6 dicembre, 11 anni fa il Rogo Thyssen, 7 operai uccisi in modo atroce, ma i manager tedeschi, già condannati da 2 anni, si fanno beffa della giustizia e del dolore dei parenti…!

 

Thyssen

 

 

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6 dicembre, 11 anni fa il Rogo Thyssen, 7 operai uccisi in modo atroce, ma i manager tedeschi, già condannati da 2 anni, si fanno beffa della giustizia e del dolore dei parenti…!

Undici anni dopo l’atroce morte di 7 operai a Torino e oltre due anni dopo la sentenza definitiva di condanna i manager tedeschi, ancora liberi, si fanno beffa del dolore dei parenti…! Sì, tedeschi, quelli che chiamavano noi “scrocconi” ma che alla prima occasione dimostrano tutta la loro meschinità.

Le carone in questione sono l’ex AD di Ast Harald Espehnahn e l’ex consigliere Gerald Priegnitz.

I manager italiani stanno scontando le loro pene, diversamente da quelli tedeschi. Nonostante la richiesta di arresto da parte dell’Italia sono ancora liberi. “Ora non ci sono più scuse, la Germania ha tutte le carte per procedere”, dice l’unico sopravvissuto Antonio Boccuzzi.

Da TerniToday:

 

Rogo Thyssen, i manager tedeschi ancora liberi inseguiti dalle Iene

Undici anni dopo la morte di 7 operai a Torino e oltre due anni dopo la sentenza definitiva di condanna l’inviato della trasmissione è andato a cercare l’ex ad di Ast Espenhahn. Il figlio Lucas: “Siamo dovuti andare via, era pericoloso”

Undici anni esatti dopo il rogo di Torino in cui perserò la vita sette operai, oltre due anni dopo la condanna definitiva i manager tedeschi della Thyssen Krupp, l’ex ad di Ast Harald Espehnahn e l’ex consigliere Gerald Priegnitz sono ancora liberi. E la trasmissione televisiva di Italia Uno “Le Iene” è andata in Germania a cercarli. Anzi, letteralmente a inseguirli.

I due manager, intercettati dall’inviato Alessandro Politi mentre facevano jogging vicino alle rispettive case, alla vista della telecamera sono corsi via evitando le domande. Chi non si è sottratto al microfono della Iena è stato il figlio di Espenhahn, Lucas, che ha vissuto per anni a Terni e proprio con accento ternano ha risposto all’inviato. “Non è vero che ha ucciso un sacco di persone – dice – è una questione di politica questa. Io ci sono cresciuto in Italia, sono italiano quanto te. Terni la conosci? E’ lì che stanno le acciaierie”. Ma perché siete scappati dall’Italia, chiede Politi. “Siamo dovuti andare via, era abbastanza evidente. Era troppo pericoloso”.

A commentare le immagini dei due manager che scappano e le parole del figlio di Espenhahn, Antonio Boccuzzi, operaio sopravissuto alla tragedia ed ex deputato del Pd, e Noemi Laurino, figlia di Angelo, uno dei sette lavoratori morti carbonizzati nella notte tra il 5 e 6 dicembre del 2007 di cui vengono anche mostrate le immagini inedite – crudissime – a pochi minuti dalla tragedia.

A perdere la vita, oltre a Laurino, Antonio Schiavone, Giuseppe De Masi, Rosario Rodinò, Bruno Santino, Roberto Scola, Rocco Marzo. Espenhahn è stato condannato in via definitiva il 13 maggio 2016 per omicidio colposo a nove anni e otto mesi mentre Priegnitz a sei anni e dieci mesi. Stessa condanna per il ternano Marco Pucci, successore di Espehahn alla guida dell’Ast di Terni, che sta scontando la condanna come l’ex direttore dello stabilimento, Daniele Moroni, anch’egli ternano, sette anni e sei mesi, Raffaele Salerno, sette anni e due mesi, e il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri, sei anni e otto mesi. Sia Pucci (che nel 2017 ha chiesto la grazia al presidente della Repubblica Mattarella) che Moroni da più di un anno hanno ottenuto il permesso di poter svolgere durante il giorno un’attività lavorativa – il primo alle Fucine Umbre, l’altro alla Mascio Engineering – mentre i manager tedeschi sono ancora a piede libero in attesa che la Germania dia seguito alle richieste della magistratura italiana per far rispettare la sentenza.

A settembre chiesta la carcerazione in Germania

La questione il 15 novembre scorso è stata discussa anche in commissione Giustizia al Senato dove il sottosegretario ai rapporti con il Parlamento, Guido Guidesi, ha risposto a un’interrogazione della vicepresidente del Senato, Anna Rossomando del Pd, al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. “Nei giorni scorsi il ministero ha sollecitato nuovamente la definizione del procedimento chiedendo di ricevere informazioni”, la replica.

“La corte d’appello di Hamm non ha tuttavia concesso l’estradizione – ha ricordato la nota del ministero – in base al principio generale secondo cui all’estradizione richiesta è ostativa la mancata prestazione del consenso da parte dei cittadini tedeschi condannati. Il 30 novembre e il 17 gennaio 2017 il ministero della Giustizia ha trasmesso alle competenti autorità tedesche la predetta certificazione corredata dalla sentenza esecutiva pronunciata dalla corte d’assise d’appello di Torino il 29 maggio 2015, con relativa traduzione in lingua tedesca”. Obiettivo la possibilità di far scontare la pena ai due nel loro paese. Le traduzioni sono state inviate in Germania il 6 agosto scorso e a settembre la procura di Essen ha chiesto la carcerazione di Espenhahn e Priegnitz  per cinque anni, vale a dire la pena massima prevista in Germania per i reati contestati. Ma ancora non è stata eseguita.

