Lega, il consigliere toscano che voleva “mettere le donne in vetrina”: “Se una donna non ha un mestiere, un’arte o un titolo di studio, che deve fare? Usa quello che ha” …D’altra parte se un coglione non ha un cervello che deve fare? Diventare consigliere leghista…!

 

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Lega, il consigliere toscano che voleva “mettere le donne in vetrina”: “Se una donna non ha un mestiere, un’arte o un titolo di studio, che deve fare? Usa quello che ha” …D’altra parte se un coglione non ha un cervello che deve fare? Diventare consigliere leghista…!

Roberto Salvini ha tre cose in comune con il più famoso Matteo: il cognome, l’appartenenza alla Lega Nord e …le uscite a vuoto…

Giusto per rinfrescarvi la memoria:

I musulmani? Perché non lasciarli chiusi dentro una moschea con una bacinella di zolfo accesa?

Favorevole alla chiusura delle moschee con tutti loro dentro.

(R. Salvini)

“Se un mestiere non ce l’hai, un’arte non ce l’hai in mano, un titolo di studio nemmeno, l’unico modo per lavorare qual è? Vendi una parte del corpo”

Perché la Lega toscana mi ha sospeso? Non lo so nemmeno io. Di certo non può chiedere le mie dimissioni. Pentirmi di quello che ho detto? Non ho detto proprio niente di particolare“. Risponde così a Giuseppe Cruciani, nel corso de “La Zanzara”Roberto Salvini, il consigliere regionale della Lega che giorni fa, durante una riunione in tema di prostituzione nella Commissione sviluppo economico, ha proposto di “mettere le donne. in vetrina” al fine di promuovere il turismo in Toscana.

Roberto Salvini ribadisce il suo assunto e non si pente assolutamente: “Il turismo va visto come una fonte che porta soldi. In quella riunione, ho solo detto che altri Paesi nostri concorrenti cercano di creare un punto di attrazione per far spendere i turisti. E un esempio è dato dalle donne in vetrina. In Germania e in Olanda fanno così. Anche in Svizzera e in Austria c’è un altro tipo di economia che rilancia il turismo”.

“Sì, c’è la prostituzione legale“, osserva Cruciani.

“‘Orca puttana, ecco, e ci fanno una montagna di soldi – risponde Roberto Salvini – Qui in Italia, invece, non si può fare. Ma non si può copiare da questi che sono un pochino più avanti di noi per migliorare le nostre condizioni?”.

Il politico poi spiega un’altra frase a lui contestata (“Le donne usano lo strumento che hanno”): “Da che mondo è mondo, cioè da quando c’erano i lupanari in epoca romana, veniva utilizzato questo strumento. Oggi questo strumento viene utilizzato con più facilità nei Paesi dell’Est, perché sono più portati a usarlo così. Questo accade anche in Cina, in Thailandia, insomma da tutte le parti. Quello strumento non è considerato un peccato, come da noi. In altri periodi della storia, come ad esempio subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando la gente moriva di fame, anche le nostre donne hanno utilizzato quello strumento. E lo facevano volontariamente, non è che venivano costrette o sequestrate dall’esercito”.

Il consigliere regionale ha poi una querelle con David Parenzo e Alberto Gottardo. E paragona le prostitute ai lavoratori stagionali che raccolgono i pomodori in Toscana: “ICome mai da aprile a settembre quelle dei Paesi dell’Est si sistemano tutte lungo la strada? Finita la stagione del mare, spariscono. E questo succede da anni. E’ un modo per guadagnarsi la vita. Se un mestiere non ce l’hai, un’arte non ce l’hai in mano, un titolo di studio nemmeno, l’unico modo per lavorare qual è? Vendi una parte del corpo“.

 

Tratto da: https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/09/22/lega-il-consigliere-toscano-sospeso-se-una-donna-non-ha-un-mestiere-unarte-o-un-titolo-di-studio-che-deve-fare-usa-quello-che-ha/5469802/?fbclid=IwAR0Sgc3zeWZuB2gKcCDzzbTNSvHAjFu6rom8at40v9MDej5IIk5L8BWBEwQ

Papa Luciani: “il mio primo dovere è liberare la Chiesa dalla massoneria”… e infatti l’hanno ammazzato!

Papa Luciani

 

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Papa Luciani: “il mio primo dovere è liberare la Chiesa dalla massoneria”… e infatti l’hanno ammazzato!

Papa Luciani voleva destinare il 90% delle ricchezza al resto del mondo per case, scuole, ospedali ed il restante 10% da far gestire allo Stato Italiano per i bisogni della Chiesa.
Ma i massoni all’interno del Vaticano lo hanno eliminato

Papa Luciani era intenzionato a fare una vera e propria rivoluzione all’interno del Vaticano. Siccome desiderava tanto che la Chiesa fosse più povera, aveva preparato un progetto per ridimensionare la ricchezza del Vaticano e aveva studiato un piano per aiutare le famiglie povere del mondo, innanzitutto quelle italiane. Ovviamente, tutto ciò si doveva fare per mezzo della I.O.R., la Banca del Vaticano, che sarebbe stata data in gestione a persone laiche secondo l’insegnamento di Gesù: “Dare a Cesare quel che è di Cesare”. Papa Luciani non sopportava l’idea che Cardinali e Vescovi gestissero queste enormi ricchezze e, quindi, la sua prima intenzione era quella di rimuovere proprio quei Cardinali che usavano e manipolavano il Vescovo Marcinkus e che sfruttavano non solo la sua capacità di gestire lo I.O.R., ma anche e soprattutto i suoi contatti e le sue potenti amicizie a livello europeo ed internazionale. Se Papa Luciani non fosse morto, da lì a pochi giorni sarebbero stati rimossi e sostituiti immediatamente sia Marcinkus che altri quattro Cardinali e forse anche, se non erro, il Segretario di Stato o il Segretario del Papa. Al loro posto sarebbero subentrati altrettanti Vescovi e Cardinali di massima fiducia. Costoro, in gran segreto, avevano preparato insieme a Papa Luciani un piano ben preciso. Dopo essersi inseriti ognuno al posto giusto, si sarebbero attivati subito per distribuire il 90% delle ricchezze del Vaticano in diverse parti del mondo, in modo tale da costruire case, scuole, ospedali etc… Il 10% delle rimanenti ricchezze sarebbe stato affidato e fatto gestire allo Stato Italiano per conto e in base ai bisogni della Chiesa.
Insomma, voleva fare una vera e propria rivoluzione e cogliere tutti di sorpresa!
Purtroppo, il Povero Papa non ha potuto portare a termine il proprio piano, in quanto uno dei Cardinali di fiducia lo ha tradito ed è andato a raccontare tutto a Marcinkus e agli altri Cardinali! Costoro, appena vennero a conoscenza della cosa, si attivarono immediatamente e con la loro diabolica intelligenza riuscirono, senza lasciare nessuna traccia, ad uccidere il loro Papa con una grande quantità di gocce di calmante, grazie anche all’aiuto del suo medico personale”.

I quattro cardinali (tutti membri dell’Ordine del Santo Sepolcro che avevano un filo diretto con Albano notaio personale di Andreotti e di alcuni boss mafiosi) :

1-Il Cardinale Macchi (massone) , uno dei prediletti di Papa Paolo VI, che l’aveva anche ordinato Suo Segretario. Faceva parte dei cavalieri del Santo Sepolcro, proprio come il Vescovo Marcinkus.

