Pensateci, idioti: uno Stato che concede ai cittadini di difendersi da soli è uno Stato che non è capace di difendervi!

 

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Pensateci, idioti: uno Stato che concede ai cittadini di difendersi da soli è uno Stato che non è capace di difendervi!

 

Premesso che il tanto accalorarsi per sostenere la legittima difesa ha il solo scopo di raccogliere facile consenso sfruttando la paura. Una paura inculcata da un’accurata propaganda. Come ci spiega Milena Gabanelli nel suo Dataroom la rivisitazione della legge sulla legittima difesa è nata da una percezione di insicurezza. Anche se in Italia diminuiscono i crimini: lo si sa da 10 anni, e continua ad accadere con diversi governi. Stando ai numeri siamo diventati uno dei Paesi più sicuri dell’Unione Europea. Omicidi volontari, quasi dimezzati: 611 denunciati nel 2008, 368 nel 2017. Rapine: 45.857 denunciate nel 2008, 30.564 nel 2017, un calo del 33,3%. Ad incidere di più sulla sfera personale sono i furti in casa, perché diffondono insicurezza: meno l’8,5%, nel 2017 rispetto al 2016.

Eppure cresce la paura, reale o favorita da politica e media: nel 2017 il tema «criminalità» è comparso nel 17,2% dei programmi della principale Tv francese, nel 26,3% di quella britannica, nel 18,2% di quella tedesca e nel 36,4% dei 5 principali telegiornali italiani.

Il 78% degli intervistati in un’indagine degli stessi mesi ritiene che la criminalità in Italia sia cresciuta rispetto a cinque anni prima. Questa opinione si concentra al 91% fra gli elettori della Lega. E il 39% della popolazione (nel 2015 era il 26%) chiede che sia più facile acquistare un’arma per difesa personale.

Atteso quindi che tutta la propaganda per la legittima difesa non è altro che ulteriore fumo negli occhi della gente, una domanda io me la faccio:

Delegare ai cittadini la propria difesa non è l’ammissione da parte dello Stato della sua incapacità di difendere i propri cittadini? Un’ammissione di incapacità eclatante e peraltro dalle possibili ripercussioni molto pericolose.

La nuova legge farà aumentare il numero delle armi da fuoco che circolano in Italia! Nel 2017, 1.398.920 licenze di porto d’armi sono state registrate a nome di civili, più 13,8% rispetto al 2016. Le licenze per caccia sono 738.602. In grande crescita quelle per il tiro al volo e al piattello: più 21,1% nel 2016-2017. Sono meno costose e più facili da ottenere, ma ugualmente efficienti (ne usò una Luca Traini, lo sparatore razzista di Macerata). In totale sono 584.978, ma circa 200.000 italiani, dal 2014, hanno messo piede in un poligono. Calano invece le armi per difesa personale: meno 4,8%, forse per le difficoltà burocratiche.

Secondo l’Osservatorio Internazionale «GunPolicy. Org», nel 2017 i privati italiani possedevano 8.007.920 armi da fuoco, un milione in più rispetto a 10 anni prima. Ma 6.609.000 erano le armi non registrate. Se si considera che una famiglia media è composta da 2,3 persone, calcola il Censis, 4,5 milioni di italiani fra cui oltre 700.000 minori hanno un’arma a portata di mano. In Italia, ci sono 12 armi da fuoco ogni 100 abitanti, negli Usa 88. Dice ancora il Censis: se avessimo le stesse regole permissive americane, le famiglie italiane con armi in casa «potrebbero lievitare fino a 10,9 milioni e i cittadini complessivamente esposti al rischio di uccidere o di rimanere vittima di un omicidio sarebbero 25 milioni».

Un grazie di cuore a Salvini & C.

Post scriptum: il caso di  Marcellino Jachi Bovin tabaccaio di Pavone Canavese. che ha ucciso a colpi di pistola un giovane moldavo che aveva forzato il suo negozio insieme con due complici doveva essere simbolicamente il varo della nuova normativa sulla legittima difesa…

«Ha tutta la mia solidarietà – ha detto il ministro Salvini –. Mi auguro che la nuova legge riconosca che questo 67enne ha fatto quello che è stato costretto a fare. Il ladro, se avesse fatto un altro mestiere, a quest’ora sarebbe a casa sua. Ne abbiamo le palle piene, la gente ha diritto di difendersi, sono orgoglioso di questa legge».

Ma poi ti accorgi che il sig. Tabaccaio ha sparato dal balcone di casa 7 colpi alle spalle di un uomo in fuga…

Il 9 maggio del ’78 – 41 anni fa – la magia uccideva Peppino Impastato. Le parole pesanti come il piombo del fratello Giovanni: “La mafia non è l’anti-stato, è proprio nel cuore delle istituzioni”

 

Impastato

 

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Il 9 maggio del ’78 – 41 anni fa – la magia uccideva Peppino Impastato. Le parole pesanti come il piombo del fratello Giovanni: “La mafia non è l’anti-stato, è proprio nel cuore delle istituzioni”

La storia di Giuseppe Impastato è quella di una battaglia iniziata 50 anni fa dal fratello maggiore, Peppino, che lui ha scelto di portare avanti per «restituire dignità alla sua memoria».

È un uomo che negli anni ha visto morire lo zio, il padre ed il fratello, e nonostante tutto ha continuato a combattere con accanto la mamma Felicia, fino al 2004 anno della scomparsa, gli amici di sempre e tante persone comuni che hanno scelto di schierarsi, di prendere una posizione netta.

Un uomo nato in una famiglia mafiosa, che quando ha visto il fratello ribellarsi e morire per le sue idee che facevano paura per la loro portata rivoluzionaria, era un ragazzo che ha trovato la forza di seguire le sue orme, sfidando il proprio temperamento e la società che lo circondava, prendendo in mano il testimone di una lotta che tocca vette altissime per morale, etica e sacrifici.

Un racconto scritto nero su bianco nel libro “Oltre i cento passi”, in cui rievoca la rivoluzione culturale iniziata da Peppino, che non solo ha usato strumenti nuovi e dissacranti per smitizzare il potere mafioso, ma lo ha fatto «operando una rottura storica e culturale perché non avviene solo all’interno della società in cui ha vissuto, ma soprattutto all’interno della propria famiglia, di origine mafiosa». Non lo hanno fermato il ripudio del padre, le minacce di morte e nemmeno la morte del padre stesso, ucciso dalla stessa mafia di cui faceva parte e che aveva tentato di proteggerlo, dopo aver capito che non si sarebbe mai fermato.

Una testimonianza profonda e quanto mai attuale, dopo la recente sentenza sulla trattativa stato-mafia che ha dimostrato come la criminalità organizzata non sia un corpo estraneo in lotta con le istituzioni, ma un’organizzazione che è riuscita a far parte dello stato stesso, condizionandone le decisioni per il proprio tornaconto.