 

Una porcata del genere non l’aveva partorita manco Salvini: la Danimarca vuole confinare i migranti che non possono essere rimpatriati su un’isola deserta

migranti

 

 

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Una porcata del genere non l’aveva partorita manco Salvini: la Danimarca vuole confinare i migranti che non possono essere rimpatriati su un’isola deserta

La Danimarca vuole confinare i migranti che non possono essere rimpatriati su un’isola deserta

La struttura di Lindholm tratterrà i cittadini stranieri che la Danimarca non è in grado di espellere, ad esempio perché non esiste alcun accordo di rimpatrio tra la Danimarca e il paese d’origine. L’accordo di Lindholm, in sostanza, mira a  rendere la vita degli immigrati irregolari intollerabile così da costringerli a lasciare il paese volontariamente

La Danimarca sta pensando di isolare i cittadini stranieri con condanne pendenti o che si sono visti respingere la richiesta di asilo e non possono essere rimpatriati sull’isola di Lindholm, un territorio di sette ettari in mezzo al mare raggiungibile solo via traghetto. Secondo quanto si apprende dalla stampa danese, la disposizione fa parte del nuovo accordo di bilancio raggiunto tra il governo conservatore della Danimarca e il Partito popolare danese, che da sempre chiede norme più restrittive in materia di immigrazione. L’accordo prevede dunque che i cittadini stranieri condannati per crimini e in attesa di espulsione saranno trattenuti in una struttura a Lindholm.

I richiedenti asilo respinti ma che non possono essere rimpatriati ricevono dal governo danese un alloggio in cui non possono preparare i loro pasti, del cibo e un assegno di circa 1,20 dollari al giorno, che viene però trattenuto se non cooperano con le autorità. Al momento, nei due centri di espulsione della Danimarca ci sono centinaia di migranti che non hanno diritto a restare nel paese ma che si rifiutano di tornare nel loro paese di origine e non possono essere espulsi.

“Non saranno imprigionati”, ha dichiarato il ministro delle Finanze Jensen. “Ci sarà un servizio di traghetti da e per l’isola, ma il traghetto non opererà tutto il giorno, e di notte dovranno rimanere al centro di partenza. In questo modo saremo in grado di monitorare meglio dove si trovano”. La struttura di Lindholm tratterrà i cittadini stranieri che la Danimarca non è in grado di espellere, ad esempio perché non esiste alcun accordo di rimpatrio tra la Danimarca e il paese d’origine. L’accordo di Lindholm, in sostanza, mira a  rendere la vita degli immigrati irregolari intollerabile così da costringerli a lasciare il paese volontariamente.

“Per noi è un problema vedere che alcuni stranieri che sono stati effettivamente condannati al rimpatrio stanno ancora commettendo reati e non abbiamo modo di monitorarli”, ha spiegato il ministro Jensen. Le opposizioni danesi nel frattempo protestano e segnalano la disumanità insita nella proposta avanzata dal governo.

Attualmente, Lindholm è utilizzata dall’Istituto veterinario della Technical University of Denmark che svolge attività di ricerca sui virus che colpiscono bovini e suini. L’attività di ricerca viene effettuata su quest’isola disabitata per precauzione, per scongiurare eventuali contagi. Quando il centro di  Lindholm entrerà in funzione, probabilmente nel 2021, il DTU lascerà l’isola.

Tratto da: https://www.fanpage.it/la-danimarca-vuole-confinare-i-migranti-che-non-possono-essere-rimpatriati-su-unisola-deserta/

Marco Travaglio: “Ormai la libertà di stampa è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai giornalisti”

 

Marco Travaglio

 

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Marco Travaglio: “Ormai la libertà di stampa è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai giornalisti”

 

Pesi e misure

di Marco Travaglio

La butto lì, casomai qualcuno volesse riflettere seriamente sul ruolo dell’informazione nell’Italia del 2018, uscendo per un attimo dalle opposte trincee del giornalismo embedded: avete idea di quanti articoli di giornale, servizi di tg e dibattiti da talk show e da social sono stati dedicati ai guai del padre di Di Maio e alla sentenza sulla trattativa Stato-mafia? Da una parte abbiamo tre o quattro operai in nero, tre o quattro abusi edilizi, una betoniera, una carriola e un mucchietto di mattoni abbandonati nella microditta dei genitori di Di Maio (che per ora non risulta aver fatto un bel nulla). Dall’altra abbiamo la Corte d’assise di Palermo che condanna penalmente Marcello Dell’Utri, inventore di FI (il partito che ha dominato la scena politica dal 1994 all’altroieri), e i massimi vertici del Ros dei Carabinieri del 1992-’96, per aver aiutato gli stragisti di Cosa Nostra a ricattare lo Stato a suon di stragi; e condanna politicamente i governi Amato (1992), Ciampi (1993), Berlusconi (1994) per aver subìto quel ricatto mafioso senza mai né respingerlo né denunciarlo.

In quella sentenza si legge, fra l’altro, che: l’allora presidente Scalfaro mentì sotto giuramento ai pm sostenendo di non sapere nulla dell’avvicendamento ai vertici del Dap fra il duro Nicolò Amato e il molle Adalberto Capriotti, mentre era stato proprio lui a imporlo per ammorbidire il 41-bis che un anno prima era costato la vita a Falcone; molti altissimi rappresentanti delle istituzioni mentirono o dimenticarono per anni il proprio ruolo in quel turpe negoziato, ostacolando l’accertamento della verità; l’allora premier Giuliano Amato fu informato nell’estate ’92 della trattativa fra il Ros e il mafioso Ciancimino dalla sua capo-segretaria Fernanda Contri, ma non fece nulla per bloccarla e non ricordò un bel nulla dinanzi ai pm; Violante, presidente dell’Antimafia, fu avvicinato dal colonnello Mori, che gli caldeggiò invano un incontro riservato con Ciancimino, e non ne avvertì mai i pm di Palermo, né allora né quando seppe che indagavano sulla trattativa; mentre B. era al governo, Dell’Utri riceveva nella sua villa a Como il boss Mangano e gli spifferava in anteprima le leggi pro mafia; B. continuò – come faceva da 20 anni – a finanziare Cosa Nostra con versamenti semestrali in contanti almeno fino al dicembre ’94, cioè mentre era premier; senza la trattativa Ros-Ciancimino-Riina-Provenzano, non ci sarebbe stata l’“accelerazione” che indusse Cosa Nostra a sterminare Borsellino e la sua scorta appena 57 giorni dopo aver assassinato Falcone, la moglie e la scorta.