2-Cardinal Villot (massone)

3-Cardinale Benelli.(massone)

4-Cardinale Gianvio,

Fonte :

http://vincenzocalcara.blogspot.it/2011/02/l-attentato-papa-wojtyla-e-la-morte-di.html

Cardinale Benelli massone :

http://www.agerecontra.it/public/press20/?p=13908

Cardinale Villot e Macchi massoni :

http://www.profeti.net/Studi/Massoneria/Andreotti-Pecorelli.htm

http://nomassoneriamacerata.blogspot.it/2014/12/papa-luciani-il-mio-primo-dovere-e.html

Lo sfogo di Piercamillo Davigo: “A 25 anni da Mani Pulite, l’Italia è ancora più corrotta… il codice penale è ridotto ad uno spaventapasseri e in cella vanno solo gli sciocchi.”

 

Piercamillo Davigo

 

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Lo sfogo di Piercamillo Davigo: “A 25 anni da Mani Pulite, l’Italia è ancora più corrotta… il codice penale è ridotto ad uno spaventapasseri e in cella vanno solo gli sciocchi.”

Il leader dell’Anm: il codice penale è uno spaventapasseri, in cella vanno solo gli sciocchi. «Il giudice è messo nella condizione di dover scegliere tra rispettare la legge rinunciando a fare giustizia o tentare di fare giustizia forzando la legge»

Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo (foto sopra), ha partecipato ad un forum al Corriere della Sera con il vice direttore Giampaolo Tucci e con i giornalisti Marco Ascione, Giovanni Bianconi, Luigi Ferrarella, Mario Gerevini, Giuseppe Guastella
e Fiorenza Sarzanini. Argomento del dibattito, che si è svolto nella redazione di via Solferino a Milano, il pianeta giustizia a 25 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani pulite e in occasione dell’uscita del libro «Il sistema della corruzione» (Editori Laterza) scritto dall’ex pm del pool Mani pulite, ora presidente di sezione in Cassazione.

A 25 anni da Mani pulite, in Italia è cambiato poco o nulla?
«È drammatico quanto poco sia cambiata la situazione e quanto sulla corruzione peggiori la deriva dell’Italia nel panorama internazionale».

Un Paese corrotto?
«A livelli diversi, finalità e modalità diverse. È un Paese che sta morendo. C’è sfiducia, la gente non va più a votare, espatria».

Ci vuole una rivoluzione culturale?
«Bisogna cominciare dalla scuola».

Migliore l’Italia degli anni di Mani pulite?
«L’effetto domino non fu innescato da un sussulto di coscienza civile, ma dal fatto che erano finiti i soldi».

Lei sostiene che per la corruzione ci vorrebbe un doppio binario, come per la mafia.
«Bisognerebbe introdurre alcune delle norme che valgono per i mafiosi».

Ad esempio?
«Un sistema premiale forte e serio e le operazioni sotto copertura».

La corruzione spesso è alimentata da fondi neri esteri, sempre più difficili da aggredire.
«È un problema internazionale. L’assistenza giudiziaria internazionale è un relitto ottocentesco che richiede tempi talmente lunghi, incompatibili con la durata di un processo».

Corruzione «Simonia secolarizzata». Cioè?
«Nella Chiesa c’è il sacerdote che vende cose sacre, nello stato c’è il funzionario pubblico che vende le cose che per lui dovrebbero essere sacre, perché ha giurato fedeltà alla Repubblica».

Il pool Mani pulite ha fatto errori?
«Secondo me, no. Ha fatto quello che poteva. Se non ci avessero cambiato le leggi a partita in corso, saremmo andati avanti. Molte leggi possono avere su il nome dell’imputato».

Forse fino a un’epoca determinata.
«Sì, poi è cambiata la maggioranza e da allora le fanno più sofisticate. Ad esempio, la legge Severino non contrasta la corruzione ma è stata gabellata per una legge che la contrasta».

Monti, il premier di allora, non era sospettabile di essere vicino ai corrotti.
«Quella legge l’ha fatta il Parlamento. Ricordo che il ministro della Giustizia rispose alle obiezioni: “Era il massimo che si potesse fare in quel momento con quelle Camere”».

I vostri rappresentanti dissero che era una buona legge, come nel caso di quella sull’autoriciclaggio. C’è anche un problema vostro?
«Certo che c’è anche un problema della magistratura, ma cerchiamo di capirci, gioca anche molto il modo di fare leggi dovuto all’incompetenza della pubblica amministrazione che, purtroppo, non è più quella di cento fa, fatta di funzionari competenti e con il senso dello Stato. Quando ho incontrato la prima volta il ministro Orlando, gli ho fatto presente che la depenalizzazione che avevano fatto non serviva a niente perché toglieva solo le briciole ma alcuni reati depenalizzati avevano l’effetto non di ridurre il carico di lavoro, ma di aumentarlo. Mi rispose che l’Anm aveva dato parere favorevole, io gli dissi che non sarebbe accaduto più perché avevamo costituito delle commissioni interne».

Ha un giudizio molto negativo sui politici.
«Ce ne sono anche perbene, ma i meccanismi talvolta favoriscono il malaffare».

Cosa ne pensa di chi, come i 5 Stelle, ha introdotto codici interni legati alle inchieste?
«La politica non deve agganciarsi ad atti formali nel giudizio, ma a una valutazione autonoma dei fatti. Si può cacciare uno che è innocente o tenerlo se è colpevole. Sono due valutazione diverse, una è politica, l’altra di giustizia».

Non si introduce così un’inversione del principio di non colpevolezza?
«Non è così. Molte volte non c’è bisogno di aspettare la sentenza per far scattare la responsabilità politica, ma in questo Paese non avviene mai, neanche di fronte ai casi evidenti».

Prendiamo il caso di Roma e della sindaca Raggi, è un caso controverso.
«Premesso che non parlo dei procedimenti in corso, in qualche caso la politica può dire “aspetto di vedere come va finire” o “mi sono fatto un’idea”, ma non può dire sempre “aspettiamo le sentenze”. Significa caricare sulla decisione del giudice la selezione della classe politica».

I politici dovrebbero darsi codici di comportamento?
«Secondo me sì. Basta anche il buonsenso».

Non c’è il rischio di finire nel moralismo?
«Se mi mandano in udienza con un collega che si è saputo che ruba, io non vado perché chi ci vede pensa che siamo uguali. Io non rubo».

L’Anm accoglie pm e giudici. Non le sembra forte dire che il codice di procedura penale è fatto per farla fare franca ai farabutti?
«Il nostro giudice è vincolato da un sistema di inutilizzabilità sconfortante perché una prova acquisita, valida nei confronti di un imputato, diventa inutilizzabile per un altro se è stata acquisita a termini delle indagini preliminari scaduti. Il giudice è messo nella condizione di dover scegliere tra rispettare la legge rinunciando a fare giustizia o tentare di fare giustizia forzando la legge. È inaccettabile. E allora è normale che uno venga arrestato e poi assolto. Se non volevano questo non dovevano scrive il codice così, oppure dovevano dirci di non arrestare più».

Riporta una frase del generale Dalla Chiesa che diceva: che c’è chi parla di manette facili e chi di ingiustizia che assolve. Ingiustizia?
«L’ingiustizia può essere nella legge oltre che negli uomini, se la legge è contraria al senso comune di giustizia, e molte delle norme che applichiamo lo sono. Ora la minaccia del carcere non è credibile perché il codice penale è uno spaventapasseri, da lontano fa paura, quando ci si avvicina appare innocuo. In galera ci va chi è così sciocco da farsi arrestare in flagranza e gli appartenenti alla criminalità organizzata. Gli altri in media ci vanno di meno».