Per la prima volta ha fatto il punto della situazione su mafia e antimafia in Italia con il libro “Oltre i cento passi”. Quali sono le sue principali considerazioni?
La prima è quella di dare la giusta identità alla storia di Peppino, che non è un eroe, non è un mito né un’icona: lo dobbiamo considerare un punto di riferimento. All’interno della sua storia c’è un messaggio che non è solo di impegno civile, di lotta e di speranza, è soprattutto un messaggio educativo per le nuove generazioni. Poi ho voluto chiarire che la mafia non è mai stata l’anti-stato, anzi, è nel cuore dello stato per quanto riguarda la realizzazione delle grandi opere pubbliche, del sistema degli appalti, la gestione del denaro pubblico ed i rapporti con la politica. Le morti di Falcone, Borsellino, del generale Dalla Chiesa e degli uomini delle loro scorte, sono avvenute perché queste persone hanno cercato di bloccare un processo di appropriazione illegale all’interno dello stato. 
La nuova mafia di oggi è la borghesia mafiosa, non più persone con la quinta elementare: oggi la strategia della mafia viene dettata da persone che per estrazione sociale e professione fanno parte della borghesia. I mandamenti ci sono ancora ma si limitano ad eseguire gli ordini.

Ha anche chiarito cos’è per lei il concetto di legalità…
Non è solo il rispetto delle leggi, ma si tratta innanzitutto del rispetto dell’uomo e della vita umana. Questi sono i concetti del libro oltre al racconto del mondo che è nato dopo la realizzazione del film con una serie di incontri con insegnanti e studenti, tutte le iniziative fatte con il coinvolgimento dei giovani che oggi ci troviamo a fianco.

Lei ha raccontato di non aver avuto il coraggio di ribellarsi come suo fratello, ricordando l’episodio in cui si Peppino rifiutò di stringere la mano al boss Badalamenti, ma oggi ha raccolto a pieno il testimone e si batte in prima persona girando l’Italia in modo instancabile…
Abbiamo raccolto il testimone e io sono stato aiutato da tante persone che ho avuto vicino in questi anni: abbiamo camminato con il suo coraggio. Nessuno me l’ha imposto, è stata una scelta mia che sono orgoglioso di avere fatto. Mi sono sentito coinvolto in pieno ed ho voluto lottare per dare dignità alla figura di Peppino che addirittura all’inizio era stato definito come un terrorista.

Si è appena concluso il processo sulla trattativa stato-mafia, che ne pensa?
Sono solidale con i giudici e credo sia stata una sentenza che ha fatto giustizia. Anche se forse il problema va oltre la trattativa perché, come dicevo, la mafia oggi si trova all’interno dello stato e a volte svolge ruoli importanti rendendosi protagonista in negativo di ciò che avviene nel nostro paese. Stiamo molto attenti: non consideriamo la mafia come un corpo estraneo o come un’organizzazione criminale che contrasta lo stato, nulla di tutto questo e questa sentenza ha dimostrato pure che oltre alla trattativa ci sono stati favoritismi e connivenze, per una vicenda scorretta da tutti i punti di vista.

Ci racconta qualcosa del Centro siciliano di documentazione?
È stata la prima associazione antimafia che si è costituita al mondo ed è nato nel 1977, quando Peppino era ancora vivo e poi nel 1980 è stato dedicato alla sua memoria. Ha avuto un ruolo importantissimo in tutti questi anni seguendo la vicenda giudiziaria in modo dettagliato con un grande lavoro di studio e di testimonianza, anche nelle scuole. Il centro Impastato è stato protagonista di tutte le battaglie che abbiamo portato avanti con importanti pubblicazioni come quelle di Umberto Santino, che si può considerare come uno tra i più grandi studiosi e conoscitori della mafia, per cui lascio immaginare a voi il valore di questo centro.

Mentre Casa memoria?

È un’altra cosa: è un’associazione che lavora in concomitanza ed assume un ruolo diverso, finalizzato direttamente alla memoria di Peppino.

Di recente ha scritto una lettera al direttore generale della Rai dopo l’invito a Porta a Porta del figlio di Totò Riina che presentava il libro scritto sul padre…
Sì, e ho anche deciso di pubblicarla nel libro, perché la ritengo importante. Un giornalista come Vespa, che non è la prima volta che si comporta in questo modo in una televisione pubblica pagata con i nostri soldi, aveva deciso di presentare un libro di uno scagnozzo mafioso, figlio di Totò Riina. È una cosa inqualificabile, anche perché il figlio non ha rinnegato il percorso del padre o le sue scelte, e alla domanda di Vespa: “Lei crede nello stato?”, ha risposto: “Lo stato mi ha rubato mio padre”, come se non fosse stato giusto condannarlo per i reati commessi: credo che la Rai non si possa permettere di fare pubblicità al figlio di un mafioso.

In questa battaglia che è innanzitutto culturale, quali sono gli strumenti necessari e i valori che cerca di trasmettere ai giovani?
Io cerco sempre di trasmettere il messaggio di Peppino. Ai ragazzi spiego sempre che bisogna partire dal basso, dal controllo del territorio perché è importante e dobbiamo difenderlo da ogni forma di speculazione e salvare la bellezza delle nostre terre denunciando le persone che commettono illeciti e gli amministratori se fanno male, ricordandosi di appoggiarli se invece fanno bene.

Poi è chiaro che Peppino sia stata una figura unica nella storia del movimento antimafia perché lui non era un poliziotto, non era un carabiniere né un giudice, non era pagato per svolgere questo ruolo e addirittura era figlio di un mafioso: lui opera una rottura storica e culturale perché non avviene solo all’interno della società in cui ha vissuto, ma soprattutto all’interno della propria famiglia, di origine mafiosa. È un messaggio importante. E poi il mezzo: Peppino si scaglia contro la mafia con quell’arma micidiale che è l’ironia; la famosa trasmissione Onda pazza metteva in ridicolo i mafiosi, li ha dissacrati e smitizzati.

Per finire mi riallaccio al contesto attuale ed ai mezzi mediatici di oggi, tra i reality e vari programmi che logorano i cervelli, con la De Filippi che sta facendo rimbecillire intere generazioni: sono cose dannose, oltre che deprimenti; non dico di morire sui libri, o d’impegno, ma ai ragazzi non fa bene passare le giornate davanti a computer e televisione e ci vuole qualcuno che lo dica, visto che non lo fa nessuno.

fonte: https://www.dolcevitaonline.it/giovanni-impastato-la-mafia-non-e-lanti-stato-e-nel-cuore-delle-istituzioni/

A 10 anni dalla strage-vergogna di Viareggio in cui perirono 31 persone, un pensiero all’Ad di Ferrovie dello Stato Mauro Moretti: premiato dopo il rogo e carriera folgorante…!

 

Viareggio

 

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A 10 anni dalla strage-vergogna di Viareggio in cui perirono 31 persone, un pensiero all’Ad di Ferrovie dello Stato Mauro Moretti: premiato dopo il rogo e carriera folgorante…!

