Il coronavirus ha messo in luce un fatto incontrovertibile: il sistema capitalista non è in grado di garantire i diritti fondamentali delle popolazioni – Ce lo spiega Angelo Alves del Partito Comunista Portoghese

 

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Il coronavirus ha messo in luce un fatto incontrovertibile: il sistema capitalista non è in grado di garantire i diritti fondamentali delle popolazioni – Ce lo spiega Angelo Alves del Partito Comunista Portoghese

di Ângelo Alves, Commissione Politica del Partito Comunista Portoghese (PCP)

da http://www.solidnet.org

Traduzione di Mauro Gemma per Marx21.it

Il Partito Comunista Portoghese esprime la sua solidarietà a tutti i popoli che stanno affrontando le gravi conseguenze dello scoppio del nuovo coronavirus che colpisce la stragrande maggioranza dei paesi del mondo.

Lo sviluppo dell’epidemia su scala globale e le sue ripercussioni – in particolare nei paesi capitalisti più sviluppati – dimostrano tragicamente le conseguenze di decenni di politiche di privatizzazione e di smantellamento dei servizi pubblici, in particolare dei servizi sanitari; del continuo e crescente attacco ai diritti sociali dei lavoratori; e dell’alienazione di strumenti statali che garantiscano funzioni e protezione sociali, diritti fondamentali e produzione di beni e prodotti essenziali per la vita e la protezione delle popolazioni.

Ciò che è ancora più evidente oggi è l’incapacità del sistema capitalista, caratterizzato dall’anarchia della produzione e dalla sottomissione alla logica dell’accumulazione, di garantire diritti fondamentali come il diritto alla salute.

Riconoscendo gli impatti diretti e indiretti delle necessarie misure di prevenzione e contenimento, il PCP sottolinea che si verificano in un contesto in cui erano già in fase di sviluppo elementi che indicavano un nuovo picco di crisi sul piano economico.

L’epidemia ha rivelato, accelerato e approfondito ancora di più le gravi contraddizioni, i gravi problemi e la crisi strutturale del capitalismo che il PCP aveva da tempo individuato nell’evoluzione della situazione internazionale.

Gli eventi recenti dimostrano la fragilità e la volatilità della situazione economica globale; l’incapacità della maggior parte degli stati capitalisti di fornire risposte rapide, di grande portata e capacità organizzativa, a una situazione come questa; e le conseguenze di un’economia dominata dal grande capitale, in particolare dal capitale finanziario, che utilizza eventi come questo per cercare di approfondire lo sfruttamento e compiere grandi manovre di speculazione e accumulazione.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla propaganda che cerca di nascondere le enormi contraddizioni di classe nell’impatto di Covid-19, la realtà mostra che le sue conseguenze non raggiungono tutti allo stesso modo.

Al contrario, le contraddizioni e le enormi disparità che caratterizzano il mondo capitalista si stanno manifestando drammaticamente nello sviluppo dell’epidemia virale.

Sono i lavoratori, in particolare i lavoratori più esposti alla deregolamentazione delle relazioni industriali, che sono le vittime dei licenziamenti, dei tagli ai salari e della disoccupazione di massa – che secondo l’OIL potrebbero colpire quasi duecento milioni di lavoratori. E molti milioni di lavoratori continuano a lavorare vedendosi negare mezzi e misure per proteggere la loro salute.

Sono gli strati sociali più colpiti dall’esclusione sociale generata dal capitalismo, che privati di ??diritti di base come lavoro, alloggio e protezione sociale, vedono ora negato l’accesso alla protezione, all’igiene e all’assistenza sanitaria, in particolare nei paesi in cui lo smantellamento dei servizi sanitari pubblici è andato più lontano, trovandosi letteralmente abbandonati, anche nella morte.

Sono i popoli dei paesi del cosiddetto “terzo mondo” ad essere maggiormente esposti alla povertà, alla malnutrizione e alla mancanza persino di assistenza sanitaria e di meccanismi di protezione sociale.

In presenza dell’epidemia, gli obiettivi delle principali potenze e delle strutture dell’imperialismo per sfruttare la situazione a beneficio della loro strategia, si stanno traducendo, se non saranno contrastati, in un peggioramento dello sfruttamento dei lavoratori, nell’aumento esponenziale della povertà, in un maggiore indebitamento degli Stati con economie più deboli, in livelli ancora più insostenibili di concentrazione del capitale e disuguaglianza, e in un deterioramento ancora più pericoloso della già molto instabile e pericolosa situazione internazionale.

