Crescita del Pil – L’Italia costantemente al penultimo posto al mondo negli ultimi 17 anni. 17 anni in cui siamo stati governati da Berlusconi e dal Pd (tranne la parentesi Monti, appoggiato da Berlusconi e Pd) – Però gli incompetenti sono quelli del M5s…!

 

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Crescita del Pil – L’Italia costantemente al penultimo posto al mondo negli ultimi 17 anni. 17 anni in cui siamo stati governati da Berlusconi e dal Pd (tranne la parentesi Monti, appoggiato da Berlusconi e Pd) – Però gli incompetenti sono quelli del M5s…!

A marzo mi raccomanda scegliete chi votare tra Berlusconi e Renzi – Gli artefici della nostra grande crescita – Dal 2000 a oggi Italia costantemente penultima al mondo per crescita del Pil. Peggio solo Haiti prima e Grecia poi…!

 

Da il Fatto Quotidiano:

Crescita, Ocse: “Dal 2010 a oggi Italia penultima tra i Paesi sviluppati per progresso del pil. Peggio solo la Grecia”

Fatto 100 il prodotto interno lordo del 2010, alla fine del secondo trimestre la Penisola resta a quota 99,1. La Germania segna 112, 6 punti, la Francia 107,6, il Regno Unito 114 punti, la Spagna 104,8 e gli Stati Uniti 115,2

Sette anni da fanalino di coda, o quasi. A fare i conti è l’Ocse, nel rapporto mensile relativo ai primi due trimestri del 2017. Il pil della Penisola, fatto 100 quello del 2010, resta a quota 99,1 punti. E l’andamento degli ultimi sette anni risulta il peggiore tra i paesi sviluppati dopo la Grecia e a parimerito con il Portogallo.

Qui l’articolo completo

Questo negli ultimi 7 anni, ma prima?

Allora leggete questo:

A marzo mi raccomando votate Berlusconi -L’artefice della nostra grande crescita – Dal 2000 Italia penultima nel mondo per crescita del Pil. Peggio di noi solo Haiti, ma perché devasta da un terremoto distruttivo!

Ma ricordate, gli incompetenti sono quelli del M5s!

by Eles

A marzo mi raccomando votate Berlusconi -L’artefice della nostra grande crescita – Dal 2000 Italia penultima nel mondo per crescita del Pil. Peggio di noi solo Haiti, ma perché devasta da un terremoto distruttivo!

 

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A marzo mi raccomando votate Berlusconi  -L’artefice della nostra grande crescita – Dal 2000 Italia penultima nel mondo per crescita del Pil. Peggio di noi solo Haiti, ma perché devasta da un terremoto distruttivo!

Vi ricordiamo questo articolo pubblicato qualche tempo fa, come pro-memoria per le prossime elezioni

Crescita, Italia penultima nel mondo dal 2000 peggio di noi solo Haiti

Penultimi davanti solo ad Haiti. Praticamente ultimi perché il paese caraibico è stato devastato dal terremotoe il crollo del suo Pil non fa testo. Negli ultimi dieci anni, dunque, siamo cresciuti meno di tutti. Nel mondo. Ci siamo piazzati al 179° posto su 180 paesi. I dati del Fondo monetario internazionale elaborati dal quotidiano spagnolo El Pais illustrano il nostro “decennio perduto”, il declino che c’ è stato e che continua. Dieci anni che hanno cambiato il mondo e che ci hanno lasciato in fondo alla classifica prigionieri dei nostri ritardi strutturali. Siamo stati i cinesi del mondo negli anni del miracolo economico, siamo diventati un paese-lumaca, praticamente fermo negli anni della globalizzazione. Nella prima decade del nuovo Millennio la ricchezza italiana è aumentata solo del 2,43 per cento. La grande recessione ci ha congelato e impoveriti: il Pil pro capite è indietreggiato ai livelli del 1998. Non per tutti è stato così. In fondo alla classifica ci siamo ritrovati con gli altri grandi malati in stagnazione permanente: il Portogallo (+6,47 per cento) e il Giappone (+ 7,30 per cento). Oppure con la Germania (172° posto con un Pil in crescita dell’ 8,68 per cento) che ha pagato pesantemente la recessione, ma che ora è ritornata, grazie all’ export, a fare da locomotiva. Distaccati tutti, però, dalle altre economie occidentali: dalla Francia, piazzata al 162° posto con un Pil che è cresciuto in dieci anni del 12,53 per cento, dalla Gran Bretagna (157°, + 15,41 per cento), dagli Stati Uniti (152°, + 17,77 per cento), dalla Spagna (144°, + 22,43 per cento) e dalla stessa Grecia (132°, + 28,09 per cento). Non c’ è stata gara con le cosiddette economie emergenti. Questo è stato il loro decennio: il loro Pil è aumentato cinque volte tanto quello delle economie tradizionali. Nella nostra debacle ci sono colpe le imprese, nella loro incapacità di innovare e adeguarsi a quello che Salvatore Rossi, direttore centrale della Banca d’ Italia, ha più volte chiamato il «cambio di paradigma tecnologico». Ma ci sono – tante – colpe della politica. Nel decennio considerato ha governato per sette anni il centrodestra di Silvio Berlusconi con due parentesi (governi Amato e Prodi) del centrosinistra. «È evidente – dice Enrico Letta, vicesegretario del Pd, sottosegretario a Palazzo Chigi con Romano Prodi – che ci sia una responsabilità prevalente di Berlusconi. Ma un decennio chiama in causa tutto il sistema perché non ci sono mai stati tanti anni così negativi. La nostra società avrebbe bisogno di una vera e propria “shakerata” per immettere in circolo un po’ di dinamismo. Sono mancate le riforme, a cominciare da quella del sistema fiscale che continua a mantenere un triplice record: quello del nero, quello della pressione sul lavoro e sulle aziende, quello che, a parte il Lussemburgo, premia di più le rendite. E poi è mancata una discussione sul lavoro e sui lavori. Dopo un decennio perduto, allora, è necessario subito un governo di responsabilità nazionale. C’ è un interesse “repubblicano” che va oltre gli schieramenti». Va da sé che i ritmi di crescita risentano del punto di partenza e che, dunque, più in basso si è e maggiori sono i margini di incremento. Ma certo fa impressione leggere che il Pil della Guinea Equatoriale (al primo posto) ha fatto segnare in dieci anni un + 387,45 per cento oppure quelli dell’ Azerbaigian (+ 276,24 per cento, in seconda posizione) e del Qatar che con un+ 251,11 per cento ha conquistato la terza posizione. La Cina, che era già partita nel decennio precedente è cresciuta del 170,86 per cento (sesta posizione) e l’ India, al ventesimo posto, ha accresciuto il Pil del 103,52 per cento. Il crollo italiano è dovuto innanzitutto alle pessime performance della produttività. Tra il 1997 e il 2003 è addirittura arretrata. Questo, appunto, è il nostro declino.

