Ecco come il Covid mette il luce la truffa dei dati Istat sulla disoccupazione con cui i politici ci pigliano per i fondelli. Ad aprile, in pieno lockdown, -3,9%, 500.000 disoccupati in meno… Possibile? No, ma è l’imbroglio degli “inattivi” che diventa spudoratamente evidente!

 

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Ecco come il Covid mette il luce la truffa dei dati Istat sulla disoccupazione con cui i politici ci pigliano per i fondelli. Ad aprile, in pieno lockdown, -3,9%, 500.000 disoccupati in meno… Possibile? No, ma è l’imbroglio degli “inattivi” che diventa spudoratamente evidente!

I numeri parlano chiaro: la disoccupazione diminuisce, cioè aumenta

Cosa sta succedendo nell’economia e nel mercato del lavoro italiano durante la crisi, l’ennesima, innescata dal Covid-19? Cosa possiamo attenderci dai prossimi mesi? Il peggio è passato o la recessione deve ancora pienamente manifestarsi? La consueta nota mensile dell’ISTAT sul mercato del lavoro ha certificato, a inizio giugno, gli effetti drammatici che il lockdown ha già avuto sull’economia italiana. Riteniamo importante fare un po’ di chiarezza su questi dati e provare a immaginare cosa potrà accadere nei prossimi mesi, anche alla luce delle misure finora messe in campo dal Governo.

Guardando ai disoccupati e al tasso di disoccupazione si rischierebbe infatti di cadere in un grossolano errore. Abbiamo letto sui giornali che il tasso di disoccupazione di aprile (6,3%) si è ridotto del 3,9% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente (10,2%) e dell’1,7% rispetto a marzo (quando si attestava all’8%): insomma, tra marzo e aprile i disoccupati sarebbero diminuiti di ben 484 mila unità. Parrebbe, dunque, che la disoccupazione sia diminuita, ma questo cozza frontalmente con la logica della crisi e con quanto osserviamo tutti nella quotidianità. Come si spiegano questi dati e cosa possono permetterci di concludere? Facciamo un po’ di chiarezza su numeri e concetti.

Si definisce disoccupato un individuo che ha attivamente cercato lavoro o che sarebbe disposto fin da subito a lavorare. Non tutti coloro che non lavorano, dunque, sono disoccupati: la ricerca attiva di un’occupazione è la caratteristica necessaria per essere definito disoccupato.

Esiste, infatti, un’altra categoria che rappresenta situazioni individuali variegate e che è opportuno tenere in considerazione, tanto più in situazioni di crisi e incertezza come quella attuale: gli inattivi. Sono inattivi, secondo l’ISTAT, gli individui che non fanno parte della forza lavoro, ossia coloro che non sono né occupati né disoccupati. Gli inattivi si dividono a loro volta in due gruppi: quelli in età non lavorativa – ossia studenti sotto i 15 anni e anziani over 64 (circa 20 milioni di persone in totale) –  e quelli in età lavorativa, circa 13 milioni di persone. Tra questi ultimi, quelli che ci interessano maggiormente, troviamo peraltro anche i cosiddetti scoraggiati(circa 3 milioni), vale a dire persone che vorrebbero lavorare, ma hanno perso la fiducia circa la possibilità di cercare un impiego e quindi decidono di non cercarlo affatto.

Ad aprile si sono registrati, rispetto a marzo, 746 mila inattivi in più in Italia: una si tratta di una crescita imponente. In aggregato, è facile dedurre che la riduzione dei disoccupati di aprile (-484 mila) si sia tradotta principalmente in una crescita dell’inattività. I disoccupati, in altre parole, sono diventati inattivi poiché hanno interrotto la loro attività di ricerca di un impiego a fronte della chiusura delle attività imposta dalla pandemia.

La condizione di inattivo si lega, in maniera pericolosa e non sempre chiara, con un altro fenomeno, la disoccupazione di lunga durata. Spesso chi cerca lavoro da molto tempo, ed è dunque un disoccupato di lunga durata, vive una condizione a forte rischio di marginalità sociale tanto da diventare inattivo, cioè tanto da perdere le speranza di trovare un lavoro e rinunciare a cercarlo. L’aumento degli inattivi in età di lavoro, dunque, deve preoccupare e non poco poiché segnala un netto peggioramento non solo delle condizioni di vita e ma anche delle aspettative dei lavoratori.

Questa volta, inoltre, c’è qualcosa di più: come si spiega, infatti, la differenza tra il dato degli inattivi (+746 mila) e quello dei disoccupati (-484 mila)? Semplice: lo si spiega con la contestuale riduzione dell’occupazione. I dati destagionalizzati di aprile segnano, infatti, una caduta drammatica degli occupati: 274 mila in meno rispetto a marzo, che diventano 398 mila rispetto a febbraio.

Nei primi due mesi pieni dell’emergenza COVID quasi 400 mila persone hanno perso il lavoro. Possiamo ragionevolmente ipotizzare che in aggregato coloro che hanno perso il lavoro ad aprile (274 mila individui) non abbiano neanche tentato di trovarne uno nuovo, transitando direttamente verso l’inattività senza passare per lo status di disoccupati.

In definitiva, la riduzione dei disoccupati e della forza lavoro (dovuta alla contemporanea riduzione di occupati e disoccupati) ha fatto sì che si riducesse anche il tasso di disoccupazione, senza che ciò significhi un miglioramento della situazione del mercato del lavoro, anzi.

Il tasso di disoccupazione, infatti, corrisponde al rapporto tra disoccupati e forza lavoro e, anche alla luce di quanto detto circa l’inattività, rappresenta una statistica non del tutto soddisfacente a rappresentare la situazione complessiva del mercato del lavoro.

Siamo consapevoli che questa sia una condizione quasi fisiologica in una fase come quella che abbiamo vissuto: durante la quarantena, con l’impossibilità di uscire di casa e le attività produttive in gran parte chiuse, la stessa attività di ricerca di un impiego era praticamente impedita e sicuramente vana.

Tuttavia, questa riflessione ci serve più che altro a tratteggiare i confini di una condizione di pericolosa precarietà per i lavoratori che si trovano a scontare gli effetti più duri della crisi economica. Una condizione che la crisi aggrava, ma che per certi versi affonda le sue radici in anni e anni di accanimento legislativo contro i diritti dei lavoratori.

Infatti, se andiamo più nel dettaglio, ci accorgiamo di come tra gli occupati che hanno perso il lavoro, il 47% aveva un contratto di lavoro dipendente a tempo determinato, il 27% aveva un contratto a tempo indeterminato e il 25% erano lavoratori indipendenti. La maggior parte delle cessazioni dei rapporti hanno quindi riguardato la fascia contrattuale meno tutelata sia rispetto ai licenziamenti che rispetto ai sussidi di disoccupazione.

Per quanto riguarda i dipendenti a termine, si tratta in buona parte di mancati rinnovi contrattuali che, potenzialmente, hanno riguardato molti individui che non avevano ancora maturato il diritto alla NASPI (il sussidio alla disoccupazione) e che si sono trovati, improvvisamente, senza lavoro e senza nessuna forma di sussidio e di reddito. Una situazione che, ancora una volta, sottolinea gli effetti nefasti per i lavoratori del processo di deregolamentazione del lavoro e di attacco ai diritti acquisiti in anni di lotte.

A tutto questo dobbiamo aggiungere che, secondo i dati INPS, al 21 di maggio i beneficiari potenziali complessivi di Cassa Integrazione (CIG) ammontano a 7,7 milioni, che si dividono tra CIG ordinaria, CIG in deroga e assegno ordinario (FIS). Pur non lavorando, questi risultano statisticamente occupati poiché, formalmente, il loro rapporto di lavoro con il datore non si è interrotto.

Certamente alcuni di loro torneranno ad essere occupati a tutti gli effetti una volta terminata la crisi, ma cosa succederà a tutti quei lavoratori delle aziende che non sopravviveranno alla crisi? Che il quadro sia fosco viene confermato addirittura da Federmeccanica, l’associazione degli industriali metalmeccanici, che prevede tagli del personale per un terzo delle imprese.

I lavoratori in sofferenza dunque sono molti più di quelli che un semplice sguardo ai dati aggregati potrebbe far pensare. Il blocco dei licenziamenti, in vigore fino al 17 agosto, ha posto per fortuna un argine a effetti ancora più drammatici ma, senza un reale sforzo economico per rimettere in moto l’economia è più che legittimo temere che alla scadenza di questo divieto tra mancati rinnovi dei contratti a termine e licenziamenti andremo incontro a una disoccupazione di massa come mai sperimentata fino ad oggi.