 

Viareggio, strage-vergogna: Moretti premiato dopo il rogo

Difficilmente mi occupo di questioni legate alla giustizia, ma quando si tratta della strage di Viareggio non posso tacere, essendo io nativo e abitante di quelle terre, e data la atrocità oggettiva di quanto accadde in quell’inferno esploso proprio nel centro cittadino. L’esplosione del convoglio avvenne sotto il sovrappasso che unisce via Ponchielli e Burlamacchi, percorso che fino a quel momento era legato ai ricordi delle moltissime persone che come me lo utilizzavano per recarsi ai rioni notturni di Carnevale. Toccato da tanto dolore e drammaticità scrissi anche una poesia quasi per sprigionare tutta l’emozione, il coinvolgimento, l’angoscia, l’incredulità: 31 morti carbonizzati, 11 dei quali “disciolti” all’istante, 2 infarti e 25 feriti, alcuni dei quali con lesioni gravissime). L’11 febbraio 2019 sono stati chiesti 15 anni e 6 mesi dalla Procura generale di Firenze (appello) per Mauro Moretti: la strage risale al 29 giugno 2009 quando egli era amministratore delegato di Fs e Rfi. Puntualmente gli organi della giustizia e del potere, perché Moretti di potere ne ha da vendere, mostrano una prevedibile resistenza, rispettivamente, a giudicare ed esser giudicati, soprattutto quando il soggetto in questione può disporre dei migliori avvocati e di enormi agganci politici. Presto saranno passati ben 10 anni.

Non so se noi italiani ce ne rendiamo conto e se ci sta bene, ma i media italiani, chiacchieroni, a seconda dei propri interessi sono i più disinvolti nell’enfatizzare questioni pretestuose e inconsistenti, magari parlandone per mesi, sostanzialmenteignorando quelle notizie come questa, che meriterebbero adeguato risalto. Segnalo solo alcune posizioni assunte dal Moretti: ha fatto carriera nella Cgil tra gli anni ’80 e gli anni ‘90 arrivando ai vertici del sindacato, dal 2006 al 2014 è stato Ad di Ferrovie dello Stato su nomina dell’ex ministro Pd Tommaso Padoa Schioppa (quello che definiva i giovani disoccupati “bamboccioni”) e dal 2014 al 2017 è stato “promosso” come direttore generale e Ad di Finmeccanica-Leonardo a 1,7 milioni di “salario”: il doppio, più o meno, rispetto ai tempi di Fs quando, nel 2012, si lamentava praticamente di guadagnare troppo poco, cioè quasi 900 mila euro all’anno, più i “premi” (“Repubblica” e “Il Giornale”). Tutte “cosine” avvenute dopo la strage…

Tra le varie posizioni assunte, anche ruoli internazionali come quello di presidente della Community of European Railway and Infrastructure Companies, sindaco di Mompeo per due mandati, presidente della Fondazione Ferrovie dello Stato, presidente dell’Associazione Europea delle Industrie per l’Aereospazio e la Difesa, membro del consiglio direttivo degli amici dell’Accademia dei Lincei. Per dire come funzionavano le cose all’epoca (nei meandri dello Stato profondo italiano ancora oggi) il 31 maggio 2010 Moretti fu nominato, dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, cavaliere del lavoro. Una vergogna e una beffa, 11 mesi dopo la strage. Bene ha fatto il M5S (tramite Gianluca Ferrara, senatore di Viareggio da me criticato per altre questioni ma in questo caso molto opportuno) a farsi “ricevere” (dovremmo dire che si “sale” da lui?) dal presidente emerito (emerito…) per avere risposte. Risposte che, se si legge l’articolo linkato, hanno il sapore delle lacrime di coccodrillo (mi si perdoni il tono emotivo e meno “professionale” del solito), con un retrogusto di scaricabarile; sono certo che esse si trasformerebbero in tutt’altro, in sordità e arroganza, qualora il presidente ringiovanisse 20 anni e si ritrovasse al Colle.

Presidente Napolitano che, ricordo bene, quando militavo nel M5S (2012-2017), “c’era da stare attenti” a chiamare in causa anche “solo” per chiedergli (inutilmente) di incontrare i familiari delle vittime, perché c’era il rischio di essere accusati da parte delle altre forze politiche di “strumentalizzare” la strage. Ebbene, una parte di italiani ricorda, io ricordo, e adesso che non faccio politica (ma anche all’epoca non mi tiravo indietro ed elaborai anche il testo di una mozione in merito) posso esprimere tutto il mio disprezzo, non solo contro questo pannolone mantenuto dallo Stato, ma anche verso quei politici locali che, anziché percorrere una strada di accusa, seguendo un impulso naturale umano, facevano un compromesso tra ciò che “si dovrebbe” e ciò che “non si poteva” (per non ledere la propria ambizione di  poltrona) magari perché della stessa “ditta” della prima carica dello Stato.

Perfino l’ex presidente del Consiglio Letta si macchiò di una grave colpa, non permettendo allo Stato di costituirsi parte civile. Ancora oggi, quando qualcuno descrive Napolitano per quello che è, viene sottoposto alla fanfara starnazzante di fango mediatico, al fuoco incrociato degli organi di “informazione” di destra e sinistra, come avvenuto per Di Battista recentemente (”Libero” e il “Corriere“). Gli italiani evidentemente dimenticano troppo in fretta, perfino cosa è stato Napolitano – e non mi riferisco alla carica che rivestiva…basta un po’ di alone, la consueta bolla mediatica di pensiero dominante e l’indottrinamento orwelliano porta a stigmatizzare (stigma = base del pregiudizio e della vergogna) chi si distingue solo perché dice la verità. Eppure qualcosa sta cambiando, molti tabù stanno emergendo dalla loro intoccabilità. Concludo con una richiesta al presidente Mattarella: vada in televisione e chieda la revoca di tutti i titoli di cavalierato a tal Moretti; e chieda una iniziativa di legge che determini, per i condannati in via definitiva per reati gravissimi quali strage, associazione mafiosa e stupro, un tetto massimo di pensione pari al minimo nazionale (780 euro).

(Marco Giannini, “Viareggio, la strage della vergogna: almeno, si infligga a Moretti la pensione minima”, da “Libreidee” del 24 febbraio 2019).

Fonte: http://www.libreidee.org/2019/02/viareggio-strage-vergogna-moretti-premiato-dopo-il-rogo/

 

Vende casa per acquistare farmaci salvavita per la figlia, poi l’appello: “Un alloggio e un lavoro per sopravvivere” …Ora una domanda nasce spontanea: MA LO STATO, DOVE CAZZO STA?

 

farmaci salvavita

 

 

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Vende casa per acquistare farmaci salvavita per la figlia, poi l’appello: “Un alloggio e un lavoro per sopravvivere” …Ora una domanda nasce spontanea: MA LO STATO, DOVE CAZZO STA?

Vende casa per acquistare farmaci salvavita per la figlia, l’appello: “Un alloggio e un lavoro per sopravvivere” – Su RomaToday l’appello di una mamma disperata

Una madre è stata costretta a svendere la propria casa per poter garantire alla figlia di 22 anni, affetta come lei da una patologia autoimmune, i farmaci di cui ha bisogno, privandosi anche della propria parte di medicine.