fonte: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/10/29/crescita-italia-penultima-nel-mondo-dal-2000.html

Si parla tanto della tassa sui sacchetti bio, ma c’è anche di meglio, e qui si sono superati: ecco la tassa per andare in bicicletta in vigore al 1° gennaio!

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Si parla tanto della tassa sui sacchetti bio, ma c’è anche di meglio, e qui si sono superati: ecco la tassa per andare in bicicletta in vigore al 1° gennaio!

 

L’hanno già ribattezzata la “tassa sul sudore” e dal 1 gennaio 2018 colpisce i ciclisti italiani amatori, quelli che, prevalentemente nel fine settimana, partecipano a gare di paese o passeggiate organizzate in bicicletta. Ora dovranno pagare un canone di 25 euro l’anno alla Federazione Ciclistica Italiana (Fci) per ottenere una Bike Card e poter pedalare serenamente in gruppo. Lo scopo sembra quello di ripianare il deficit della Fci, ma le associazioni di ciclisti amatori già protestano. “Così si allontanano le persone dallo sport”, dichiara amaramente al Corriere della Sera l’organizzatore di Deejay Teen, detto Linus. “Se oltre all’iscrizione devo pagare un balzello aggiuntivo – in cambio di niente – non partecipo nemmeno”.

Bike Card senza “nessun servizio assicurativo”

Attualmente gli eventi amatoriali della bicicletta passa attraverso 19 Enti di promozione sportiva (Eps) riconosciuti e autorizzati dal Coni. Gli Eps rilasciano centinaia di migliaia di tessere dietro presentazione di un certificato medico. Un metodo che ora dovrebbe essere sostituito dalla Bike Card senza “nessun servizio assicurativo”.

Cosa dice Federciclismo

Così Renato Di Rocco, presidente della Federciclismo, difende la scelta: “Ma quale tassa la nostra è un’iniziativa politica per combattere chi ci fa concorrenza sleale con i contributi pubblici. I soldi serviranno a gestire servizi comuni come la giustizia sportiva. Non raccoglieremo più di 70-80 mila euro. Chi non vuole acquistare la Bike Card abbandoni gli enti e si tesseri direttamente con noi: siamo i più seri. La Bike Card offrirà comunque anche dei servizi. Quali? Ci penseremo. L’ha fatto l’atletica, possiamo farlo anche noi”.