Mentre le istituzioni europee continuano imperterrite la propria propaganda basata su cifre tanto astronomiche quanto fasulle e il Governo perde tempo tra Piano Colao e Stati Generali, rilanciando vecchie ricette ormai stantie, l’emergenza sociale sta montando nel paese e con la fine del blocco dei licenziamenti e della Cassa Integrazione non potrà che aggravarsi ulteriormente.

L’aumento degli inattivi e la riduzione degli occupati rappresentano la violenza subita dalla classe lavoratrice in questi mesi, l’esercito industriale di riserva che manterrà i salari a livelli bassissimi per gli anni a venire e il segno della povertà che dilagherà, se non si mette in discussione il modello neoliberista intorno a cui è organizzata la nostra società.

La propaganda europeista e governativa ci racconta, dati alla mano, che la situazione sta gradualmente migliorando: quei dati, letti correttamente, mostrano tuttavia che siamo in una situazione drammatica. Per uscirne dobbiamo cambiare il sistema alla radice.

Di Coniare Rivolta – un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

Ce lo chiede l’Europa: disoccupazione, disuguaglianza e precarietà…!

 

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Ce lo chiede l’Europa: disoccupazione, disuguaglianza e precarietà…!

Potere al Popolo! ha recentemente lanciato un invito al dibattito ed al confronto sull’Europa, in vista delle elezioni europee del 2019. Accogliamo l’invito e pubblichiamo il nostro secondo contributo sul tema.

Cosa ci chiede l’Europa lo sappiamo fin troppo bene: con la sua disciplina fiscale ci chiede di tagliare la spesa pubblica in sanità, istruzione, cultura, sicurezza, infrastrutture e di ridurre le pensioni; con il suo modello di economia di mercato ci chiede di competere con i salari di paesi dove lo stipendio mensile lordo non supera 400 euro, di accettare una crescente precarietà del lavoro e dei tempi di vita attraverso le liberalizzazioni, di rinunciare a qualsiasi forma di controllo pubblico sull’economia, dalle grandi reti infrastrutturali ai servizi pubblici locali. Ci chiede, insomma, tutto quello che i Governi degli ultimi 30 anni hanno scrupolosamente realizzato: che partissero da centrosinistra, da centrodestra, oggi addirittura da una piattaforma populista, tutti hanno seguito la stessa direzione, quell’austerità che ha portato in Europa una crisi che in tempi di pace non si vedeva da quasi un secolo. Ma perché l’Europa ci chiede questo?

Le risposte più comuni a questa domanda, affatto banale, sono due. La risposta dell’Europa e degli europeisti è la seguente: in Italia, così come in tutta la periferia europea, abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, con un modello di sviluppo incompatibile con la dimensione globale che il progresso tecnico impone ai sistemi produttivi moderni; i sacrifici derivanti dall’abbandono di questa organizzazione sociale obsoleta e insostenibile sarebbero più che compensati dal futuro radioso che l’affermazione di una moderna economia di mercato spontaneamente realizzerà. La risposta di molti euroscettici non mette in discussione gli obiettivi dichiarati dalle istituzioni europee, che sarebbero sempre quelli di garantirci un futuro migliore nel turbinio della globalizzazione, ma critica piuttosto la messa in pratica di questo progetto: secondo alcuni l’Europa sarebbe un grande errore, un’istituzione mal congegnata, un’unione economica incompleta condannata al fallimento dalle teorie economiche sbagliate su cui è disegnata. Questi critici dell’Europa, dunque, tendono a dipingere l’ostinazione con cui le istituzioni comunitarie procedono sul solco dell’austerità come una mera follia, frutto di fanatismo ideologico e causa di una prossima implosione del progetto di integrazione europea. In quanto segue, proveremo a tracciare i contorni di una terza risposta.

Una volta inserito nella storia della lotta di classe, il progetto di integrazione europea si mostra per quello che è: un formidabile strumento di disciplina dei lavoratori concepito per ribaltare i rapporti di forza che si erano andati consolidando fino agli anni Settanta, la forma assunta dalla restaurazione neoliberista in un’Europa dove i diritti conquistati metro dopo metro dai lavoratori iniziavano a mettere in discussione l’ordine economico e sociale. Quando le principali economie europee viaggiavano verso la piena occupazione, il ricatto del licenziamento si faceva meno opprimente ed i lavoratori trovavano il coraggio e la forza di organizzare le loro lotte sia sul piano sindacale che sul piano politico, fino a progettare la rivoluzione verso un modello alternativo di società fondato su principi di uguaglianza e solidarietà che, pur con mille contraddizioni, dimostrava di poter esistere appena oltre la cortina di ferro e, anche solo per questo motivo, toglieva il sonno agli sfruttatori di tutta l’Europa occidentale.

Libertà di movimento di merci e capitali, ovvero libertà di sfruttamento del lavoro

Sebbene il percorso di integrazione europea prenda avvio con il Trattato di Roma del 1957, che istituisce la Comunità Economica Europea (CEE), solo nel 1968 viene sancito il primo vero passaggio verso la costruzione del mercato unico europeo: la completa liberalizzazione dei movimenti di merci con l’abbattimento dei dazi. Negli anni ’80 si procede a passi da gigante alla liberalizzazione dei movimenti di capitale, con l’Atto Unico del 1986 che definisce le linee guida dell’apertura integrale delle frontiere ai movimenti di denaro, apertura che verrà sancita definitivamente con il Trattato di Maastricht del 1992. Da allora i capitali sono liberi di migrare da un paese ad un altro senza alcuna restrizione e senza pagare alcuna imposta per il loro trasferimento. Il combinato disposto di queste due libertà è un salto di qualità nella capacità di sfruttamento del lavoro: se i lavoratori di un Paese non si piegano, e pretendono salari elevati e diritti, la libertà di movimento dei capitali consente alla produzione di trasferirsi altrove e la libertà di movimento delle merci garantisce che non sia compromessa la capacità di vendere quel prodotto nel mercato unico, incluso il paese da cui si è delocalizzata la produzione. Sulla libertà di merci e capitali si costruisce dunque l’oppressione del lavoro. È infatti evidente che qualsiasi normativa che volesse aumentare i gradi di tutela dei lavoratori, ridurre l’orario di lavoro, fissare un salario minimo orario, aumentare le norme di sicurezza sui luoghi di lavoro, mettere al bando tutti i contratti precari, ripristinare una disciplina restrittiva sulla libertà di licenziamento e via dicendo, si scontrerebbe sempre con la minaccia di una fuga di capitali verso sistemi normativi più favorevoli ai profitti.

Il medesimo ricatto si propone anche sul piano della tassazione, dove si crea una concorrenza al ribasso sui sistemi tributari: qualsiasi impresa è chiamata a competere con quelle residenti nei paesi a minor pressione fiscale sul capitale. Il risultato è una pressione competitiva che si scarica sui salari dei lavoratori e si traduce nella minaccia di delocalizzazione, producendo in ultima istanza una spinta tutta politica alla compressione delle tasse sui redditi da capitali – progressivamente ridotte in tutta Europa. Senza controlli dei movimenti di merci e capitali appare impossibile esercitare una seria redistribuzione del reddito attraverso un sistema fiscale progressivo.

La disciplina fiscale e il ricatto del debito

Il Trattato di Maastricht, inoltre, fissa una serie di vincoli all’uso del bilancio pubblico, stabilendo limiti al ricorso al debito pubblico attraverso due parametri: il rapporto tra debito pubblico e PIL deve tendere al 60% del PIL ed il rapporto tra disavanzo pubblico (la differenza tra spese ed entrate dello Stato nell’anno) e PIL non può superare il 3%. L’Italia, proprio a partire dai primi anni Novanta ed in coerenza con quei vincoli, ha realizzato una serie praticamente ininterrotta di avanzi primari (un eccesso di entrate sulle spese, escluse le spese per interessi sul debito) che hanno sottratto ogni anno risorse all’economia, alimentando la disoccupazione, indebolendo la domanda aggregata e creando le condizioni per l’attuale situazione di stagnazione. Il ricorso alla spesa pubblica in disavanzo è storicamente, infatti, lo strumento principale per stimolare l’economia e perseguire l’obiettivo della piena occupazione, proprio quella piena occupazione che negli anni Settanta aveva dato linfa alla lotta di classe dei subalterni. Nel 2012 le istituzioni europee approfittano dell’instabilità politica generata dalla crisi per far sottoscrivere ai Paesi membri il Fiscal Compact, che inasprisce la disciplina fiscale in Europa imponendo il principio del pareggio di bilancio, dunque mettendo fuori legge il ricorso al disavanzo pubblico.

