15 febbraio del 1936 – La battaglia di Amba Aradam in Etiopia… per noi solo un intercalare, un modo di dire. Per la storia un genocidio, uno dei peggiori crimini di guerra dell’Italia fascista.

 

Amba Aradam

 

 

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15 febbraio del 1936 – La battaglia di Amba Aradam in Etiopia… per noi solo un intercalare, un modo di dire. Per la storia un genocidio, uno dei peggiori crimini di guerra dell’Italia fascista.

“Ambaradan”, quando una parola nasce da un genocidio
Lo hanno coniato i reduci dalla campagna in Etiopia, una guerra che ha violato la Convenzione di Ginevra ed è stata portata avanti anche grazie a tribù mercenarie

 

«Tutto l’ambaradan». Probabilmente vi sarà capitato di sentire questa parola, o magari di pronunciarla, almeno una volta. Nel corso degli anni sono nate anche pizzerie, case editrici, negozi di articoli da regalo o di antiquariato con questo nome. Ma che cos’è l’ambaradan?

Deriva da un massacro compiuto nel ’36 dall’eserciro Italo-fascista in Etriopia. febbraio del 1936 l’esercito italiano, in piena fase di espansionismo coloniale, è in guerra contro quello d’Etiopia. Il territorio è ricco di risorse e Mussolini pensa che l’Italia possa far valere la sua presunta superiorità, culturale ma soprattutto tecnologica, in poco tempo. La realtà è un’altra. Quello etiope è un impero millenario, ricco di storia, e il suo esercito riesce a dar filo da torcere agli invasori. Così, le truppe di Badoglio fanno ricorso alle armi chimiche.

È il 15 febbraio del 1936 quando l’esercito italiano, nei pressi del massiccio montuoso dell’Amba Aradam, prova a piegare la resistenza locale una volta per tutte. Si rivolge anche a delle tribù mercenarie, che però passano da una fazione all’altra a seconda della cifra offerta. Nei fatti, non si riesce a capire contro chi si stia combattendo. Insomma, «è tutto un ambaradan».

L’espressione nasce alla fine della guerra, quando i reduci la usano per descrivere situazioni di confusione durante una battaglia. «Proprio come ad Amba Radam». Da lì, per crasi, è diventata una parola unica. E per dei difetti di pronuncia, protrattisi negli anni, la “m” finale si è trasformata in “n”.

CRONACA DI UN GENOCIDIO: L’USO DELL’IPRITE

La battaglia dell’Amba Radam si risolve grazie al gas iprite rilasciato a bassa quota dall’aviazione. Anche sui civili. A terra, i soldati sparano proiettili all’arsina e al fosgene, fortemente tossici. Di fatto, si tratta di una evidente, ma rinnegata per decenni, violazione della Convenzione di Ginevra del 1928. L’iprite attacca le cellule con cui entra in contatto, distruggendole completamente. Causa infiammazioni, vesciche e piaghe, agisce anche sulle mucose oculari e sulle vie polmonari. La sofferenza è disumana. Nel luglio del 1936 l’imperatore deposto, Hailé Selassié, denuncia tutto all’assemblea della Società delle Nazioni, la mamma dell’Onu. L’Italia riconoscerà le sue colpe solo nel 1996, ammettendo l’utilizzo di armi chimiche in Etiopia, grazie alla desecretazione degli archivi voluta dal ministro della Difesa, il torinese Domenico Corcione.

Prove di genocidio anche nell’aprile del 1939, quando vengono chiuse le vie d’uscite delle grotte dell’Amba Aradam. All’interno vengono localizzati alcuni partigiani etiopi. La loro resistenza si sgretola sotto le bombe al veleno. Muoiono soldati e civili, donne e bambini. Chi sopravvive all’iprite è arso vivo con i lanciafiamme. Le sofferenze continuano fino al 1941, quando gli inglesi prendono il controllo della colonia italiana. Sono cinque anni di violenza indiscriminata, nascosta dal fumo dei gas: esecuzioni, stupri, campi di concentramento, torture. Nessuno ha pagato per aver violato i diritti umani. Uno dei responsabili, il governatore fascista dell’Etiopia Rodolfo Graziani, è stato inserito nella lista dei criminali di guerra senza venire mai processato.

«ITALIANI, BRAVA GENTE»

Sulle violenze in Etiopia sono stati scritti tantissimi saggi, firmati da fior di antropologi. Documenti che hanno sconfessato il mito degli «Italiani brava gente», nato già all’epoca delle prime guerre coloniali (1885). Un falso storico. Sì, in Etiopia si sono costruite strade e scuole: le prime necessarie per i trasporti e gli autocarri, le seconde riservate inizialmente solo ai bianchi.

Un colonialismo breve, estremamente violento, conclusosi con un nulla di fatto. Oggi pesa nel conto delle accise sulla benzine, destinate a ripagare quella spedizione. L’Etiopia non ha mai capito il perché di quella guerra. Non è stata una colonizzazione, bensì un’invasione crudele, sprezzante di tutti i trattati internazionali. A distanza di oltre 80 anni è ancora inspiegabilmente ricordata dalla toponomastica di alcune città italiane. Da Roma a Genova, c’è “via dell’Amba Aradam”. Una testimonianza stradale di un revisionismo persistente. Per capire il paradosso, cosa pensereste se vi ritrovaste a percorrere un’ipotetica “via Auschwitz” nel cuore di Berlino?

tratto da: https://www.lastampa.it/2017/02/15/cultura/ambaradan-quando-una-parola-nasce-da-un-genocidio-VJH151SisQGoBRJpqPGqXK/pagina.html

C’è al mondo qualcosa di più sporco, nauseante e schifoso che discriminare i bambini? Ecco l’iniziativa del consigliere comunale FdI di Mantova Luca de Marchi: Frittelle gratis al luna park, ma solo per i bambini italiani… Ma non è tanto quest’essere che mi fa schifo, ma chi lo vota…!

 

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C’è al mondo qualcosa di più sporco, nauseante e schifoso che discriminare i bambini? Ecco l’iniziativa del consigliere comunale FdI di Mantova Luca de Marchi: Frittelle gratis al luna park, ma solo per i bambini italiani… Ma non è tanto quest’essere che mi fa schifo, ma chi lo vota…!

 

Condividi quest’articolo se anche a te quest’essere ignobile fa schifo…  Tutti devono vedere in faccia il sig Luca de Marchi… Perchè discriminare i bambini è la carognata più grave che un essere umano possa compiere. Ma i fascisti sono esseri umani…?

Polemiche per l’iniziativa di un consigliere comunale di Fratelli d’Italia a Mantova, Luca De Marchi. L’esponente politico, in passato militante di Lega e CasaPound, ha annunciato che venerdì pomeriggio avrebbe distribuito frittelle gratis al luna park cittadino ma “solo ai bambini italiani”. Duro il sindaco Mattia Palazzi che dice: “Discriminazione che istiga al razzismo e che serve a lui per visibilità.