Un vecchio “sogno” del Pd

Fatto sta che la “tassa sul sudore” o sulla “pedalata” è stata approvata alla chetichella il 22 dicembre. E vale poco consolarsi al pensiero che poteva arrivare anche di peggio. Un paio di anni fa un senatore del Pd, Marco Flavi, aveva infatti proposto in Commissione Lavori pubblici un emendamento a dir poco surreale, nel quale si parlava di una “definizione, nella classificazione dei veicoli, senza oneri a carico dello Stato e attraverso un’idonea tariffa per i proprietari delle biciclette e dei veicoli a pedali adibiti al trasporto, pubblico e privato, di merci e di persone, individuando criteri e modalità d’identificazione delle biciclette stesse nel sistema informativo del Dipartimento per i trasporti, la navigazione, gli affari generali ed il personale”. Tra le associazioni di ciclisti era subito scattato l’allarme rosso. Per “idonea tariffa” s’intendeva di fatto una sorta di tassa simile a quella automobilistica mentre “modalità d’ identificazione” voleva dire targa. Capito? Il Pd ha tentato anche di targare le biciclette, roba da far impallidire persino i burocrati raccontati da Kafka. Fortunatamente non se n’è fatto nulla, ma la pulsione alla tassazione rimane una delle eredità più pesanti lasciate dal Pd al governo.

tratto da: http://www.stopeuro.news/stavolta-si-sono-superati-e-arrivata-anche-la-tassa-per-andare-in-bicicletta/

Un altro grande successo dell’Euro: da quando è entrato in vigore nel 2000, la crescita del Paese è rimasta ferma a ZERO.

 

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Un altro grande successo dell’Euro: da quando è entrato in vigore nel 2000, la crescita del Paese è rimasta ferma a ZERO.

Mettiamo le mani avanti.

Sicuramente qualcuno contesterà l’idea che il nostro sistema-Paese si sia prima inceppato e poi definitivamente imploso a causa dell’introduzione dell’euro; e la contesterà dicendo che un ciclo economico non si apre né si chiude in un anno preciso, ma che i processi si sviluppano in fasi successive e nel giro di molti anni: nel caso italiano, negli anni allegri delle politiche a debito attuate durante la Prima Repubblica. E in parte è vero, ma non bisogna assolutamente mettere in secondo piano il prezzo che venne fatto pagare agli italiani per entrare nel Club Euro, cioè l’Eurotassa.

Fu un’imposizione che rallentò la crescita economica, mentre il colpo di grazia cominciò ad abbattersi con la crisi finanziaria del 2007, e anche col rincaro del costo della vita che non venne arginato quasi per nulla mediante un controllo statale sugli aumenti indiscriminati dei prezzi ai quali si assistette, nel silenzio assordante dell’Istat il cui paniere fu più volte aggiornato senza successo (poco importa oggi se in malafede o no).

Quel che è certo è l’Ufficio Studi della Cgia di Mestre con una ricostruzione statistica ancora fresca di pubblicazione ha smascherato le bugie rifilate agli italiani nel nuovo millennio: dal 2000, con l’entrata in vigore dell’euro, la crescita del Paese è rimasta pressoché ferma a zero. Pura coincidenza?

Si leggano intanto alcuni dati che l’osservatorio delle piccole e medie imprese artigiane veneziane ci mostra per capire quanto sia grave la situazione. La ricchezza italiana misurata in PIL è cresciuta negli ultimi 17 anni mediamente dello 0,15% annuo. Rispetto ai tempi pre-2007, dobbiamo ancora recuperare 5,4 punti percentuali. Tra le componenti di quest’ultimo indicatore economico, nel 2017 la spesa della Pubblica amministrazione presenta una dimensione inferiore a quella di 10 anni fa dell’1,7%, la spesa delle famiglie del 2,8% e gli investimenti addirittura del 24,3% in meno. La crescita registrata dai nostri principali competitor dell’area euro è stata invece molto superiore: 21,7% di incremento in Francia, 23,7% in Germania e addirittura 31,3% in Spagna.

Infine, l’Europa senza Italia ha riportato una variazione positiva del 25,9%. Tra i 19 Stati che hanno adottato la moneta unica soltanto Portogallo (-1,2%) e Grecia (-25,2%) devono ancora recuperare, in termini di PIL, la situazione ante crisi. Se, tuttavia, in questo arco temporale analizziamo l’andamento dei nostri conti pubblici, il rigore non è mai venuto meno, quindi ci sono stati meno investimenti per infrastrutture essenziali quali trasporti, logistica, edilizia scolastica e sportiva, mentre è continuata la vecchia abitudine di largheggiare nella spesa corrente a pioggia. Questi dati, come sottolineato dal coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia Paolo Zabeo, si possono leggere con una sola chiave di lettura:

Come sostengono molti esperti, siamo in una fase di stagnazione secolare e sebbene la ripresa si stia consolidando in tutta Europa, anche a seguito di una congiuntura internazionale favorevole, gli effetti positivi non stanno interessando tutte le aree territoriali e le classi sociali del nostro Paese. Il popolo delle partite Iva, ad esempio, continua ad arrancare; schiacciato da un carico fiscale eccessivo, da una burocrazia oppressiva e da una domanda interna che stenta a decollare.