Lei è un giudice, un suo imputato potrebbe avere difficoltà leggendo: «Ne prendiamo pochi e quando li prendiamo vengono condannati a pene esigue che non vengono fatte scontare».
«Nel nostro sistema il rispetto delle regole formali, che il più delle volte non hanno nessuna utilità, vanifica la ricostruzione storica dei fatti. A un certo punto ho lasciato la Procura per fare il giudice in appello, volevo capire come mai le sentenze venissero quasi sempre riformate. Ho visto che era vero quello che mi aveva insegnato un anziano magistrato che diceva che i giudici del tribunale sono come i padri, severi quando è necessario, quelli della Corte d’appello come i nonni, di regola rovinano i nipoti. Dato che su cento ricorsi in appello, 98 sono degli imputati condannati, si cominciano a vedere i problemi solo con una certa ottica e spesso è impossibile resistere alla tentazione di ridurre le pene. Bisognerebbe cambiare anche l’appello».

Solo carcere? E l’esecuzione esterna?
«Dipende dai reati e dal tipo degli imputati».

E stato mai tentato di forzare le regole?
«No. Le ho sempre rispettate, e anche quando ero convinto che l’imputato fosse colpevole l’ho assolto se la prova era inutilizzabile, pensando che era un mascalzone che l’aveva fatta franca».

Un sistema che protegge l’impunità?
«In un sistema ben ordinato, un innocente non deve essere assolto, non deve neppure andare a giudizio perché per lui il processo è una tragedia. I filtri dovrebbero essere all’inizio».

Qual è la priorità?
«La depenalizzazione. Il problema della giustizia è il numero dei processi. O abbiamo il coraggio di dire che va drasticamente ridotto o non se ne uscirà mai. Nel penale basta intervenire con una massiccia depenalizzazione e introdurre meccanismi di deterrenza delle impugnazioni, quelli che ci sono, sono risibili».

La politica invece va su una strada diversa e introduce nuovi reati come l’omicidio stradale.
«Cose prive di senso. Per l’omicidio stradale la pena è talmente alta che tra un po’ a qualcuno converrà dire che voleva ammazzare per rispondere di omicidio volontario».

Che ne dice dei suoi colleghi dell’Anm dell’Emilia Romagna dopo il comunicato sulla decisione del Tribunale del riesame?
«Non lo conosco, non posso sapere tutto».

È stata trovata la decisione di un collegio prima dell’udienza. L’Anm locale ha detto che poi altri giudici hanno confermato la decisione dei primi che si erano astenuti…
«Bisogna distinguere l’ipocrisia dal malcostume. Un giudice diligente non potendo ricordare a memoria decine di processi al giorno, si appunta lo studio che fa. L’ho sempre fatto, ma non firmo gli appunti e non li metto nel fascicolo».

E allora, a cosa serve la discussione?
«Si può cambiare la decisione».

Lei lo fa?
«Quando un avvocato dice cose che non avevo notato, raro, o che mi convincono, cambio opinione perché solo gli imbecilli non lo fanno».

 

 

fonte: http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/17_febbraio_12/piercamillo-davigo-a-25-anni-mani-pulite-l-italia-ancora-piu-corrotta-82184580-f166-11e6-b184-a53bdb4964d9.shtml

“Gli odiatori… che si fottano” – Fiorella Mannoia scrive ad Emma Marrome che, dopo l’annuncio della malattia, era stata travolta dalla valanga di insulti dagli odiatori di rete di Salvini…

 

Fiorella Mannoia

 

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“Gli odiatori… che si fottano” – Fiorella Mannoia scrive ad Emma Marrome che, dopo l’annuncio della malattia, era stata travolta dalla valanga di insulti dagli odiatori di rete di Salvini…

Mannoia scrive ad Emma: “Odiatori si fottano”

Io aspetto solo che Emma risolva i suoi problemi di salute e torni sui palchi a cantare, sorridere e a farlo con la libertà che ha sempre avuto. Gli odiatori…che si fottano! Forza amica mia!

E’ il cinguettio della cantante Fiorella Mannoia rivolto ad Emma Marrone, dopo che l’artista ha informato i fan sulla necessità di una pausa per risolvere i suoi problemi di sapute e gli insulti degli haters di Salvini.

Ricordiamo:

Emma Marrone malata, i vergognosi insulti sui social: “Almeno ora non parla più di Salvini”

Gli insulti social a Emma Marrone dopo l’annuncio della malattia

Nel mondo incontrollato dei social ci si può imbattere in dibattiti governati dall’odio e dal risentimento verso chi ha opinioni diverse dalla propria. È il caso degli insulti a Emma Marrone.

Dopo l’annuncio della malattia nella mattinata di venerdì, Emma Marrone ha ricevuto migliaia di messaggi d’affetto da parte dei fan e dei colleghi. Ma c’è anche chi ha preso di mira la cantante dopo la comunicazione del suo stop per motivi di salute. Alcuni utenti nascosti dietro lo schermo di un computer hanno iniziato a diffondere insulti e commenti negativi verso Emma.

I problemi di salute che hanno costretto Emma Marrone a prendersi una pausa dalla musica hanno fatto preoccupare fan e amici anche per il passato della cantante. Circa 10 anni fa, infatti, Emma Marrone riuscì a sconfiggere un tumore alle ovaie e all’utero. Il rischio è quindi quello di una recidiva. Ma nemmeno la malattia è in grado di frenare l’odio sui social.

La vicenda che è stata tirata in ballo è quella relativa al messaggio politico lanciato dalla cantante sul palco di Empoli lo scorso febbraio. La frase “Aprite i porti” pronunciata dalla Marrone durante il concerto in cui si è apertamente schierata contro la linea adottata da Matteo Salvini sulla gestione dei migranti aveva scatenato la reazione del consigliere della Lega Massimiliano Galli.

Il consigliere invitava Emma Marrone “ad aprile le cosce facendoti pagare“, anziché pensare ai porti. Oggi gli insulti verso Emma Marrone sono altri.

“Emma Marrone… impegnata a combattere la malattia.. forse ora non avrà tepo per insultare Salvini…”, scrive un utente su Instagram. “È ritornato? Ognuno ha quello che si merita CAMIONISTA”, ribatte un altro.

 “È inutile che adesso facciate tutti i virtuosi e difendiate l’indifendibile. Questa stupida ragazzotta ha creduto di mettersi in vista insultando Salvini nei suoi concerti, probabilmente si è attirata addosso gli accidenti di tante persone e qualche accidente è andato a segno… ben le sta. Nella prossima vita impara a tacere e a non fare politica, che non è il suo mestiere. Che sia malata non me ne frega proprio niente, anzi, ripeto, ben le sta”, è uno dei commenti che si legge sui social. Messaggi vergognosi (vengono i brividi solo a trascriverli, ndr).

Ecco a Voi l’austerità imposta dall’Unione Europea: in Grecia chemioterapia sospesa a tempo indeterminato… E non dimentichiamo quando Monti diceva: “La Grecia dimostra il successo dell’Euro”

 

Grecia

 

 

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Ecco a Voi l’austerità imposta dall’Unione Europea: in Grecia chemioterapia sospesa a tempo indeterminato… E non dimentichiamo quando Monti diceva: “La Grecia dimostra il successo dell’Euro”

In Grecia chemioterapia sospesa a tempo indeterminato

Succede nella clinica di Attiko, ad Atene, che giovedì ha avvisato “telefonicamente” i pazienti oncologici che le loro cure, già programmate, sono sospese a tempo indeterminato.
Ufficialmente per problemi di “magazzino”, ma qualche medico parla esplicitamente di mancanza di fondi.