Frittelle gratis al luna park cittadino, ma solo per i bambini italiani. Questa l’iniziativa del consigliere comunale di Mantova Luca de Marchi che ha alimentato numerose polemiche. Lo stesso esponente politico cittadino ha chiarito il significato dell’iniziativa attraverso una nota, riportata dal quotidiano “La Gazzetta di Mantova”: “Puntiamo lo sguardo sulle famiglie extracomunitarie che, in realtà, godono, per quanto riguarda l’infanzia, di numerose agevolazioni, mentre le famiglie mantovane troppo spesso devono rinunciare ai momenti di svago con i figli perché subissate di pensieri riguardanti le difficoltà finanziarie”. Per questo motivo venerdì 15 febbraio, alle 15, il consigliere De Marchi aveva deciso di distribuire le frittelle, “dolce tipico della tradizione mantovana”, ma “solo ai bambini italiani”, fedele al motto che campeggia in diversi suoi post su Facebook: “Prima gli italiani”.

De Marchi, ex leghista, è passato da CasaPound a Fratelli d’Italia
Sono tante le polemiche sollevate dall’iniziativa di De Marchi, per altro non nuovo a sortite volte alla ricerca di visibilità mediatica. Già ex capogruppo della Lega in Comune, De Marchi è stato eletto alle Comunali del 2015 in una lista civica ma nel 2018 è passato nelle fila di CasaPound, partito per cui è stato anche candidato alla Camera alle elezioni politiche del 4 marzo. Poi però, a giugno, è stato espulso dal movimento politico di estrema destra per aver partecipato al Gay Pride: “De Marchi predilige ancora una volta la ricerca di visibilità personale alla condivisione di intenti con una comunità politica che da sempre è esteticamente e politicamente distante da certe manifestazioni”, aveva scritto CasaPound in una nota. In seguito De Marchi è passato tra le fila di Fratelli d’Italia.

Il sindaco: “Discriminazione che istiga al razzismo, fatta per avere visibilità”
Sull’iniziativa del consigliere De Marchi è intervenuto anche il sindaco di Mantova, Mattia Palazzi: “È evidente che si tratta di una discriminazione che istiga al razzismo, un’uscita che serve a lui per visibilità e per continuare a prendere voti in quella sacca che purtroppo c’è e fa discriminazione”, ha spiegato il sindaco interpellato da Fanpage. “Detto ciò – ha aggiunto ironicamente Palazzi – spero che i bambini ci vadano in migliaia, mano nella mano accompagnati dai propri amici di scuola, immigrati e non, così spenderà sicuramente tanti soldi e forse ci penserà un’altra volta a fare una cosa del genere. E poi voglio vedere con che faccia dirà di no ai compagni di scuola non italiani, che però magari sono nati nella nostra città”.

tratto da Fanpage.it

 

 

Il curioso conflitto d’interesse del leghista Pillon, difensore della “famiglia tradizionale” – Nel suo ddl sull’affido condiviso vuole rendere obbligatoria (E A PAGAMENTO) la MEDIAZIONE FAMILIARE… Ma tu guarda un po’ le coincidenze, Pillon fa proprio il MEDIATORE FAMILIARE…!

 

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Il curioso conflitto d’interesse del leghista Pillon, difensore della “famiglia tradizionale” – Nel suo ddl sull’affido condiviso vuole rendere obbligatoria (E A PAGAMENTO) la MEDIAZIONE FAMILIARE… Ma tu guarda un po’ le coincidenze, Pillon fa proprio il MEDIATORE FAMILIARE…!

Da L’Espresso:

Quel curioso conflitto d’interesse del leghista Pillon, difensore della “famiglia tradizionale”

Nel suo ddl sull’affido condiviso vuole rendere obbligatoria (e a pagamento) la mediazione familiare. E lui fa proprio il mediatore. Tanto che per promuovere la sua attività sul sito del proprio studio legale scrive: «È in corso di approvazione una modifica al codice civile»

DI SIMONE ALLIVA
Senatore leghista ma anche avvocato. Membro di spicco del Family Day e promettente “cacciatore di streghe” nelle scuole. Ma non solo. Il senatore Simone Pillon che si è distinto negli ultimi mesi per diverse iniziative a favore della “famiglia tradizionale” è anche un mediatore familiare.

Un ruolo che la riforma dell’affido condiviso, firmata proprio da Pillon, renderebbe obbligatorio e a pagamento. In relazione alla mediazione familiare, il ddl prevede la creazione presso il ministero della Giustizia di un apposito albo dei mediatori e punta a rendere obbligatorio il ricorso alla mediazione in caso di separazione e di divorzio. Se prima era una possibilità, quello del mediatore potrebbe diventare un imperativo piuttosto oneroso, pronto a ingrossare il bilancio di spesa per le coppie che si vogliono separare.

E ad avvantaggiarsene sarebbero proprio i mediatori, di cui Pillon fa parte. Il senatore leghista vanta infatti nel curriculum un master breve di Mediazione Familiare accreditato dall’AIMEF (2011-2013). E la sua proposta normativa introduce e regolamenta questa figura stabilendo ruoli e competenze del mediatore che dovrà guidare gli ex coniugi a gestire, nel miglior modo possibile per i figli, la separazione. I coniugi con figli minori per separarsi dovranno essere, per legge, seguiti da un mediatore per una durata massima di sei mesi.  La mediazione familiare prevede da sei a dieci incontri con un costo variabile da 50 ai 100 euro ad incontro.

Come già riportato su La Repubblica da Alessandro Simeone, Avvocato del Comitato Scientifico de Il Familiarista, portale interdisciplinare in materia di diritto di famiglia di Giuffrè Francis Lefebvre: «Le nuove norme metteranno a disposizione degli avvocati e psicologi che siano anche mediatori familiari sino a 77 milioni di euro all’anno a disposizione dei “mediatori familiari”; soldi che saranno pagati dai cittadini, visto che il ddl Pillon prevede che lo Stato non ci metta un euro senza considerare i corsi di formazione per diventare mediatori familiari, che dovranno essere seguiti dagli avvocati “junior” o dai giovani laureati in disciplina “sociali mediche, psicologiche, giuridiche o pedagogiche». Altri nove milioni di euro, calcola Simeone.

Eppure l’opportunità della mediazione familiare per gli avvocati risulterebbe inutile. È quanto emerge dal questionario elaborato dall’Organismo unitario dell’avvocatura sulla mediazione familiare, che ha coinvolto nel 2016, 80 diversi fori di appartenenza. “Esperienze negative, accordo difficile da raggiungere, mancanza di fiducia nei confronti dei mediatori non avvocati, che rischiano di essere solo un ulteriore orpello burocratico nella risoluzione della lite”.

Disturba inoltre parte della maggioranza giallo-verde il fatto che sul sito del proprio studio legale il senatore Pillon nel pubblicizzare le competenze legali alla voce “mediazione familiare” assicuri l’approvazione del proprio ddl: “È in corso di approvazione una modifica al codice civile” si legge “che conferirà grande rilievo all’attività di mediazione nel corso dei procedimenti per la separazione dei coniugi. In vista di ciò in molti Atenei italiani si stanno realizzando corsi di alta formazione (Master) finalizzati alla creazione del profilo di “mediatore familiare”.