Sul piano del lavoro, sono già visibili nuovi attacchi ai diritti e ai salari dei lavoratori, all’imposizione di una deregolamentazione ancora maggiore delle relazioni industriali, in particolare attraverso l’uso della disoccupazione e la strumentalizzazione delle nuove tecnologie come fattori che comprimono diritti e salari.

La lotta contro il virus viene utilizzata per l’imposizione e la “normalizzazione” di misure che minano i diritti, le libertà e le garanzie, per attaccare la democrazia e l’azione delle organizzazioni sociali, dei lavoratori e politiche, e per l’imposizione di misure di sicurezza, di controllo e monitoraggio della vita sociale.

Il PCP mette in guardia sulle conseguenze future dell’imposizione, da parte di strutture internazionali dominate dalle potenze capitaliste, come il FMI, di meccanismi di indebitamento nei confronti di Stati con maggiori carenze economiche. Tali programmi, sempre associati alla domanda di privatizzazione dei servizi pubblici e all’esaurimento delle risorse naturali, mirano a stabilire contesti di dipendenza che cercano di rafforzare il potere di queste istituzioni e delle potenze e degli interessi che le dirigono.

Il PCP ribadisce la sua profonda critica alle azioni dell’Unione europea, caratterizzate da una forte mancanza di solidarietà, in assenza di misure che sostengano efficacemente gli Stati e i popoli nella lotta contro l’epidemia.

Le misure finora note e quelle previste al Consiglio europeo confermano la sottomissione ai dettami delle grandi potenze, proteggono gli interessi dei loro gruppi economici e del capitale finanziario e non solo non rispondono, ma sono contrarie alle esigenze che si pongono.

È chiaro che un paese come il Portogallo può aspettarsi solo nuove linee di indebitamento e dipendenza dall’Unione Europea che, prima o poi, porteranno a nuove imposizioni, vincoli e ricatti che il Portogallo già conosce. Ciò che è ancora più evidente è che il Portogallo deve recuperare gli strumenti di sovranità ai livelli economici e monetari fondamentali per affrontare la situazione attuale.

La straordinaria complessità della situazione attuale richiede solidarietà e cooperazione.

L’azione di solidarietà e cooperazione condotta da paesi come la Cina e Cuba, tra gli altri, contrasta con il posizionamento delle principali potenze capitaliste, con le autentiche guerre commerciali e di pirateria tra gli Stati dell’UE e gli USA e con l’intensificazione della strategia di intervento imperialista, di confronto e di aggressione.

Il PCP denuncia le campagne di disinformazione che mirano a rendere la Repubblica Popolare Cinese responsabile dell’epidemia e a mettere in discussione la sua riconosciuta capacità di combattere il nuovo coronavirus. L’azione diffamatoria è tanto più intensa in quanto il contrasto tra la Cina e le principali potenze capitaliste è sempre più visibile nella risposta in termini di salute pubblica e azioni concrete di solidarietà e cooperazione. La solidarietà è tanto più importante in quanto questo è stato il primo paese soggetto al compito erculeo di identificare, affrontare e combattere il nuovo coronavirus, condividendo con il resto del mondo mezzi, materiali, informazioni e conoscenze scientifiche.

Le dichiarazioni irresponsabili e provocatorie della Amministrazione Trump rappresentano, non solo accuse infondate, ma anche ulteriori fattori di tensione nella situazione internazionale e ulteriori prove di mancanza di rispetto per il diritto internazionale, evidenti nella decisione degli Stati Uniti di non rispettare i propri obblighi nel finanziamento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

È sempre più chiaro che l’azione dell’imperialismo americano, alle prese con profonde contraddizioni, rivalità e gravi problemi, cerca in tutti i modi di distogliere l’attenzione dalla complessa situazione interna degli Stati Uniti, adottando una posizione sempre più aggressiva nei confronti di diversi paesi del mondo.

In questo senso, il PCP denuncia la continuazione di azioni di provocazione e aggressione imperialiste, di cui sono esempi più recenti le minacce contro la Cina, l’azione continua di destabilizzazione e interferenza nel Medio Oriente e l’insieme di decisioni e cospirazioni che minacciano un’aggressione militare contro il Venezuela.