Anche sul fronte della produzione industriale, dove il Governo racconta di aver fatto grandi passi in avanti grazie a qualche buon risultato ottenuto solo negli ultimi mesi, lo score dell’Italia registrato negli ultimi 17 anni è stato invece deludente. Rispetto al 2000 si registra un differenziale negativo di 19,1 punti percentuali, con punte del —35,3% nel tessile/abbigliamento e calzature, del —39,8% nell’informatica e del —53,5% nelle apparecchiature elettriche, cioè dei settori a maggiore produttività e con salari maggiori. Di segno positivo sono per fortuna almeno alimentari/bevande (+11,2%) e farmaceutica (+28,3%). Tra 2000 e 2017 nessun altro tra i principali Paesi avanzati dell’UE è riuscito a fare peggio di noi, anzi addirittura l’industria tedesca è aumentata quasi del 30%.

Oltre a non crescere quanto gli altri, soprattutto per colpa del carico fiscale eccessivo, l’Italia non riduce neppure il costo del suo debito pubblico, nonostante la riduzione del costo degli interessi di cui ha potuto beneficiare grazie alla stabilità dell’euro. Siamo tra i primi cinque Paesi più indebitati al mondo, col 132,6% del PIL, in compagnia di Capo Verde, Libano, Grecia e Giappone. E allora è evidente che l’ottimismo sfoderato da certi politici è ben lontano dall’avere solide basi su cui fondarsi: è solo fuffa da imbonitori. Il Paese continua pericolosamente a traballare e stiamo ancora aspettando un uomo o un gruppo dirigente capace di riportarci sul binario giusto, perché l’Italia avrebbe tutte le carte in tavole per essere traino in Europa, mentre ora è schiava e subalterna delle politiche di altri.

TRATTO DA: http://www.stopeuro.news/dal-2000-con-lentrata-in-vigore-delleuro-la-crescita-del-paese-e-rimasta-ferma-a-zero/

Fiat, la storia incredibile dei 5 operai pagati per stare a casa: tanta è la paura di Marchionne di trovarseli di nuovo tra i piedi, dopo aver provato a cacciarli per la loro attività sindacale in difesa dei diritti degli operai.

 

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Fiat, la storia incredibile dei 5 operai pagati per stare a casa: tanta è la paura di Marchionne di trovarseli di nuovo tra i piedi, dopo aver provato a cacciarli per la loro attività sindacale in difesa dei diritti degli operai.

Fiat, la storia incredibile dei 5 operai pagati per stare a casa
Appello – Reintegrati dal giudice (non dall’azienda), consegneranno una lettera a Mattarella.

Questa è l’incredibile storia di cinque metalmeccanici retribuiti a stipendio pieno, senza l’obbligo di avvitare un bullone. Pagati per starsene a casa dalla Fiat, oggi Fca, tanta è la paura che ha l’azienda di trovarseli di nuovo tra i piedi. Incredibile perché i cinque non accettano di esser pagati per far niente: «Siamo operai, vogliamo tornare in fabbrica».

Lo scrivono a Marchionne da mesi, ogni mese. Da quando il Tribunale, a settembre 2016, ha dichiarato illegittimo il loro licenziamento. Marchionne non risponde e continua a pagare, ma i soldi non bastano a comprare il silenzio e l’obbedienza di Domenico MignanoMarco CusanoAntonio MontellaMassimo Napolitano e Roberto Fabbricatore.

Per questo il 6 gennaio andranno al Quirinale e consegneranno una lettera a Sergio Mattarella: “Caro Presidente, siamo cinque operai della Fca di Pomigliano. Abbiamo subito licenziamenti per la nostra attività sindacale sempre in difesa dei diritti degli operai. Siamo stati ufficialmente reintegrati nel posto di lavoro con la sentenza del tribunale d’Appello di Napoli del 20/09/2016. La Fca ha continuato, però, a tenerci fuori. Noi, caro Presidente, ci rivolgiamo a Voi per denunciare l’ennesimo sopruso che la Fca sta compiendo nei nostri confronti, ma anche nei confronti di tutti i nostri compagni che, per paura delle conseguenze che noi abbiamo patito, hanno timore di far valere le loro ragioni”.

Cosa hanno fatto di così imperdonabile le cinque tute blu da meritare l’allontanamento coatto? Due cose. La prima, è che si sono ribellati con ironia, invece che con la violenza, che avrebbe fornito all’azienda il pretesto per licenziarli. La seconda è che hanno vinto, perché in Italia vige la libertà di pensiero, di critica e di satira.