«Un caso di opportunismo un po’ scomodo» confessa all’Espresso una fonte vicina al governo. Il ddl è stato al momento soltanto incardinato in Commissione Giustizia. Fermo, probabilmente per qualche mese.

fonte: http://m.espresso.repubblica.it/attualita/2018/09/17/news/pillon-1.327016?fbclid=IwAR1OQqAOkKIqIWBpXY0ruDtR3wxSx4cVf9eqj_ijrrq9VaeDS1C0IyKqlK8

Per capire veramente il problema dell’Africa: Quando Sankara invitò tutti gli Stati africani a non pagare il debito pubblico… 2 mesi dopo fu ucciso!

 

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Per capire veramente il problema dell’Africa: Quando Sankara invitò tutti gli Stati africani a non pagare il debito pubblico… 2 mesi dopo fu ucciso!

A trent’anni dalla morte del rivoluzionario leader del Burkina Faso, manca ancora la verità su chi l’ha ucciso

Era il pomeriggio del 15 ottobre 1987 quando Thomas Sankara, da tre anni alla guida dell’ex colonia francese Alto Volta, da lui rinominata Burkina Faso (ovvero “Patria degli Uomini di valore”), viene falciato da una raffica di mitra in un agguato ordito da un gruppo di uomini armati nei pressi della sede del Consiglio Nazionale della Rivoluzione, nella capitale Ouagadougou. Insieme a lui vengono uccisi anche altri dodici ufficiali e membri del suo governo.

Chi era Thomas Sankara? E da chi e perché è stato ucciso? Alla prima domanda è possibile rispondere, ma rispetto altre due, trent’anni dopo la sanguinosa imboscata di cui il presidente e fondatore del Burkina Faso è rimasto vittima, non tutto è stato ancora chiarito.

Per capire perché ancora oggi la volontà di far luce sull’omicidio di Sankara sia ancora tanto forte e radicata soprattutto nei giovani africani, è utile ripercorrere la vita dell’ex presidente. Nato nel 1949, era figlio di un militare che aveva servito nell’esercito francese durante la Seconda guerra mondiale.

Dopo gli studi, intraprende la carriera militare e nel 1976 viene assegnato al centro di Po, dove – ricorda Daniele Bellocchio su Gli occhi della Guerra – ha inizio anche il suo percorso politico. Oltre a formare militari ben addestrati, infatti, Sankara si preoccupa anche di dare ai soldati sotto il suo comando una cultura civica, impiegandoli per esempio in servizi di pubblica utilità come scavare pozzi e occuparsi del rimboschimento. Amatissimo dai suoi uomini, la popolarità dell’ufficiale con il basco rosso inizia a diffondersi anche in larga parte della popolazione.

Dopo i golpe del 1980 e del 1982, Sankara diventa primo ministro nel governo di Ouédrago, che poco dopo però, a fronte della sua sempre maggiore fama, lo fa arrestare. Ottenendo però l’effetto contrario a quello sperato: la popolazione infatti si ribella e nel 1983 Thomas Sankara diventa presidente.

Il Paese che eredita – ricorda ancora Bellocchio – è soffocato da una situazione economica disastrosa. La risposta del neo capo dello Stato, che intende dimostrare che anche il Paese più povero dell’Africa può riuscire a farcela senza gli aiuti internazionali, è decisa: sono infatti messe in atto una serie di riforme radicali, tra cui la costituzione del Consiglio Nazionale della Rivoluzione e dei Comitati per la difesa della Rivoluzione (che hanno il compito di estendere ad ampi strati della popolazione il potere decisionale), una riforma agraria che ha come risultato un notevole aumento della produzione di cereali e cotone, una riorganizzazione dell’industria finalizzata alla produzione di beni di prima necessità e una riduzione delle spese superflue.

Senza contare una persuasiva opera di sensibilizzazione dei cittadini in merito alle questioni ambientali, una diffusa opera di rimboschimento con funzione anti-desertificazione, la battaglia per l’alfabetizzazione, una campagna di vaccinazione dei bambini che fra crollare il tasso di mortalità e l’impegno a favore dei diritti delle donne, alcune delle quali sono anche chiamate anche a far parte dell’esecutivo.

Quanto alla politica estera, Sankara non ha ottimi rapporti né con l’Unione Sovietica, né con gli Stati Uniti. E nemmeno con la Francia di Mitterand, di cui il Burkina Faso è stato una colonia. Per il presidente comunque, il nemico principale dell’Africa – scrive ancora Bellocchio – è il debito pubblico. Nel suo ultimo intervento all’assemblea dell’Organizzazione per l’Unità africana, che molti ritengono il suo testamento e il motivo della sua morte, Sankara ha invitato tutti gli Stati del continente a rifiutarsi di pagare il debito, “per evitare di farci assassinare individualmente. Se il Burkina Faso lo fa da solo, io non sarò presente alla prossima conferenza”.

Parole profetiche perché appena due mesi dopo, infatti, Sankara viene assassinato. Secondo le indagini il (presunto) responsabile della sua morte è Blaise Compaore, amico e compagno d’armi dell’amato presidente, del quale prende il posto e lo detiene per 27 anni. Anni nei quali anche solo parlare di Sankara (il cui omicidio, nel 1987, fu archiviato come “morte naturale”) è stato un tabù.

Negli ultimi anni però le cose sono cambiate: nel 2014, infatti, una rivoluzione di piazza – nella quale sono stati spesso scanditi slogan tratti dai discorsi di Sankara – ha posto fine alla dittatura totalizzante di Compaore (fuggito in Costa d’Avorio) ed è iniziata, nel Paese, una fase di transizione democratica. Quanto al leader del panafricanismo e icona di un’Africa libera e indipendente, nel 2015 è stata avviata un’inchiesta ufficiale sulla sua morte: il corpo dell’ex presidente è stato riesumato e l’autopsia effettuata ha dimostrato che il padre della Patria del Burina Faso è stato crivellato di colpi. Sulla base delle risultanze dell’indagine, sono inoltre stati emessi due mandati d’arresto in capo a Blaise Compaore e al fratello Francois.

Non è però tutto. Perché meno di due mesi fa (il 28 novembre), il presidente francese Emmanuel Macron, in un discorso pronunciato (non a caso) di fronte agli studenti dell’università di Ouagadougou, ha dichiarato di aver “preso la decisione, in risposta alle richieste della giustizia burkinabè, che tutti i documenti prodotti dalle amministrazioni francesi durante il regime di Sankara e dopo il suo assassinio, coperti dal segreto nazionale, siano declassificati”. Tale passaggio potrebbe risultare decisivo per la scrittura del capitolo finale della storia del capitano Sankara (alla memoria del quale, proprio nel luogo dove è stato ucciso, dovrebbe presto essere eretto un Memoriale), perché significa – sottolinea Bellocchio – impegnarsi a far emergere la verità sul suo assassinio (sia quanto alle responsabilità interne al Burkina Faso, con particolare riferimento a Compaore, sia quanto ai suoi alleati internazionali), fino ad oggi rimasto coperto da una cortina di omertà e paura.