Il rispetto dei diritti dei popoli, del diritto internazionale e della sovranità degli Stati, sanciti dalla Costituzione della Repubblica Portoghese e dalla Carta delle Nazioni Unite, devono costituire elementi centrali della politica estera portoghese, invertendo una linea di collaborazione e sottomissione del governo portoghese alla strategia aggressiva dell’imperialismo, in particolare dell’amministrazione Trump.

Tra le altre misure, il PCP ritiene che il governo portoghese dovrebbe compiere sforzi, segnatamente nell’ambito delle Nazioni Unite, per:

– la fine immediata e incondizionata delle sanzioni economiche e finanziarie contro gli Stati sovrani, in particolare contro Cuba, Venezuela, Iran, Siria e altri paesi;

– la fine immediata e incondizionata di tutte le aggressioni, occupazioni e manovre di interferenza contro gli Stati sovrani, nel rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità degli stati;

– l’istituzione di un protocollo di cooperazione internazionale, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per la condivisione di informazioni e conoscenze scientifiche e di risorse mediche, tecnologiche e farmaceutiche, che tra gli altri obiettivi sia finalizzato alla produzione pubblica e alla commercializzazione, senza proprietà intellettuali, di vaccini e medicinali per combattere il Covid-19;

– La rinegoziazione e la cancellazione dei debiti pubblici, in particolare quelli dei paesi con maggiori carenze economiche e quelli maggiormente colpiti dal coronavirus.

Il PCP esprime la fiducia che lo sviluppo della lotta dei lavoratori e dei popoli, l’azione delle forze rivoluzionarie e progressiste, e degli Stati sinceramente interessati a un mondo di Pace e Cooperazione, potrà fare si che da un momento marcatamente difficile per l’intera umanità si apprenda la lezione e si prepari la strada per un futuro di progresso, sostenibilità, pace e cooperazione.

L’attuale situazione che stanno vivendo miliardi di persone non è separabile dalla natura profondamente sfruttatrice e parassitaria del sistema capitalista, che non solo non riesce a risolvere le questioni essenziali per la vita umana, ma approfondisce le disuguaglianze, le contraddizioni e i problemi.

In tempi di incertezza e reali difficoltà per i lavoratori e i popoli di tutto il mondo, l’azione e la lotta per il superamento rivoluzionario del sistema capitalista sono ancora più attuali e urgenti.

La risposta fondamentale alla complessa situazione sta nella costruzione, attraverso vari percorsi e fasi, di società socialiste basate sulla pianificazione economica che rispondano agli interessi reali dei popoli, che garantiscano i diritti sociali e del lavoro a tutti i cittadini e di strumenti pubblici che assicurino diritti universali come il diritto al lavoro, alla salute, alla protezione sociale, al cibo e all’alloggio dignitoso e a un futuro di progresso, giustizia e pace per tutti.

http://www.pcp.pt/evolucao-da-situacao-internacional-impacto-do-surto-epidemico

Addio Sergio Marchionne – Ma se i media di regime Vi prendono per i fondelli con servizi strappalacrime, noi vogliamo dire la verità sul manager del sistema che, nel silenzio della politica neoliberista, ha brutalmente smantellamento i diritti del lavoro (sulla pelle della Gente) in nome del Dio Profitto!

 

Sergio Marchionne

 

 

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Addio Sergio Marchionne – Ma se i media di regime Vi prendono per i fondelli con servizi strappalacrime, noi vogliamo dire la verità sul manager del sistema che, nel silenzio della politica neoliberista, ha brutalmente smantellamento i diritti del lavoro (sulla pelle della Gente) in nome del Dio Profitto!

 

Le verità di Marchionne, il silenzio della politica neoliberista

 

 

Agganciando il mercato americano con lo sbarco negli Usa attraverso la Chrysler, ha evitato che il tramonto storico della Fiat si trasformasse in una catastrofe. Ha impedito quindi che l’Italia uscisse dal club dei produttori di auto, cioè da quella che nei decenni passati è stata anche un’aristocrazia operaia e sindacale, avanguardia di importanti diritti sociali. Il super-manager improvvisamente scomparso a 66 anni ha saputo guardare oltre l’orizzonte, lo piange Sergio Mattarella, trascurando lo scontro con la Fiom di Landini che a Marchionne contestò il drastico, brutale smantellamento dei diritti del lavoro, il prezzo (salatissimo) per rilanciare un marchio come l’Alfa Romeo da opporre al dominio tedesco, e per paracadutare la Jeep nel mercato cinese. Ma il problema di fondo – ripeteva Marchionne – è il declino della classe media: chi se la compra più, la Panda, se crolla il potere d’acquisto delle famiglie italiane? Interamente neoliberista il credo globale del salvatore provvisorio dell’ex Fiat: al mercato non si comanda, il lavoro sparisce e deve necessariamente emigrare là dove ci sono compratori. L’alternativa sarebbe una sola, la politica: e proprio la scomparsa della politica, fondata sull’investimento pubblico, ha scolpito la grandezza di Marchionne in un Occidente desolatamente solo e impoverito, esposto al ricatto finanziario dello spread – quello che decreta, anche, il tracollo delle vendite di auto in Europa e in Italia.