Succede a Roma, come racconta Sara Mechelli su RomaToday. La cura completa per entrambe costa circa 2.000 euro al mese. Una cifra impossibile per questa mamma, che vive con uno stipendio di 400 euro al mese e una pensione di invalidità che non arriva a 300.

Ora vivono nell’ennesimo alloggio precario. “Un tugurio fatiscente a Roma Nord: umido, malsano e pieno di parassiti. Il posto peggiore per mia figlia che non può assolutamente permettersi alcun tipo di infezione. Purtroppo però -racconta la donna a RomaToday – è tutto quello che al momento possiamo permetterci e per questo ci reputiamo anche fortunate”. Sulla loro testa pende la spada di Democle dello sfratto e il rischio di dover tornare a vivere in macchina, come hanno fatto qualche tempo fa.

L’appello di una mamma disperata

Vorrei che qualcuno mi offrisse un lavoro onesto, in regola e dignitoso. Nonostante la malattia e i miei 61 anni sono una donna in forze, con capacità ed esperienza. Sicuramente sono una che non si arrende: non l’ho fatto nemmeno quando pensavo di non sopravvivere. Con mia figlia – dice la donna a RomaToday – ce l’abbiamo messa tutta. Questi anni sono stati drammatici, un incubo continuo anche se, nella nostra immensa sfortuna tra malattie e lutti, abbiamo salvato la vita. Ora vogliamo solo una possibilità per andare avanti”.

Andrea Guerrini, imprenditore e giornalista che vive tra Perugia e Arezzo, ha lanciato una raccolta fondi su GoFundMe per aiutare le due donne. “Hanno lavori saltuari e non riescono più a sostenersi autonomamente per le spese correnti – racconta Andrea – presto dovranno lasciare anche l’appartamento in cui temporaneamente vivono, concesso per alcuni mesi dall’ex compagno dopo ripetute richieste. Rischiano pertanto di finire per strada entro novembre 2018”.

 

 

Autostrade: ma perché regalare ai privati tutti quei miliardi?

 

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Autostrade: ma perché regalare ai privati tutti quei miliardi?

 

Autostrade: ma perché cedere ai privati tutti quei miliardi?

Lo Stato italiano incassa il 2,4 per cento netto dei pedaggi autostradali, che peraltro sono in costante aumento e da tempo i più cari d’Europa. Come vengono utilizzati quei soldi di automobilisti e autotrasportatori? La maggior parte dei ricavi al casello, come è noto, vanno a finanziare i guadagni delle società concessionarie (per la maggior parte gruppi privati). Non è un caso che i due principali concessionari (i Benetton e i Gavio) figurino regolarmente tra i Paperoni della Borsa e che stiano facendo, proprio in questi mesi, shopping di società all’estero. Semplificando, potremmo dire che i pedaggi (che ormai sono diventata una vera e proprio tassa occulta e salatissima a carico degli automobilisti) finiscono per finanziare l’espansione dei gruppi privati, le loro acquisizioni, oltre che l’arricchimento personale dei principali azionisti attraverso la distribuzione dei dividendi. Chi deve stabilire se un concessionario come Autostrade per l’Italia, che fa acquisizioni all’estero e distribuisce dividendi molto elevati, gestisce in maniera corretta i soldi dei pedaggi e investe abbastanza per la manutenzione? Spetta al ministero delle infrastrutture e dei trasporti. E’ quest’ultimo, infatti, che gestisce le concessioni dello Stato.

Ed è inspiegabile l’ostinazione con cui negli ultimi anni, sotto la gestione dei precedenti governi, il ministero delle infrastrutture abbia autorizzato aumenti delle tariffe a volte davvero esorbitanti, a tutto vantaggio dei privati, e insieme il prolungamento delle concessioni, anche a fronte di investimenti – da parte dei concessionari – inferiori a quelli previsti dal piano economico e finanziario. Perché permettere di aumentare le tariffe e insieme prolungare la durata della concessione, se il concessionario non fa tutto quello che deve? In alcuni casi (si veda per esempio quello che è successo sulla Livorno-Civitavecchia) il ministero ha sfidato l’Europa, incappando in un deferimento alla Corte di giustizia per violazione del diritto Ue, pur di prolungare, ostinatamente, la concessione al gruppo dei Benetton… Come si è arrivati ad affidare la gestione di questo monopolio a privati come le imprese dei Benetton? Che risultati ha prodotto questa scelta compiuta negli anni Novanta? E’ stato nel 1999, all’epoca delle privatizzazioni, volute dal governo Prodi.

Secondo alcuni esperti, per altro, la privatizzazione delle autostrade (la “gallina delle uova d’oro”) fu fatta quando non erano più necessarie dismissioni frettolose per tappare le falle dei conti pubblici, e a condizioni a tutti gli effetti assurde per lo Stato. A guidare le operazioni, come presidente dell’Iri, c’era il professor Gian Maria Gros-Pietro, il quale poi, subito dopo la privatizzazione, è stato assoldato dai Benetton come presidente della loro società di gestione delle Autostrade. Il risultato complessivo di questa operazione è che lo Stato ha ceduto un proprio asset importante senza riuscire a strappare condizioni particolarmente vantaggiose per sé (si poteva imporre un prezzo più alto? O almeno canone più oneroso?) e nemmeno per gli utenti-automobilisti (si potevano imporre condizioni più stringenti per i concessionari? O almeno aumenti limitati?). Di fatto si è permesso che una ricchezza pubblica transitasse nelle tasche di alcuni privati.

Che giudizio dare di un sistema in cui i concessionari si arricchiscono con i soldi dei cittadini, gestendo un servizio regolato da un contratto secretato e finanziando giornali e politica che dovrebbero controllarne e regolarne l’operato? Dico non da ora che è un sistema folle, che va completamente scardinato. Spiace che ci siano volute decine e decine di vittime perché il paese si accorgesse di questa assurda anomalia. Ma se vogliamo dare un senso alla tragedia, occorre che il sistema delle concessioni sia profondamente rivisto e modificato, in primo luogo per quanto riguarda i concessionari privati (Benetton, Gavio, Toto) ma anche per i concessionari pubblici (si veda il caso Autobrennero). Ovviamente, mentre si procede alla revisione totale del sistema, sarebbe importante fin da subito procedere con il blocco degli aumenti tariffari (che meraviglia se il prossimo Capodanno fosse il primo della storia “No Aumento Pedaggio”) e dei prolungamenti delle concessioni.

(“Autostrade: così una ricchezza pubblica è finita nelle tasche di alcuni privati”, intervista di Mario Giordano sul “Blog delle Stelle” del 19 agosto 2018. Già direttore del Tg4, Giordano attualmente dirige lo sviluppo dell’informazione sui Mediaset).

 

 

fonte: http://www.libreidee.org/2018/08/autostrade-ma-perche-cedere-ai-privati-tutti-quei-miliardi/

Addio Sergio Marchionne – Ma se i media di regime Vi prendono per i fondelli con servizi strappalacrime, noi vogliamo dire la verità sul manager del sistema che, nel silenzio della politica neoliberista, ha brutalmente smantellamento i diritti del lavoro (sulla pelle della Gente) in nome del Dio Profitto!