 

 

tratto da: http://www.politicamentescorretto.info/2019/02/11/quando-sankara-invito-tutti-gli-stati-africani-a-non-pagare-il-debito-pubblico-2-mesi-dopo-fu-ucciso/

Ricapitoliamo: Lo Stato tratta con la mafia? Gli Italiani zitti! Legge Fornero? Gli Italiani zitti! Jobs Act? Gli italiani zitti! Spred a 300 e Pil al 02%? Gli Italiani zitti! Dubbi sul televoto di Sanremo? C’è la rivoluzione… Ma cosa vogliamo sperare…?

 

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Ricapitoliamo: Lo Stato tratta con la mafia? Gli Italiani zitti! Legge Fornero? Gli Italiani zitti! Jobs Act? Gli italiani zitti! Spred a 300 e Pil al 02%? Gli Italiani zitti! Dubbi sul televoto di Sanremo? C’è la rivoluzione… Ma cosa vogliamo sperare…?

 

Sì i gilet gialli Italiani si sono mobilitati. Finalmente scendono in piazza. Finalmente protestano. Contro le giurie di Sanremo.

I giornali non parlano di altro.

Il governo compatto per affrontare l’annoso problema del Paese, la priorità che toglie il sonno al popolo italiano. E non parliamo di cazzatelle come il ritiro dell’ambasciatore francese da Roma, o della disoccupazione giovanile, o delle previsioni del Pil praticamente azzarato. Qui si parla di Sanremo, cazzo! Della revisionare il metodo di voto del Festival…

E finalmente abbiamo un Governo degno degli Italioti…

Perchè in passato ci siamo fatti scippare il festival da sotto il naso. E i poteri forti, complice una certa stampa, ci sempre ha nascosto la verità sulle porcherie che abbiamo subito:

Riccardo Cocciante, vincitore di Sanremo ’91, ma era nato a Saigon!

Anna Oxa di padre albanese e madre italiana, vincitrice di Sanremo ’89 e ’99…!

Lola Ponce argentina, vincitrice di Sanremo ’08!

Ermal Meta albanese vincitore di Sanremo ’18.

Ma scherziamo? Ora basta!!!

Nb. A tutti quelli che continuano a rompere i coglioni col fatto che Mahmood ha vinto Sanremo col 14% dei televoti, ricordiamo che il loro capitano, purtroppo, governa l’Italia col 17% dei voti.

By Eles

 

“Ci vuole un po’ di scuola Diaz” …secondo voi lo ha detto: a) un pazzo fuggito dal manicomio criminale; b) un simpatizzante italiano dell’Isis; 3) un capogruppo della Lega. Sicuramente molti di voi avranno indovinato. E qualcuno a questi infami li ha pure votati…!

 

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“Ci vuole un po’ di scuola Diaz” …secondo voi lo ha detto: a) un pazzo fuggito dal manicomio criminale; b) un simpatizzante italiano dell’Isis; 3) un capogruppo della Lega. Sicuramente molti di voi avranno indovinato. E qualcuno a questi infami li ha pure votati…!

Scontri a Torino, Sciretti (Lega) choc: “Ci vuole un po’ di scuola Diaz”. Poi chiede scusa

Tra i tanti commenti, soprattutto sui social, dopo gli scontri scoppiati a Torino durante il corteo contro lo sgombero dell’ex Asilo, occupato da oltre 20 anni dagli anarchici, colpisce uno in particolare.

Non tanto per l’analisi profonda fatta, ma proprio in quanto è a dir poco scioccante. L’autore è il capogruppo della Lega alla Circoscrizione 6 del capoluogo piemontese, tale Alessandro Ciro Sciretti, che commentando gli incidenti che hanno coinvolto la città decide con un post di rispolverare una delle pagine più tristi del nostro Paese: la scuola Diaz.

Già, quanto accaduto (e che ha portato a delle condanne per quella che venne definita “una macelleria messicana”), durante il G8 di Genova, nel 2001, è l’augurio che fa Ciro Sciretti.

Scrive l’esponente della Lega, condividendo un articolo riguardante gli scontri di oggi: «Ditemi voi se tutto questo è accettabile. Nessuna pietà, NESSUNA, per queste persone. Le Forze dell’Ordine sono troppo limitate nei loro poteri. Ci vuole un po’ di Scuola Diaz».

Poi dopo che le agenzie stampa battono quanto espresso dal Sciretti, il post viene aggiornato e il tiro viene aggiustato:«Chiedo scusa a chi non capisce le provocazioni».

Poi scrive ancora: «Facciamo un po’ di chiarezza. Non sono solito nascondermi dietro un dito e amo le provocazioni.

Il mio post è frutto della rabbia di fronte alla violenza cieca ed al vandalismo indiscriminato che il movimento antagonista sta riversando in città in questi giorni.
Rabbia che nasce dall’amore verso la mia Torino e da una storia politica che mi ha visto, molto spesso, oggetto di attenzioni indesiderate da parte di chi preferisce la violenza alla dialettica politica.

Mi richiamo sempre alla legalità.
Per questo, il riferimento ai fatti della Diaz non è, e non può essere preso come, una seria riflessione, ma solo ed esclusivamente come una provocazione.
La Diaz non è una pagina felice né giusta della storia del nostro paese, perché lo Stato deve sempre agire nel solco del diritto.
Per questo, mi scuso.

Detto questo, mi auguro che gli autori dei fatti di oggi vengano perseguiti nel modo più duro, tra quelli previsti dalla legge, e ribadisco ancora un concetto:
SONO, E SARÒ SEMPRE, DALLA PARTE DELLE FORZE DELL’ORDINE».

fonte: QUI

Cosa altro si può dire?

Non c’è alcun commento…!

Il Venezuela di Maduro? Il 70% del PIL va in spesa sociale (in Italia siamo sotto il 14%) – Questa e tutte le altre verità sul dittatore (eletto democraticamente con il 68% dei voti) che gli autoploclamati padroni del mondo americani vogliono deporre a tutti i costi…!

 

Maduro

 

 

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Il Venezuela di Maduro? Il 70% del PIL va in spesa sociale (in Italia siamo sotto il 14%) – Questa e tutte le altre verità sul dittatore (eletto democraticamente con il 68% dei voti) che gli autoploclamati padroni del mondo americani vogliono deporre a tutti i costi…!

Più che il solo petrolio: perché gli Usa hanno fretta con il Venezuela

Intervistato da The Wall Street Journal, il golpista Juan Guaidò ha dichiarato di non credere che Russia e Cina siano veramente dalla parte di Nicolas Maduro: “Essi semplicemente difendono i propri investimenti in Venezuela. A poco a poco però cominceranno a capire che Maduro non può offrire loro né stabilità, né garanzie”.