Senza la trattativa – scrivono i giudici – le stragi mafiose si sarebbero interrotte con l’arresto di Riina il 15 gennaio ’93, dunque fu la trattativa a causare gli eccidi della primavera-estate ’93 a Roma, Firenze e Milano (10 morti e 30 feriti). Da due settimane il caso Di Maio (padre) occupa le prime pagine dei quotidiani, le homepage dei loro siti, i titoli dei tg, i dibattiti nei talk e sui social, i discorsi nei bar. Invece all’agghiacciante sentenza Trattativa, che chiude in primo grado uno dei processi più cruciali dell’ultimo cinquantennio, la Norimberga sulle classi dirigenti di sinistra&destra che hanno dominato, e ancora in parte dominano, il potere italiano, giornali e tg hanno dedicato un paio di servizi il primo giorno, e nemmeno fra i principali. Poi silenzio. Zero dibattiti, approfondimenti, inseguimenti modello Iene. Zero domande e dunque zero risposte, autocritiche, scuse al popolo italiano da chi collaborò a metterlo per 25 anni sotto il ricatto mafioso.
Sui guai di suo padre, che non hanno prodotto non dico una sentenza, ma neppure un avviso di garanzia, il vicepremier Di Maio è stato intervistato quattro volte dalle Iene, e bene ha fatto a rispondere, anziché fuggire dal retro e far cacciare i cronisti dalla scorta, come facevano quelli di prima, o seppellirli sotto valanghe di cause civili o minacciare di spezzargli le gambe, come fanno i berluscones e i rignanos. E bene ha fatto suo padre ad ammettere le sue colpe e a mettersi a disposizione delle autorità in due video sul web e un’intervista al Corriere. Ma a voi pare normale che nessuno abbia mai chiesto nulla ad Amato, magari attendendolo sotto casa o davanti alla Consulta, su quel che gli disse la Contri sulla trattativa con la mafia che aveva appena ucciso Falcone e Borsellino? Che nessun politico di destra e di sinistra abbia dovuto scusarsi di aver promosso e coperto Mori&C., anziché degradarli sul campo per aver trattato con Cosa Nostra, omesso di perquisire e sorvegliare il covo di Riina, fatto fuggire Santapaola e Provenzano? Che non una sola domanda sia stata rivolta a B. sui soldi versati alla mafia anche dopo Capaci e via D’Amelio? E che dunque nessuno abbia mai dovuto spiegare o discolparsi per fatti lievemente più gravi di una vasca posticcia, tre ruderi e quattro laterizi? Quale devastazione intellettuale, quale tsunami culturale ha ridotto l’informazione in questo stato comatoso, impermeabile al senso della notizia e financo del ridicolo? Si dirà: le 5.252 pagine della sentenza Trattativa non le ha lette nessuno. Giovedì ne pubblicheremo con Paperfirst una sintesi di un decimo, nel libro Padrini fondatori curato da Marco Lillo e dal sottoscritto. Ma sappiamo tutti che non è questo il punto. Dalla saga Spelacchio alla sitcom Casa Di Maio, quella che chiamiamo “informazione” non ha più nulla a che vedere col diritto-dovere di informare. Quanti pensano di usare il nulla per gettare discredito su chi ha l’unico torto di aver vinto le elezioni, non si accorgono che stanno sputtanando se stessi e l’intera categoria. Ormai la libertà di stampa è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai giornalisti.

Da Il Fatto Quotidiano

CHI DI NERO FERISCE, DI NERO PERISCE… Renzi attaccava Di Maio per operai pagati in nero dal padre, ma ecco che salta fuori che lui ed il padre hanno fatto molto di peggio… Ma le Iene queste cose qui mica possono dirle…

Renzi

 

 

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CHI DI NERO FERISCE, DI NERO PERISCE… Renzi attaccava Di Maio per operai pagati in nero dal padre, ma ecco che salta fuori che lui ed il padre hanno fatto molto di peggio… Ma le Iene queste cose qui mica possono dirle…

Lo ammettiamo, La Verità, il quotidiano fondato e diretto da Maurizio Belpietro, non è il massimo come fonte attendibile, ma dato che su buona parte dei media vige l’obbligo di silenzio imposto dal regime di Renzi, ci dobbiamo accontentare…

La Verità, il racconto dell’ex distributore di giornali nell’azienda di Tiziano Renzi: ‘Mai visto un contratto’

La Verità, quotidiano fondato e diretto da Maurizio Belpietro, oggi riporta in prima pagina il racconto di Andrea Santoni, ex distributore di giornali nell’azienda di Tiziano Renzi.

Santoni, si legge sul sito web de La Verità, ha affermato: “Suo figlio ci portava le copie da vendere ai semafori, poi ritirava gli incassi. A noi restava una quota. Mai visto un contratto”. La storia è stata confermata da un altro ex dipendente, spiega Giacomo Amadori, che ha realizzato l’inchiesta.