Coraggioso, spietato, infaticabile. Geniale, nel tornare a scommettere sul made in Italy valorizzando la nostalgia dell’italianità che fu. La morte prematura di Sergio Marchionne, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”, chiude in modo traumatico un pezzo di storianazionale, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima, rileva, non è più solo italiana da anni: Fca, Fiat Chrysler Automobiles, è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit. La scomparsa del manager italo-canadese appare una tappa per molti versi conclusiva di 119 anni di storiadella “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. «Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni», osserva Berti. «L’area “Emea” di Fca – cioè la “vecchia Fiat” – verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa – in questa fase geopolitica – su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari – questa è l’unica certezza – resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli».

Il sistema-Italia, naturalmente – aggiunge Berti – non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori, della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli, o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. «Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici». Il minuto di silenzio osservato in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “fine della Fiat” è un avvenimento civile per il paese. «Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo – scrive sempre Berti – sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’azienda-Italia». Figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo paese, Marchionne «lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea».

Un paese, il nostro, per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”: la ricostruzione postbellica e il boom economico, la nascita della repubblica come democraziadi mercato, la motorizzazione di massa. Relazioni sindacali, dallo Statuto dei Lavoratori alla Marcia dei Quarantamila. In prima linea sempre loro, i metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori, «mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politicae della finanza». Per Berti, il lascito storico di «un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo», appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale: «Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca». Sempre Marchionne, insiste Berti, ha detto all’Italia che la Fiat non era più un potereforte, e che l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più poteri forti: «Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico». Finita l’epoca del posto di lavoro garantito: la crisicome emergenza reale, in un mondo ormai reso irriconoscibile dalla globalizzazione.

«Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti», conclude Berti. «Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui». A rendere assordante il silenzio attorno a Marchionne, il mutismo della politicasottomessa al potereeconomico delle multinazionali finanziarizzate: purtroppo, dichiara Gioele Magaldi a “Colors Radio” in morte del grande manager, non è stato mai possibile condividere nulla, della drastica visione politicadel condottiero della Fiat, tristemente segnata dalla rassegnazione “cosmica” al neoliberismo come sistema senza alternative. Negli anni Ottanta, prima che sull’Europacalasse il grande freddo, la Svezia di Olof Palme salvava aziende traballanti ingaggiando il poterefinanziario dello Stato e coinvolgendo i lavoratori, trasformandoli in azionisti. Morto Palme, assassinato da killer tuttora ignoti (a trent’anni di distanza dall’agguato) non sono soltanto crollate le industrie tradizionali europee, ma anche e soprattutto gli Stati sovrani, dotati di facoltà finanziarie indipendenti dai mercati: così è finita la mitica classe media, che ha smesso di comparare anche le Panda di Marchionne fabbricate da operai messi alla frusta per non perdere il posto di lavoro. Risuonano nel silenzio, oggi, le dure verità che Marchionne ha snocciolato in mezzo alle bugie di una politicaridotta a trascurabile servitrice di poteri economici fortissimi e mercenari, senza più bandiere nazionali.Agganciando il mercato americano con lo sbarco negli Usaattraverso la Chrysler, ha evitato che il tramonto storico della Fiat si trasformasse in una catastrofe. Ha impedito quindi che l’Italia uscisse dal club dei produttori di auto, cioè da quella che nei decenni passati è stata anche un’aristocrazia operaia e sindacale, avanguardia di importanti diritti sociali. Il super-manager improvvisamente scomparso a 66 anni ha saputo guardare oltre l’orizzonte, lo piange Sergio Mattarella, trascurando lo scontro con la Fiom di Landini che a Marchionne contestò il drastico, brutale smantellamento dei diritti del lavoro, il prezzo (salatissimo) per rilanciare un marchio come l’Alfa Romeo da opporre al dominio tedesco, e per paracadutare la Jeep nel mercato cinese. Ma il problema di fondo – ripeteva Marchionne – è il declino della classe media: chi se la compra più, la Panda, se crolla il potered’acquisto delle famiglie italiane? Interamente neoliberista il credo globale del salvatore provvisorio dell’ex Fiat: al mercato non si comanda, il lavoro sparisce e deve necessariamente emigrare là dove ci sono compratori. L’alternativa sarebbe una sola, la politica: e proprio la scomparsa della politica, fondata sull’investimento pubblico, ha scolpito la grandezza di Marchionne in un Occidente desolatamente solo e impoverito, esposto al ricatto finanziario dello spread – quello che decreta, anche, il tracollo delle vendite di auto in Europae in Italia.