Senza la possibilità di potersi recare in altri ospedali per la terapia, ai malati di tumore non resta che aspettare, visto che non gli è stato neanche comunicato quando i farmaci torneranno disponibili.

Attendere, per cure fondamentali per la sopravvivenza.

E pregare di non morire nel frattempo.
Perché ormai per sopravvivere ai tempi dell’austerità dell’Ue è solo questione di miracoli.
PER NON DIMENTICARE:

Quando Monti diceva: “La Grecia dimostra il successo dell’Euro”

Ospite di Gad Lerner a “L’infedele”, Mario Monti affermava: “La Grecia è un caso scuola di come la moneta unica l’abbia aiutata a trasformarsi”

Era il 29 settembre del 2011, nel pieno di quella tempesta finanziaria che aveva già travolto la Grecia e sembrava dover far colare a picco anche l’Italia.

Silvio Berlusconi, allora a capo del suo IV governo, avrebbe annunciato le dimissioni dopo un paio di mesi, ma il rettore della Bocconi già scaldava i motori in attesa di una nomina che sarebbe arrivata il 16 novembre. In quei mesi che precedevano la sua salita a Palazzo Chigi, Mario Monti andò ospite di Gad Lerner alla trasmissione “L’infedele” su La7 per parlare della situazione dell’euro e della Grecia.

Il giudizio del professore sulla situazione greca lascia sbalorditi. Soprattutto per quanto era lontano dalla realtà dei fatti, nonostante il senatore a vita fosse da tutti considerato l’uomo in grado di traghettare fuori dalla crisi l’Italia, forte delle conoscenze in campo economico e comunitario che aveva potuto accumulare nella sua lunga carriera accademica.

Evidentemente, il professore non aveva ben chiaro quello che stava succedendo. Nel suo intervento a “L’infedele” disse: “Stiamo assistendo al grande successo dell’euro, e qual è la manifestazione più concreta del grande successo dell’euro? La Grecia”. Atene colava a picco e già si annusava la crisi per tutta l’eurozona, ma Monti era certo che l’esempio della Grecia fosse da seguire. Ecco spiegato il motivo: “Perché l’euro – aggiunse il professore – è stato creato per convincere la Germania che attraverso l’euro e i suoi vincoli la cultura della stabilità tedesca si sarebbe diffusa a tutti. Quale caso di scuola si sarebbe potuto immaginare milgiore di una Grecia che è costretta a dare peso alla cultura della stabilità e sta trasformando se stessa?”.

Una trasformazione, quella immaginata da Monti, che l’avrebbe portata in salvo. Invece, circa quattro anni dopo, le previsioni del professore si rivelano sbagliate: l’euro è a rischio crollo e la Grecia ha chiuso la Borsa e le banche. Non c’è che dire, professore: previsione azzeccata.

25 settembre 2005 – Ucciso a botte dalla polizia, Federico Aldrovandi, morto a 18 anni…!

 

Aldrovandi

 

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25 settembre 2005 – Ucciso a botte dalla polizia, Federico Aldrovandi, morto a 18 anni…!

Federico Aldrovandi, studente ferrarese di 18 anni, è morto il 25 settembre 2005. Federico è morto per le percosse ricevute in strada, dove gli agenti avrebbero risposto a una presunta aggressione da parte del giovane.

Il 25 settembre del 2005 il ragazzo di 18 anni morì dopo essere stato fermato dalla polizia. Quattro poliziotti, Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri sono stati condannati a 3 anni e 6 mesi di reclusione, per “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”.

Era l’alba del 25 settembre 2005 quando moriva a 18 anni in seguito ai colpi ricevuti durante un controllo di polizia. Oggi ne avrebbe poco più di una trentina 30, tornava a casa in via dell’Ippodromo a Ferrara, da solo ma prima aveva passato la serata con alcuni amici. Aveva una felpa con un cappuccio, di quelle che usano gli adolescenti un po’ per mimetizzarsi, per essere uguali agli altri e non farsi notare. Ma quel giorno non bastò quella felpa per tornare sano e salvo nella sua cameretta.

Federico incontrò i diavoli. Quattro agenti di polizia, arrivati per la telefonata di una residente che si lamenta per gli schiamazzi. Secondo quanto si legge nella sentenza della Corte d’appello “il ragazzo era in evidente agitazione psicomotoria, calciò a vuoto contro gli agenti che invece del dialogo, delle prime cure sanitarie, dell’eventuale identificazione, seguirono una via violenta. Percosse anche quando lui gridava «Aiuto, basta»”.

Ha smesso di respirare alle 6 e 15. Cinquantaquattro lesioni e un decesso per asfissia da compressione toracica.

Sono passati tanti anni. I responsabili sono Enzo Pontani, Luca Pollastri, Paolo Forlani e Monica Segatto, che hanno invocato la legittima difesa, sono stati tutti condannati per eccesso colposo in omicidio colposo in via definitiva, a 3 anni e 6 mesi di reclusione, pena in parte coperta dall’indulto. La sentenza della Cassazione è del 2012. Per loro non c’è stata l’espulsione dal corpo di polizia.

Restano Patrizia e Lino, i genitori di Federico, il loro dolore si è fatto lotta per la verità, per la giustizia.

Restiamo noi che crediamo nelle divise pulite e nelle forze dell’ordine che proteggono i cittadini.

Resta la sua faccia con quella corona di sangue che ci ricorda che non dovremmo dimenticare finché giustizia non sarà fatta.

Ogni generazione ha il suo Cristo in croce con la sua corona di spine.

 

“Cento minuti in carcere con Lula” – Assolutamente da leggere…!

 

 

Lula

 

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“Cento minuti in carcere con Lula”

di Ignacio Ramonet *

All’ex presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, imprigionato nella città di Curitiba, nel sud del paese, sono consentite solo due visite alla settimana. Un’ora. Il giovedì pomeriggio, dalle quattro alle cinque. Dobbiamo aspettare il nostro turno. E la lista di coloro che desiderano vederlo è lunga… Ma oggi, 12 settembre, è il momento di Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace, e il mio.

Lula è in carcere, scontando una condanna di 12 anni e 1 mese “per corruzione passiva e riciclaggio di denaro”, ma non è stato condannato definitivamente (può ancora appellarsi) e, soprattutto, i suoi accusatori non sono stati in grado di provare la sua colpevolezza. Era tutta una farsa. Come confermano le devastanti rivelazioni di The Intercept, una rivista di ricerca online gestita da Glenn Greenwald. Lula è stato vittima della più assoluta arbitrarietà. Un complotto giudiziario totalmente manipolato, destinato a rovinare la sua popolarità e ad eliminarlo dalla vita politica. Per assassinarlo sui media. Impedendogli di presentarsi e vincere le elezioni presidenziali del 2018. Una sorta di “colpo di stato preventivo” …

Oltre ad essere giudicato in modo assolutamente arbitrario e indecente, Lula è stato costantemente linciato dai grandi gruppi mediatici dominanti – in particolare O Globo – al servizio degli interessi dei maggiori uomini d’affari, con un odio feroce e revanscista contro il miglior presidente della storia del Brasile, che ha tolto quaranta milioni di brasiliani dalla povertà e creato il programma “zero fame” … Imperdonabili… Quando suo fratello maggiore, Genival ‘Vavá’, il più amato, morì, non gli fu permesso di partecipare al funerale, nonostante fosse un diritto garantito dalla legge. E quando morì di meningite il suo pronipote Arthur, 7 anni, il più legato, gli fu permesso di andare solo per un’ora e mezza (!) alla veglia. Umiliazione, soprusi, vendette miserabili…

Prima di dirigerci verso il carcere – situato a circa sette chilometri dal centro di Curitiba – abbiamo incontrato un gruppo di persone vicine all’ex presidente perché ci spiegassero il contesto.