Oltre alla disciplina fiscale inscritta nei Trattati, l’Europa impone ai Paesi membri anche la disciplina dei mercati finanziari, attraverso l’operato della Banca Centrale Europea (BCE). La politica monetaria è la chiave di volta della stabilità finanziaria di un Paese, perché la banca centrale ha il potere di emettere moneta e può impiegarlo per sostenere il corso delle attività finanziarie che hanno una rilevanza sistemica, in primis i titoli del debito pubblico. La crisi finanziaria USA è stata arginata attraverso acquisti incondizionati di Treasuries, i titoli pubblici americani, da parte del Federal Reserve System, ossia la banca centrale degli Stati Uniti. Lo stesso non è successo in Europa dove la BCE – a partire dalla Grecia – ha negato quel sostegno incondizionato al debito pubblico che da solo può garantire la stabilità finanziaria; al contrario, l’autorità monetaria europea ha subordinato il suo intervento, di volta in volta, all’accettazione delle politiche neoliberiste del rigore fiscale, della deflazione salariale, delle liberalizzazioni e privatizzazioni. Attraverso la BCE, l’Europa ha posto l’austerità come condizione della stabilità finanziaria dei paesi Membri: se un Paese non è perfettamente allineato ai dettami della Commissione Europea, perde il sostegno della banca centrale sui mercati finanziari e finisce per essere esposto alla speculazione finanziaria. È il ricatto dello spread che ha messo in ginocchio l’intera periferia europea a partire dal 2009. In questa maniera la politica monetaria è diventata uno strumento disciplinante delle politiche economiche nazionali, strumento adoperato dalle istituzioni europee per imporre il disegno politico neoliberista dell’austerità.

La camicia di forza del cambio fisso

L’architettura istituzionale europea si completa con un terzo pilastro, costituito dal processo di fissazione del tasso di cambio tra paesi che hanno poi aderito alla moneta unica, l’euro, a partire dal 2002. Anche questo processo prende avvio negli anni Settanta, con la creazione del cosiddetto ‘Serpente monetario’ nel 1972 – un primo margine di fluttuazione ristretto per i cambi dei paesi europei – e poi con la formazione del Sistema Monetario Europeo nel 1979, il preludio all’Unione Monetaria sancita dal Trattato di Maastricht.

Nel contesto del mercato unico, dominato dalla libertà di movimento dei capitali e delle merci, la fissazione dei rapporti di scambio tra le valute dei paesi europei impone alle economie nazionali un vincolo esterno, concentrando tutta la pressione derivante dalla concorrenza internazionale sul costo del lavoro. Il meccanismo dei cambi fissi prevede infatti l’impossibilità di ricorrere alla svalutazione della moneta nazionale, e dunque sottrae dall’alveo della politica economica uno strumento fondamentale di stimolo della produzione. La leva del tasso di cambio permette, infatti, ad un Paese di rendere le proprie merci più competitive all’estero riducendone il prezzo senza dover comprimere direttamente i salari dei lavoratori: le cosiddette svalutazioni competitive rappresentavano, nell’Italia del dopoguerra, un vero e proprio compromesso tra le rivendicazioni dei lavoratori e le resistenze delle imprese. Il vincolo esterno dei cambi fissi ha reso impossibile questo compromesso, costringendo così le imprese – esposte alla concorrenza internazionale – a guadagnare margini di competitività solo sulla pelle dei lavoratori.

L’Unione Europea appare, nella sua evoluzione, come uno strumento pensato esattamente per depotenziare il conflitto di classe dal basso verso l’alto, un’arma di difesa del profitto agitata contro i lavoratori per imporre la restaurazione neoliberista in Europa. Per questo le istituzioni europee ci appaiono programmaticamente e strutturalmente irriformabili: la loro funzione essenziale è proprio quella di disciplinare il lavoro e sottometterlo – attraverso disoccupazione, disuguaglianze e precarietà – al dominio del capitale. Il progetto di integrazione europea ha costruito uno spazio non politico e non contendibile, sottraendo alla maggioranza della popolazione qualsiasi forma di controllo sul governo dell’economia e sull’organizzazione sociale. La riprova della irriformabilità dell’Unione Europea può essere trovata facilmente anche sul piano giuridico: per modificare i trattati istitutivi occorre raggiungere l’unanimità dei 27 Paesi membri, il che significa che risulta impossibile concepire una qualsiasi forzatura dell’architettura istituzionale europea verso una maggiore attenzione ai temi sociali e ai diritti dei lavoratori; se pure tutti i Paesi dell’Unione tranne il Lussemburgo si convincessero della necessità di allentare l’austerità, quei 600.000 lussemburghesi basterebbero a frenare il progresso sociale di 500 milioni di europei.

L’Unione Europea è allora la forma storica assunta nei paesi europei dalla lotta di classe dall’alto verso il basso, per eludere la concretezza del conflitto tra sfruttati e sfruttatori che negli anni Settanta aveva condotto ad importanti conquiste per i lavoratori. Con la mera applicazione di politiche economiche proclamate come inevitabili, tecniche, disegnate da centri decisionali lontani e inarrivabili, sono state applicate misure ispirate al più profondo ed estremo neoliberismo. Culturalmente si è plasmato e diffuso per anni un nuovo approccio politico, fondato sull’idea che non ci sia più niente da fare, perché vi sono forze oggettive invalicabili che determinano il funzionamento di un sistema economico contro cui non è possibile ribellarsi, se non in modo testimoniale. Non resterebbe allora che il misero adeguamento alla realtà e, al limite, debolissime lotte di retroguardia per rendere questo adeguamento il meno traumatico possibile. Questa cultura dell’impossibilità di incidere ha fatto a pezzi decenni di politica attiva, facendo precipitare i protagonisti di una stagione di lotte e conquiste nel nichilismo o, peggio ancora, nell’entusiasta adesione all’esistente visto come inevitabile fine della storia. Lottare contro l’Unione Europea significa quindi innanzitutto lottare contro la fine stessa della politica come luogo del conflitto e dell’elaborazione di un diverso progetto di società.

Così come il processo di emancipazione degli sfruttati era stato accompagnato dalla costruzione di un quadro di politiche economiche favorevoli alla piena occupazione, alla difesa del lavoro, al rigido controllo statale e alla programmazione economica, allo stesso modo la fase successiva di arretramento realizzata a partire dagli anni Settanta è stata contrassegnata da una vera e propria controrivoluzione liberista, le cui forme istituzionali coincidono con le tappe del progetto di integrazione economica e monetaria europea. L’Europa si presenta, dunque, come il dispositivo storico concreto della lotta di classe mossa dagli sfruttatori contro gli sfruttati: fuori dall’ideologia europeista dell’inevitabilità della globalizzazione, fuori dall’illusione di un’Europa dominata dalla finanza a cui contrapporre la politica dell’Europa dei popoli, il progetto di integrazione europea appare tutt’altro che un fallimento, bensì come il grande successo di chi ha voluto reprimere nella povertà e nella precarietà decenni di conquiste sociale da parte delle classi subalterne.

di Coniare Rivolta*

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

L’analisi impietosa del quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung: i giovani Italiani guadagnano meno dei coetanei Polacchi. Al Sud 1 su 2 è senza lavoro.

 

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L’analisi impietosa del quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung: i giovani Italiani guadagnano meno dei coetanei Polacchi. Al Sud 1 su 2 è senza lavoro.

 

GIORNALI TEDESCHI: ”NEL SUD ITALIA DISOCCUPAZIONE AL 46,6%. I GIOVANI ITALIANI GUADAGNANO MENO DEI COETANEI POLACCHI”

“Nel Sud Italia la disoccupazione giovanile e’ del 46,6 per cento, il doppio rispetto al resto del paese. Con i loro mini-lavori precari – scrive oggi in prima pagina il quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung – i giovani italiani guadagnano meno dei coetanei polacchi”.

L’articolo prosegue così: “Dei 716.000 italiani meridionali che si sono trasferiti al Nord negli ultimi 15 anni, oltre il 70 per cento aveva meno di 34 anni. Luca di Montezemolo, ex capo della Ferrari, avverte: “Il Sud e’ oggi il problema numero uno in Italia”. Il trionfo populista alle elezioni del 4 marzo e’ stato uno shock. Nel ricco Nord, coloro che si sentono esclusi dal processo della globalizzazione hanno scelto la Lega, che promette tariffe punitive e la drastica riduzione delle tasse al 15 per cento”.