 

Sergio Marchionne

 

 

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Addio Sergio Marchionne – Ma se i media di regime Vi prendono per i fondelli con servizi strappalacrime, noi vogliamo dire la verità sul manager del sistema che, nel silenzio della politica neoliberista, ha brutalmente smantellamento i diritti del lavoro (sulla pelle della Gente) in nome del Dio Profitto!

 

Le verità di Marchionne, il silenzio della politica neoliberista

 

 

Agganciando il mercato americano con lo sbarco negli Usa attraverso la Chrysler, ha evitato che il tramonto storico della Fiat si trasformasse in una catastrofe. Ha impedito quindi che l’Italia uscisse dal club dei produttori di auto, cioè da quella che nei decenni passati è stata anche un’aristocrazia operaia e sindacale, avanguardia di importanti diritti sociali. Il super-manager improvvisamente scomparso a 66 anni ha saputo guardare oltre l’orizzonte, lo piange Sergio Mattarella, trascurando lo scontro con la Fiom di Landini che a Marchionne contestò il drastico, brutale smantellamento dei diritti del lavoro, il prezzo (salatissimo) per rilanciare un marchio come l’Alfa Romeo da opporre al dominio tedesco, e per paracadutare la Jeep nel mercato cinese. Ma il problema di fondo – ripeteva Marchionne – è il declino della classe media: chi se la compra più, la Panda, se crolla il potere d’acquisto delle famiglie italiane? Interamente neoliberista il credo globale del salvatore provvisorio dell’ex Fiat: al mercato non si comanda, il lavoro sparisce e deve necessariamente emigrare là dove ci sono compratori. L’alternativa sarebbe una sola, la politica: e proprio la scomparsa della politica, fondata sull’investimento pubblico, ha scolpito la grandezza di Marchionne in un Occidente desolatamente solo e impoverito, esposto al ricatto finanziario dello spread – quello che decreta, anche, il tracollo delle vendite di auto in Europa e in Italia.

Coraggioso, spietato, infaticabile. Geniale, nel tornare a scommettere sul made in Italy valorizzando la nostalgia dell’italianità che fu. La morte prematura di Sergio Marchionne, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”, chiude in modo traumatico un pezzo di storianazionale, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima, rileva, non è più solo italiana da anni: Fca, Fiat Chrysler Automobiles, è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit. La scomparsa del manager italo-canadese appare una tappa per molti versi conclusiva di 119 anni di storiadella “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. «Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni», osserva Berti. «L’area “Emea” di Fca – cioè la “vecchia Fiat” – verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa – in questa fase geopolitica – su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari – questa è l’unica certezza – resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli».

Il sistema-Italia, naturalmente – aggiunge Berti – non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori, della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli, o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. «Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici». Il minuto di silenzio osservato in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “fine della Fiat” è un avvenimento civile per il paese. «Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo – scrive sempre Berti – sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’azienda-Italia». Figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo paese, Marchionne «lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea».

Un paese, il nostro, per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”: la ricostruzione postbellica e il boom economico, la nascita della repubblica come democraziadi mercato, la motorizzazione di massa. Relazioni sindacali, dallo Statuto dei Lavoratori alla Marcia dei Quarantamila. In prima linea sempre loro, i metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori, «mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politicae della finanza». Per Berti, il lascito storico di «un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo», appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale: «Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca». Sempre Marchionne, insiste Berti, ha detto all’Italia che la Fiat non era più un potereforte, e che l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più poteri forti: «Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico». Finita l’epoca del posto di lavoro garantito: la crisicome emergenza reale, in un mondo ormai reso irriconoscibile dalla globalizzazione.

«Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti», conclude Berti. «Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui». A rendere assordante il silenzio attorno a Marchionne, il mutismo della politicasottomessa al potereeconomico delle multinazionali finanziarizzate: purtroppo, dichiara Gioele Magaldi a “Colors Radio” in morte del grande manager, non è stato mai possibile condividere nulla, della drastica visione politicadel condottiero della Fiat, tristemente segnata dalla rassegnazione “cosmica” al neoliberismo come sistema senza alternative. Negli anni Ottanta, prima che sull’Europacalasse il grande freddo, la Svezia di Olof Palme salvava aziende traballanti ingaggiando il poterefinanziario dello Stato e coinvolgendo i lavoratori, trasformandoli in azionisti. Morto Palme, assassinato da killer tuttora ignoti (a trent’anni di distanza dall’agguato) non sono soltanto crollate le industrie tradizionali europee, ma anche e soprattutto gli Stati sovrani, dotati di facoltà finanziarie indipendenti dai mercati: così è finita la mitica classe media, che ha smesso di comparare anche le Panda di Marchionne fabbricate da operai messi alla frusta per non perdere il posto di lavoro. Risuonano nel silenzio, oggi, le dure verità che Marchionne ha snocciolato in mezzo alle bugie di una politicaridotta a trascurabile servitrice di poteri economici fortissimi e mercenari, senza più bandiere nazionali.Agganciando il mercato americano con lo sbarco negli Usaattraverso la Chrysler, ha evitato che il tramonto storico della Fiat si trasformasse in una catastrofe. Ha impedito quindi che l’Italia uscisse dal club dei produttori di auto, cioè da quella che nei decenni passati è stata anche un’aristocrazia operaia e sindacale, avanguardia di importanti diritti sociali. Il super-manager improvvisamente scomparso a 66 anni ha saputo guardare oltre l’orizzonte, lo piange Sergio Mattarella, trascurando lo scontro con la Fiom di Landini che a Marchionne contestò il drastico, brutale smantellamento dei diritti del lavoro, il prezzo (salatissimo) per rilanciare un marchio come l’Alfa Romeo da opporre al dominio tedesco, e per paracadutare la Jeep nel mercato cinese. Ma il problema di fondo – ripeteva Marchionne – è il declino della classe media: chi se la compra più, la Panda, se crolla il potered’acquisto delle famiglie italiane? Interamente neoliberista il credo globale del salvatore provvisorio dell’ex Fiat: al mercato non si comanda, il lavoro sparisce e deve necessariamente emigrare là dove ci sono compratori. L’alternativa sarebbe una sola, la politica: e proprio la scomparsa della politica, fondata sull’investimento pubblico, ha scolpito la grandezza di Marchionne in un Occidente desolatamente solo e impoverito, esposto al ricatto finanziario dello spread – quello che decreta, anche, il tracollo delle vendite di auto in Europae in Italia.

Coraggioso, spietato, infaticabile. Geniale, nel tornare a scommettere sul made in Italy valorizzando la nostalgia dell’italianità che fu. La morte prematura di Sergio Marchionne, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”, chiude in modo traumatico un pezzo di storianazionale, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima, rileva, non è più solo italiana da anni: Fca, Fiat Chrysler Automobiles, è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit. La scomparsa del manager italo-canadese appare una tappa per molti versi conclusiva di 119 anni di storiadella “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. «Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni», osserva Berti. «L’area “Emea” di Fca – cioè la “vecchia Fiat” – verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa – in questa fase geopolitica – su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari – questa è l’unica certezza – resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli».