Secondo Belpietro, Matteo Renzi, attaccando Di Maio sulla vicenda che riguarda il padre, si è lanciato l’ennesimo boomerang:

“Chissà che cosa aveva in mente Renzi quando lunedì è zompato sul caso del papà di Di Maio. Dopo aver visto il servizio delle Iene dedicato al genitore del vicepremier a 5 Stelle, l’ex segretario del Pd aveva dato fuoco alle polveri,” scrive il giornalista nel suo editoriale di oggi.

insomma… CHI DI NERO FERISCE, DI NERO PERISCE… ed ennesima figura di merda inanellata da Renzi…

Che strano Paese il nostro. Se il padre di Di Maio invece che pagare in nero un operaio, avesse rubato 6,6 milioni all’Unicef nessuno si sarebbe scandalizzato…!

 

Di Maio

 

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Che strano Paese il nostro. Se il padre di Di Maio invece che pagare in nero un operaio, avesse rubato 6,6 milioni all’Unicef nessuno si sarebbe scandalizzato…!

 

Ci ricorda Marco Travaglio da Il Fatto Quotidiano:

È il decreto 36 del 10.4.2018 del governo Gentiloni (già dimissionario dopo le elezioni e in carica per gli affari correnti), che ha abolito la procedibilità d’ufficio per l’appropriazione indebita. Da allora quel reato è processabile solo se le vittime querelano gl’indagati. Guardacaso la Procura di Firenze aveva appena inquisito il cognato di Renzi, Andrea Conticini, e i suoi fratelli Alessandro e Luca: il primo per riciclaggio, gli altri due per appropriazione indebita. Secondo i pm, 6,6 milioni di dollari che l’Unicef, Fondazione Pulitzer e altre onlus americane e australiane credevano di devolvere ai bimbi africani sarebbero finiti in conti bancari personali riconducibili al terzetto. Appena entrato in vigore il decreto, i pm fiorentini hanno scritto a Unicef &C. per sollecitarli a sporgere querela: altrimenti, con le nuove regole, il processo sarebbe morto lì e addio soldi. Ma nessuno lo fa, rinunciando inspiegabilmente al maltolto: il processo non partirà neppure. E questo a causa del decreto ad cognatum del Pd che, naturalmente, si applica a tutti i processi per appropriazione indebita.

………………………

QUANDO I SOLDI DI UNICEF FINIRONO AL COGNATO DI RENZI

La prima è quella dei Renzi, Eventi 6, che allora si chiamava ancora Chil Promozioni e le altre due società sono dei coniugi Patrizio Donnini e Lilian Mammoliti, renziani della prima ora. I Conticini giurano che i soldi sono stati usati per far sorridere i bambini africani con la Play Therapy e l’avvocato Federico Bagattini ha fatto ricorso al Tribunale del riesame.

Alessandro Conticini (40 anni ex dirigente dell’Unicef poi socio e direttore della londinese Play Therapy Africa Ltd con la moglie francese Valerie Quere, 42 anni) è accusato insieme a Luca Conticini (35 anni, gemello del terzo fratello Andrea, cognato di Renzi) di appropriazione indebita in concorso con il padre Alfonso, poi deceduto, “dal 2011 e fino al gennaio 2015 in Castenaso (Bologna) in relazione a somme di denaro corrisposte da Operation Usa e Unicef a Play Therapy Africa Limited (Pta Ltd) e da questa stornate, in assenza di idonea causale, in favore di Conticini Alessandro”.

La difesa dei Conticini è che la Play Therapy Africa era una società privata dei due coniugi. In realtà fino al 7 marzo 2013, pochi mesi prima della sua chiusura, apparteneva solo per due terzi ai coniugi Conticini ma per il terzo restante era della Play Therapy International, che ha sciolto l’affiliazione con la Pta Ltd. La rappresentante di Pti nella Pta Ltd, Monika Jephcott, si è dimessa da ‘secretary’ di Pta sempre il 7 marzo 2013. Secondo i pm di Firenze Alessandro Conticini avrebbe preso per sé i soldi destinati alle terapie per i bambini africani da Unicef e Operation Usa. Mentre il fratello, cognato di Renzi, è accusato di reimpiego dei capitali (art. 648 ter, che prevede nei primi due commi il riciclaggio) “commesso in Firenze nel corso del 2011 in relazione a somme di denaro provento del reato sopra indicato impiegate per l’acquisto di partecipazioni societarie in nome e per conto di Alessandro Conticini”. Il punto è che Andrea Conticini ha comprato in nome e per conto del fratello Alessandro quote solo di tre società in Firenze. La più famosa è la Chil promozioni Srl (poi denominata Eventi 6) dei Renzi.

Il 21 febbraio del 2011 davanti al notaio Claudio Barnini di Firenze ci sono le due sorelle e la mamma del premier più il cognato. Benedetta e Matilde Renzi con Laura Bovoli sono già azioniste mentre Andrea Conticini, in nome e per conto di Alessandro, partecipa all’aumento di capitale da 10 mila a 12 mila e 500, con sovraprezzo di 47 mila e 500. In pratica Alessandro Conticini prende una quota del 20 per cento (che poi cederà nel 2013) e mette 50 mila euro nel capitale della Eventi 6.