“Il Movimento 5 stelle di Luigi Di Maio – prosegue il Sueddeutsche Zeitung  – ha invece trionfato al Sud con lo slogan “piu’ Stato”. Cio’ dimostra che il divario tra le due parti del paese e’ aumentato drasticamente durante la crisi economica. Il nuovo parlamento riflette questa divisione. Tuttavia il risultato delle elezioni sembra non essere stato un shock per il produttore di freni Brembo che il giorno dopo ha registrato un aumento azionario alla Borsa di Milano. Ad aiutare la buona situazione e’ anche la Bce che sta ancora utilizzando il suo programma di acquisto per aiutare gli italiani troppo indebitati. Un altro fattore stabilizzante e’ che la quota di creditori stranieri e’ diminuita drasticamente dopo la quasi bancarotta nel 2011″.

“Ma soprattutto – aggiunge il giornale – la ripresa ha cambiato l’Italia. Il deficit di bilancio nel 2017 e’ stato inferiore dell’1,9 per cento rispetto a quanto pianificato. Entro il 2018, il disavanzo e’ destinato a ridursi all’1,6 per cento. Il rapporto debito – Pil e’ sceso leggermente per la prima volta in dieci anni, al 131,5 per cento. “Lasciamo un budget ordinato”, ha twittato il ministro delle Finanze uscente, Pier Carlo Padoan. Ottimista anche il capo di Uni Credit Jean Pierre Mustier: “Riteniamo che la crescita continuera’ in Italia e il paese sara’ tra i vincitori in Europa”, ha affermato il francese”.

“Mario Draghi – scrive ancora il Sueddeutsche Zeitung – ha parlato piu’ cautamente da Francoforte. “Un’instabilita’ politica duratura puo’ minare la fiducia”, ha avvertito il capo della Bce, senza menzionare l’Italia. Allo stato attuale, il clima di fiducia nell’economia italiana e’ migliore di quanto lo sia stato dalla crisi del 2008. Il surplus commerciale dell’industria metalmeccanica ha raggiunto i 52 miliardi di euro. L’ex primo ministro Mario Monti confida nell’Unione europea e nelle sue regole, che limita il margine di manovra dei governi. Gli ottimisti, conclude pero’ la “Sueddeutsche Zeitung”, ignorano quanto l’Italia stia andando alla deriva. Nel Nord-Est la produzione industriale e’ in crescita, ma la Sicilia ha perso in termini di competitivita’. Tra il 2001 e il 2016, l’economia italiana del Sud si e’ ridotta del 7,2 per cento”.  E’ un’Italia divisa politicamente in due parti che puntano in direzioni opposte.

 

tratto da: http://www.ilnord.it/c-5498_GIORNALI_TEDESCHI_NEL_SUD_ITALIA_DISOCCUPAZIONE_AL_466_I_GIOVANI_ITALIANI_GUADAGNANO_MENO_DEI_COETANEI_POLACCHI

 

Questa è l’Italia – Centri per lʼimpiego: 556 strutture, 600 milioni di costi annui, 8.000 addetti, IL TUTTO PER TROVARE LAVORO A 4 PERSONE L’ANNO! …Perché queste cose i Tg non le dicono?

Centri per lʼimpiego

 

 

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Questa è l’Italia – Centri per lʼimpiego: 556 strutture, 600 milioni di costi annui, 8.000 addetti, IL TUTTO PER TROVARE LAVORO A 4 PERSONE L’ANNO! …Perché queste cose i Tg non le dicono?

 

Il grande flop dei centri per lʼimpiego, costano 600 milioni lʼanno ma trovano lavoro solo al 3% dei richiedenti.

Almeno due milioni e mezzo di italiani si rivolgono alle 556 strutture sparse sul territorio: circa 360mila al mese. Gli 8mila operatori in media collocano circa 4 occupati in un anno.

Flop dei Centri per l’impiego in Italia. Dovevano essere riorganizzati e potenziati come scritto nell’utima riforma del lavoro ma è rimasto tutto sulla carta. Infatti nonostante una spesa di 600 milioni di euro l’anno, distribuita tra i 556 Cpi sparsi sul territorio, solo il 3% dei disoccupati che si rivolge agli uffici di collocamento riesce a trovare un impiego. Una media irrisoria rispetto ai numeri di Francia e Germania che superano il 20%. Secondo l’Istat, all’anno, almeno 2 milioni e mezzo di persone vi si rivolgono.

Come scrive il Messaggero una produttività davvero bassa se si pensa che gli operatori sono 8mila e riescono a collocare solo 4 occupati l’anno. I Cpi sono passati a essere controllati dalle Province alle Regioni, e ora nel limbo del Jobs act.

In realtà i Centri per l’impiego dovrebbero lavorare per far incrociare domanda e offerta, come fissato nella riforma del lavoro renziana, ma mancano i decreti attuativi e una regia organica. “Tutto è rimasto frammentato dopo la riforma – ha affermato al quotidiano romano Maurizio Del Conte, presidente Anpal – e le percentuali di collocamento oscillano tra il 2,2 e il 3,2%, una media decisamente bassa che riguarda Nord, Centro e Sud in maniera omogenea”.

Quello che manca in Italia, denunciano i sindacati, “è una gestione integrata dei Centri per l’impiego, con l’adozione di modelli standard che offrano sul territorio servizi uguali per tutti”. Bisognerebbe, “provincia per provincia, numerare i disoccupati, catalogarli per qualifica, dare formazione a chi non ha titoli, mantenere viva una rete di comunicazione con le aziende”.

In alcuni casi i centri si trovano in strutture fatiscenti mentre in altri tra gli 8mila dipendenti c’è anche chi non è qualificato nonostante abbia un contratto a tempo indeterminato. Ma non bisogna fare di tutta lerba un fascio. Ci sono Regioni in cui i centri sono funzionanti come in Veneto e in Emilia Romgna. Il Lazio invece è tra le Regioni che vanno più lentamente.

Secondo il presidente della Federcontribuenti Marco Pagnella “sarebbe necessario creare un fondo nazionale di 800 milioni per il sostegno occupazionale. I Cpi potrebbero invece essere dislocati all’interno degli uffici comunali, con un risparmio notevole per lo Stato”.

 

tratto da: http://www.tgcom24.mediaset.it/economia/il-grande-flop-dei-centri-per-l-impiego-costano-600-milioni-l-anno-ma-trovano-lavoro-solo-al-3-dei-richiedenti_3138294-201802a.shtml

Finlandia, gli effetti di 560 euro di reddito garantito: meno ansia e più voglia di trovare lavoro

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Finlandia, gli effetti di 560 euro di reddito garantito: meno ansia e più voglia di trovare lavoro

Arrivano i primi risultati sul test eseguito su un campione di 2mila disoccupati. Ma le autorità mettono in guardia: estenderlo a tutti sarebbe difficile. Primi passi, comunque, per sfoltire la giungla di agevolazioni

Di seguito un articolo pubblicato su Repubblica.it a firma di Andrea Tarquini che racconta cosa sta succedendo in Finlandia, dove stanno sperimentando una forma di reddito garantito.

Reddito minimo fisso garantito a duemila cittadini, a titolo sperimentale. La stessa cifra, circa 560 euro, pagata appunto a duemila persone, tutte disoccupate e scelte in una fascia d’età tra i 25 e i 58 anni. Senza divieto di trovarsi un lavoro e senza obbligo di cercarlo. Così funziona l’esperimento, piuttosto unico al mondo, lanciato in Finlandia. Nel paese nordico segnato dall’economia più debole (sebbene moderna e competitiva) e dal più alto tasso di disoccupazione nella regione (non si riesce a farlo scendere sotto l´8 per cento) paradossalmente non un governo progressista bensì una coalizione di centrodestra ha lanciato il tentativo. E adesso, un anno dopo, autorità, economisti e media traggono un primo bilancio. In sintesi: su un campione di duemila persone ha dato spesso effetti positivi, ma ben altra complessità di strutture e ben altri costi imporrebbe una estensione del reddito minimo garantito dallo Stato a tutta la collettività.

“E’un esperimento, insistiamo”, ha spiegato al Guardian e ad altri media britannici Markus Kanerva, consigliere del premier Juha Sipila (un tycoon di successo diventato leader del centrodestra per bene e capo del governo). E aggiunge: “Vogliamo studiare quali conseguenze il reddito minimo garantito ha nel comportamento e nella qualità della vita di un campione di cittadini disoccupati; ma è ovvio che estenderlo a tutta la popolazione, o a tutti i senza lavoro, comporterebbe ben altre spese e modifiche a fondo del nostro complesso sistema di welfare, previdenziale e di monitoraggio della povertà o del rischio povertà”.