Roberto Baggio, leader locale del Movimiento de los Sin Tierra (MST), ci racconta come è stata organizzata la mobilitazione permanente chiamata “Veglia”. Centinaia di persone del grande movimento “Lula Livre!” si accampano permanentemente davanti all’edificio del carcere, organizzando incontri, dibattiti, conferenze, concerti…. E tre volte al giorno – alle 9:00, 14:30 e 19:00 – lanciano un urlo verso l’alto a pieni polmoni: «Buona giornata», «Buon pomeriggio», «Buona notte, signor Presidente!» … «Affinchè Lula possa sentirci, per dargli coraggio», ci dice Roberto Baggio, «e fargli arrivare la voce della gente. All’inizio, pensavamo che sarebbe durata cinque o sei giorni e che la Corte Suprema avrebbe rilasciato Lula… ma ora siamo organizzati per una Protesta Popolare Prolungata».

Carlos Luiz Rocha è uno degli avvocati di Lula. Va a trovarlo quasi ogni giorno. Ci racconta che il team legale dell’ex presidente mette in discussione l’imparzialità del giudice Sergio Moro, ora premiato da Bolsonaro con il Ministero della Giustizia, e l’imparzialità dei pubblici ministeri. «Deltan Dallagnol, il procuratore capo, me lo ha confermato di persona, mi ha detto che “nel caso di Lula, la questione legale è una pura filigrana”. Il problema è politico».

Rocha è relativamente ottimista perché, secondo lui, a partire dal prossimo 20 settembre, Lula avrà completato la parte di pena sufficiente per poter uscire agli “arresti domiciliari”. «C’è un altro elemento importante» ci dice «mentre la popolarità di Bolsonaro sta diminuendo bruscamente, i sondaggi dimostrano che la popolarità di Lula sta tornando a crescere. Attualmente, più del 53 per cento dei cittadini pensa che Lula sia innocente. La pressione sociale sta diventando sempre più intensa a nostro favore».

Siamo stati raggiunti dalla nostra amica Mônica Valente, segretaria delle relazioni internazionali del Partido de los Trabajadores (PT) e segretario generale del Foro de Sao Paulo.

Insieme a questi amici, ci mettiamo in cammino verso il luogo di prigionia di Lula. L’appuntamento con l’ex presidente è fissato alle 16:00. Ma prima andremo a salutare i gruppi di Veglia, ed è necessario prevedere le formalità di ingresso nell’edificio del carcere. Non è una prigione ordinaria, ma la sede amministrativa della polizia federale, al cui interno è stata improvvisata una stanza che funge da cella.

Entreremo per vedere Lula, solo Adolfo Pérez Esquivel ed io, accompagnati dall’avvocato Carlos L. Rocha e Mônica Valente. Anche se il personale del carcere è amichevole, sono molto severi. I telefoni ci vengono sottratti. La ricerca è elettronica e approfondita. É permesso solo portare i libri e le lettere dell’imputato, e ancora… perché Adolfo gli porta 15.000 lettere di ammiratori in una chiavetta USB ma gliela confiscano per verificarla molto attentamente… poi gliela restituiranno.

Lula è al quarto piano. Non lo vedremo in una sala visite speciale, ma nella sua stessa cella dove è rinchiuso. Saliamo con l’ascensore fino al terzo piano, e raggiungiamo l’ultimo a piedi. Alla fine di un piccolo corridoio, sulla sinistra, si trova la sua porta. C’è una guardia armata seduta di fronte a noi che ci apre la porta. In nessun modo assomiglia a una prigione – tranne che per le guardie – sembra più un ufficio amministrativo e anonimo. Il capo carceriere, Jorge Chastalo (è scritto sulla sua camicia), alto, forte, biondo, con gli occhi azzurro-verdi e gli avambracci tatuati, ci ha accompagnato qui. Un uomo gentile e costruttivo che ha, vedo, rapporti cordiali con il suo prigioniero.

La cella-camera è rettangolare, si entra da uno dei piccoli lati e ci si presenta in tutta la sua profondità. Poiché i nostri telefoni sono stati confiscati, non posso scattare foto e prendo nota mentale di tutto ciò che osservo.

Si tratta di circa sei o sette metri di lunghezza per circa tre metri e mezzo di larghezza, cioè circa 22 metri quadrati di superficie. Appena a destra, entrando, si trova il bagno, con doccia e servizi igienici; si tratta di una stanza separata. Sul retro, di fronte, due grandi finestre quadrate con barre metalliche orizzontali dipinte di bianco. Le tende da sole grigio-argento all’esterno lasciano entrare la luce naturale ma impediscono di vedere l’esterno.

Nell’angolo sinistro della cella c’è il letto singolo ricoperto da un copriletto nero e sul pavimento un piccolo tappeto. Sopra il letto, inchiodato al muro, ci sono cinque grandi fotografie a colori del nipote Arthur recentemente scomparso, e degli altri nipoti di Lula insieme ai loro genitori. Accanto, sulla destra e sotto una delle finestre, c’è un comodino in legno chiaro, stile anni ’50, con due cassetti sovrapposti, rosso quello sopra. Ai piedi del letto, un mobile in legno sostiene anche una piccola TV a schermo piatto nero da 32 pollici. A fianco, sempre contro la parete sinistra, c’è un tavolo basso con una caffettiera e quello che serve per fare il caffè. Attaccato ad essa, un altro mobile quadrato e più alto, serve da supporto per una fontana d’acqua, una bottiglia verde smeraldo come quelle che si vedono negli uffici. La marca dell’acqua è “Prata da Serra”.

Nell’altro angolo del fondo, a destra, si trova la zona palestra, con una panca rivestita di finta pelle nera per gli esercizi, elastici per il bodybuilding e un grande tapis roulant. Sul lato, tra il letto e il deambulatore, c’è un piccolo riscaldatore elettrico nero su ruote. Nella parte superiore della parete posteriore, sopra le finestre, c’è un condizionatore d’aria bianco.

Al centro della stanza, un tavolo quadrato di 1,20 metri di lato, rivestito in gomma bianca e blu, e quattro comode sedie, con braccioli, nere. Una quinta sedia o poltrona è disponibile contro la parete destra. Infine, incollato alla parete divisoria che separa la stanza dal bagno: un grande armadio a tre sezioni, in rovere chiaro e bianco, con un piccolo ripiano sul lato destro che funge da libreria.

Tutta modesta e austera, anche spartana, per un uomo che per otto anni è stato presidente di una delle prime dieci potenze del mondo… ma tutto era molto ordinato, molto pulito, molto organizzato.

