «collaborazionismo», vedendosene però condonati la maggior parte. Da ciò, la liberazione che seguì nei mesi successivi alla pronuncia stessa della sentenza. Nei fatti l’imputato fu generosamente giudicato come incapace di incidere per davvero sulle scelte politiche di fondo della Rsi. Nel 1952, infine, poco prima della sua morte avvenuta tre anni dopo, entrò nel Movimento sociale italiano di cui poi fu nominato presidente onorario.

Ciò che resta di Graziani, sul piano storico come soprattutto su quello storiografico, è la figura di un militare privo di effettiva autonomia, dotato di alcune competenza tattiche, senz’altro ispirato dalle moderne dottrine di combattimento ma incapace di elaborare una strategia di ampio respiro, cosa che invece fu interpretata, e con efficacia, da altri protagonisti della scena bellica, che fossero tedeschi o angloamericani. Irrisolto risultò poi il rapporto con Badoglio, al quale lo legava prima una reciprocità e poi un’insofferenza cortesemente ricambiategli. Quest’ultimo, tra i veri registi dell’Italia in guerra, artefice di primo piano di tutte le vicende più importanti del Paese, soprattutto dal 1943 al 1945, poté sempre e comunque contrapporre a Graziani il suo pedigree monarchico. Mentre Graziani, che non poteva vantare una diretta filazione fascista tale da contrastare la forza del primo, dopo esserne stato un fedele e zelante esecutore, si trovò a dovervi frizionare ripetutamente. Peraltro di Mussolini fu comunque un estimatore (dopo il 1940 non ricambiato), applicando tutte le dottrine di controllo del territorio che questi andava proponendo, soprattutto all’atto della costruzione dell’«impero». La sua attività ai tempi della Repubblica di Salò fu sospesa tra l’attivismo vuoto e irresponsabile di chi si trovava a recitare il ruolo di marionetta in mano ai tedeschi, e la funzione notarile di esecutore delle mortifere volontà dell’ultimo fascismo. Non pagò comunque, per l’una e l’altra cosa.

Claudio Vercelli, storico, Università cattolica del Sacro Cuore

tratto da: http://www.patriaindipendente.it/idee/editoriali/affile-e-il-macellaio-di-etiopia/

15 febbraio del 1936 – La battaglia di Amba Aradam in Etiopia… per noi solo un intercalare, un modo di dire. Per la storia un genocidio, uno dei peggiori crimini di guerra dell’Italia fascista.

 

Amba Aradam

 

 

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15 febbraio del 1936 – La battaglia di Amba Aradam in Etiopia… per noi solo un intercalare, un modo di dire. Per la storia un genocidio, uno dei peggiori crimini di guerra dell’Italia fascista.

“Ambaradan”, quando una parola nasce da un genocidio
Lo hanno coniato i reduci dalla campagna in Etiopia, una guerra che ha violato la Convenzione di Ginevra ed è stata portata avanti anche grazie a tribù mercenarie

 

«Tutto l’ambaradan». Probabilmente vi sarà capitato di sentire questa parola, o magari di pronunciarla, almeno una volta. Nel corso degli anni sono nate anche pizzerie, case editrici, negozi di articoli da regalo o di antiquariato con questo nome. Ma che cos’è l’ambaradan?

Deriva da un massacro compiuto nel ’36 dall’eserciro Italo-fascista in Etriopia. febbraio del 1936 l’esercito italiano, in piena fase di espansionismo coloniale, è in guerra contro quello d’Etiopia. Il territorio è ricco di risorse e Mussolini pensa che l’Italia possa far valere la sua presunta superiorità, culturale ma soprattutto tecnologica, in poco tempo. La realtà è un’altra. Quello etiope è un impero millenario, ricco di storia, e il suo esercito riesce a dar filo da torcere agli invasori. Così, le truppe di Badoglio fanno ricorso alle armi chimiche.

È il 15 febbraio del 1936 quando l’esercito italiano, nei pressi del massiccio montuoso dell’Amba Aradam, prova a piegare la resistenza locale una volta per tutte. Si rivolge anche a delle tribù mercenarie, che però passano da una fazione all’altra a seconda della cifra offerta. Nei fatti, non si riesce a capire contro chi si stia combattendo. Insomma, «è tutto un ambaradan».

L’espressione nasce alla fine della guerra, quando i reduci la usano per descrivere situazioni di confusione durante una battaglia. «Proprio come ad Amba Radam». Da lì, per crasi, è diventata una parola unica. E per dei difetti di pronuncia, protrattisi negli anni, la “m” finale si è trasformata in “n”.