Secondo i primi esami dei risultati dell’esperimento, sempre relativi appunto a quella fascia di duemila cittadini disoccupati volontari che hanno accettato di parteciparvi, quel reddito minimo garantito pur essendo assolutamente insufficiente a vivere in un paese dagli alti costi in ogni campo della vita pubblica, ha avuto due effetti positivi. Primo: liberare i disoccupati coinvolti dal test dall’ansia e dallo stress continui della difficile ricerca di un lavoro, che sia un posto fisso o un impiego a tempo o precario. Secondo, li fa maturare psicologicamente. Perché li libera da quel riflesso condizionato tipico di molti percettori di assegni-previdenza nei paesi a welfare generoso ed esteso. E cioè dall’abitudine di vivere di sussidi perdendo lo stimolo a cercare un impiego e rientrare nel mercato del lavoro.

Secondo Marjukka Turunen, responsabile del comparto legale del Kela (la authority del welfare), il principale effetto positivo dell’esperimento, che continuerà almeno un altro anno, “è stato finora proprio quello di liberare i disoccupati da questa mentalità di disincentivo a cercare un impiego”. Mentalità fatta da un lato di pessimismo, visto che la crisi dei media cartacei e quindi delle cartiere, la lunga crisi di Nokia e il crollo del commercio con la Russia dopo la fine dell’impero sovietico hanno creato un vasto zoccolo duro di disoccupati in Finlandia, cioè un fenomeno di proporzioni sconosciute nel resto del grande nord. E dall’altro di rassegnazione, nella certezza che comunque i sussidi regolari ti fanno sopravvivere.

La raccolta e l’analisi di statistiche sui risultati è ancora in corso, ma un primo dato positivo emerge. Sentendosi liberi dall’ansia i duemila disoccupati-cavie volontarie sembrano più incentivati a cercare un impiego. Oppure a riempire comunque il tempo libero in lavori di volontariato, per riconoscenza solidale verso la società e le istituzioni. Un secondo risultato positivo: meno stress, meno depressione, quindi calo tendenziale delle spese della sanità pubblica. Ma attenzione, sottolineano i consiglieri del premier e la signora Turunen. Il test del reddito minimo garantito per i duemila volontari – di cui il governo protegge l’anonimità per rispetto della sfera privata – è solo un primo passo per pensare bene e lanciare con calma una riforma a fondo del sistema di welfare finnico, attualmente troppo complicato perché comprende una quarantina di sussidi diversi, con incroci e sovrapposizioni frequenti di competenze tra le varie autorità che li elargiscono. E per rendere il welfare al tempo stesso più efficiente come strumento di reinserimento dei disoccupati nel mercato del lavoro, e meno costoso. E’ solo un test iniziale, insomma, ma almeno il centrodestra finlandese ha cominciato a lavorare sul problema. Cercando idee nuove e soluzioni creative. Insomma, bilancio provvisorio positivo, ma senza illusioni che automaticamente estendere a tutti il diritto al reddito minimo garantito risolverebbe i problemi.

fonte. Repubblica

 

Il Codacons contro gli speudo-politici che, evidentemente in malafede, festeggiano ripresine e ripresette! Il tasso di disoccupazione è passato infatti dal 6,1% del 2007 all’11,1% di gennaio 2018. 1.376.000 disoccupati in più in 11 anni.

 

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Il Codacons contro gli speudo-politici che, evidentemente in malafede, festeggiano ripresine e ripresette! Il tasso di disoccupazione è passato infatti dal 6,1% del 2007 all’11,1% di gennaio 2018. 1.376.000 disoccupati in più in 11 anni.

 

ISTAT: DISOCCUPAZIONE GENNAIO RISALE ALL’11,1%

CODACONS: BRUTTE NOTIZIE SUL FRONTE DEL LAVORO. DA PERIODO PRE-CRISI 1,3 MILIONI DI DISOCCUPATI IN PIU’ IN ITALIA

I dati Istat sulla disoccupazione rappresentano una brutta notizia sul fronte del lavoro, perché registrano una preoccupante crescita del numero di persone senza occupazione con effetti negativi sull’economia nazionale. Lo afferma il Codacons, commentando la risalita all’11,1% del tasso di disoccupazione a gennaio.
“Si registra in Italia una preoccupante inversione di tendenza sull’occupazione, fattore che alimenta le preoccupazioni delle famiglie, come attesta il dato sulla fiducia dei consumatori diffuso pochi giorni fa dall’Istat, e ha effetti diretti sulla propensione alla spesa e sull’economia del paese – spiega il presidente Carlo Rienzi – Se confrontiamo i numeri attuali sulla disoccupazione con il periodo pre-crisi, i risultati sono devastanti: il tasso di disoccupazione è passato infatti dal 6,1% del 2007 all’11,1% di gennaio 2018, con il numero di cittadini senza occupazione che è variato da 1.506.000 del 2007 a 2.882.000 di gennaio, ossia 1.376.000 disoccupati in più in 11 anni”.

 

fonte: https://codacons.it/istat-disoccupazione-gennaio-risale-all111/

Caro idiota che col canone finanzi la propaganda elettorale di Renzi, sappi che i Tg che esultano perchè la disoccupazione scesa, udite udite, dall’11,1 all’11%, ti stanno prendendo per i fondelli!

 

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Caro idiota che col canone finanzi la propaganda elettorale di Renzi, sappi che i Tg che esultano perchè la disoccupazione scesa, udite udite, dall’11,1 all’11%, ti stanno prendendo per i fondelli!

Tanto finto clamore per un risultato ridicolo. E nessuno ti dice, per esempio, che dei 65 mila nuovi posti di lavoro, ben 54 mila sono a termine, ALTRI PRECARI!

Ma tu stai sereno, lo vedi come dopo 4 anni di Renzi stiamo tutti meglio?

E sei contento che col tuo canone finanzi la propaganda che Renzi si fa sulla Tv di regime?

by Eles

Occupazione. Renzi trilla: “aumento, un dato storico”, Gentiloni lo segue. È vero, ma dei 497mila nuovi posti di lavoro ben 450 mila sono a termine, un “ennesimo boom”, dice Scacchetti (Cgil). I media diffondono notizie false.

I titoli sulla occupazione sono fatti in fotocopia. I media ancora una volta si prestano a volgari operazioni utilizzando i dati Istat, che fa di tutto per confondere le acque. I grandi online, compreso Huffington Post, hanno titoli che sembrano fatti in fotocopia. Non c’è neppure bisogno di “suggerimenti” da parte dei comunicatori di Palazzo Chigi, sempre pronti a dare “consigli”, rivelare “retroscena”. Renzi trilla pochi minuti dopo che Istat aveva diffuso la grande notizia sull’aumento dell’occupazione. Il  segretario del Pd annuncia trionfante che “in campagna elettorale contano i risultati non le promesse. Noi ci  presentiamo con un milione di posti di lavoro in più, Pil in salita e indicatori economici in più. Un dato storico”. Gentiloni per non rimanere indietro  gorgheggia: “A novembre il numero di occupati ha raggiunto il livello più alto da 40 anni e scende anche la disoccupazione giovanile. Si può e si deve fare meglio. Servono più che mai impegno e serietà, non certo una girandola di illusioni”. La televisione, quella pubblica in particolare, non si fa pregare. Esemplare il televideo Rai. Titola: “Occupazione al top dal 1977”. Nella foga dell’annuncio un clamoroso errore. Addirittura  si indica come dato del “top” il 2018.

Prosegue l’orgia della precarietà, lavoretti anche solo per pochi mesi

Se passiamo ai quotidiani online da La Repubblica al Corriere, alla Stampa si può parlare di un’orgia di occupazione, una overdose, quasi una droga. La parola d’ordine è il balzo degli occupati a novembre 2017 rispetto ad ottobre,il famigerato +65 mila. La disoccupazione é scesa, udite udite, dall’11,1 di ottobre a 11% di novembre, il grande salto è dello 0,1%. Se prosegui la lettura del comunicato Istat, scopri, quasi nascosto, che le 65  mila unità in più si devono esclusivamente ai dipendenti (+68 mila) il cui aumento è compensato, si fa per dire, da un calo degli indipendenti (-3 mila), cioè liberi professionisti, autonomi e imprenditori. E scopri che dei  65 mila in più ben 54 mila sono posti di lavoro a termine, anche per solo pochi mesi. Fanno statistica, si dirà. Ma si tratta di lavoretti, precarietà che cresce. Di “ennesimo boom dei contratti a termine”, parla Tania Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil in una dichiarazione che riportiamo a conclusione dell’articolo.