Alla satira da impugnare come arma per la lotta sindacale hanno pensato dopo che tre di loro si sono tolti la vita, piegati dalle condizioni di lavoro in quello che chiamano “Il reparto-confino” di Nola. L’ultima è stata Maria Barbato, cassintegrata a zero ore. Si è uccisa piantandosi tre volte il coltello nel petto. E lasciando scritto: “Non si può vivere sul ciglio del burrone dei licenziamenti”. Per denunciare quel vivere sul ciglio del baratro non bastavano gli scioperi che nessun telegiornale racconta più, o “i cortei dove le prendiamo e basta”, o i picchetti che l’azienda aggira con gli elicotteri. Serviva una cosa che spaccava, serviva la satira. Hanno inscenato il suicidio di un quarto lavoratore Fiat: l’Ad Sergio Marchionne, sventolando un manichino penzolante davanti alla sede della Rai. Hanno letto la lettera d’addio che il fantoccio-Marchionne, in preda al rimorso, lasciava ai suoi operai, chiedendo che i 316 deportati a Nola tornassero a Pomigliano, dove c’erano interi reparti vuoti. “È un’istigazione al suicidio!”, ha tuonato l’azienda.

I cinque sono stati licenziati, trascinati in tribunale, condannati dal giudice unico. Hanno fatto appello, chiedendo a tanti autori satirici di schierarsi al loro fianco: Moni Ovadia, Ascanio Celestini. Hanno srotolato uno striscione con scritto “Libera Satira” davanti alla Rai di Viale Mazzini, quando avevo scelto di abbandonare Radio2, dopo che la rete mi aveva chiesto di non fare più battute su Renzi e non far più satira politica a “Mamma Non mamma”, il programma che conducevo: “A noi operai ci avete tolto la vita, non toglieteci pure la satira”.

Il giudice gli ha dato ragione: “Il monito rivolto ai successori dell’attuale amministratore delegato Sergio Marchionne, di non pensare solo al profitto ma anche al benessere dei lavoratori rappresenta a parere della corte una legittima manifestazione del diritto di critica”, è scritto nella sentenza d’appello: “La rappresentazione scenica realizzata, per quanto macabra, forte aspra e sarcastica, non ha travalicato i limiti di continenza del diritto di svolgere valutazioni critiche dell’operato altrui, quindi anche del datore di lavoro”. Il diritto di critica e di satira, a partire da quella sentenza, è garantito allo scrittore come all’operaio.

Una vita che faccio satira e a cosa serve non l’ho mai saputo spiegare meglio di Domenico Mignano detto Mimmo. A fare in modo che tutti si accorgano di quello che ci sta succedendo. “Se ne accorgerà anche Mattarella, quando andremo da lui vestiti da Befana”. Da befana, perché i lavoratori sono diventati invisibili, ma di befane saranno pieni i Tg: “Caro Presidente, noi vi chiediamo di far sentire la Vostra autorevole parola affinché finalmente noi cinque si possa rientrare in fabbrica accanto ai nostri compagni operai”. Gli avvocati dicono che non si può, che non ci sono precedenti di un operaio che voglia tornare alla catena di montaggiopiuttosto che starsene a casa, pagato: “Ma che c’è di strano, se un lavoratore chiede di lavorare?”.

 

fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/la-storia-incredibile-dei-5-operai-pagati-da-fiat-per-stare-a-casa/

Ma solo a me questa gente fa così tanto schifo? Possibile che in Italia ci sia ancora un 20% che non ha conati di vomito solo a vederli o sentirli parlare? Signori, questo è quello che è rimasto della sinistra Italiana!

 

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Ma solo a me questa gente fa così tanto schifo? Possibile che in Italia ci sia ancora un 20% che non ha conati di vomito solo a vederli o sentirli parlare? Signori, questo è quello che è rimasto della sinistra Italiana!

Scusate lo sfogo…

Vi parla un povero cristo che veramente a creduto nella sinistra…

Uno che, parafrasando Paolo Villaggio, si riteneva “a sinistra del Partito Comunista Cinese”…

Uno che ha creduto (prima di vedere Renzi) che uno come Berlusconi era il peggio del peggio del peggio che una società potesse partorire…

Eccola la sinistra che ci ritroviamo oggi. Gente Tronfia, arrogante, ipocrita, attaccata alla poltrona, falsa… Gente che pensa solo ai cazzi suoi… Gente per la quale gli altri (terremotati compresi) sono solo merda…

Loro sono loro e noi non siamo un cazzo…

A me fanno schifo…

Se Voi avete più stomaco di me votateli pure…

Io mi turo il naso e voto 5stelle…!

Scusate lo sfogo.

 

By Eles

Tanto per farvi capire: Schettino ha fatto campagna per il Pd. De Falco si candida coi 5stelle… Ora scegliete voi da che parte stare…

 

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Tanto per farvi capire: Schettino ha fatto campagna per il Pd. De Falco si candida coi 5stelle… Ora scegliete voi da che parte stare…

  • Da Il Fatto Quotidiano del 04.01.2018:

Parlamentarie M5s, Di Maio: “Anche il comandante De Falco si candida con noi”

Celebre per il “salga a bordo cazzo” urlato a Francesco Schettino la notte del naufragio della Costa Concordia, adesso il militare si candida a rappresentare i pentastellati in Parlamento.