Con il suo solito amore, con abbracci caldi e parole di amicizia e affetto, Lula ci accoglie con la sua voce caratteristica, rauca e potente. Indossa una camicia Adidas del Corinthians, la sua squadra di calcio paulista preferita, pantaloni Nike grigio chiaro e infradito bianche in stile Havaian. Sembra molto sano, robusto e forte: «Cammino nove chilometri al giorno», ci dice. E in ottime condizioni psicologiche: «Aspetteremo tempi migliori per essere pessimisti» dice «Non sono mai stato depresso, mai, da quando sono nato; e non lo sarò adesso».

Ci siamo seduti intorno al tavolino, lui davanti alla porta, con la schiena alle finestre, Adolfo alla sua destra, Mônica davanti, l’avvocato Rocha un po’ distante tra Adolfo e Mônica, ed io alla sua sinistra. Sul tavolo ci sono quattro tazze piene di matite e penne colorate.

Gli consegno i due libri che gli ho portato, le edizioni brasiliane di “Cento ore con Fidel” e “Hugo Chavez. La mia prima vita”. Scherza sulla sua stessa biografia che il nostro amico Fernando Morais scrive da anni: «Non so quando la finirà… Tutto è iniziato quando ho lasciato la Presidenza nel gennaio 2011. Pochi giorni dopo, sono andato ad un incontro con i cartoneros di San Paolo… Ero sotto un ponte, e lì una bambina mi ha chiesto se sapevo cosa avevo fatto per i cartoneros. Mi ha sorpreso, e le ho detto che, beh, i nostri programmi sociali, nell’istruzione, nella salute, negli alloggi, ecc. E lei mi disse: “No, quello che ci hai dato è la dignità”. Una bambina! Ne sono rimasto impressionato, ne ho discusso con Fernando. Le ho detto: “Guarda, sarebbe bello fare un libro con quello che la gente pensa di ciò che abbiamo fatto al governo, quello che pensano i funzionari, i commercianti, gli uomini d’affari, i lavoratori, i contadini, gli insegnanti? Chiedere loro, raccogliere le risposte… Fare un libro non con quello su cui posso contare nella mia presidenza, ma con quello che dicono i cittadini stessi… Quello era il progetto, ma Fernando si è gettato in un’opera titanica perché vuole essere esaustivo. Ha scritto solo del periodo 1980-2002, cioè prima che io diventassi presidente… ed è già un volume colossale! Perché in quel periodo di 22 anni sono successe tante cose… abbiamo fondato la CUT (Central Única de Trabajadores), il PT, il MST, abbiamo lanciato le campagne “Direitas ja!” a favore della Costituente… abbiamo trasformato il paese… Il PT è diventato il primo partito del Brasile. E devo chiarire che ancora oggi, in questo paese, c’è un solo partito veramente organizzato: il nostro, il PT».

Gli abbiamo chiesto del suo umore. «Oggi sono passati 522 giorni da quando sono entrato in questa prigione sabato 7 aprile 2017. Ed è stato esattamente un anno fa quando ieri ho dovuto prendere la decisione più difficile, scrivere la lettera in cui ho rinunciato a candidarmi alle elezioni presidenziali del 2018. Ero in questa cella, da solo… dubitando… perché mi sono reso conto che stavo cedendo a ciò che i miei avversari volevano, impedendomi di essere un candidato. É stato un momento difficile, uno dei più difficili… ed io ero tutto solo qui. Ho pensato: è come partorire con molto dolore e nessuno che ti tiene la mano».

Apre il libro “Cento ore con Fidel” e mi dice: «Ho incontrato Fidel nel 1985, esattamente a metà luglio del 1985… Sono stato all’Avana per la prima volta partecipando alla Conferenza sindacale dei lavoratori latinoamericani e caraibici sul debito estero. Avevo già lasciato la CUT, non ero più sindacalista, ero segretario generale a tempo pieno del PT e l’anno successivo ero candidato alle elezioni legislative. Ma in quella Conferenza non c’erano solo sindacalisti. Fidel aveva invitato anche intellettuali, professori, economisti e leader politici. Ricordo che erano già le cinque del pomeriggio, al Palacio de Congresos, presieduto da Fidel, che si stava annoiando. Poi Fidel, che non conoscevo personalmente, mi ha mandato un messaggio chiedendomi se stavo per parlare. Ho risposto di no, che non era previsto… Poi mi ha quasi dato un ordine: “Devi parlare, e sarà l’ultimo intervento, chiuderemo con te”. Ma la CUT non voleva che prendessi la parola in alcun modo, quindi non sapevo cosa fare. Verso le sette del pomeriggio, dalla presidenza del tavolo, Fidel annuncia, a sorpresa, che ho la parola… Sono stato quasi costretto a parlare, mi sono alzato, sono andato alla tribuna… e ho cominciato a parlare, senza traduzione. Ho fatto un lungo discorso e ho finito col dire: “Compagno Fidel, voglio dire agli amici qui riuniti che gli Stati Uniti stanno cercando in tutti i modi di convincerci che sono invincibili. Ma Cuba li ha sconfitti, il Vietnam li ha sconfitti, il Nicaragua li ha sconfitti e anche El Salvador li sconfiggerà! Non dobbiamo aver paura di loro”. C’è stato un forte applauso. Beh, la giornata finì e io andai nella mia casa assegnata a Laguito. Quando sono arrivato, chi mi stava aspettando nel soggiorno della casa? Fidel e Raùl! Entrambi erano lì seduti ad aspettarmi. Fidel cominciò a chiedermi dove avevo imparato a parlare così… Ho raccontato loro la mia vita… Ed è così che siamo diventati amici per sempre».

«Devo dire» aggiunge Lula «che Fidel è sempre stato molto rispettoso, non mi ha mai dato consigli irrealistici. Non mi ha mai chiesto di fare cose folli. Sempre prudente, moderato, un uomo saggio, un genio».

Lula chiede poi a Pérez Esquivel, che presiede il comitato internazionale a favore dell’assegnazione del Premio Nobel per la pace all’ex presidente brasiliano, come procede il progetto. Adolfo fornisce dettagli sul grande movimento mondiale a sostegno di questa candidatura e dice che il premio è annunciato, in generale, all’inizio di ottobre, cioè in meno di un mese…. E che secondo le sue fonti quest’anno sarà per un latinoamericano. Sembra ottimista.

Lula insiste sul fatto che il sostegno dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, presieduto da Michelle Bachelet, è decisivo. Dice che questa è la «battaglia più importante». Ma che non la vede facile. Ci racconta un aneddoto: «Qualche anno fa, quando ho lasciato la presidenza, ero già stato nominato per il Premio Nobel per la pace. Un giorno, ho incontrato la Regina Consorte di Svezia, Silvia, moglie del re Carlo XVI Gustavo. Lei è la figlia di una brasiliana, Alice Soares de Toledo, quindi abbiamo parlato in confidenza. E mi disse: “Finché sei amico di Chavez, non credo che tu possa fare molti progressi. Stai lontano da Chavez e avrai il Premio Nobel per la pace”. É così che vanno le cose».

Gli chiedo come giudica questi primi otto mesi di regime di Jair Bolsonaro. «Bolsonaro sta svendendo il paese» risponde «E sono convinto che tutto ciò che sta accadendo è pilotato da Petrobras… A causa del super giacimento off-shore Pre-Sal di petrolio, il più grande del mondo, con favolose riserve, di altissima qualità, scoperto nel 2006 nelle nostre acque territoriali. Anche se è a grande profondità – più di seimila metri – la sua ricchezza è di dimensioni tali da giustificare tutto… Posso anche dire che la riattivazione della IV Flotta, da parte di Washington, che pattuglia lungo le coste atlantiche del Sud America, è stata decisa quando è stato scoperto il deposito Pre-Sal. Ecco perché, con Argentina, Venezuela, Uruguay, Ecuador, Ecuador, Bolivia, ecc… abbiamo creato il Consiglio di Sicurezza di UNASUR: è un elemento determinante».