Il sistema-Italia, naturalmente – aggiunge Berti – non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori, della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli, o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. «Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici». Il minuto di silenzio osservato in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “fine della Fiat” è un avvenimento civile per il paese. «Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo – scrive sempre Berti – sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’azienda-Italia». Figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo paese, Marchionne «lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea».

Un paese, il nostro, per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”: la ricostruzione postbellica e il boom economico, la nascita della repubblica come democraziadi mercato, la motorizzazione di massa. Relazioni sindacali, dallo Statuto dei Lavoratori alla Marcia dei Quarantamila. In prima linea sempre loro, i metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori, «mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politicae della finanza». Per Berti, il lascito storico di «un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo», appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale: «Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca». Sempre Marchionne, insiste Berti, ha detto all’Italia che la Fiat non era più un potereforte, e che l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più poteri forti: «Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico». Finita l’epoca del posto di lavoro garantito: la crisicome emergenza reale, in un mondo ormai reso irriconoscibile dalla globalizzazione.

«Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti», conclude Berti. «Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui». A rendere assordante il silenzio attorno a Marchionne, il mutismo della politicasottomessa al potereeconomico delle multinazionali finanziarizzate: purtroppo, dichiara Gioele Magaldi a “Colors Radio” in morte del grande manager, non è stato mai possibile condividere nulla, della drastica visione politicadel condottiero della Fiat, tristemente segnata dalla rassegnazione “cosmica” al neoliberismo come sistema senza alternative. Negli anni Ottanta, prima che sull’Europacalasse il grande freddo, la Svezia di Olof Palme salvava aziende traballanti ingaggiando il poterefinanziario dello Stato e coinvolgendo i lavoratori, trasformandoli in azionisti. Morto Palme, assassinato da killer tuttora ignoti (a trent’anni di distanza dall’agguato) non sono soltanto crollate le industrie tradizionali europee, ma anche e soprattutto gli Stati sovrani, dotati di facoltà finanziarie indipendenti dai mercati: così è finita la mitica classe media, che ha smesso di comparare anche le Panda di Marchionne fabbricate da operai messi alla frusta per non perdere il posto di lavoro. Risuonano nel silenzio, oggi, le dure verità che Marchionne ha snocciolato in mezzo alle bugie di una politicaridotta a trascurabile servitrice di poteri economici fortissimi e mercenari, senza più bandiere nazionali.

Coraggioso, spietato, infaticabile. Geniale, nel tornare a scommettere sul made in Italy valorizzando la nostalgia dell’italianità che fu. La morte prematura di Sergio Marchionne, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”, chiude in modo traumatico un pezzo di storia nazionale, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima, rileva, non è più solo italiana da anni: Fca, Fiat Chrysler Automobiles, è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit. La scomparsa del manager italo-canadese appare una tappa per molti versi conclusiva di 119 anni di storia della “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. «Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni», osserva Berti. «L’area “Emea” di Fca – cioè la “vecchia Fiat” – verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa – in questa fase geopolitica – su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata

al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari – questa è l’unica certezza – resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli».

Il sistema-Italia, naturalmente – aggiunge Berti – non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori, della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli, o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. «Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici». Il minuto di silenzio osservato in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “fine della Fiat” è un avvenimento civile per il paese. «Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo – scrive sempre Berti – sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’azienda-Italia». Figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo paese, Marchionne «lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea».

Un paese, il nostro, per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”: la ricostruzione postbellica e il boom economico, la nascita della repubblica come democrazia di mercato, la motorizzazione di massa. Relazioni sindacali, dallo Statuto dei Lavoratori alla Marcia dei Quarantamila. In prima linea sempre loro, i metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori, «mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politica e della finanza». Per Berti, il lascito storico di «un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo», appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale: «Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca». Sempre Marchionne, insiste Berti, ha detto all’Italia che la Fiat non era più un potere forte, e che l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più poteri forti: «Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico». Finita l’epoca del posto di lavoro garantito: la crisi come emergenza reale, in un mondo ormai reso irriconoscibile dalla globalizzazione.

«Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti», conclude Berti. «Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui». A rendere assordante il silenzio attorno a Marchionne, il mutismo della politicasottomessa al potere economico delle multinazionali finanziarizzate: purtroppo, dichiara Gioele Magaldi a “Colors Radio” in morte del grande manager, non è stato mai possibile condividere nulla, della drastica visione politica del condottiero della Fiat, tristemente segnata dalla rassegnazione “cosmica” al neoliberismo come sistema senza alternative. Negli anni Ottanta, prima che sull’Europa calasse il grande freddo, la Svezia di Olof Palme salvava aziende traballanti ingaggiando il potere finanziario dello Stato e coinvolgendo i lavoratori, trasformandoli in azionisti. Morto Palme, assassinato da killer tuttora ignoti (a trent’anni di distanza dall’agguato) non sono soltanto crollate le industrie tradizionali europee, ma anche e soprattutto gli Stati sovrani, dotati di facoltà finanziarie indipendenti dai mercati: così è finita la mitica classe media, che ha smesso di comparare anche le Panda di Marchionne fabbricate da operai messi alla frusta per non perdere il posto di lavoro. Risuonano nel silenzio, oggi, le dure verità che Marchionne ha snocciolato in mezzo alle bugie di una politica ridotta a trascurabile servitrice di poteri economici fortissimi e mercenari, senza più bandiere nazionali.

 

 

 

fonte:http://www.libreidee.org/2018/07/le-verita-di-marchionne-e-il-silenzio-della-politica-neoliberista/

Trattativa – Ricordiamo le agghiaccianti parole dell’Avvocato di Totò Riina: “Borsellino assassinato dallo Stato come Matteotti”

 

Totò Riina

 

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Trattativa – Ricordiamo le agghiaccianti parole dell’Avvocato di Totò Riina: “Borsellino assassinato dallo Stato come Matteotti”

 

Trattativa Stato mafia, Arringa difensiva dell’Avvocato di Totò Riina “”Anche da morto Riina deve fare da parafulmine”

Siamo avvocati o siamo caporali?”. Con questa premessa degna di Totò, l’avvocato Luca Cianferoni ha esordito oggi nella  personalissima arringa pronunciata in difesa del suo assistito Salvatore Riina, conclusasi con la richiesta di piena assoluzione, invece che quella di non doversi procedere per intervenuta morte dell’imputato.

Subito un’ardita affermazione: la mafia siciliana e’ stata favorita dagli Stati Uniti fin dal 1945 perche’ speculare all’Armata Partigiana del maresciallo Tito, la prima per il suo viscerale anticomunismo, i secondi  ( Tito ed il suo esercito), per la fiera opposizione all’Unione Sovietica.

Il suo assistito? Parafulmine perfino da morto, oggetto e non soggetto di trattativa. Di chi, di che cosa? Dei boiardi di stato, ansiosi di restare nei loro posti di potere, passando trasformisticamente ad una nuova formazione politica, Forza Italia.