Matteo Renzi è stato socio e collaboratore di Chil Srl fino al 2003 e poi dirigente in aspettativa di Eventi 6 fino al 2014. Undici giorni prima, il 10 febbraio del 2011, Andrea (in nome e per conto di Alessandro) Conticini compra anche le quote di altre due società del giro renziano: il 20 per cento di Dot Media da Patrizio Donnini (uomo comunicazione di Matteo Renzi e di altri esponenti Pd) per 2 mila euro e il 30 per cento della Quality Press (in liquidazione dal 2013) dalla moglie di Donnini, Lilian Mammoliti, per 30 mila euro. La storia più imbarazzante però resta quella della Eventi 6. La società destinataria dei 50 mila euro dei Conticini non è una srl qualsiasi. Renzi, come raccontato dal Fatto, è stato assunto poco prima di essere candidato nel 2003 alla Provincia e da allora, grazie a questo trucchetto, i suoi lauti contributi pensionistici sono stati versati dalla Provincia e poi dal Comune di Firenze per 10 anni. Il premier si è licenziato dopo i nostri articoli percependo un Tfr che dovrebbe essere pari a circa 48 mila euro. Se l’ipotesi della Procura è giusta, da un lato la società delle sorelle e della mamma incassava dal cognato nel 2011 il capitale di Alessandro Conticini, frutto di appropriazione indebita, e dall’altro lato poi pagava nel 2014 il Tfr per il premier-dirigente in aspettativa.

Insomma, Unicef e PD sono una grande famiglia. Voi date i soldi per Unicef, e finiscono a Renzi.

da: https://voxnews.info/2017/12/27/quando-i-soldi-di-unicef-finirono-al-cognato-di-renzi/

Julian Assange con le spalle al muro – Perseguitato perchè voleva divulgare la verità, quelli che comandano il mondo, con a capo gli Stati Uniti, sono ad un passo dal suo annientamento!

 

Julian Assange

 

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Julian Assange con le spalle al muro – Perseguitato perchè voleva divulgare la verità, quelli che comandano il mondo, con a capo gli Stati Uniti, sono ad un passo dal suo annientamento!

 

di Sally Burch

Il cerchio si stringe intorno al fondatore di Wikileaks, Julian Assange, ancora rifugiato nell’Ambasciata dell’Ecuador a Londra. La persecuzione internazionale è in aumento e i suoi diritti vengono limitati.

A metà novembre è trapelata (pare involontariamente) l’esistenza negli Stati Uniti di un’accusa sommaria contro Assange, la cui natura non è stata ancora rivelata. Martedì 27 novembre un giudice federale statunitense ha rinviato una decisione, richiesta dal Committee of Reporters for Freedom of the Press, per ordinare la divulgazione del contenuto dell’accusa una volta confermata la sua esistenza. Il Dipartimento di Giustizia, da parte sua, difende il segreto fino all’arresto dell’accusato.

Nel frattempo le autorità britanniche mantengono la loro intenzione di arrestare Assange se lascerà l’ambasciata per aver violato la libertà vigilata quando vi è entrato sei anni fa (nonostante l’indagine giudiziaria svedese sia finita nel nulla e non siano state presentate accuse). Molto probabilmente in questo caso gli Stati Uniti chiederanno la sua estradizione. Questi fatti rafforzano le argomentazioni di Assange e dei suoi legali, secondo cui negli Stati Uniti corre il rischio di un processo che potrebbe comportare la pena di morte. Questa è la ragione principale per mantenere l’asilo.

E’ difficile per gli Stati Uniti perseguire il giornalista per la pubblicazione di migliaia di documenti riservati, in quanto ciò implicherebbe un attacco alla libertà di stampa. Inoltre, dovrebbero accusare anche i grandi media che hanno riportato le sue rivelazioni. Vale la pena di ricordare che Wikileaks è un portale dove vengono pubblicati documenti consegnati da coloro che in inglese sono chiamati “whistleblowers”, ossia persone che denunciano irregolarità nelle istituzioni in cui lavorano per considerazioni di pubblico interesse. Wikileaks verifica l’origine dei documenti, ma protegge l’identità del denunciante. Per lo stesso motivo, Assange non è, come a volte viene chiamato, un “hacker” (nel senso di chi viola la sicurezza delle apparecchiature elettroniche senza autorizzazione[1]), ma il direttore di una casa editrice.

Per questo motivo gli Stati Uniti cercano piuttosto di collegarlo allo spionaggio, ma in tal caso dovrebbero dimostrare che lavora per qualche altro governo. Ci sono ora segnali che lo accusano di collusione con la Russia nel possibile coinvolgimento dei servizi segreti russi nel furto di e-mail del Partito Democratico, che sono state poi pubblicate da Wikileaks durante l’ultima campagna presidenziale, fatto che potrebbe aver favorito la candidatura di Donald Trump. Wikileaks ha negato qualsiasi collegamento con i russi al riguardo.

Al di là dei dettagli dell’accusa, ciò che è chiaro è che i governi interessati non perdonano Wikileaks per aver rivelato i loro documenti riservati. Ancora meno vogliono riconoscere che Wikileaks ha reso all’umanità un grande servizio portando alla luce questioni sulle quali i governi dovrebbero essere ritenuti responsabili, specialmente quando è in gioco l’uso di fondi pubblici.

L’Ecuador sotto pressione

Intanto la situazione di Julian Assange nell’ambasciata ecuadoriana, dove è praticamente segregato da sei mesi, è sempre più insostenibile; tutto indica che questo è esattamente l’obiettivo del governo di Lenin Moreno, che lo considera un ospite indesiderato e una scomoda eredità del governo precedente. Lo scorso luglio la Corte Interamericana ha sentenziato che l’Ecuador ha l’obbligo, non solo di garantirgli l’asilo, ma anche di adottare misure positive affinché non venga consegnato, il che senza dubbio ha impedito la sua espulsione dall’ambasciata. Da ottobre gli è stato imposto un protocollo di “regole di coesistenza” che violano i suoi diritti fondamentali e la libertà di espressione. Da notare anche che il 21 novembre, con decreto presidenziale, l’ambasciatore ad interim Carlos Antonio Abad Ortiz è stato licenziato prima della scadenza normale e che tutto il personale dell’ambasciata è stato cambiato. Da dicembre in poi Assange deve coprire le proprie spese di vitto e comunicazione. Tutto indica che, non potendolo espellere, vogliono rendergli la vita così difficile da costringerlo a lasciare l’ambasciata, sia per sua volontà o per un problema di salute (che è già abbastanza delicata a causa dell’isolamento e del mancato accesso a cure mediche adeguate).