  • Da Il Secolo D’Italiadel 21.05.2014:

Schettino fa la campagna elettorale per il Pd: «Sono garante della moralità…»

  • Da Il Giornale del 21.05.2014:

Ecco il testimonial di Renzi: Francesco Schettino

Chi l’avrebbe mai detto che Schettino si sarebbe occupato anche di politica? Eppure l’ha fatto. A favore del Pd…

  • Da Il Corriere del Mezzogiorno del 21.05.2014:

Schettino sale a bordo del Pd per la campagna elettorale

Il comandante della Costa Concordia, oggi a processo, fa appelli elettorali per il candidato sindaco «democrat»

Detto questo, il prossimo 4 marzo siete liberi di votare chi volete e chi vi dà più fiducia…

By Eles

Corso rapido di Management: hai un’azienda con 30 milioni di perdite? Non c’è problema: vai alla Leopolda, diventi amica di Renzi ed il Pd ti approva una legge che fa diventare a pagamento i sacchetti che produci…

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Corso rapido di Management: hai un’azienda con 30 milioni di perdite? Non c’è problema: vai alla Leopolda, diventi amica di Renzi ed il Pd ti approva una legge che fa diventare a pagamento i sacchetti che produci…

 

È il 25 gennaio del 2012 quando il governo Monti approva una serie di misure urgenti in materia ambientale. Dentro il decreto inserisce un articoletto che recita così: «Disposizioni in materia di commercializzazione di sacchi per asporto merci». In un colpo si impone lo stop alla commercializzazione degli shopper in plastica resi biodegradabili con l’intervento di additivi verdi e si apre l’ era della cosiddetta bioplastica compostabile di derivazione amidacea.

La sola azienda italiana che all’ epoca produceva quei sacchetti si chiama Novamont e ha sede a Novara. Inizialmente controllata da banca Intesa e Investitori Associati, oggi in joint venture con Eni, è di proprietà dei manager. Chiudeva il 2008 con un fatturato di circa 62 milioni di euro, invece nel 2012 segna un importante momento di svolta. Il fatturato sale infatti a circa 135 milioni di euro. Tanto per una realtà come l’ Italia, ma ancora poco se si considera la concorrenza. La tedesca Basf e l’ americana Cargill, che operano nello stesso settore di Novamont, hanno fatturati a dieci zeri.

Nel 2012 l’ azienda guidata da Catia Bastioli segna però ancora risultati negativi. La perdita si aggira intorno ai 5 milioni di euro. Ma è chiaro che il trend, grazie alle norme restrittive sui sacchetti di vecchia generazione, si è definitivamente invertito. Non a caso la proprietà decide fare un aumento di capitale da 20 milioni con l’ obiettivo di rilanciare le attività considerate promettenti. Negli anni successivi, infatti, crescono sia il fatturato che i guadagni. Nel 2013 si passa a 145 milioni di turnover e a più o meno 100.000 euro di utili. Nel 2014 l’ impennata porta la medesima voce di bilancio a circa 2 milioni. Nel 2015 il fatturato è di 169 milioni e l’ utile schizza a 7,4 milioni di euro. Destinato, eccezion fatta per 400.000 euro, tutto a riserva. Il 2016 è un anno in controtendenza per Novamont. Il risultato di bilancio è lì a testimoniarlo.

Le perdite si aggirano improvvisamente sui 30 milioni di euro. Se si entra nel dettaglio, la voce negativa è però tutta da collegare a una controllata del gruppo. Si chiama Matrica spa ed è una joint venture tra Novamont e Versalis, a sua volta controllata da Eni. L’ azienda si propone il rilancio della chimica verde anche tramite una centrale a biomasse. Il progetto però non segue i tempi sperati e Novamont deve svalutare a bilancio una bella somma, che porta così i conti in rosso. Senza Matrica, però, l’ utile sarebbe stato in linea con quello del 2015. Segno che il vero core business dell’ azienda figlia della Fertec (gruppo Ferruzzi) sta nei sacchetti bio.

Ci punta talmente tanto da metterlo nero su bianco. Nella relazione di bilancio, infatti, si legge che «l’ anno appena trascorso è stato di grande complessità per il gruppo da un lato mettendo alla prova per fatti contingenti la resilienza della società, dall’ altro facendo registrare passi in avanti fondamentali nel recepimento del modello Novamont e dei suoi casi studio nell’ agenda italiana ed europea con opportunità in varie parti del mondo, rafforzando così pesantemente le prospettive a medio termine con una accelerazione nel breve». In sostanza, si rivendica la scelta lungimirante di strategia e diversificazione.

La stessa che «oggi è al centro dell’ agenda italiana». Certo, molto è ancora da fare secondo i vertici. Le flessioni del trend di vendita durante la fine del 2015 e l’ inizio del 2016 sono da «collegare ad alcune decine di migliaia di tonnellate occupate da prodotti considerati fuori legge».