Coraggioso, spietato, infaticabile. Geniale, nel tornare a scommettere sul made in Italy valorizzando la nostalgia dell’italianità che fu. La morte prematura di Sergio Marchionne, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”, chiude in modo traumatico un pezzo di storianazionale, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima, rileva, non è più solo italiana da anni: Fca, Fiat Chrysler Automobiles, è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit. La scomparsa del manager italo-canadese appare una tappa per molti versi conclusiva di 119 anni di storiadella “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. «Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni», osserva Berti. «L’area “Emea” di Fca – cioè la “vecchia Fiat” – verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa – in questa fase geopolitica – su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari – questa è l’unica certezza – resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli».

Il sistema-Italia, naturalmente – aggiunge Berti – non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori, della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli, o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. «Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici». Il minuto di silenzio osservato in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “fine della Fiat” è un avvenimento civile per il paese. «Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo – scrive sempre Berti – sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’azienda-Italia». Figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo paese, Marchionne «lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea».

Un paese, il nostro, per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”: la ricostruzione postbellica e il boom economico, la nascita della repubblica come democraziadi mercato, la motorizzazione di massa. Relazioni sindacali, dallo Statuto dei Lavoratori alla Marcia dei Quarantamila. In prima linea sempre loro, i metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori, «mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politicae della finanza». Per Berti, il lascito storico di «un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo», appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale: «Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca». Sempre Marchionne, insiste Berti, ha detto all’Italia che la Fiat non era più un potereforte, e che l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più poteri forti: «Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico». Finita l’epoca del posto di lavoro garantito: la crisicome emergenza reale, in un mondo ormai reso irriconoscibile dalla globalizzazione.

«Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti», conclude Berti. «Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui». A rendere assordante il silenzio attorno a Marchionne, il mutismo della politicasottomessa al potereeconomico delle multinazionali finanziarizzate: purtroppo, dichiara Gioele Magaldi a “Colors Radio” in morte del grande manager, non è stato mai possibile condividere nulla, della drastica visione politicadel condottiero della Fiat, tristemente segnata dalla rassegnazione “cosmica” al neoliberismo come sistema senza alternative. Negli anni Ottanta, prima che sull’Europacalasse il grande freddo, la Svezia di Olof Palme salvava aziende traballanti ingaggiando il poterefinanziario dello Stato e coinvolgendo i lavoratori, trasformandoli in azionisti. Morto Palme, assassinato da killer tuttora ignoti (a trent’anni di distanza dall’agguato) non sono soltanto crollate le industrie tradizionali europee, ma anche e soprattutto gli Stati sovrani, dotati di facoltà finanziarie indipendenti dai mercati: così è finita la mitica classe media, che ha smesso di comparare anche le Panda di Marchionne fabbricate da operai messi alla frusta per non perdere il posto di lavoro. Risuonano nel silenzio, oggi, le dure verità che Marchionne ha snocciolato in mezzo alle bugie di una politicaridotta a trascurabile servitrice di poteri economici fortissimi e mercenari, senza più bandiere nazionali.

Coraggioso, spietato, infaticabile. Geniale, nel tornare a scommettere sul made in Italy valorizzando la nostalgia dell’italianità che fu. La morte prematura di Sergio Marchionne, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”, chiude in modo traumatico un pezzo di storia nazionale, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima, rileva, non è più solo italiana da anni: Fca, Fiat Chrysler Automobiles, è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit. La scomparsa del manager italo-canadese appare una tappa per molti versi conclusiva di 119 anni di storia della “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. «Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni», osserva Berti. «L’area “Emea” di Fca – cioè la “vecchia Fiat” – verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa – in questa fase geopolitica – su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata

al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari – questa è l’unica certezza – resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli».