Non è un caso che il governo dell’Ecuador, che in ambito internazionale sta privilegiando i rapporti di cooperazione e gli accordi commerciali con gli Stati Uniti e il Regno Unito, sia soggetto a molteplici pressioni per revocare l’asilo di Julian Assange. Quando il vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence ha visitato Quito lo scorso giugno, ha discusso la questione con il presidente Moreno su richiesta di diversi senatori, soprattutto del Partito Democratico. Mentre Moreno ha negato di aver affrontato la questione Assange, la Casa Bianca lo ha confermato, aggiungendo che hanno convenuto di rimanere in stretto coordinamento per le prossime tappe. Le attuali pressioni su Assange fanno forse parte di questi “passi”?

L’Ecuador si è distinto sulla scena mondiale per aver concesso l’asilo a Julian Assange, sfidando le pressioni delle grandi potenze. E’ stato l’attuale governo a dargli la cittadinanza un anno fa. Sembra però che tutto ciò sia ormai acqua passata; a questo punto, solo una forte campagna internazionale in difesa dei diritti di Julian Assange e di Wikileaks potrebbe impedire un esito fatale.

Sull’autrice

Sally Burch, giornalista ecuadoriana britannica, è direttore esecutivo dell’Agenzia di Informazione Latinoamericana (ALAI). Twitter @SallyBurchEc

1] Per il movimento hacker, il termine si riferisce più alla competenza informatica.

tratto da: https://www.pressenza.com/it/2018/12/julian-assange-con-le-spalle-al-muro/

 

Poveri anziani, quasi la metà non può permettersi di accendere il riscaldamento…!

 

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Poveri anziani, quasi la metà non può permettersi di accendere il riscaldamento…!

Un’indagine di Spi Cgil e Fondazione Di Vittorio rivela che per il 14% degli anziani la pensione non basta per potersi permettere una temperatura adeguata in casa, e il 33% potrebbe essere a breve in questa situazione

Quasi la metà degli anziani non si può permettere di accendere i termosifoni in casa. O rischia di non poterlo fare più nel prossimo futuro. Sono i “poveri energetici”, gli italiani con una pensione che non basta a pagare le bollette del gas, dell’acqua calda e dell’elettricità. Di loro si è occupata un’indagine realizzata dallo Spi, il Sindacato dei pensionati della Cgil, e dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio, secondo cui a vivere in questa situazione è il 47% degli anziani intervistati da Nord a Sud. Con conseguenze gravi anche sullo stato di salute e i livelli di mortalità.

Dai risultati emersi dalle interviste (979), viene fuori che il 14% dei pensionati non riesce a mantenere una temperatura adeguata in casa. E non solo perché far partire la caldaia costerebbe troppo a fine mese, ma anche perché nel 18% dei casi negli appartamenti manca del tutto l’impianto di riscaldamento. In altri casi sono gli infissi a essere inadeguati. E per sostituirli, la pensione non basta.

Oltre i “poveri energetici” veri e propri, il 33% degli intervistati è a rischio povertà energetica. Con condizioni economiche né agiate né di indigenza, ma comunque non in grado di poter garantire una temperatura confortevole tra le mura di casa nel prossimo futuro.

Il 14% dei pensionati non riesce a mantenere una temperatura adeguata in casa. E non solo perché far partire la caldaia costerebbe troppo a fine mese, ma anche perché nel 18% dei casi negli appartamenti manca del tutto l’impianto di riscaldamento

I poveri energetici sono per lo più anziani soli, vedovi o vedove, che vivono in piccoli appartamenti tra i 40 e i 60 metri quadri, in condomini cittadini, e senza grandi attività sociali. Le donne sono la maggioranza. E più si va avanti con l’età più le condizioni economiche peggiorano. I più poveri sono gli ex artigiani e le ex casalinghe. Se la passano quelli che hanno lavorato come operai. Ma tra coloro che non hanno una pensione da lavoro, affidandosi a invalidità, reversibilità o pensione sociale, le condizioni di fragilità economica sono ancora più gravi.

Tra chi è in affitto, poi, le ristrettezze energetiche aumentano: una sola pensione non basta a pagare la rata mensile e a riscaldare la casa. Il 73,8% tra i più poveri accende i riscaldamenti “solo se strettamente necessario”. Con una spesa media annua per il gas di soli 258 euro, circa 500 euro in meno dei coetanei che se la passano meglio.

Dal punto di vista territoriale, la quota più sostanziosa di poveri energetici si trova in Calabria (45,4%), cui si contrappone il dato registrato in Toscana (6,8% di poveri). L’incidenza della povertà raddoppia per coloro che sono separati (o divorziati) o vedovi e arriva a superare il 30% per nubili e celibi. E «a uno stato di povertà energetica si accompagnano generalmente condizioni di salute precarie, se non compromesse», spiegano nell’indagine.