In questo quadro i carabinieri della Gestapo (il ROS), “da sempre connotati a destra e un pochino legionari”,  ed il Sismi, contrapposti al Sisde ed alla polizia di Gianni de Gennaro, “sinistrorsi”.

Qui mi permetto di eccepire con un ricordo contraddittorio. De Gennaro, conseguita la maturità classica al prestigioso collegio privato Massimo di Roma, si iscrisse alla facoltà  di Giurisprudenza della Statale, insieme con il mio collega di corso Raffaello Parente (fratello del piu’ noto Mario), il quale, quando frequentammo alla Scuola di Guerra, nel 1989/90, il corso di Stato Maggiore e le cronache parlavano già del questore De Gennaro, ci racconto’ di quell’episodio in cui, durante i moti studenteschi, De Gennaro, attivista del FUAN, era finito in Questura.

Mi direte voi, “un peccato di gioventù”. Oggi e’ presidente del Centro Studi Americani, e di Leonardo (gia’Finmeccanica). Pensate che sarebbe consentito tutto ciò, da oltre oceano, ad un uomo  di sinistra?

Perdonate la divagazione. Torno all’arringa di Cianferoni, che dipinge fra l’altro un quadro del carcerario allucinante, Pianosa specializzata nella creazione di pentiti “guidati”, grazie a torture e sevizie sistematiche che ricordano quelle inflitte dagli ammiragli argentini ai desaparesidos, Opera in mano ai servizi, anche ora che non c’e’ piu’ Siciliano Giacinto, direttore.

“Gian Carlo Caselli, perche’ non anche lui fra gli imputati? In cosa il suo comportamento differì da quello di Mori?”.

Prosegue – l’ avvocato Cianferoni – quest’ultimo comunque succubo del generale  Ganzer, specializzato nella creazione  di raffinerie di eroina che poi scopriva “vizio anche del colonnello Riccio”.

Il top dell’arringa, è riservato a Oscar Luigi Scalfaro  “che mangiava cento milioni al mese  dei fondi neri del Sisde da ministro degli interni”.

L’avvocato conviene invece con un altro ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per “l’intima consunzione di un intero assetto politico istituzionale” la tubercolosi che ha ucciso la prima Rerpubblica.

Giova pero’ concludere con una rivelazione sull’attentato di via dei Georgofili voluto – ci narra l’avvocato – per colpire la piu’ importante loggia massonica fiorentina, quella di cui era membro Spadolini quando fece cadere il governo Craxi, colpevole di aver resistito agli americani a Sigonella.

C’e’ un punto per cui Cianferoni e la sua arringa entreranno nella storia d’Italia: quando ascrive totalmente allo stato’l’assassinio di Paolo Borsellino: “Borsellino assassinato come Matteotti”

Conclude addebitando ai magistrati che indica come  “i nuovi padroni d’Italia, che usano la giustizia come i militari facevano una volta con i carri armati”, l’imperdonabile ipocrisia di non averlo mai dichiarato in aula.

 

tratto da: https://www.themisemetis.com/mafia/trattativa-mafia-borsellino-assassinato-dallo-come-matteotti/1570/

Trattativa, assolto Mancino? Non fatevi prendere in giro: si è salvato solo perchè il sig. Napolitano, “l’emerito”, ha fatto secretare le telefonate intercorse con lui e come testimone al processo è stato colto da improvvisa, fulminante amnesia!

Trattativa

 

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Trattativa, assolto Mancino? Non fatevi prendere in giro: si è salvato solo perchè il sig. Napolitano, “l’emerito”, ha fatto secretare le telefonate intercorse con lui e come testimone al processo è stato colto da improvvisa, fulminante amnesia!

 

Trattativa, gravissime parole Napolitano su Mancino

Trattativa. C’è una parte dell’Italia che, dopo la storica sentenza della settimana scorsa sulla trattativa Stato-mafia, inizia a sperare in un reale cambiamento. Quella parte pulita, onesta di cittadini, che si stanno riaccostando ad un mondo marcio finora, con fiducia nel fatto che esso possa essere ripulito. Penso alle parole di Angela Manca, che si augura (e noi con lei, ndr) che, ora, la verità sulla morte brutale di suo figlio Attilio, possa venir fuori.

Resta, però, una parte di Paese irrimediabilmente marcia. Quella che ha decretato la vittoria del centro destra in Molise, per fare un esempio. Due le ipotesi: o l’ingenuità dei cittadini non è arrivata a capire le pesantissime accuse che gravano sulla testa di Berlusconi, che sul centro destra ci mette la faccia, oppure quei voti sono stati comprati. In entrambi i casi, non si vede nulla di buono all’orizzonte.

Non parliamo poi dell’emerito presidente, “integerrimo” politico, Giorgio Napolitano, che, ieri, durante la trasmissione di Fazio, Che tempo che fa, su Rai 1, in collegamento da casa, ha detto, testuale:  “Non posso dire alcunché su una sentenza di cui nessuno conosce le motivazioni. Il punto che ho apprezzato di più è stato quello dell’assoluzione del senatore Mancino per non aver commesso il fatto: si è  restituita serenità e si è riconosciuto il corretto operato di un uomo delle Istituzioni a cui grossolanamente si erano addossate delle colpe”. Corretto operato, presidente Napoloitano? Un po’ come il suo, che, non solo ha fatto secretare le telefonate intercorse tra lei ed il senatore in questione, ma, chiamato a testimoniare al processo trattativa, prima ha tentato in ogni modo di evitare la cosa, per poi, pateticamente, dire una serie di non so, non ricordo.

L’impressione, insomma, è che, purtroppo, siamo ancora lontani dal raggiungimento di una reale giustizia. I pm non si fermano, questo ci consola, ma ci devasta il fatto che ancora qualcuno metta in discussione quella sentenza della Corte d’Assise che dovrebbe modificare il Paese, pulirlo dai rami marci e secchi di una politica corrotta, di Forze dell’ordine asservite al potere, di servizi segreti deviati.

Confesso di non aver seguito la puntata di Fazio di ieri, ma di aver visto solo pochi stralci ed in tutta franchezza, le uniche parole serie riguardo politica ed istituzioni sono state quelle della Litizzetto. Già, le parole di una delle comiche più brave di tutti i tempi. “Voi vi siete accorti del fatto che manca il governo?” ha detto la Lucianina nazionale “io no, non è cambiato niente”. Qualcuno può darle torto? Sicuramente non noi…

fonte: http://www.danilasantagata.it/trattativa-grave-vittoria-centro-destra-in-molise-quanto-parole-napolitano-mancino/

Fantastico colpo di genio di un Senatore 5stelle – Imprenditore fallisce perchè lo Stato non gli paga le fatture. Però lo stesso Stato gli pignora tutto perchè insolvente, compreso la casa… Ma il Senatore 5stelle salva la vittima ed umilia lo Stato truffatore!