Appena un paio di giorni fa, la Tass riferiva che il portavoce presidenziale russo Dmitrij Peskov, commentando le notizie diffuse da Bloomberg secondo cui Mosca comincerebbe a dubitare della necessità di continuare a sostenere il presidente venezuelano, aveva ribadito che la “posizione del Cremlino riguardo l’appoggio a Maduro non è cambiata”. Inoltre, smentendo indirettamente voci su presunti piani russi per una operazione come quella che nel 2014 aveva sottratto il presidente ucraino Viktor Janukovich al sicuro linciaggio da parte delle bande naziste, Peskov aveva detto anche che il Cremlino “non sta allestendo alcuna operazione per l’evacuazione del presidente Nicolas Maduro dal Venezuela”, sottolineando “l’inammissibilità di qualsiasi interferenza dall’esterno e le possibili conseguenze catastrofiche di qualsiasi intromissione di forza da parte di paesi terzi”.

Intromissione che, però, nella stessa intervista, Guaidò dà praticamente come certa: “l’intervento militare può essere la forma più efficace di pressione” per costringere “il dittatore ad andarsene” e per la quale il Ministero degli esteri russo afferma di disporre di informazioni secondo cui Washington avrebbe già preso la decisione, pianificando bombardamenti aerei su diverse aree del paese.

Dylan Malyasov scrive poi su Defence Blog che “il Venezuela ha 90 giorni di tempo. È stato diramato l’ordine per la preparazione di attacchi aerei sui principali centri militari e politici del paese, su basi di difesa aerea e forze navali. Contemporaneamente, avanzeranno truppe di terra dalla Colombia”.

In tale situazione, non priva di spunti originali sembra l’analisi condotta da Ruslan Khubiev sulla russa iarex.ru. [nota: con il termine di “rivoluzionari” si intendono i golpisti]

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Più che il solo petrolio: perché gli USA in realtà hanno fretta con il Venezuela

Il mondo dell’uomo moderno è fatto di informazioni che gli vengono trasmesse. Si può essere ovunque, senza varcare la soglia di casa; ma, in tal caso, si deve guardare il mondo con gli occhi degli altri: attraverso gli occhi dei media occidentali, della stampa e soprattutto della propaganda anglosassone.

Nicolas Maduro, presidente venezuelano in carica, dal 2013 ha messo a disposizione circa 1.500.000 di case gratuitamente, ma i media occidentali lo accusano ostinatamente di “gettare la gente in strada”. Caracas, da città delle favelas, si è trasformata in una megalopoli pacifica e tranquilla, ma ciò non impedisce ai media americano-britannici di calunniare il “regime” di connivenza col crimine.

Le merci, importate nel paese dagli Stati Uniti, vengono vendute in Venezuela a prezzi dieci volte più bassi e la differenza di prezzo è coperta dalle sovvenzioni governative. Tre quarti del bilancio del paese sono destinati a investimenti nella sfera sociale, ma la stampa occidentale continua a sostenere che Maduro sottrae redditi alla popolazione.

Il paese ha sempre acquistato prodotti agricoli, principalmente dagli Stati Uniti, in cambio dell’oro nero. Con l’embargo, le sanzioni e il blocco economico, Washington rifiuta anche di vendere prodotti alimentari, ma ciononostante la stampa incolpa di tutto Caracas. Secondo il suo tipico modo, la propaganda anglo-sassone si erge a portavoce dell’ostilità rivoluzionaria, ma non è chiaro come si spieghi tanta fretta.

La società venezuelana è divisa in due. Nel 2016, l’opposizione neoliberale ha vinto le elezioni agli organi legislativi. I prezzi del petrolio, a causa della guerra fredda tra Stati Uniti e Russia sono bruscamente calati, mentre la Casa Bianca diramava una risoluzione in cui si parlava di una “eccezionale minaccia” da parte del Venezuela.

A metà dell’anno scorso, a questi problemi si è aggiunta una grave siccità, nonostante il fatto che il 70% dell’elettricità del paese sia generata da grandi centrali idroelettriche. Subito dopo, l’opposizione venezuelana è stata invitata negli Stati Uniti e la situazione ha cominciato a peggiorare.

L’atmosfera di disinformazione, intensificata dall’Occidente, ha portato confusione persino tra gli amici della repubblica, mentre i “rivoluzionari” si riempivano di così tanto coraggio da dare a Maduro esattamente 6 mesi di vita. L’opposizione ha iniziato a preparare sabotaggi, danneggiamenti elettrici, interruzioni dell’acqua potabile, mentre le sovvenzioni alimentari venivano utilizzate per il mercato nero.

Le persone venivano spinte a vendere i prodotti sovvenzionati agli speculatori che, a loro volta, li commercializzavano massicciamente per l’esportazione. In altre parole, il Venezuela veniva intenzionalmente e artificialmente dissanguato, perdendo flussi di dollari, subiva il sabotaggio interno, il blocco americano e il ricatto.

Come è dunque che gli Stati Uniti non hanno raggiunto lo scopo? Il fatto è che mentre sui media l’opposizione celebrava la vittoria, la leadership del Venezuela stabiliva nel 2017 un nuovo record. Per la prima volta nel mondo, gli investimenti sociali superavano il 70%. Vale a dire che circa tre quarti del bilancio statale venivano indirizzati ai bisogni sociali. In un anno, la popolazione ha ricevuto gratuitamente 359.000 edifici residenziali nuovi e 335.000 ristrutturati; i servizi sanitari gratuiti sono aumentati di 10 volte: e questa è solo una parte delle misure adottate dal governo.

Nel momento critico, è intervenuta la Russia, con lo storico accordo dell’OPEC+. La diplomazia russa ha riportato il prezzo a un livello accettabile, il che ha contribuito in buona parte a salvare il Venezuela, accollatosi un corso sociale molto pesante.

Nel maggio 2018, poi, gli USA si sono sentiti offesi nei loro migliori sentimenti. Per anni Washington ha cercato di persuadere il mondo che il socialismo possa arrivare al potere solo sulle baionette della rivoluzione, ma nessuno lo sceglierebbe per via democratica. Ciononostante, alle elezioni dello scorso anno, a dispetto dell’opposizione, è avvenuto proprio questo. Il “dittatore” Maduro ha ottenuto il 68% dei voti. In qualsiasi altra “democrazia” occidentale sarebbe stato considerato un grande trionfo, ma la Casa Bianca ha intravisto nuove opportunità nel restante 32%.

Disgraziatamente, in gran parte è stato lo stesso Maduro a permettere che ciò avvenisse, essendosi confermato al potere per mezzo di un aperto voto democratico. Il leader venezuelano ha aggirato il normale stadio dell’epurazione rivoluzionaria delle élite, cosa che Hugo Chavez a suo tempo non ha mai fatto. Come risultato, il neo-eletto presidente è rimasto uno contro uno di fronte alla crisi economica, al doppio sistema di conversione valutaria, al mercato nero e, soprattutto, con solo il 15-20% di economia nazionalizzata, mentre il restante 80% del patrimonio del paese rimaneva in mano all’impresa privata e all’opposizione.