«Il Brasile» continua Lula «è sempre stato un paese dominato da élite che si sono volontariamente presentate agli Stati Uniti. Solo quando siamo arrivati al potere nel 2003, il Brasile ha iniziato a giocare un ruolo di primo piano… Siamo entrati nel G-20, abbiamo fondato i BRICS (con Russia, India, Cina e Sudafrica), organizzato – per la prima volta in un paese emergente – i Giochi Olimpici, la Coppa del Mondo di calcio… Non c’è mai stata così tanta integrazione regionale in America Latina! Per esempio, i nostri scambi all’interno del Mercosur erano di 15 miliardi di dollari; quando ho finito i miei due mandati erano di 50 miliardi di dollari. Anche con l’Argentina, quando sono arrivato c’erano 7 miliardi, quando ho finito 35 miliardi. Gli Stati Uniti non vogliono che noi siamo protagonisti, che abbiamo sovranità economica, finanziaria, politica, industriale e ancor meno militare. Non vogliono, ad esempio, che il Brasile firmi accordi con la Francia sui sottomarini nucleari… Avevamo fatto progressi al riguardo, con il presidente François Hollande, ma con Bolsonaro è crollato. Anche questa miserabile dichiarazione, così spaventosamente antifemminista, contro Monique, moglie del Presidente francese Emmanuel Macron, deve essere collocata in questo contesto».

Parliamo di molti dei suoi amici che hanno ancora responsabilità politiche di alto livello in vari paesi o in organizzazioni internazionali. Ci chiede di trasmettere a tutti loro il suo ricordo più affettuoso e li ringrazia per la loro solidarietà. Insiste: «Dite che sto bene, come potete vedere. Sono consapevole del perchè sono in prigione. Lo so benissimo. Non ignoro il numero di cause contro di me. Non credo che mi libereranno. Se la Corte Suprema mi giudica innocente, ci sono già altri processi in corso contro di me, così non me ne andrò mai via da qui. Non vogliono che io sia libero per non correre alcun rischio…. Questo non mi spaventa. Sono pronto ad essere paziente. E per quanto mi riguarda, sono fortunato… Cento anni fa, sarei stato impiccato, o ucciso, o smembrato… per far dimenticare ogni momento di ribellione. Sono consapevole del mio ruolo… non ho intenzione di abdicare. Conosco le mie responsabilità verso il popolo brasiliano. Sono in prigione, ma non mi lamento. Mi sento più libero di milioni di brasiliani che non mangiano, non lavorano, non hanno un alloggio… sembra che siano liberi ma sono prigionieri della loro condizione sociale, da cui non possono uscire».

«Preferirei essere qui innocente piuttosto che colpevole… A tutti coloro che credono nella mia innocenza, dico: “Non difendermi solo con fede cieca. Leggete le rivelazioni di The Intercept”. È tutto lì, discusso, testato, dimostrato. Difendetemi con argomentazioni… preparate una narrazione, una storia… Chi non elabora una narrazione, nel mondo di oggi, perde la guerra. Sono convinto che i giudici e i pubblici ministeri che hanno messo in atto la manipolazione per imprigionarmi non dormono con la tranquillità che ho io. Non hanno la coscienza pulita. Sono innocente. Ma io non mi siedo a braccia incrociate senza fare nulla. Ciò che conta è la lotta».

Curitiba, 12 settembre 2019

Ignacio Ramonet è un accademico, giornalista e scrittore spagnolo che ha vissuto Parigi per gran parte della sua vita. É stato caporedattore di Le Monde Diplomatique dal 1991 al 2008. Tra le sue opere in italiano, segnaliamo i libri “Marcos. La dignità ribelle” (Asterios Editore, 2001), “Il mondo che non vogliamo. Guerra e mercato nell’era globale” (Mondadori, 2003), “Fidel Castro, autobiografia a due voci” (Mondadori, 2007). L’intervista in spagnolo è stata pubblicata da Cubadebate.

*Fonte: Opera Mundi

tratto da:

http://contropiano.org/news/internazionale-news/2019/09/22/cento-minuti-in-carcere-con-lula-0118931?fbclid=IwAR2T8a9TIGdwqwsHfAdJ4SRf3kfmQ3nzfxgIHH17IHhdJYQ321WRqQ-Dtjc

Ai domiciliari Chiricozzi e Licci, i due fascisti di Casapound che, come bestie, violentarono e picchiarono a sangue una donna a Viterbo. Com’è che non si sentono cose tipo “non devono uscire vivi di galera”, “castrazione chimica” e l’immancabile “ruspa”? Forse non sono neri, ma fascisti?

 

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Ai domiciliari Chiricozzi e Licci, i due fascisti di Casapound che, come bestie, violentarono e picchiarono a sangue una donna a Viterbo. Com’è che non si sentono cose tipo “non devono uscire vivi di galera”, “castrazione chimica” e l’immancabile “ruspa”?  Forse non sono neri, ma fascisti?

Francesco Chiricozzi e Riccardo Licci, i due militanti di Casapound che lo scorso aprile violentarono come bestie – picchiandola a sangue – una donna a Viterbo, sono ai domiciliari.

Ma non sentirete nessuno vomitare le solite cazzate folcloristiche fatte di “castrazione chimica” e dell’immancabile “ruspa”.

Non sentiremo un “non devono uscire vivi di galera” di cui qualcuno qualche mese fa si riempiva la bocca (ma in quel caso non si parlava di feccia fascista)

Questi due non sono negri, ma neri fascisti…

Che schifo.

 

by Eles

Più della metà degli elettori della Lega non va oltre la licenza media. E molti di questi sono fermi alla licenza elementare: ecco i dati… Capirete così da dove viene razzismo, omofobia, misoginia e fascismo…!

 

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Più della metà degli elettori della Lega non va oltre la licenza media. E molti di questi sono fermi alla licenza elementare: ecco i dati… Capirete così da dove viene razzismo, omofobia, misoginia e fascismo…!

Più della metà degli elettori della Lega non va oltre la licenza media: i dati

Chi vota Lega – Sulle pagine di Repubblica, sono stati pubblicati alcuni studi che evidenziano le caratteristiche dell’elettore medio della Lega, sulla base delle indagini di alcuni istituti demoscopici, in particolare Ixé e Emg Acqua.

Il primo dato che risalta è che il Carroccio ha incrementato il suo bacino elettorale nel Sud Italia: “9 elettori su 100 vivono nel Nord Ovest (un anno fa il rapporto era di 36 a 100), 25 su 100 nel Nord Est (con un la conquista di Emilia Romagna e Friuli) mentre l’aumento delle percentuali di leghisti al Centro (da 23 a 27 su 100) e al Sud (dal 12 al 18 su 100) è evidente. Più modesta la crescita nelle Isole (da 8 a 10)”.

In aumento anche l’elettorato femminile. Le Lega, inoltre, raccoglie i voti di molti delusi dal Movimento Cinque Stelle, passati in un anno dal 14 al 23 per cento.