La riprova viene dai dati per fascia di età. La voce più rilevante della crescita degli occupati riguarda la fascia di età degli over 50 (+52 mila), a causa dell’innalzamento dell’età pensionabile che mantiene sempre di più al lavoro persone che già hanno un impiego. La seconda fascia che cresce di più è però quella dei giovani (27 mila), seguita da quella 25-34 (+12 mila) mentre risulta in calo la fascia 35-49 (-27 mila). Proprio la crescita della fascia dei giovani offre, se ce n’era bisogno, la riprova che si tratta di lavoro precario, lavoretti appunto che portano il numero degli occupati a 23.183.000, aggiornando il record dal 1977, data di partenza delle serie storiche dell’istituto di statistica. Su base annua, la crescita degli occupati si concentra tra i lavoratori dipendenti (+497 mila, di cui +450 mila a termine e +48 mila permanenti), mentre calano gli indipendenti (-152 mila). Calano anche gli inattivi. Guarda caso coloro che non cercano e non trovano lavoro calano di 61 mila unità. Grosso modo quanti sono gli assunti  con contratti a termine.

La dichiarazione rilasciata da Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil

“Ancora troppe poche luci nei dati sulla occupazione. Vanno evitati gli entusiasmi, necessario ripartire dagli investimenti e dal lavoro di qualità. I dati pubblicati da Istat sugli occupati e disoccupati di novembre – afferma la segretaria confederale della Cgil – sono ancora molto deboli per pensare a una svolta decisiva nella situazione della occupazione del nostro paese. La crescita  del numero degli occupati, infatti , è più debole che nel resto dell’Europa e si accompagna ad un evidente calo della qualità degli stessi. Se poi si raffrontano le ore lavorate risulta evidente che siamo ancora molto lontani dal recuperare i dati precrisi. L’ennesimo boom dei contratti a termine sancisce il fallimento delle politiche degli sgravi a pioggia e conferma che sono necessarie misure strutturali, a partire da un piano straordinario di investimenti per generare  occupazione stabile, a partire da quella giovanile e femminile, oltre che un intervento di riduzione del carico fiscale su lavoro e pensioni. La crescita della occupazione – conclude  Scacchetti – rimane poi marcata in particolare tra gli over 50 e non nelle fasce centrali di età che rischiano di pagare duramente questa fase storica”.

 

fonte: http://www.jobsnews.it/2018/01/occupazione-renzi-trilla-aumento-un-dato-storico-gentiloni-lo-segue-e-vero-ma-dei-497mila-nuovi-posti-di-lavoro-ben-450-mila-sono-a-termine-un-ennesimo-boom/

La lettera di un disoccupato Qualunque – dedicato a tutti quelli che credono alla balle di Renzi & C. con la complicità dei media di regime!

 

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La lettera di un disoccupato Qualunque – dedicato a tutti quelli che credono alla balle di Renzi & C. con la complicità dei media di regime!

 

La lettera di un disoccupato Qualunque

La storia di Daniele, 38 anni, disoccupato da 7. Stanco di mandare CV e non ricevere mai una risposta. Tempo sprecato. Il lavoro è sempre più un miraggio. Una lettera di rara sensibilità e capacità comunicativa. Il nostro Paese non ci merita. Il lavoro è un seme che deve essere piantato in una terra fertile. Questo paese non ha né semi né terra fertile. Il lavoro è anche dignità, non solo una necessità per vivere e sopravvivere. Chi ci guadagna sulla testa di milioni di disoccupati?

Riflessioni di un disoccupato italiano

“Caro Uomo Qualunque,

chi ti scrive è un quasi 38enne disoccupato, a-poilitico, a-religioso, a-quellochetipare che ti ha incontrato per caso su internet qualche tempo fa e che ora ti segue assiduamente.

Ho sentito la necessità di scriverti perché sono arrivato al limite estremo di sopportazione dopo aver letto: “I 16 sintomi di schiavitù“.

Le statistiche affidabilissime dell’ISTAT, che escono ormai ogni mese, e che non fanno che ricordarci di come la ripresa sia in atto, infine la notizia che il calciatore del PSG Neymar guadagna la bellezza di 4000 € l’ora (!) per tirare calci a una palla. Notizie più o meno connesse tra loro che mi hanno condotto a riflettere sulla società in cui ci troviamo costretti a vivere e anche sulla mia vita in relazione a questa società.

Mi scuso in anticipo se la mia digressione potrà essere troppo lunga, ma sento il bisogno di sfogarmi scrivendo quello che mi passa per la testa. Abbi un po’ di pazienza, e arriveremo insieme alla fine di questa matassa di pensieri.

Partiamo da me: tra poco meno di un mese arriverò a compiere 38 anni, disoccupato da 7 tenendo in considerazione lavori con contratto e stipendio (quando c’era) e tralasciando i cosiddetti lavoretti che ho fatto fino a circa due anni fa. Da quando fui costretto a lasciare il lavoro con contratto causa mancati pagamenti (poi fortunatamente arrivati senza la necessità di intentare causa), ho continuato assiduamente la ricerca di uno nuovo fino a circa due anni fa. E poi? poi ho semplicemente smesso. In linguaggio tecnico sono un inattivo, uno di quelli che ha smesso di cercare, che sopravvive grazie ai suoi genitori.

Perché ho smesso? Perché ho fatto le cose che elencherò e non mi è tornato indietro niente, anzi ci ho solo rimesso soldi tra una quantità spropositata di curriculum stampati, benzina e riviste:

1) Mi sono rivolto ad apl dove mi sono trovato a parlare con ragazzine appena uscite da scuola, il cui unico scopo sembra essere quello di appuntare alcune note al curriculum e di chiamarti una volta l’anno se sei fortunato. E detto tra noi lavorano talmente tanto che il loro motto è diventato: “Se non ti chiamiamo continua a guardare gli annunci sul sito, magari trovi qualcosa che ti interessa”. Quindi la loro funzione sarebbe…? Per non parlare della qualità e della tipologia del lavoro offerto, ma questo è un altro tipo di discorso che tralascio volutamente (Negli Uffici di collocamento il lavoro non lo trovi);

2) Iscrizioni ai vari infojobs, monster, randstaad, etc. che, unito all’aquisto delle numerose riviste che circolano sul lavoro (e che ho anche acquistato spendendo altri soldi, oltre a quelli già spesi per inchiostro e carta per i curriculum) mi hanno portato alla conclusione che il numero di annunci è sicuramente inferiore al numero dei canali di comunicazione, telematici e non, che offrono lavoro;

3) Ho portato curriculum a mano ad agenzie di sorveglianza, supermercati, negozi, per giungere alla conclusione che molto probabilmente saranno stati cestinati nell’arco di neanche 24 ore;

4) Ho trascorso mattinate a inviare cv e le cosiddette lettere di presentazione ricevendo in cambio cosa? Nulla, neanche una risposta negativa.

Il tempo intanto è trascorso inesorabile, il lavoro sicuro è diventato sempre più un miraggio: giorni, mesi, anni. Alla fine per farla breve mi sono rassegnato. La prima riflessione che ho fatto è stata: “Sto solo perdendo tempo. E visto che il tempo è il mio, preferisco sprecarlo facendo cose che almeno mi piacciono, tentando di gravare il meno possibile sul portafoglio dei miei genitori”.

E così ho cominciato ad uscire di casa. Sono sempre stato appassionato di ambiente e natura, e negli ultimi anni questa mia passione si è rafforzata, soprattutto di fronte ai disastri che stiamo causando.

Ho cominciato a visitare riserve naturali intorno al luogo in cui vivo (in provincia di Roma), parchi naturali e piccoli paesi che mi hanno fatto vedere un paese diverso, un’Italia diversa da quella che viene continuamente descritta dai notiziari.

Si parla tanto di mancanza di case, eppure dove sono stato ho visto moltissimi appartamenti in vendita o in affitto, e casolari in stato di completo abbandono, quindi le case ci sarebbero.

Si parla di mancanza di lavoro ma io ho intravisto nuove opportunità che non vengono sfruttate: dalla pulizia di parchi, riserve, strade o anche semplicemente mezzi pubblici, al recupero di cani abbandonati, e aggiungo campi coltivabili lasciati incolti, occuparsi di persone anziane rimaste sole, e non proseguo per non rendere questa lista infinita: quindi anche il lavoro ci sarebbe.

Ho cominciato a chiedermi: ma se lavoro e case per chi non ne ha ci sarebbero, cosa manca? Come diceva Marzullo (pensa un po’ chi mi tocca citare), si faccia una domanda e si dia una risposta. E quella che ho trovato è la risposta a 99 domande su 100 che riguardano la nostra società: i soldi.

Se non ci sono i soldi per pagare nuovi lavoratori, alle aziende ogni dipendente costa il doppio, come si fa a riavviare un mercato del lavoro stagnante nonostante le statistiche di istituti nazionali dicano il contrario?

In Italia è cresciuto solo il lavoro sottopagato (piccola parentesi, uno degli ultimi titoli ANSA in merito: Boom del lavoro a chiamata, ma ti rendi conto? Già solo per la tipologia, sembra una grossa presa in giro, ma chiamiamola per quello che è: solo e solamente un’enorme presa per il culo).