Sono proprio queste “mani” che ora spingono al colpo di stato, con gli americani che li usano per indirizzare la protesta. Formalmente, al Venezuela si oppone un parlamento di opposizione, disciolto per violazione delle norme costituzionali e non riconosciuto nel paese; tuttavia, in realtà,il problema principale di Caracas è la guerra economica totale con l’America.

Il 90% delle esportazioni venezuelane è costituito dal petrolio “pesante” – una sostanza altamente viscosa, che non scorre attraverso le tubazioni e che perciò deve essere diluita prima di venir esportata. Nel passato, per superare il problema, per anni i giacimenti sono stati dati in concessione ad altri stati, col risultato che, attraverso questo “giro”, gli Stati Uniti ottenevano un ventaglio di opportunità. Contro la PDVSA, la compagnia gas-petrolifera venezuelana e principale importatore degli additivi necessari al paese, sono state imposte pesanti sanzioni. La nafta, ottenuta dalla distillazione del petrolio, era fornita dagli Stati Uniti e, senza di essa, era impossibile liquefare e trasportare la materia prima attraverso le condotte.

Washington lo sa perfettamente e sa anche che senza le entrate petrolifere non si sarebbero potuti adempiere gli estesi impegni sociali; perciò, insieme al blocco delle petroliere nel Golfo del Messico, scientemente si è dato luogo contro Caracas a un deficit di “olii combustibili”. In altre parole, l’America, nel suo “sincero” desiderio di “aiutare” il Venezuela, ha fatto di tutto affinché i problemi del popolo venezuelano aumentassero.

Non bisogna dimenticare che la seconda metà del gioco degli anglosassoni è incentrata sul fatto che il Venezuela è una società estremamente polarizzata. Manca nel paese una classe media, mentre lo strato dei ricchi è nettamente separato dalla maggioranza dei cittadini comuni. Con Chavez e Maduro, milioni di persone della seconda categoria hanno ottenuto l’accesso alle prestazioni sociali, mentre la minoranza costituita dall’élite è stata allontanata dalla “mangiatoia”.

Questa minoranza è composta di persone completamente americanizzate, da tempo avvezze a odiare la propria patria; i loro figli studiano nelle università britanniche e americane; sono schizzinose su tutto ciò che è venezuelano e nei loro quartieri hanno creato piccoli “paradisi” pro-americani. Ed è questa la principale forza trainante dell’attuale rivoluzione “colorata”.

Negli anni 2000, Washington aveva già usato queste forze e aveva creato i presupposti per causare problemi economici nel paese. Aveva formato esattamente gli stessi golpisti ed era riuscita addirittura a far loro eseguire un arresto. Arrestando Hugo Chávez, la Casa Bianca, allo stesso modo di oggi, si era affrettata a riconoscere quale nuovo leader la marionetta dell’opposizione, ma gli eventi si erano sviluppati lungo un percorso diverso.

Il popolo del Venezuela aveva dimostrato di essere capace di fare ciò che gli ucraini non sono stati in grado di fare nel 2014 e che sono stati capaci di realizzare i cittadini del nostro paese.

A Caracas nel 2002 e a Mosca nel 2012, la gente non è rimasta a guardare in silenzio, mentre nella capitale veniva tentato un colpo di stato, ma è invece scesa in strada per protestare contro i manifestanti. Di conseguenza, rendendosi conto di dove soffiasse il vento e vedendo come la gente sostenesse i leader, i membri dubbiosi dell’élite politica si associarono alla maggioranza. Nel caso di Hugo Chavez, egli fu rilasciato; nel caso della Russia, Vladimir Putin rimase al potere. I leader dell’opposizione creati dagli Stati Uniti non si erano rivelati all’altezza.

Memore della storia, Maduro nei giorni scorsi ha dichiarato che, come all’epoca di Chavez, il paese sta creando 50.000 unità di milizia popolare e che entro maggio ci saranno 2 milioni di uomini organizzati. “Il popolo” ha detto Maduro, “non permetterà all’impero nordamericano di toccare un palmo del territorio del paese”. A tal fine, ogni mese arrivano in Venezuela armi dalla Russia. Il paese è già protetto da una possibile variante di intervento americano, con sistemi di difesa antiaerea russi, complessi antiaerei S-300, artiglieria, aerei e tecnologia missilistica.

Caracas dispone di cinque divisioni complete, per un totale di 90.000 uomini, e anche la filoamericana Colombia si rifiuta di mettere a disposizione degli USA una propria area come testa di ponte.

A partire dal 2006, il nostro paese e nostre società statali hanno fornito al Venezuela prestiti e linee di credito per circa 17 miliardi di dollari e la Cina ha investito ancora di più. Con ciò, Mosca e Pechino difendono non solo i propri interessi finanziari, ma anche quelli geopolitici: è ormai evidente come, negli ultimi anni, quando i media internazionali lanciano inviti ad “andarsene”, significa che l’Occidente si prepara a compiere un’altra rapina.

Da un lato, il Venezuela è ostaggio delle proprie condizioni climatiche: l’80% del territorio non è adatto per viverci. D’altro canto, è proprio in questa parte che c’è la ricchezza del paese. Per riserve di gas naturale nell’emisfero occidentale, il Venezuela è secondo solo agli Stati Uniti e li raggiunge anche per riserve di carbone, ferro, manganese, titanio, nichel, rame, piombo-zinco e altri minerali. Presenti anche bauxite, cobalto, oro, diamanti, argento, amianto, fosforite e altri elementi della tavola di Mendeleev: compagnie cinesi e russe operano in molti di questi settori.

Secondo l’Europa, il Canada e l’America, tale situazione è “estremamente ingiusta”; quindi, il burattino degli anglosassoni, Guaidò, ha già dichiarato che per il Venezuela “non è vantaggioso cooperare con Cina e Russia”, perché entrambi questi stati “depredano” il suo paese.

Nel mondo moderno, il primo elemento per le invasioni dirette o indirette è la presenza di risorse energetiche nel paese. Inoltre, il Venezuela è la chiave per Nicaragua e Cuba. Nel primo paese, la Cina si stava apprestando a costruire un analogo del Canale di Panama, mentre nel secondo sono in gioco interessi del nostro stato. Oltretutto, la realizzazione del canale sarebbe impossibile senza l’ombrello militare di Mosca, mentre Cuba rimane nell’orbita del Cremlino con il sostegno finanziario di Pechino.

Per gli Stati Uniti, è necessario disporre delle riserve petrolifere venezuelane per garantirsi un fattore quale leva sul prezzo del greggio, così che il crollo artificiale del prezzo del petrolio possa essere utilizzato contro Mosca e, d’altro lato, il divieto di esportazione di risorse energetiche venezuelane verso la Cina, contro Pechino. L’urgenza di agire in questa direzione è data dal fatto che il successo della Russia in Siria ha infranto i piani americani a lungo termine, che avevano l’obiettivo di isolare la Cina dalle risorse energetiche del Medio Oriente.