CRONACA DI UN GENOCIDIO: L’USO DELL’IPRITE

La battaglia dell’Amba Radam si risolve grazie al gas iprite rilasciato a bassa quota dall’aviazione. Anche sui civili. A terra, i soldati sparano proiettili all’arsina e al fosgene, fortemente tossici. Di fatto, si tratta di una evidente, ma rinnegata per decenni, violazione della Convenzione di Ginevra del 1928. L’iprite attacca le cellule con cui entra in contatto, distruggendole completamente. Causa infiammazioni, vesciche e piaghe, agisce anche sulle mucose oculari e sulle vie polmonari. La sofferenza è disumana. Nel luglio del 1936 l’imperatore deposto, Hailé Selassié, denuncia tutto all’assemblea della Società delle Nazioni, la mamma dell’Onu. L’Italia riconoscerà le sue colpe solo nel 1996, ammettendo l’utilizzo di armi chimiche in Etiopia, grazie alla desecretazione degli archivi voluta dal ministro della Difesa, il torinese Domenico Corcione.

Prove di genocidio anche nell’aprile del 1939, quando vengono chiuse le vie d’uscite delle grotte dell’Amba Aradam. All’interno vengono localizzati alcuni partigiani etiopi. La loro resistenza si sgretola sotto le bombe al veleno. Muoiono soldati e civili, donne e bambini. Chi sopravvive all’iprite è arso vivo con i lanciafiamme. Le sofferenze continuano fino al 1941, quando gli inglesi prendono il controllo della colonia italiana. Sono cinque anni di violenza indiscriminata, nascosta dal fumo dei gas: esecuzioni, stupri, campi di concentramento, torture. Nessuno ha pagato per aver violato i diritti umani. Uno dei responsabili, il governatore fascista dell’Etiopia Rodolfo Graziani, è stato inserito nella lista dei criminali di guerra senza venire mai processato.

«ITALIANI, BRAVA GENTE»

Sulle violenze in Etiopia sono stati scritti tantissimi saggi, firmati da fior di antropologi. Documenti che hanno sconfessato il mito degli «Italiani brava gente», nato già all’epoca delle prime guerre coloniali (1885). Un falso storico. Sì, in Etiopia si sono costruite strade e scuole: le prime necessarie per i trasporti e gli autocarri, le seconde riservate inizialmente solo ai bianchi.

Un colonialismo breve, estremamente violento, conclusosi con un nulla di fatto. Oggi pesa nel conto delle accise sulla benzine, destinate a ripagare quella spedizione. L’Etiopia non ha mai capito il perché di quella guerra. Non è stata una colonizzazione, bensì un’invasione crudele, sprezzante di tutti i trattati internazionali. A distanza di oltre 80 anni è ancora inspiegabilmente ricordata dalla toponomastica di alcune città italiane. Da Roma a Genova, c’è “via dell’Amba Aradam”. Una testimonianza stradale di un revisionismo persistente. Per capire il paradosso, cosa pensereste se vi ritrovaste a percorrere un’ipotetica “via Auschwitz” nel cuore di Berlino?

tratto da: https://www.lastampa.it/2017/02/15/cultura/ambaradan-quando-una-parola-nasce-da-un-genocidio-VJH151SisQGoBRJpqPGqXK/pagina.html

La Giornata della Memoria è andata. Abbiamo riflettuto sui crimini dei nazisti? Ora vogliamo pensare ai nostri? Quelli commessi negli oltre 150 lager in Libia, Eritrea ed Etiopia? Come, non ne sapete niente…?

 

lager

 

 

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La Giornata della Memoria è andata. Abbiamo riflettuto sui crimini dei nazisti? Ora vogliamo pensare ai nostri? Quelli commessi negli oltre 150 lager in Libia, Eritrea ed Etiopia? Come, non ne sapete niente…?
La Giornata della Memoria selettiva: ricordiamo i lager tedeschi ma non quelli italiani

La Giornata della Memoria selettiva: ricordiamo Auschwitz, la Shoah e i lager tedeschi ma non conosciamo la storia dei nostri campi di concentramento italiani in Libia, Eritrea ed Etiopia. Una giornata della Vergogna per i crimini coloniali fascisti sarebbe doverosa nell’epoca di “Prima gli Italiani”

La Senatrice a vita Liliana Segre ha ancora una cicatrice sotto l’ascella. È il ricordo lasciatole da un’infermiera ad Auschwitz. Con delle grosse forbici le tagliò un enorme ascesso purulento senza anestesia né medicazioni. L’unica raccomandazione fu quella di non svenire lì “altrimenti non so che fine fai.” Liliana, nonostante fosse una bambina, non svenne. Tornò alla sua baracca così mal ridotta, che una prigioniera di cui non seppe mai neppure la nazionalità, tirò fuori da una tasca di tela lurida una fettina di carota cruda e gliela donò.
Conobbe episodi peggiori, ma quel gesto di umanità fu così grande da non poter essere dimenticato. Dei 776 bambini italiani ad Auschwitz ne sopravvissero solo 25. Tra cui lei.