 

5stelle

 

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Fantastico colpo di genio di un Senatore 5stelle  – Imprenditore fallisce perchè lo Stato non gli paga le fatture. Però lo stesso Stato gli pignora tutto perchè insolvente, compreso la casa… Ma il Senatore 5stelle salva la vittima ed umilia lo Stato truffatore!

 

Il ‘trucco’ dei Cinquestelle per salvargli la casa dal pignoramento della banca

La geniale idea di un senatore dei Cinquestelle ha evitato il pignoramento della casa di Sergio Bramini, fallito per colpa dello Stato.

La vicenda del signor Sergio Bramini è stata raccontata nelle ultime settimane da parecchie trasmissioni televisive quale esempio di come lo Stato si sia comportato in maniera scorretta con i propri fornitori. L’azienda di proprietà dell’imprenditore brianzolo è stata infatti dichiarata fallita a causa di crediti con la pubblica amministrazione che non è stato possibile incassare.

Tutto è nato quando nel 2011 la sua azienda specializzata nel trattamento di rifiuti è fallita a causa di fatture non pagate dagli ‘Ambiti territoriali ottimali’, enti pubblici che il Governo con due decreti emessi nel 2013 e nel 2014 ha dichiarato fossero ‘non appartenenti alla pubblica amministrazione’ equiparandoli in pratica ai soggetti privati i cui debiti non sono garantiti dallo Stato.

Praticamente lo Stato non solo non ha pagato i servizi regolarmente svolti dalla sua società, ma ha anche agito per evitare di assolvere i suoi impegni. Tutto questo ha una spiegazione pratica: il Governo di allora ha cercato di ‘occultare’ una ingente massa di debiti non riconoscendoli come ‘pubblici’ al fine di contenere l’ammontare ufficiale del debito pubblico.

Fallito per colpa dello stato insolvente

Il signor Bramini, trovatosi improvvisamente senza liquidità e non potendo farsi anticipare dalle banche gli importi non pagati perchè appunto non rientravano tra i ‘crediti di stato’, ha agito come solo i veri imprenditori sanno fare, al fine di tutelare la sua azienda ed i suoi fedeli dipendenti.

Nell’attesa dei risultati dei ricorsi, confidava – purtroppo sbagliando – che tutto sarebbe stato risolto dalla giustizia ipotecando la sua villa con le banche al fine di ottenere la liquidità necessaria per poter far fronte ai sui debiti con i dipendenti e, paradossalmente, con quello stesso stato che non lo stava pagando.

Purtroppo, terminati i fondi, le banche gli hanno chiesto di rientrare, portando la sua azienda al fallimento e mettendo all’asta la villa che aveva posto come garanzia. Una vera e propria ingiustizia alla quale nessuno al momento è stato in gradi di porre rimedio nonostante molti esponenti di spicco della politica abbiano provato ad interessarsi al caso.

Il colpo di scena del senatore dei Cinquestelle

Oggi alle ore 14 avrebbe dovuto andare in scena l’atto finale: l’esproprio della sua storica abitazione. Ma davanti all’ufficiale giudiziario è accaduto il più classico dei colpi di scena. Il senatore brianzolo Gianmarco Corbetta del #movimento cinquestelle ha bloccato i tutori dell’ordine con il classico ‘uovo di Colombo‘. Ha eletto l’abitazione quale proprio domicilio parlamentare facendo diventare la casa, secondo quanto detta la Costituzione, impignorabile. Il prefetto, a fronte di questa situazione ha dovuto prorogare di altri 45 giorni l’esecuzione, ma adesso la palla passa al giudice, che si troverà di fronte ad una situazione che difficilmente potrà risolvere in tempi brevi.

 

 

 

 

fonte: https://it.blastingnews.com/cronaca/2018/04/il-trucco-dei-cinquestelle-per-salvargli-la-casa-dal-pignoramento-della-banca-002509467.html?

Reddito di Inclusione – Chi ne ha diritto e come ottenerlo.

 

Reddito di Inclusione

 

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Reddito di Inclusione – Chi ne ha diritto e come ottenerlo.

Reddito di inclusione al via dal 1 dicembre, per le famiglie fino a 485 euro: come fare domanda.

Dal primo dicembre sarà possibile presentare domanda per avere accesso al reddito di inclusione, la prima misura nazionale di contrasto alla povertà. Una circolare Inps spiega chi può presentare richiesta e quali sono le modalità per fare domanda.

Dal primo dicembre sarà possibile fare domanda per accedere al reddito di inclusione, la prima misura nazionale di contrasto alla povertà. Una circolare Inps specifica come funziona il ReI e come presentare la domanda per questa misura che prevede anche un progetto personalizzato per le persone in situazione di bisogno. Il beneficio riguarderà inizialmente le famiglie con minori, disabili, donne in gravidanza a quattro mesi dal parto e over 55 disoccupati. Potrà avere un valore di massimo 485 euro al mese, per un totale di 5.824 euro l’anno.

A chi spetta il ReI
La circolare dell’Inps sottolinea anche a chi viene concesso il ReI, ovvero ai nuclei familiari in condizioni di povertà. Potrà essere erogato per un massimo di 18 mesi e rinnovato per non più di 12 mesi solo dopo che siano passati sei mesi dalla prima prestazione. La famiglia beneficiaria del ReI deve attenersi al progetto personalizzato a pena di decurtazione o decadenza dalla prestazione. Il ReI è incompatibile con la fruizione della Naspi o di altri ammortizzatori sociali da parte di qualsiasi componente della famiglia.

Il nucleo familiare deve avere un reddito Isee in corso di validità non superiore a 6.000 euro e un valore dell’Isre (indicatore reddituale dell’Isee) a fini ReI non superiore a 3.000 euro. Inoltre, oltre alla casa di abitazione, non si può avere un patrimonio immobiliare superiore a 20.000 euro e uno mobiliare superiore a 10.000 euro (in caso di tre componenti). Possono fare domanda per il ReI i cittadini dell’Ue o gli extracomunitari con permesso di lungo soggiorno residenti in Italia in via continuativa da almeno due anni.

L’importo del reddito di inclusione è pari al massimo a 485 euro mensili (in caso di almeno cinque componenti) ma potrebbe aumentare l’anno prossimo a fronte di risorse ulteriori che dovrebbero essere stanziate nella legge di bilancio, arrivando fino a 540 euro. Il beneficio economico viene erogato – spiega ancora l’Inps – per il tramite della Carta acquisti ridenominata Carta ReI che consente anche prelievi di contante entro la metà dell’importo massimo attribuito. La Carta viene concessa dalle Poste.

Come presentare domanda
La domanda dovrà essere presentata nei comuni o in altri punti di accesso individuati dagli stessi comuni. Il modello fornito dall’Inps è scaricabile sul sito dell’istituto di previdenza. Sono poi le amministrazioni locali a comunicare le informazioni contenute nelle domande all’Inps entro 15 giorni dalla ricezione della richiesta. L’Inps verifica le condizioni del possesso dei requisiti entro cinque giorni. In caso di esito positivo l’Istituto riconosce il reddito di inclusione a condizione che venga firmato il progetto personalizzato.