Narra la leggenda che i soldi facciano la felicità perché servono a mangiare, a pagarsi la casa, a pagare i professionisti, a comprare medicine, a comprare sempre tante, tantissime cose, tutte utilissime (se, vabbe’). Più sei ricco, più sei felice. Lo sei ancor di più se sei famoso. I media non fanno che propinarci questo messaggio giorno e notte attraverso le passerelle, i sorrisi davanti a centinaia di fotograi, l’esposizione estrema di un individuo (che sia uomo o donna è indifferente) attraverso il taglio di capelli alla moda (vabbe’ io so’ pelato, questa, te lo concedo, è solo invidia), il vestiario più in voga al momento, il gioiello più costoso, il profilo social con più iscritti, etc. etc. (sui social meglio che non mi pronuncio o partirebbe un’altra filippica).

Ma se davvero i soldi sono così importanti perché chi ne ha tanti qualche volta si suicida? Facciamo un esempio recente e concreto di cui più o meno dovrebbero aver sentito tutti o quasi: il cantante Chris Cornell. Quanti soldi può possedere un’artista così famoso che ha lavorato più di vent’anni? Quanto può aver guadagnato uno come lui? Eppure, sorpresa delle sorprese, si è suicidato perché era depresso, almeno così si dice. Siamo davvero sicuri che i soldi siano la sola strada verso una sicura felicità?

Forse è un’estremizzazione del mio pensiero: proviamo a fare un altro esempio un po’ meno concreto. Come si fanno i soldi? Bisogna massimizzare il profitto. In che modo? Diminuendo il più possibile le spese. Semplice, lineare, cristallino. Dove conduce una così semplice linea di pensiero? Al guadagno senza badare più a nessuna conseguenza, perché quello che conta è il MIO profitto, il MIO orticello, perché io bado a quello, mica al mondo che mi circonda.

Poi però ci stupiamo e ci scandalizziamo ogni volta che esce la notizia di un alimento contaminato, della presenza delle microplastiche negli oceani, dell’ennesima petroliera che affonda lasciando il suo “genuino” contenuto in mare per l’estrema contentezza delle specie marine che ci vivono, e di qualunque disastro che ci colpisce (“perché il clima non è cambiato, è sempre stato così” questo è quello che mi sono sentito dire da una persona laureata, no perché si dice quanto sia importante il “pezzo di carta”… sì, forse se è sostenuto anche da un pensiero critico, altrimenti quella carta ha degli usi molto più pratici, soprattutto quando si è in bagno).

Ci indigniamo, ce la prendiamo con l’industriale col falso sorriso di turno stile Carcarlo Pravettoni, eppure questi individui non fanno che applicare quella semplice regola del “come si fanno i soldi”. Il guadagno personale è importante? Certo che lo è, altrimenti non si agirebbe sempre nello stesso modo. Ma le nostre vite sono davvero così misere da considerare il guadagno finanziario così importante a discapito dell’ambiente in cui viviamo, della nostra salute, delle altre specie viventi, del nostro futuro?

Siamo disposti a sacrificare qualunque cosa in nome del dio denaro. L’unico dio che da ateo ho visto in carne ed ossa, si fa per dire; un dio avido e pretenzioso con i suoi fedeli, a cui prima o poi tutti si inchinano, perché è attorno a lui che il mondo gira.

La fortuna di un disoccupato, almeno per quanto mi riguarda, è proprio la possibilità di sputare in faccia a questo dio. L’ultima volta che ho comprato un capo di vestiario o un paio di scarpe risale a qualche anno fa, eppure ancora non vado in giro a mostrare i gioielli di famiglia. Se non fosse stato per un regalo di un amico di famiglia avrei ancora il mitico cellulare Nokia che se lo lanci contro il muro ti ritorna indietro lasciando solo macerie al posto di quel muro. (Tranquillo il Nokia non l’ho comunque né buttato né regalato perché sicuramente durerà di più di quello che mi hanno regalato, e che naturalmente non uso quasi mai perché i miei bisogni nei confronti di un cellulare sono ridotti all’osso).

Un’altra fortuna è quella di poter osservare la nostra società dal di fuori e realizzare quanto sia diventata assurda e innaturale. Una società in cui bisogna produrre(ancora non ho ben capito cosa) per guadagnare pezzi di carta a cui viene assegnato un valore che non ha alcun senso per comprare cose che in molti casi sono superflue: anch’io ho fatto parte di questo meccanismo, pertanto mi rendo benissimo conto di quanto possa essere difficile rendersi conto che sono finte necessità quelle ci governano. Essere indebitato sta diventando oggi la condizione generale della nostra vita.

Per me le vere necessità sono un tetto sulla propria testa, poter mangiare un pasto caldo su un tavolo, avere un letto in cui dormire e un bagno per espletare i miei bisogni fisiologici, avere dei vestiti per ripararmi dal freddo.

Intorno a me non vedo nulla di tutto ciò, o quantomeno, ritengo che siano diventate talmente scontate da risultare superflue, tanto da trasferire le nostre necessità in ben altro: il cellulare ultimo modello che fa anche il decaffeinato, la scarpa che costa mille mila euro perché indossata dallo sportivo sonotroppofigocontuttiquestitatuaggi, la borsa “straultramega” alla moda di Docce&Gabbinetti, cose, cose, cose e ancora cose.

Mi chiedo: di chi sono queste necessità? Sono nostre necessità o ci vengono semplicemente imposte dallo stile di vita moderno che abbiamo costruito? Ma soprattutto dove ci hanno condotto queste linee guida che ci vengono propinate sin dalla primissima infanzia? A questa “splendida” società contemporanea occidentale (parlo solo per questa, perché le altre naturalmente non le conosco dalla nascita) che in virtù della propria “sopravvivenza” distrugge l’ambiente che la sostiene, le altre specie viventi che ci vivono, e complica, e non poco, la vita a molti degli individui che la compongono. Come diceva Platone? Ah sì, “bella società di m…”.

Nel passato quando mi inoltravo in discorsi simili, il senso della risposta che mi arrivava era: “sì non va tutto bene, ma questo è il meglio che si può fare”. Davvero? Ben misero essere vivente è quello umano che con le sue “grandi potenzialità” non riesce nemmeno a curarsi dei suoi simili.

Da ignorante quale sono, mi baso su quello che osservo. E quando osservo la natura vedo ben poco di quello che l’uomo ha raggiunto e creato, diciamo così.

In natura non esistono dei (né tantomeno politici), esiste solo la legge naturale (sono cosciente che ho semplificato molto il concetto), che di certo non riconosce nel denaro un modo per sopravvivere. Se nella nostra società abbiamo creato il mito dell’abbondanza, la natura ci dice ben altro: se davvero vogliamo vivere in equilibrio con ciò che ci circonda, è nella scarsità che troviamo la risposta ad ogni domanda.

Anche i più grandi predatori sono costretti a vivere in condizioni di scarsità e la motivazione è molto semplice, la fornisce proprio l’essere umano e il suo modo di agire a discapito di tutto e tutti. Il consumo eccessivo di risorse conduce ad una sola strada: la fine di quelle risorse e di conseguenza la fine per noi e per gli altri esseri viventi.

Siamo davvero così presuntuosi da voler proseguire imperterriti su una strada che altro non è se non il fallimento dell’essere umano nei confronti del pianeta in cui vive?

E alla fine di tutti questi confusi pensieri che ho scritto cosa resta? Perché ho deciso di inviarli proprio a te? Ho scelto di avere fiducia in qualcuno/a con cui credo di avere qualcosa in comune e perché credo che, se vogliamo realmente fare qualcosa, la semplice informazione, anche se importante, non basta. Forse possiamo fare qualcosa in più, agendo anche nella vita reale.

Se anche tu, “Uomo Qualunque”, la pensi come me, spero che di avere un giorno la possibilità di incontrare persone in carne ed ossa per discutere di tutto questo faccia a faccia. Ritengo che intraprendere una linea d’azione sia ormai l’unica strada per chi stenta a vivere nel presente e non ha più un futuro”.

Un Daniele Qualunque

 

fonte: http://uomoqualunque.net/2017/10/lettera-disoccupato/

Lettera ad un Idiota: “Caro John, i soldi non comprano la dignità” – La fantastica risposta di un giovane di Alghero a John Elkann che aveva dichiarato “I giovani italiani non hanno la giusta determinazione a trovare lavoro… perchè stanno bene a casa”.

 

John Elkann

 

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Ci fa piacere riproporVi quest’articolo di due anni fa:

Lettera ad un Idiota: “Caro John, i soldi non comprano la dignità” – La fantastica risposta di un giovane di Alghero a John Elkann che aveva dichiarato “I giovani italiani non hanno la giusta determinazione a trovare lavoro… perchè stanno bene a casa”.