“Non è un caso, in questo quadro, se muta anche il profilo professionale del leghista-tipo: aumenta il numero di coloro che hanno un impiego a tempo indeterminato, e soprattutto dei dipendenti pubblici, categoria ampiamente diffusa al Sud. E se è bassa la fascia di disoccupati, alta è l’età media: gli over 45 salgono dal 60 al 70 per cento del totale”, scrive Repubblica.

Chi vota Lega | Istruzione – “L’istruzione media dei fan salviniani non è elevata: il 55 per cento si è fermato alla licenza elementare o media. La fede, sulla carta, è solida (quasi la metà dichiara di partecipare almeno a una funzione religiosa ogni mese) e le posizioni sono conservatrici: ne è simbolo, in Sardegna, l’ultrà cattolico Alberto Agus, esponente del movimento Nova Civilitas che sostiene cinque candidati-top della Lega alle Europee”.

Altro dato interessante è che tra gli elettori di Salvini aumenta la percentuale di chi vuole restare in Europa (dal 59 al 67,7 per cento).

“E pensare che la Lega, cinque anni fa, aveva messo accanto al simbolo elettorale lo slogan ‘Basta Euro’. Ma l’armata verde ha cambiato fisionomia. E sono mutati anche gli obiettivi”, conclude Emanuele Lauria.

 

fonte: https://www.tpi.it/politica/chi-vota-lega-e-salvini-dati/

Per non dimenticare – 21 settembre 1943, l’Insurrezione di Matera contro i nazisti e la “Strage della milizia”

 

Insurrezione di Matera

 

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Per non dimenticare – 21 settembre 1943, l’Insurrezione di Matera contro i nazisti e la “Strage della milizia”

Il 21 settembre non è una data qualsiasi per la città di Matera.

Il 21 settembre del 1943, infatti, ci fu quella che comunemente viene ricordata come “l’Insurrezione di Matera”, nel corso della quale ci fu la “Strage della milizia”.

Un episodio accaduto durante la seconda guerra mondiale in Italia, quando proprio 21 settembre, nel corso degli scontri con i militari tedeschi, persero la vita 26 persone di cui 18 civili.

Matera fu così considerata la prima città del Mezzogiorno a insorgere contro il nazifascismo.

Subito dopo l’armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943, i fascisti abbandonarono il Palazzo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale che fu temporaneamente occupato dai soldati tedeschi appartenenti al Primo Battaglione della Prima Divisione Paracadutisti e capeggiati dal maggiore Wolf Werner Graf von der Schulenburg, che in un rapporto redatto dal capitano inglese R.L. Stayer per conto del War Crime Group di Padova, verrà inserito in un elenco di nazisti da “rintracciare e catturare” in quanto responsabile della strage di Matera e dell’eccidio di Pietransieri, un’altra strage compiuta dall’esercito tedesco il 21 novembre 1943 nel comune di Roccaraso. Durante gli ultimi giorni di permanenza dei tedeschi in città, la popolazione materana divenne sempre più esasperata dai saccheggi e dai soprusi compiuti dagli invasori che si preparavano alla ritirata.

Con il passare dei giorni la situazione si fece sempre più tesa e cominciarono i rastrellamenti e gli arresti di civili e militari rinchiusi dai tedeschi nel Palazzo della Milizia, tra cui Natale Farina e Pietro Tataranni, due soldati materani di ritorno dal fronte arrestati nel primo pomeriggio del 21 settembre.

La scintilla che fece precipitare una situazione di già grave tensione avvenne subito dopo, quando ci fu un conflitto a fuoco tra due militari italiani e due soldati tedeschi che stavano rapinando una gioielleria, in cui ebbero la peggio questi ultimi due. I testimoni dell’episodio, sapendo di rischiare una dura rappresaglia, cercarono di nascondere i due cadaveri ma non servì perché i nazisti insospettiti da strani movimenti si accorsero di quanto accaduto. Subito dopo un militare austriaco che si trovava in una sala da barba fu accoltellato da un altro cittadino materano, Emanuele Manicone, che appena compiuto il gesto corse per le strade per chiamare a raccolta i suoi concittadini affinché corressero alle armi.

Seguirono oltre tre ore di violenta guerriglia; il sottotenente Francesco Paolo Nitti per proteggere la cittadinanza decise di armare sia i militari che i civili dislocandoli in varie zone strategiche della città, tra cui la Prefettura; ne seguirono diversi conflitti a fuoco in cui persero la vita i civili Eustachio Guida, Francesco Paolo Loperfido ed Eustachio Paradiso, oltre ad Antonio Lamacchia, un pastore ucciso già la mattina del 21 nelle campagne a sud della città. Dal campanile della chiesetta della Mater Domini un cittadino materano, Nicola Di Cuia, fece fuoco sui nemici impedendo loro di avvicinarsi alla Prefettura, e numerosi furono i casi di cittadini intervenuti spontaneamente contro il nemico. Nei pressi della caserma della Guardia di Finanza vi furono altri lunghi momenti di guerriglia, con i finanzieri accorsi in aiuto dei cittadini materani; rimasero uccisi il finanziere Vincenzo Rutigliano (insignito della medaglia di bronzo al Valore Militare e a cui è dedicata l’attuale Caserma cittadina della Guardia di Finanza), il civile Emanuele Manicone, che nel frattempo era stato incaricato dai finanzieri di guardia al magazzino centrale di chiamare i rinforzi presso il Comando, ed il dottor Raffaele Beneventi, farmacista, che si trovava dietro la finestra della sua abitazione posta nei pressi della caserma della Guardia di Finanza e fu colpito dalle raffiche di mitragliatrice dei tedeschi.

Gli invasori assediarono anche il palazzo dell’elettricità per lasciare la città al buio e nelle operazioni di occupazione uccisero i civili Raoul Papini, Pasquale Zigarelli, Michele e Salvatore Frangione e ferirono Mirko Cairola.

Tuttavia il peggio doveva ancora accadere, infatti immediatamente prima di abbandonare la città i nazisti fecero saltare in aria il Palazzo della Milizia, ormai divenuto una prigione, con al suo interno sedici persone tra civili e militari.

L’insurrezione del popolo materano impedì ai tedeschi in ritirata di radere al suolo molti palazzi della città, ed evitò inoltre il bombardamento sulla città da parte degli alleati, che giunsero a Matera provenienti da sud immediatamente dopo quella tragica giornata.

In virtù dei sacrifici della popolazione, la città di Matera è stata insignita della Medaglia d’argento al Valor Militare. Tale onorificenza venne conferita il 21 settembre 1966 dal Ministro della Difesa Roberto Tremelloni e consegnata tre anni dopo dal suo successore Luigi Gui, il quale decorò della medaglia il gonfalone della città e scoprì una lapide con l’iscrizione: « Matera prima città del Mezzogiorno insorta in armi contro il nazifascismo addita l’epico sacrificio del 21 settembre 1943 alle generazioni presenti e future perché ricordino e sappiano con pari dignità e fermezza difendere la libertà e la dignità della coscienza contro tutte le prevaricazioni e le offese. »

Medaglia d’argento al Valor Militare – nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d’argento al Valor Militare «Indignati dai molteplici soprusi perpetrati dal nemico, gruppi di cittadini insorsero contro l’oppressore e combatterono con accanimento, pur con poche armi e munizioni, per più ore, senza smarrimenti e noncuranti delle perdite. Sorretti da ardente amor di Patria, con coraggio ed ardimento, costrinsero l’avversario, con aiuto di elementi militari, ad abbandonare la Città prima dell’arrivo delle truppe alleate. Città di Matera, 21 settembre 1943.»