Colpa degli scarsi controlli da parte delle autorità e delle forze dell’ ordine. A giugno 2017 però, data di deposito del bilancio 2016, l’ azienda è già in grado di scrivere che i controlli sono aumentati e che «con ogni probabilità il governo è intenzionato a introdurre l’ obbligo dei sacchetti bio per frutta e verdura a partire da gennaio 2018». Cosa che puntualmente avviene all’ interno del decreto Sud, grazie al senatore pd Massimo Caleo, l’ agosto successivo. Ne deriverà – si legge nella relazione – il rafforzamento della posizione competitiva. Insomma, quello che si suol dire giocare facile. Ci sono voluti tanti investimenti in ricerca e sviluppo, tanto impegno e anche un’ iniezione di potente lobby.

Già nel 2012 molti senatori lavoravano per inserire norma bio e creare – a detta della concorrenza- un monopolio intorno ai sacchetti della Novamont. Il supporto sarebbe arrivato anche da Legambiente, che sfruttava all’ epoca la presenza in Commissione di Francesco Ferrante e Roberto Della Seta, per non parlare di Ermete Realacci. Ex Legambiente anche lui e presidente del comitato scientifico della sua Fondazione Symbola, dove per diversi mesi si è seduta stranamente Catia Bastioli, la stessa presidente di Novamont.

All’ epoca, a nulla è servito il ricorso di Assoecoplast all’ Antitrust contro il decreto Ambiente denunciando la distorsione di mercato. Con l’ entrata in vigore della seconda parte della legge, a mettere benzina sul fuoco ci ha pensato pensato l’ ex premier Matteo Renzi. Durante la recentissima visita a Novara, si è recato solo all’ azienda della Bastioli che conosce bene dai tempi della Leopolda. Per gli iscritti pd non c’ è stato tempo. Nemmeno per i dipendenti della Dea, le ex officine grafiche, rimasti senza lavoro.

tratto da: https://infosannio.wordpress.com/2018/01/05/la-lobby-dei-sacchetti-di-plastica/

Matteo Renzi vuole finalmente abolire il canone Rai. Non come quel cretino che ce l’ha messo nella bolletta elettrica…

 

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Matteo Renzi vuole finalmente abolire il canone Rai. Non come quel cretino che ce l’ha messo nella bolletta elettrica…

“La tv pubblica deve essere un diritto dei cittadini”. Per questo quella “brutta tassa” che è il canone Rai va abolita. Secondo La Repubblica, il segretario intende avanzare la proposta nella prossima direzione del Partito Democratico. Una mossa popolare studiata per rilanciare la corsa elettorale.

Forte no?

Allora che aspettiamo? Andiamo a votarlo…

Tanto a noi piace essere presi per i fondelli…

A parte il fatto che la prima riforma proposta da Renzi in campagna elettorale è l’abolizione di una sua riforma… ma poi, riflettete: Renzi non vuol far pagare il canone RAI ai cittadini. A dare i soldi alla Rai sarà dunque lo Stato. Cioè gli stessi cittadini…

Allora non cambia nulla, direte? No, cazzo se cambia. Farebbero pagare la Tv anche a chi non ce l’ha! Riuscirebbe a trasformare una “brutta tassa” in una porcata immane.

Ma questo è il loro sistema: una continua, insistente, ininterrotta presa per i fondelli.

Solito gioco delle tre carte. Inventato da Berlusconi e portato all’apoteosi da Renzi.

Ma non Vi preoccupate le elezioni sono ancora lontane ed avrà il tempo di promettere l’abolizione delle calorie della Nutella …e visto che si voterà a primavera non è escluso uno “sconfiggeremo le zanzare”

Tanto qualche fesso che lo vota lo trova sempre…

By Eles

Sacchetti bio a pagamento? Ci hanno detto che “ce lo chiede l’Europa” …Ma poi scopri che si pagano solo in Italia e allora capisci che ci stanno veramente prendendo per il c…!

Sacchetti bio

 

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Sacchetti bio a pagamento? Ci hanno detto che “ce lo chiede l’Europa” …Ma poi scopri che si pagano solo in Italia e allora capisci che ci stanno veramente prendendo per il c…!

 

Sacchetti biodegradabili per la frutta, si pagano solo in Italia

Il nostro Paese ha deciso, dal 1 gennaio, di far pagare ai clienti i sacchetti sotto i 15 micron, che vengono usati per contenere frutta, verdura e farmaci. Finora il costo veniva pagato dai distributori che lo scaricavano sui clienti incorporandolo nel prezzo degli alimenti

A conti fatti l’Italia è stata più realista del re. È andata oltre quello che prevedeva una direttiva comunitaria del 2015. Disposizione che incoraggia i Paesi membri a un giro di vite contro i sacchetti di plastica biodegradabile e compostabile monouso, ma che lascia ampi margini di manovra sul modo in cui farlo. Soltanto l’Italia in Europa ha deciso, dal 1° gennaio di quest’anno tramite un emendamento inserito nel decreto legge Mezzogiorno, di far pagare ai clienti i sacchetti sotto i 15 micron, quelli che vengono usati per contenere frutta, verdura e farmaci (anche le farmacie hanno l’obbligo dal primo gennaio di far pagare lo shopper).