Un bonus sociale per l’energia elettrica e il gas, in realtà, ci sarebbe dal 2008. Ma quello che viene fuori dai dati è che solo il 30% di chi aveva diritto ne ha usufruito, tra una platea di destinatari ridotta all’osso, buoni di copertura della spesa troppo bassi e un inter amministrativo e burocratico da azzeccagarbugli. Non proprio agevole per un 70-80enne.

 fonte: https://www.linkiesta.it/it/article/2018/11/27/anziani-poveri-energetici/40275/?fbclid=IwAR2NzKZ09Q9oZOfpv1waJaqGZDz3sU_-7P2WTbslRuXwSR5g5FNR7535DpI

…E finalmente Salvini smentisce Paolo Villaggio che gli diceva: “sui migranti non avete la personalità dei nazisti…”

 

Paolo Villaggio

 

 

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…E finalmente Salvini smentisce Paolo Villaggio che gli diceva: “sui migranti non avete la personalità dei nazisti…”

In una trasmissione del 2011 Paolo Villaggio con l’arma dei paradosso replicava al razzismo di Borghezio e di uno sbarbato Salvini, ridicolizzandoli…

Ecco alcuni passaggi di una trasmissione de La7, Tetris, del 2011 nella quale Paolo Villaggio si confrontava con Borghezio e un giovane Salvini proprio sui temi dell’immigrazione.
Già allora i leghisti (ancora padani) martellavano sugli stranieri.
E Villaggio aveva usato l’arma dell’ironia e del paradosso per controbattere alla solita retorica leghista. Parlando della necessità di buttare fuori gli immigrati l’autore di Fantozzi aveva detto: “allora liberiamoci di dare di tutto quello che dà fastidio. Gli anziani si potrebbero eliminare facilmente, i mutilati, i ciechi, gli storpi, i malati di mente, tutto quello che dà fastidio alla nostra cultura”.
E aveva aggiunto: “Il timore che abbiamo noi Fantozzi è che voi leghisti non avete la personalità che avevano una volta i nazisti. E quindi sarebbe il caso di appaltare l’eliminazione degli extracomunitari (…) a un’associazione tedesca. Vi do un’indicazione: ci sono i pronipoti di quelli di Auschwitz e Belsen. Quelli sono bravi a eliminare il problema”.

63 anni fa “il gesto” di Rosa Parks che con il suo NO a cedere a un bianco il suo posto sul bus sfidò il razzismo – 50 anni dopo un cretino a Milano propose carrozze separate per bianchi e neri. Non Vi dico chi è il cretino, dico solo che oggi è Vice-Prenier…

 

Rosa Parks

 

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63 anni fa “il gesto” di Rosa Parks che con il suo NO a cedere a un bianco il suo posto sul bus sfidò il razzismo – 50 anni dopo un cretino a Milano propose carrozze separate per bianchi e neri. Non Vi dico chi è il cretino, dico solo che oggi è Vice-Prenier…

Il gesto di Rosa Parks spiegato agli ignoranti ed a Salvini:

La donna di colore (una negra) si rifiutò di cedere a un bianco il suo posto sul bus. Fu arrestata ma da allora nulla fu più come prima…

E’ stata un’eroina dei diritti civili. Tanta strada è stata fatta, ma tanta ancora ne resta da fare (soprattutto in Italia): con il suo  rifiuto di cedere il posto su un autobus a un bianco, Rosa Parks ha mutato la storia dei diritti civili.

Era il primo dicembre del 1955 a Montgomery, in Alabama, uno stato particolarmente razzista. Rosa Parks stava tornando a casa dopo il lavoro di sarta in un grande magazzino. Faceva molto freddo e la donna, non trovando posti liberi nel settore riservato agli afroamericani, decise di sedersi al primo posto dietro alla fila per i bianchi, nel settore dei posti “comuni”.

Dopo di lei salì un uomo bianco, che restò in piedi. Dopo qualche fermata l’autista chiese a Rosa di lasciare libero quel posto. Lei non si scompose e rifiutò di alzarsi con dignitosa fermezza.

Per quel “no” fu arrestata e portata in carcere. Quella stessa Martin Luther King, insieme ad altre decine di leader delle comunità afroamericane, pose in atto una serie di azioni di protesta. Tra queste, il boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery, che andò avanti per 381 giorni, affinché fosse cancellata una norma odiosa e discriminatoria.

Il 13 novembre 1956, la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò fuorilegge la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici poiché giudicata incostituzionale.

50 annio dopo il Italia

Era il 7 maggio 2009. In occasione della presentazione della lista dei candidati della Lega alle provinciali che si sarebbero tenute di lì a un mese, Salvini tirò fuori una delle sue peggiori proposte provocatorie: riservare vagoni della metropolitana alle donne e ai milanesi e relegare in altre gli extracomunitari. Le sue esatte parole furono “Prima c’erano i posti riservati agli invalidi, agli anziani e alle donne incinte. Adesso si può pensare a posti o vagoni riservati ai milanesi. Ho scritto al presidente di Atm perché valuti la possibilità di riservare le prime due vetture di ogni convoglio alle donne che non possono sentirsi sicure per l’invadenza e la maleducazione di molti extracomunitari”
Sul web si scatenò furiosa la risposta. Un gruppo di protesta su Facebook  che si chiamava “Sì alle carrozze metro separate: non vogliamo più sederci vicino ai leghisti” in meno di due settimane raggiunse i 15.000 membri. (https://www.facebook.com/groups/79027087825/)

Alcuni stralci di stampa dell’epoca:

Milano, la proposta della Lega “Carrozze metro solo per milanesi”
Provocazione della Lega: “Sui metrò posti riservati ai milanesi”. “No” e critiche da Pdl e Pd

 

By Eles

Fake news di Stato – Ci hanno raccontato di 38 furti subiti, prima di reagire e sparare… Ma non è vero niente! Chi ha interesse ad alimentare il clima da Far West e perché?

Fake news

 

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Fake news di Stato – Ci hanno raccontato di 38 furti subiti, prima di reagire e sparare… Ma non è vero niente! Chi ha interesse ad alimentare il clima da Far West e perché?