In fin dei conti, il controllo sui flussi di gas e petrolio, la creazione di eserciti terroristici “manovrabili” e molto altro, non sono andati come voluto; avrebbe dovuto essere avviato un potente strumento per la determinazione dei prezzi del petrolio, per esercitare pressioni su Russia e Cina. La minaccia del crollo delle esportazioni e dell’economia cinese, bloccandone l’accesso alle risorse energetiche, doveva diventare un’arma pesante nella guerra “commerciale”, mentre il dumping sui prezzi dell’energia avrebbe dovuto costituire lo strumento principale di un golpe “colorato” in Russia.

Con la vittoria di Mosca, è cambiato tutto. Di più: la Russia non solo è riuscita a cancellare i piani statunitensi in Siria, ma ha anche ottenuto non piccoli successi con un altro elemento. Il principale meccanismo degli Stati Uniti per il crollo dei prezzi del petrolio, vale a dire la Casa dei Saud, con l’entrata della Russia nell’OPEC+ si è indebolito. Al contrario, gli accordi conclusi da Mosca nell’ambito di questa organizzazione, hanno bloccato i tentativi USA di abbattere di nuovo i prezzi dei prodotti energetici.

In altre parole, nelle condizioni attuali, senza il Venezuela è impossibile abbattere a lungo il prezzo del petrolio e, senza far ciò, è difficile eliminare la Russia dal “duumvirato” con la Cina, e, senza eliminare Mosca, non si può far niente con Pechino.

In questo contesto, appare estremamente ironico l’elenco dei paesi occidentali che sostengono l’opposizione venezuelana. Particolarmente ironico è lo zelo della Parigi ufficiale, dove, sullo sfondo dei blindati a difesa dell’Arco di Trionfo dai manifestanti, l’illogico Macron dichiara il sostegno agli insorti contro il “regime venezuelano”. Nel 2016 si era già assistito a una simile isteria, finita fortunatamente nel nulla.

Lo scorso 6 febbraio, una grande quantità di armi e equipaggiamenti, in arrivo dagli Stati Uniti, è stata sorprendentemente intercettata dalle forze di sicurezza venezuelane. Non a caso, dunque, i cecchini, tipici elementi di ogni “rivoluzione” occidentale, avvezzi a sparare su entrambi i lati della piazza (come nell’ucraina Majdan), non sono ancora comparsi in Venezuela.

Anche le compagnie militari private americane e britanniche e gli agenti di influenza, non di per sé vengono catturati da “certi” agenti di un certo paese; e l’esercito, non casualmente è istruito da consiglieri militari di un “certo” stato. E gli “aiuti” americani al Venezuela”, in formato USAID, e le “missioni” ONU con ambulanze e camion pieni di denaro e armi, nonostante la corruzione, non casualmente sono bloccati alle frontiere del paese. E il tentativo di attacco armato al potere a fine gennaio, contando sugli arsenali militari, è stato sventato non senza l’aiuto di “un certo” controspionaggio di una terza parte.

In poche parole, un attacco di forza a imitazione di un sollevamento militare, con il contemporaneo riconoscimento di Guaidò, un paio di settimane fa, non ha avuto luogo grazie agli sforzi congiunti di Caracas, Mosca e Pechino. Quindi, gli Stati Uniti hanno tutte le chances per incorrere in un nuovo fallimento.

(traduzione di F. Po)

tratto da: http://contropiano.org/news/internazionale-news/2019/02/11/piu-che-il-solo-petrolio-perche-gli-usa-hanno-fretta-con-il-venezuela-0112312?fbclid=IwAR1jeK4R7Q8E_RrfRm2bVpBclQ9cB8MJXOX4VyHPowMyVMIVtoFGV1o8rYw

Macron comincia ad essere nervoso – Gli attacchi di Di Maio contro il franco coloniale svegliano gli africani: le Tv cominciano a parlarne e nasce un movimento popolare di liberazione dalla Francia…

 

Macron

 

 

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Macron comincia ad essere nervoso – Gli attacchi di Di Maio contro il franco coloniale svegliano gli africani: le Tv cominciano a parlarne e nasce un movimento popolare di liberazione dalla Francia…

 

Da Silenzi e Falsità:

Le TV africane parlano della iniziativa di Di Maio contro il franco coloniale e inizia un movimento popolare di liberazione dalla Francia: Macron è nervoso

Macron da un po’ di tempo a questa parte è nervoso con l’Italia.

Non si adatta all’Italia uscita dalle elezioni politiche del 4 marzo.

Macron è tra quelli che non vede l’ora di far saltare il Governo 5 Stelle-Lega, come in patria lo sono quelli che tifano per lui contro Di Maio, i vari Renzi, Berlusconi, Cairo, De Benedetti, Benetton, Tronchetti Provera, ecc.

Il sogno proibito che rimarrà sogno è di mettere fine al Governo Del Cambiamento guidato da Conte con i due vice Di Maio e Salvini.

Da dove trae origine l’acredine di Macron contro i 5 Stelle?

A parte il rapporto che Di Maio sta sviluppando con i Gilet Gialli che sicuramente gli dà fastidio, ben di più é invisa l’iniziativa di denunciare il colonialismo francese praticato in Africa con strumenti finanziari, con i propri servizi segreti e con il il proprio esercito.

Di Maio ha apertamente denunciato come il Franco Cfa riduca in sostanziale condizione di sottomissione alla Francia i Paesi africani che lo hanno adottato.

Le parole di Di Maio hanno dato vigore in Africa ai movimenti popolari che si vogliono liberare dal giogo monetario francese, dotarsi di una propria moneta e avere così la possibilità di decidere da sé stessi in maniera realmente indipendente la propria politica economica.

La moneta francese è ‘forzatamente’ adottata da 15 Paesi africani. Spiegherò dopo il significato di forzatamente.

I 15 Paesi sono: Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo che fanno parte dell’Africa occidentale, a cui si aggiungono Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centroafricana e Repubblica del Congo che si trovano nell’Africa centrale, e le Isole Comore, che ha conquistato l’indipendenza dalla Francia nel 1975.

In questi Paesi vivono quasi 200 milioni di abitanti.

Macron sostiene che la moneta franco CFA è adottata liberamente da tutti questi Stati.

In effetti non è così.

È il contrario, perché questi Paesi hanno provato a disfarsene per averne una realmente propria, ma gli è stato impedito.

In una interessantissima intervista a ‘Il Fatto’, un economista, Otto Bitjoka*, afro italiano residente a Milano, ha spiegato i metodi cui sono ricorsi i francesi per impedire che questi Paesi si dotassero di una vera loro moneta.

Queste le sue parole in riferimento alla possibilità di abbandonare la moneta francese:

“Macché. Chi lo dice dimentica che chi ha provato a uscirne è stato ammazzato o è stato deportato mentre nel suo Paese era in atto un colpo di Stato. Se c’è tutta questa libertà perché la Francia ha convocato l’ambasciatrice italiana Teresa Castaldo per chiarimenti?”