Il sistema-Italia, naturalmente – aggiunge Berti – non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori, della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli, o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. «Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici». Il minuto di silenzio osservato in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “fine della Fiat” è un avvenimento civile per il paese. «Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo – scrive sempre Berti – sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’azienda-Italia». Figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo paese, Marchionne «lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea».

Un paese, il nostro, per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”: la ricostruzione postbellica e il boom economico, la nascita della repubblica come democrazia di mercato, la motorizzazione di massa. Relazioni sindacali, dallo Statuto dei Lavoratori alla Marcia dei Quarantamila. In prima linea sempre loro, i metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori, «mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politica e della finanza». Per Berti, il lascito storico di «un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo», appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale: «Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca». Sempre Marchionne, insiste Berti, ha detto all’Italia che la Fiat non era più un potere forte, e che l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più poteri forti: «Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico». Finita l’epoca del posto di lavoro garantito: la crisi come emergenza reale, in un mondo ormai reso irriconoscibile dalla globalizzazione.

«Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti», conclude Berti. «Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui». A rendere assordante il silenzio attorno a Marchionne, il mutismo della politicasottomessa al potere economico delle multinazionali finanziarizzate: purtroppo, dichiara Gioele Magaldi a “Colors Radio” in morte del grande manager, non è stato mai possibile condividere nulla, della drastica visione politica del condottiero della Fiat, tristemente segnata dalla rassegnazione “cosmica” al neoliberismo come sistema senza alternative. Negli anni Ottanta, prima che sull’Europa calasse il grande freddo, la Svezia di Olof Palme salvava aziende traballanti ingaggiando il potere finanziario dello Stato e coinvolgendo i lavoratori, trasformandoli in azionisti. Morto Palme, assassinato da killer tuttora ignoti (a trent’anni di distanza dall’agguato) non sono soltanto crollate le industrie tradizionali europee, ma anche e soprattutto gli Stati sovrani, dotati di facoltà finanziarie indipendenti dai mercati: così è finita la mitica classe media, che ha smesso di comparare anche le Panda di Marchionne fabbricate da operai messi alla frusta per non perdere il posto di lavoro. Risuonano nel silenzio, oggi, le dure verità che Marchionne ha snocciolato in mezzo alle bugie di una politica ridotta a trascurabile servitrice di poteri economici fortissimi e mercenari, senza più bandiere nazionali.

 

 

 

fonte:http://www.libreidee.org/2018/07/le-verita-di-marchionne-e-il-silenzio-della-politica-neoliberista/

Lula dalla prigione: «È stato realizzato un golpe per eliminare i diritti dei lavoratori e dei pensionati»

 

Lula

 

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Lula dalla prigione: «È stato realizzato un golpe per eliminare i diritti dei lavoratori e dei pensionati»

L’ex presidente del Brasile, attualmente imprigionato senza prove, ha rilasciato un’intervista al quotidiano cubano Granma.

Granma

Il leader operaio, l’uomo che a suo tempo come presidente del Brasile ha promosso leggi e piani sociali che hanno permesso di liberare dalla povertà circa 30 milioni di brasiliani, al quale tutti i sondaggi indicano come favorito con un ampia maggioranza per vincere le elezioni presidenziali del 2018, Luiz Inácio Lula da Silva, ha rilasciato un’intervista al Granma.

L’intervista non ha potuto essere – per ovvi motivi – ampia come avrebbe voluto il giornalista. Tuttavia, il fatto di essere imprigionato e aver dedicato una parte del suo tempo prezioso per rispondere alle nostre domande dona un valore aggiunto, non solo ai lettori cubani, ma a quelli di tutto il mondo.

Come candidato per la presidenza del Brasile con il maggior sostegno popolare e che tutti i sondaggi indicano come favorito, come valuta questa persecuzione e la reclusione a cui è sottoposto?

È un processo politico, una prigionia politica. Il processo contro di me non indica un crimine, né ci sono prove. Hanno dovuto violare la Costituzione per arrestarmi. Quello che sta diventando sempre più chiaro per la società brasiliana e per il mondo è che vogliono impedirmi di partecipare alle elezioni del 2018. Il colpo di Stato del 2016, con la rimozione di un presidente eletto, indica che non ammettono che il popolo possa votare chi preferisce.

La prigione è stata, per molti leader imprigionati per il semplice fatto di combattere per lil popolo, un luogo di riflessione e organizzazione di idee per continuare la lotta. Nel suo caso, come affronta questi giorni, dal momento che non è in grado di entrare in contatto con le persone?