Il suo racconto è prezioso perché si può ancora sentire dalla viva voce di una diretta protagonista.
La memoria sopravvive finché se ne portano addosso le cicatrici.
Ma se quelle cicatrici invece si nascondessero, cosa accadrebbe domani?

“Da domani sarà triste, da domani.
Ma oggi sarò contento,
a che serve essere tristi, a che serve.
Perché soffia un vento cattivo.
Perché dovrei dolermi, oggi, del domani.
Forse il domani è buono, forse il domani è chiaro.
Forse domani splenderà ancora il sole.
E non vi sarà ragione di tristezza.
Da domani sarà triste, da domani.
Ma oggi, oggi sarò contento,
e ad ogni amaro giorno dirò,
da domani, sarà triste,
Oggi no.”

Questa è una meravigliosa poesia anonima trovata su un muro del Ghetto di Varsavia nel 1941. Chissà che fine ha fatto il suo autore.
In fondo ci illudiamo di sapere tutto di quelle cataste di occhiali, dei corpi ammucchiati come legna secca, dei capelli usati per farne tessuti.

Ma dei nostri campi di concentramento italiani in Libia, cosa sappiamo?
A scuola e in tv non se ne parla.
I film vengono censurati, i documenti messi in discussione. E così ancora oggi gli italiani dubitano che in Libia possano esistere lager, ignorando che quella cultura l’abbiamo esportata noi ormai cento anni fa.
I fascisti ne costruirono sedici in Libia, e altre decine – tra campi di concentramento, di prigionia e di “punizione” – in Eritrea ed Etiopia
I più grandi a Soluch (a sud di Bengasi), a Sidi el Magrum (a ovest di Bengasi), ad Agedabia, a Marsa el Brega, ad El Abiar, ad El Agheila.
Nomi dimenticati, che non ci dicono nulla.
Ospitavano oltre centocinquanta mila internati, comprese molte migliaia di donne e di bambini.

“Dovevamo sopravvivere con un pugno di riso o di farina e spesso si era troppo stanchi per lavorare. Ricordo la miseria e le botte, le esecuzioni avvenivano al centro del campo e gli italiani portavano tutta la gente a guardare. Ci costringevano a guardare mentre morivano i nostri fratelli. Ogni giorno uscivano 50 cadaveri.”
Questa e altre testimonianze sono contenute nel libro di Gustavo Ottolenghi, “Gli Italiani e il colonialismo” ma esistono migliaia di documenti nella storiografia mondiale.

Se cercate “Libia” nel sito dell’Istituto Luce troverete 68 pagine di filmati di invasione e colonizzazione.
Oppure guardate il film “Il leone nel deserto”, girato a Hollywood nel 1981 e censurato per oltre trent’anni, che racconta la storia dei crimini di guerra italiani e la resistenza del patriota libico Omar al-Mukhtar.
Magari ricorderete l’enorme foto sulla divisa con cui si presentò all’aeroporto di Ciampino nel 2009 il leader libico Gheddafi, accolto da Berlusconi. Molti pensarono a una pagliacciata. Invece è la stessa fotografia di questo articolo, che ritrae l’arresto di Omar al-Mukhtar. Da quel viaggio in Italia Gheddafi tornò con 5 miliardi di euro di risarcimenti per i nostri misfatti coloniali. Soldi che ancora dobbiamo dare.

Oggi, dunque non siate tristi, ma adesso sapete cosa fare da domani: andate con coraggio in cerca della verità. Una giornata della Vergogna per i crimini coloniali fascisti sarebbe doverosa nell’epoca di “Prima gli Italiani”.
Solo tenendo vivo il ricordo delle nostre atrocità saranno irripetibili.
Andateci con in tasca una poesia piccola come una fettina di carota:

“Sappiamo tutto dei peccati altrui
e nulla dei nostri:
dai buchi della memoria
riemergeranno i mostri”

Fonte: https://www.fanpage.it/la-giornata-della-memoria-selettiva-ricordiamo-i-lager-tedeschi-ma-non-quelli-italiani/