E prosegue riguardo agli esempi concreti di omicidi e di colpi di stato:

“Ce ne sono tanti, ma le cito solo questi. Nel 1963 Sylvanus Olympio, primo presidente eletto del Togo, si rifiuta di sottoscrivere il patto monetario con Parigi e dispone una moneta nazionale. Tre giorni dopo viene rovesciato e assassinato in un colpo di Stato condotto da ex militari dell’esercito coloniale francese. Nel 1968 Modibo Keita, primo presidente della Repubblica del Mali, annuncia l’uscita dal franco Cfa, ma subisce un golpe guidato da un ex legionario francese. Ancora, nel 1987 Thomas Sankara, primo presidente del Burkina Faso indipendente, viene detronizzato e ucciso subito dopo aver dichiarato la necessità di liberarsi dal franco Cfa. Nel 2011 il presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, decide di abolire il Cfa sostituendolo con la Mir, Moneta ivoriana di resistenza. Ma le forze speciali francesi lo arrestano dopo aver bombardato il palazzo presidenziale. Questa è storia, per non parlare di Gheddafi”.

In relazione a Gheddafi aggiunge:

“Nel 2011, quando è stato ammazzato, c’era proprio la questione della sovranità monetaria in ballo. Lui voleva creare una nuova valuta panafricana, il dinaro libico, sostenuta dalle ingenti riserve auree di Tripoli, proprio in alternativa al franco Cfa. Gheddafi e l’Unione africana avevano già deliberato la creazione di un Fondo monetario africano con sede in Camerun, di una Banca africana di investimento in Libia e di una Banca centrale africana in Costa d’Avorio”.

L’affermazione di più rilevante interesse la fa alla fine dell’intervista quando gli si chiede che cosa ha da dire riguardo alla responsabilità degli africani per i moltissimi casi di corruzione presenti in Africa.

Questa la sua risposta:

“Molti presidenti sono corrotti e permettono la rapina di risorse. Ma a questo penseremo una volta liberati. Gli africani vogliono questo e lo dimostra il fatto che lì le tv stanno parlando del caso sollevato dall’Italia. Siamo determinati e lotteremo”.

La buona notizia per questi Paesi africani, praticamente costretti ad adottare la moneta francese, è che Luigi Di Maio ha suscitato un movimento di popolo per liberarsi dal giogo imposto dalla Francia.

Dalle dichiarazioni di Di Maio e di Di Battista risulta chiaro che il Movimento 5 Stelle starà a fianco di questi popoli africani in questa lotta per avere la reale libertà di adottare una loro valuta e tutelare al meglio i loro interessi.

Certo questa è una pessima notizia per Macron e la sua rabbia e ira contro i 5 Stelle va in crescendo.

Ma nessuno sembra tanto impressionato.

Nessun ricatto potrà funzionare con il Governo Conte.

Si darà una calmata, Macron, e imparerà a rispettare di più e gli italiani e gli africani in una volta sola.

fonte: https://www.silenziefalsita.it/2019/02/09/le-tv-africane-parlano-della-iniziativa-di-di-maio-contro-il-franco-coloniale-e-inizia-un-movimento-popolare-di-liberazione-dalla-francia-macron-e-nervoso/

Alessandro Di Battista senza peli sulla lingua contro Giorgio Napolitano: “Si piegò in modo vile ai francesi”

 

Di Battista

 

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Alessandro Di Battista senza peli sulla lingua contro Giorgio Napolitano: “Si piegò in modo vile ai francesi”

 

Alessandro Di Battista contro Giorgio Napolitano: “Si piegò in modo vile ai francesi”

L’ex deputato del Movimento 5 Stelle Alessandro Di Battista continua la campagna “contro” la Francia e chiama in causa anche l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: “Si comportò come un vile durante l’intervento in Libia del 2011”. E aggiunge: “Sono sicuro che Sergio Mattarella non si sarebbe mai comportato così”.

Non accenna a placarsi la polemica del Movimento 5 Stelle nei confronti della Francia e, in particolare, di Macron, malgrado la posizione conciliante espressa dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e la perplessità di Matteo Salvini. Oggi tocca ad Alessandro Di Battista polemizzare con i cugini d’Oltralpe, giudicati responsabili della destabilizzazione della Libia nel 2011 e delle conseguenze provocate dal rovesciamento di Gheddafi. Ospite della trasmissione televisiva di Lucia Annunziata “Mezz’ora in più”, l’ex deputato grillino ha attaccato anche l’ex Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano, a suo dire colpevole di essersi “piegato in modo vile” allo “scellerato intervento della Francia in Libia nel 2011”, che ha deposto un dittatore ma “ha provocato l’esodo dei migranti e dunque migliaia di morti”. Sollecitato sulla necessità di scusarsi, Di Battista si è rifiutato, aggiungendo: “Sergio Mattarella invece non si sarebbe mai comportato come ha fatto Napolitano”.

Di Battista ha poi spiegato di ritenere necessario che il governo italiano affronti la crisi diplomatica e la risolva, ma “a testa alta” e con l’obiettivo di “parlare di punti politici, del futuro dell’Europa”. Nella sua lettura, simile a quella di Luigi Di Maio, infatti, la prossima Commissione Europea si insedierà in uno scenario completamente nuovo e potrà affrontare alcuni nodi essenziali del futuro dell’Unione Europea: “Noi crediamo nella UE come spazio comune e io voglio un seggio dell’Europa all’Onu e pretendo una decolonizzazione che non c’è mai stata in Africa, in questo sono molto più europeista di Macron”. E sull’appoggio di Di Maio ai gilet gialli ha aggiunto: “Allora Macron non doveva incontrare Renzi dopo la formazione del governo italiano e firmare manifesti contro i populisti. Se il presidente francese lo vede come lesa maestà, è un problema suo”.

fonte: https://www.fanpage.it/alessandro-di-battista-contro-giorgio-napolitano-si-piego-in-modo-vile-ai-francesi/

Ma noi siamo Italiani… I Gilet Gialli francesi sono 13 settimane che mettono a ferro e fuoco il Paese. I Gilet Gialli Italiani? Manifestazione a Roma, si presentano solo in due…!

 

Gilet Gialli

 

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Ma noi siamo Italiani… I Gilet Gialli francesi sono 13 settimane che mettono a ferro e fuoco il Paese. I Gilet Gialli Italiani? Manifestazione a Roma, si presentano solo in due…!

 

Gilet Gialli la manifestazione a Roma è un flop: si presentano solo in due

gilet gialli italiani hanno indetto una manifestazione in piazza della Repubblica a Roma, ma denunciano di essere stati boicottati: “Abbiamo annullato la manifestazione perché abbiamo la questura addosso e proprio qui i sindacati hanno deciso di tenere il loro corteo, abbiamo voluto evitare conflittualità”. Sulla vicinanza espressa dal Movimento 5 Stelle ai gilet gialli francesi, sostengono: “Noi non riconosciamo questo governo e anche i gilet gialli francesi hanno preso le distanze da Di Maio”.