Ci hanno raccontato di 38 furti subiti, ma non è vero niente

La storia di Fredy Pacini non è come ve l’hanno raccontata. I 38 furti subiti in realtà sono stati due, e quattro tentativi di furto denunciati. Anche sommando i tentativi denunciati, il totale è sei e non 38. Così ci ha confermato anche il Capitano dei Carabinieri di zona. Chi ha interesse, dunque, ad alimentare il clima da Far West? A chi giova gridare all’insicurezza e demandare la difesa pubblica a un esercizio da pistoleri privati?

Trentotto furti subiti, oppure quattro, o sei, non sono la stessa cosa. Come non è la stessa cosa sparare cinque colpi oppure nessuno. Non è la stessa cosa sparare in aria o a qualcuno che scappa nel cortile della tua azienda oppure ti affronta con una bomba a mano stretta nel pugno in camera da letto. Difendere le proprie idee a scapito della verità è da cretini. La gente per bene non distorce i racconti, e non lascia punti oscuri nella narrazione delle notizie. Dobbiamo imparare a odiare chi esaspera le notizie, e chi usa quell’esasperazione per abbreviare i tempi di approvazione di una legge.

Sulla legittima difesa vi ci siete buttati come cani, difendendola a prescindere dalla vita. Avete usato l’ennesimo uomo armato, ieri a Monte San Savino, un uomo che ha sparato e ucciso un altro uomo, probabilmente ladro, sicuramente disarmato. I cani che ho avuto io erano tutte personcine per bene. Mentre qui la difesa del gesto del proprietario d’azienda, dai social al Ministro degli Interni Matteo Salvini, è stata meno Zanna Bianca e più Cerbero, il cane a tre teste della mitologia greca.

Fredy Pacini, ieri notte, dall’interno della sua azienda nella quale dormiva, ha sparato a due presunti ladri in fuga, nel piazzale della sua ditta. Ha sparato più colpi, cinque, due sono arrivati a segno, uno ha reciso l’arteria, l’uomo ha fatto pochi passi, si è accasciato al suolo ed è morto. L’uomo ha un nome e un cognome: Vitalie Tonjoc, e aveva 29 anni ed era incensurato.

Il Ministro degli Interni avvia immediatamente la sua macchina comunicativa: social, dichiarazioni tv, comunicati stampa. “Faremo una legge per la difesa sempre legittima”, tuona. Neanche la sua legge, però, salverebbe Fredy Pacini secondo la ricostruzione di spari a uomini disarmati e in fuga.

Fredy Pacini, alcune ore dopo, dichiara di aver subito già 38 furti. Trentotto furti, converrete, sono davvero tanti, soprattutto in un arco temporale così ristretto. Nel frattempo, la polemica politica divampa, la legge sulla difesa sempre legittima sembra già di vederla, scritta pronta e mangiata.
Faccio qualche domanda a giro e scopro che non è vero che Fredy Pacini abbia subito 38 forti, o almeno è vero il fatto che Fredy Pacini tutti quei tentativi di furto non li ha mai denunciati. Telefono al capitano dei carabinieri Monica Dallari e conferma: “No, non risultano neanche a noi”.
Riassumendo: dal 2014 a oggi risultano soltanto sei denunce fatte da Fredy Pacini, e di queste solo due per furto. Le altre quattro sono invece tentativi di furto. In totale, comunque, non trentotto denunce ma solo sei. Il capitano dei carabinieri dice: “Si è un po’ gonfiato il numero”. E sì, si è un po’ gonfiato. Chissà a favore di chi.
Non solo: in tutta la zona di Monte San Savino, nell’ultimo anno, risultano secondo il capitano dei carabinieri, soltanto sei furti. Cioè “in tutti i capannoni della zona industriale dove lavora Fredy Pacini, solo sei furti nell’ultimo anno. Sei furti in totale, sommati fra tutte le aziende. Questo non è il Far West come qualcuno ha provato a raccontare”.

La mia idea è che si voglia cavalcare ancora una volta l’onda della paura – non giustificata dai numeri – per alzare il livello di scontro nel Paese. Un gioco macabro, che ci fa precipitare – questa volta sì – davvero, nell’insicurezza, alimentando la paura non giustificata. La mia idea è che si accarezzino gli atavici timori per un tornaconto in termini di Governo. Perché sempre, quando si usa un fatto di cronaca per comprimere i tempi di approvazione di una legge, si è sempre sul filo del burrone.

A questo punto è necessario fare un passo indietro e ripercorrere la storia dall’inizio, perché qualcosa non quadra, e lo zampino della politica – che si è gettata su questa storia, azzannandola quando già perdeva sangue – non aiuta a dipanare la matassa.

Ora dovrà indagare la magistratura e capire fino a che punto una questione umana, il terrore dei furti, abbia effettivamente inciso sul gesto, e quanto il gesto avesse una reale motivazione di legittima difesa. Stando ai numeri sembra ne avesse poca, anche se certa politica ha gridato “hai fatto bene a sparare”. Tutto questo, però, lo dovrà decidere un processo.
Ieri invece il Ministro degli Interni Matteo Salvini, con un cadavere in terra ancora caldo e le indagini in corso, ha dichiarato “le istituzioni sono con te”, così ci ha riferito Alessandra Chelli, che con il Ministro ha parlato al telefono. E io penso che sostituirsi alle indagini, parlare a nome delle Istituzioni del Paese rispetto a un’azione su cui la magistratura ha appena iniziato a indagare, sia grave come sparare.

E alla fine di tutto, ma anche al principio di questa storia, rimane inevasa la più importante delle domande: quanti pneumatici, secondo voi, vale la vita di un uomo? In altre parole: dopo quante gomme da strada rubate si può uccidere una persona? Una o cento? Secondo me neanche tutti i pneumatici del mondo moltiplicati per tre valgono la vita di un Uomo.

 

fonte: https://www.fanpage.it/ci-hanno-raccontato-di-38-furti-subiti-ma-non-e-vero-niente/