Lo ha fatto il governo che aveva avuto la delega da parte del Parlamento nel recepire la normativa Ue. Lo ha fatto probabilmente per uniformare la disciplina a quella prevista per i sacchetti di plastica da oltre 50 micron, per intenderci quella della spesa, dove il pagamento è previsto da parecchio tempo con tanto di voce espressamente segnalata sullo scontrino. Una mossa che potrebbe sembrare anticipatrice di quello che l’Europa potrebbe prevedere tra qualche anno ma che non era espressamente inserita nella direttiva.

L’Irlanda per esempio ha agito sul fronte fiscale, prevedendo una tassa sui sacchetti. La novità ha suscitato una vibrante protesta da parte dei consumatori anche se stiamo parlando di circa 1 centesimo a busta, ma è chiaro che i volumi complessivi alla fine dell’anno sono importanti per i produttori come la Novamont, guidata da Catia Bastioli, che ha brevettato la una tecnologia della bioplastica biodegradabile e compostabile ricavandone un importante vantaggio competitivo sul mercato e spiazzando la concorrenza.

Un pasticcio. Di pochi euro all’anno. Al massimo 15, considerando in media un paio di sacchetti ultraleggeri al giorno. La scelta del governo ha provocato un inatteso cortocircuito, finendo per tracimare in campagna elettorale con scambi di accuse e teorie complottiste. Tra chi parla di «un atto di civiltà» (il copyright è del ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti) e chi denuncia un raggiro ai danni dei cittadini, «una tassa voluta dal Pd», arringa Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia.

Fonti del governo che hanno partorito l’emendamento al decreto legge Mezzogiorno poi convertito in Parlamento, spiegano che il senso della misura sta tutta nel segnalare apertamente che i sacchetti ultraleggeri hanno un costo per tutti, per lo smaltimento dei rifiuti. Indicarlo come voce a sé nello scontrino significa far prendere coscienza dei nostri comportamenti. Fino al 31 dicembre questo costo è stato anticipato dalle aziende della grande distribuzione e dagli esercenti che l’hanno scaricato a valle sugli utenti incorporandolo come servizio aggiuntivo nei prezzi degli alimenti. È impossibile calcolare chi l’abbia fatto di più o di meno. Sono logiche legate alle strategie commerciali delle insegne, ma l’utente finora non poteva accorgersene. Si trattava di un costo occulto, per questo passava sotto traccia. Senza polemiche.

Il 18 ottobre scorso il cambio di passo. Una circolare esplicativa del ministero dell’Ambiente, firmata dalla direzione generale per i rifiuti e indirizzata ai vertici di Federdistribuzione, Conad e Coop, chiarisce il da farsi. Viene stabilito l’obbligo di far pagare i sacchetti per gli incarti degli alimenti sfusi. Il costo oscilla, ricostruendo tutti i passaggi della filiera, tra gli 1 e 3 centesimi per shopper. Ma il governo opta per un compromesso prevedendo qualche malcontento della clientela. Concede alle insegne della distribuzione organizzata di venderli sottocosto. Facoltà concessa solo in alcuni periodi e per un numero ben determinato di categorie di prodotte per evitare di fare dumping sui produttori. Le associazioni dei consumatori però non vengono allertate. Tutti scoprono il 1° gennaio che c’è questo balzello aggiuntivo, che alimenta polemiche per principio. Pochi realizzano che il primo dell’anno è anche il giorno dei rincari delle tariffe autostradali, di luce e gas. Ben più considerevoli.

E poi ci sono sacchetti e sacchetti. L’Italia, pur essendo una best practice nella filiera della bioplastica e dotata di adeguate strutture di compostaggio dei rifiuti organici, presenta una quota consistente di shopper fintamente biodegradabili. Contaminati da polietilene e poco sensibili alle procedure di compost che permettono di evitare di portare i rifiuti organici in discarica utilizzandoli invece come concime dei terreni. Una soluzione su cui sta investendo tutta la chimica verde. Ecco perché il ministro Galletti ha dichiarato che «il miglior rifiuto è sempre quello che non si produce». Per questo ha interrogato il dicastero della Salute per sondare la possibilità di consentire ai consumatori di usare sporte portate da casa in sostituzione dei sacchetti ultraleggeri.

Peccato che le bilance dei supermercati sono tarate sul peso degli shopper in uso. Leggerissimi. Così il rischio è che portandole da casa possa persino lievitare il conto della spesa alla cassa. Più di 3 centesimi a sacchetto. Una beffa ulteriore.

fonte: http://www.corriere.it/economia/18_gennaio_03/italia-unica-europa-far-pagare-sacchetti-biodegradabili-f48a38fe-f092-11e7-b9c8-ca7b03c62ba9.shtml