Caro John,
scusami se mi permetto tanta sfrontata confidenza. Vivo in Germania, a Monaco di Baviera, da circa 5 mesi”.
Chi scrive è Giancarlo Balbina, 28 anni, algherese.

La sua lettera è stata pubblicata sul giornale on line Caratteri Liberi (e sta facendo il giro del web) come risposta alle dichiarazioni di John Elkann, rampollo d’oro di casa Agnelli che a 38 anni si è ritrovato a presiedere la Fiat e un bel po’ di altre società miliardarie. Il giovane Elkann pochi giorni fa l’aveva sparata grossa: durante una lezione organizzata dalla Banca Popolare di Sondrio nella città lombarda aveva detto che i giovani italiani “non hanno la giusta determinazione a trovare lavoro” “perchè stanno bene a casa”, ricordando poi che “io e i miei fratelli abbiamo il desiderio di fare, di partecipare e questa è una grande motivazione per avere una vita positiva. Penso che sia più interessante fare una vita in cui sei impegnato e lavori con passione che fare una vita in cui sei in vacanza tutto il tempo, perché dopo un po’ ci si annoia”. Poche ore dopo l’imprenditore Diego Della Valle aveva bollato il giovane John come “Un imbecille”.

Riportiamo per intero la lettera di Balbina, che in poche ore ha avuto migliaia di condivisioni e commenti in tutto il web.°°

“Faccio parte di quella generazione che “vola” da un posto all’altro, con un bagaglio e qualche ricordo da mettere su un mobiletto di un appartamento di 29 mq. Quelli che al mese costano circa 500 euro, se sei fortunato. Hai mai provato l’eccitazione di guadagnare 800 euro e spenderne più della metà per un affitto? Dio, dovresti provarlo John, è come un fungo allucinogeno, da quanto non sembra reale quello che ti capita di vivere.

Voglio dirti una cosa, John. In questo mio soggiorno bavarese ho incontrato decine di italiani laureati e pluri-specializzati, artisti, scrittori, ingegneri, matematici, chimici; quasi tutti trentenni, incazzati e sofferenti. E sai perché? Perché il loro “viaggio” non è una vacanza, ma una ragione di sopravvivenza, indotto da un mondo diseguale dove i ricchi sono molto più ricchi, mille volte più ricchi, del primo dei poveri. Lo sapevi questo, John? Andare lontano dal proprio paese non è mai facile. È un esercizio che richiede forza di volontà, voglia di emergere, fortuna e altre qualità che, senz’altro, un imprenditore sagace e risoluto come te conosce bene. Uno come te che viene dal nulla, che si è fatto da solo; mica come quelli che nascono in famiglie ricche e benestanti, con cognomi importanti, che studiano in Università private pagando rette mensili universitarie, che valgono tanto quanto lo stipendio annuale di un lavoratore qualsiasi. Di mio padre, per esempio. Cazzo John, tu sei diverso. Tu hai faticato, hai lavorato duro, hai rischiato e ci sei riuscito. Tu sei un esempio da seguire. Insegnami come si fanno i soldi partendo dal nulla; come si fa a prendere in giro quei “bamboccioni” che stanno bene solo a casa con la mammina che gli rimbocca le coperte.

Non credere a chi racconta che l’azienda per la quale lavoravano, magari ha chiuso o delocalizzato e sono rimasti con le pive nel sacco da un giorno all’altro; insegnami le magie del jet-set con quella “nonchalance” che dimostri di avere negli ambienti che contano. Anche io voglio essere così, e fanculo la coscienza che mi dice qualcos’altro. Voglio essere un ricco spavaldo. Possedere una Ferrari, una squadra di calcio, avere un Rolex nel polsino, un abito Ferrè e Valentino per tutti i giorni, far parte di una decina di C.d.A., partecipare a quelle feste mondane dove ci sono i giornalisti specializzati nei gossip, che mi chiedono, in mezzo a centinaia di persone: “È una bella festa questa” e io che rispondo: “Certo l’ho organizzata io”. Che soddisfazione!
Sai John, io credo nella teoria del caos. Nessuno ha deciso di nascere in una famiglia povera o ricca, bello o brutto, alto o basso, in Congo o in Svizzera, in Afghanistan o in America. C’è sempre qualche “causa maggiore” che decide per noi. Tu non hai mica deciso volontariamente di far parte di quella èlite italiana del 10%, che detiene più della metà della ricchezza del paese; così come io non ho deciso volontariamente di nascere in una famiglia monoreddito in Sardegna e di far parte, invece, della squadra del 46%, quella dei disoccupati a cui politiche criminali a vantaggio di quelli come te stanno levando il futuro. Sai John, le frasi che hai detto a Sondrio: “i giovani non trovano lavoro perché stanno bene a casa”; e bisogna essere “più ambiziosi” per riuscire nella vita, mi hanno fatto pensare che il più delle volte la ricchezza dà alla testa, impedisce un’analisi razionale degli eventi. In Italia non ci sono più imprenditori, tantomeno capitalisti disposti a rischiare. Il vero imprenditore è quello che investe il proprio capitale, rischia i propri soldi su progetti che reputa validi, investe sugli uomini, sulla conoscenza e sulle idee. Tanti imprenditori, per come li conosciamo ora, non investono i loro capitali; li fanno girare nella finanza creativa, per creare denaro su denaro, senza alcuna ricaduta sociale. Lo ha fatto anche la Fiat, negli anni novanta, ma tu ovviamente non lo sai, forse eri a Cambridge a studiare economia.

La mia lettera, John, per non tediarti troppo, finisce qua; ma vorrei dirti ancora una cosa. Se mai un giorno io dovessi diventare ricco come te e mi chiamassero a dibattere, in qualche università, di economia e sviluppo, di investimenti, di giovani, non direi mai frasi come quelle che hai pronunciato tu, e per un motivo sostanziale. Ci sono valori che i soldi e la ricchezza non possono né comprare né valutare, cioè il rispetto e la dignità delle persone. Ricordati sempre che in un paese di 60 milioni di cervelli, c’è e ci sarà sempre qualcuno più intelligente, capace e preparato di te; purtroppo, forse, non altrettanto fortunato. Ogni mattina, alzandoti dal letto a baldacchino sul quale riposa tutte le notti il tuo plutocratico sedere, ricorda questo non secondario particolare, e ringrazia la teoria del caos alla quale devi tanto, forse tutto. Ti servirà per essere più umile e forse, anche più avveduto di quanto dai l’impressione di essere.

 

fonte: http://zapping2015.altervista.org/xjohn-elkann/

Crisi, povertà, disoccupazione… tutta colpa di un debito pubblico abnorme: 130% del Pil… Sicuro? Il Giappone raggiunge il 250%, ma c’è la quasi piena occupazione e la produzione industriale è in piena cresciuta! Ma lì non hanno l’Euro…!

 

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Crisi, povertà, disoccupazione… tutta colpa di un debito pubblico abnorme: 130% del Pil… Sicuro? Il Giappone raggiunge il 250%, ma c’è la quasi piena occupazione e la produzione industriale è in piena cresciuta! Ma lì non hanno l’Euro…!

 

In Giappone è quasi piena occupazione. Ma lì non hanno l’euro!

Il Giappone è ormai praticamente alla piena occupazione. Il tasso di disoccupazione è sceso dal 3% di gennaio al 2,8% a febbraio, il minimo da 22 anni. La disponibilità di posti rispetto alla domanda si è confermata al favorevole rapporto di 1,43: si sono dunque 143 posizioni disponibili per ogni 100 richieste.

Anche la produzione industriale vola. A febbraio è aumentata del 2% (il ritmo più’ veloce in otto mesi) rispetto al mese precedente, trainata da auto, macchinari e prodotti chimici, e ciò a fronte di previsioni del 1,2%.

 

 

Ricordiamo che il Giappone non solo ha sovranità monetaria, ma ha anche un rapporto debito pubblico/PIL ben oltre il 250% (noi in Italia, che siamo tacciati per puttanieri, spreconi e alcolizzati, lo abbiamo poco sopra il 130%)!

Insomma, loro hanno moneta sovrana e Banca Centrale prestatrice illimitata di ultima istanza; noi invece abbiamo l’euro, la BCE (che non funge da prestatrice di ultima istanza), economisti a libro paga del capitale internazionale e scribacchini di regime!

 

fonti:

http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2017-03-31/giappone-la-piena-occupazione-074905.shtml?uuid=AE0TVxw

In Giappone è quasi piena occupazione. Ma lì non hanno l’euro! (di Giuseppe PALMA)