Sto leggendo e pensando molto, è un momento di grande riflessione sul Brasile e soprattutto su quello che è successo negli ultimi tempi. Sono in pace con la mia coscienza e dubito che tutti quelli che mentono contro di me dormano con la tranquillità con cui dormo io.

Certo che mi piacerebbe avere la libertà e fare ciò che ho fatto per tutta la vita: il dialogo con il popolo. Ma sono consapevole che l’ingiustizia che viene commessa contro di me è anche un’ingiustizia nei confronti del popolo brasiliano.

Quanto è importante sapere che in tutti gli stati brasiliani ci sono migliaia di connazionali in favore della sua liberazione

La relazione che ho costruito nel corso dei decenni con il popolo brasiliano, con le entità dei movimenti sociali, è una relazione molto affidabile ed è qualcosa che apprezzo molto, perché in tutta la mia carriera politica ho sempre insistito nel non tradire mai quella fiducia .

E non tradirei questa fiducia per nessun denaro, per un appartamento, per niente. È stato così prima di essere presidente, durante la presidenza e dopo. Quindi, per me, quella solidarietà è qualcosa che mi emoziona e mi incoraggia a rimanere forte.

Come definire il concetto di democrazia imposto come modello dall’oligarchia per scartare i leader della sinistra e far sì che non giungano al potere?

L’America Latina ha vissuto negli ultimi decenni il suo momento più forte di democrazia e conquiste sociali. Ma di recente le élite della regione stanno cercando di imporre un modello in cui il gioco democratico è valido solo quando vincono, il che, ovviamente, non è democrazia. Quindi è un tentativo di democrazia senza popolo. Quando non viene fuori quel che vogliono, cambiano le regole del gioco per avvantaggiare la visione di una piccola minoranza. Questo è molto grave. E lo stiamo vedendo, non solo in America Latina, ma in tutto il mondo, un aumento dell’intolleranza e della persecuzione politica. È successo in Brasile, Argentina, Ecuador e altri paesi.

Quale messaggio invia a tutti coloro che, in Brasile e in tutto il mondo, sono solidali con lei e chiedono il suo rilascio immediato

Sono molto grato per tutta la solidarietà. È necessario essere solidali con il popolo brasiliano. Aumenta la disoccupazione, più di un milione di famiglie sono tornate a cucinare con la legna per l’aumento del prezzo del gas da cucina, milioni di persone che erano usciti dalla miseria non hanno più da mangiare, e anche la classe media ha perso impiego e reddito.

Il Brasile era su una traiettoria di decenni di progresso democratico, di partecipazione politica e insieme ad esso progressi sociali, che sono aumentati con i governi del PT, che ha vinto quattro elezioni di fila.

Non hanno compiuto un golpe solo contro il PT. Non mi hanno arrestato solo per fare del male a Lula. Lo hanno fatto contro un modello di sviluppo nazionale e inclusione sociale. È stato realizzato un golpe per eliminare i diritti dei lavoratori e dei pensionati, conquistati negli ultimi 60 anni. E le persone lo percepiscono. Avremo bisogno di molta organizzazione per tornare ad avere un governo popolare, con sovranità, inclusione sociale e sviluppo economico in Brasile.

(Traduzione de l’AntiDiplomatico)

tratto da: http://www.politicamentescorretto.info/2018/06/19/lula-dalla-prigione-e-stato-realizzato-un-golpe-per-eliminare-i-diritti-dei-lavoratori-e-dei-pensionati/

 

Parla un ex soldato Israeliano: “quando ci dissero di aprire il fuoco sulla gente…”

 

Israeliano

 

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Parla un ex soldato Israeliano: “quando ci dissero di aprire il fuoco sulla gente…”

 

“Sei anni fa ero sul confine con Gaza. Gli stessi dimostranti, le stesse proteste. Anche gli ordini di aprire il fuoco contro assembramenti di persone sono rimasti gli stessi”. Un ex soldato israeliano, oggi attivista di Combattants for Peace, racconta di quando gli ordinarono di sparare alle gambe dei “principali sobillatori” tra le migliaia di manifestanti palestinesi. Come riconoscerli? “Come può essere legittimo un ordine di aprire il fuoco contro un assembramento di persone?” chiese al vice comandante della sua compagnia sei anni fa. Non ha mai avuto risposta. Ogni anno è nuovo, spiega, sul confine con Gaza arrivano nuovi comandanti e nuovi soldati – carne fresca e comandanti con la memoria corta – entusiasti di avere finalmente l’opportunità di poter “passare all’azione”

Sei anni fa ero là. Era venerdì 30 marzo 2012, “Giorno della Terra” sul confine con Gaza. Le manifestazioni iniziarono dopo la preghiera di mezzogiorno. Un gruppo di cecchini aveva preso posizione la notte precedente, mentre il resto dell’unità era schierato con armi antisommossa, vicino alla barriera. L’ordine era chiaro: se un palestinese avesse superato la zona di sicurezza – 300 metri dalla barriera all’interno della Striscia di Gaza – si sarebbe dovuto sparare alle gambe dei “principali sobillatori”.

Questo ordine, che non ha mai definito esattamente come un soldato dovrebbe identificare, isolare e sparare a un “principale sobillatore” tra decine di migliaia di manifestanti, all’epoca mi turbò. Ha continuato a turbarmi lo scorso fine settimana, dopo che cecchini dell’esercito israeliano hanno aperto il fuoco contro dimostranti palestinesi sul confine di Gaza. “Come può essere legittimo un ordine di aprire il fuoco contro un assembramento di persone?” chiesi al vice comandante della mia compagnia sei anni fa. Devo ancora avere una risposta.

Cosa sarebbe successo se quei soldati avessero passato tutto il loro servizio militare sul fronte di Gaza? Come soldati che avevano appena terminato la formazione, il “Giorno della Terra” era l’opportunità ideale per vedere qualche “azione”. Lo stesso può probabilmente dirsi dei soldati che venerdì hanno ucciso almeno 16 manifestanti. Anche i loro comandanti molto probabilmente erano eccitati.

Sono certo che se fossimo stati chiamati a fare lo stesso per anni, qualcosa sarebbe cambiato. Dopo tutto questa situazione – ogni anno, nello stesso momento, nello stesso posto, con un’alta probabilità che un palestinese, non un israeliano, perda la vita – ha un senso solo la prima volta, soprattutto agli occhi di uno sbarbatello diciottenne.

Ma qualunque soldato che fosse tornato al confine con Gaza ogni anno, che avesse visto cadere al suolo un palestinese dopo l’altro, riuscirebbe a immaginare una soluzione migliore della situazione. Qualunque soldato che fosse tornato a vedere gli stessi manifestanti avvicinarsi alla barriera – che, più di ogni altra cosa, significa che la morte possa non essere un’alternativa così cattiva – capisce che ci deve essere un’altra soluzione.

Uno dei miei amici ha ucciso un manifestante sul confine con Gaza. Io faccio parte di un gruppo che porta sulle proprie spalle questa morte.L’unica differenza tra me e il mio amico è stata il caso. Se fossi stato mandato al corso per tiratori scelti piuttosto che a quello della sanità, sarei stato quello che ha sparato. Tutto il gruppo espresse il proprio appoggio all’operazione, e il sangue – nonostante il fatto che tutti siamo stati congedati dall’esercito – è ancora sulle nostre mani. Dubito che qualcun altro oltre a me se ne ricordi.

Ogni anno è nuovo, e sul confine con Gaza arrivano nuovi comandanti e nuovi soldati – carne fresca e comandanti con la memoria corta.

I soldati hanno un privilegio. Ogni tre o sei mesi si spostano in un’altra zona. Vedono solo una piccola parte della disperazione di Gaza, ma prima hanno anche la possibilità di elaborare o riflettere su questo, di andare a vedere la disperazione a Hebron, Ramallah e Nablus.

Il soldato picchia alla porta della famiglia Abu Awad in piena notte solo una volta. Spara ai manifestanti del “Giorno della Terra” solo una volta. Compie arresti per qualche mese, dopodiché è sostituito da un altro soldato. Poi è congedato.

Gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania stanno celebrando 50 anni di occupazione. Ma non saranno sostituiti, e nessuno sta arrivando per congedarli o aiutarli a portarne il peso. Per noi soldati tutto è temporaneo. Per loro questo è permanente.

* Shai Eluk è un ex-soldato della brigata Nahal e un attivista di “Combattants for Peace” [“Combattenti per la pace”, Ong israelo-palestinese che promuove forme non violente di lotta contro l’occupazione, ndt.]. Quest’articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [“Chiamata Locale”, sito web d’informazione in ebraico].

Fonte: https://972mag.com

(traduzione in italiano per zeitun di Amedeo Rossi)