15 ottobre 1987 – 32 anni fa la fine sogno africano. Assassinato Thomas Sankara, il Presidente eroe che lottò per il riscatto del continente contro lo sfruttamento economico dell’occidente

 

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15 ottobre 1987 – 32 anni fa la fine sogno africano. Assassinato Thomas Sankara, il Presidente eroe che lottò per il riscatto del continente contro lo sfruttamento economico dell’occidente

 

Sankara e il sogno africano
Presidente per quattro anni del Burkina Faso, alla ricerca del riscatto per un intero continente.
Un ricordo di Thomas Sankara.

“L’Africa agli africani!”, urlava a un mondo sordo Thomas Sankara alla metà degli anni Ottanta. La guerra fredda era agli sgoccioli, le speranze sorte dopo l’affrancamento dal dominio coloniale – il 1960 era stato dipinto come l’anno dell’Africa tra proclami e belle parole – erano state ormai strozzate da decenni di sfruttamento economico, disarticolazione sociale e inerzia politica. Le multinazionali invadevano le ricche terre d’Africa, mentre gli Stati del Nord del mondo imponevano condizioni commerciali che impedivano lo sviluppo dei Paesi africani, schiacciati tra debito estero e calamità naturali.
Il 4 agosto 1983, in Alto Volta, iniziava l’esperienza rivoluzionaria di Thomas Sankara, capitano dell’esercito voltaico giunto al potere con un colpo di stato incruento e senza spargimento di sangue. Il Paese, ex colonia francese, abbandonò subito il nome coloniale e divenne Burkina Faso, che in due lingue locali, il moré e il dioula, significa “Paese degli uomini integri”. Ed è dall’integrità morale che Sankara partì per tagliare i ponti con un triste passato e con deprimente presente. Pochi dati illustrano quanto grave fosse la situazione: tasso di mortalità infantile del 187 per mille (ogni cinque bambini nati, uno non arrivava a compiere un anno), tasso di alfabetizzazione al 2%, speranza di vita di soli 44 anni, un medico ogni 50.000 abitanti.
“Non possiamo essere la classe dirigente ricca in un Paese povero”, era solito ripetere Sankara, che visse un’infanzia di miseria (“Quante volte i miei fratelli e io abbiamo cercato qualcosa da mangiare nelle pattumiere dell’Hotel Indépendance”) e povero, come gli altri burkinabè, è sempre rimasto. Le auto blu destinate agli alti funzionari statali, dotate di ogni comfort, vennero sostituite con utilitarie, ai lavori pubblici erano tenuti a partecipare anche i ministri. Sankara stesso viveva in una casa di Ouagadougou, la capitale del Paese, che per nulla si differenziava dalle altre; nella sua dichiarazione dei redditi del 1987 i beni da lui posseduti risultavano essere una vecchia Renault 5, libri, una moto, quattro biciclette, due chitarre, mobili e un bilocale con il mutuo ancora da pagare.
“È inammissibile”, sosteneva, “che ci siano uomini proprietari di quindici ville, quando a cinque chilometri da Ouagadougou la gente non ha i soldi nemmeno per una confezione di nivachina contro la malaria”. Negli stessi anni i suoi omologhi si trinceravano in lussuose ville o agli ultimi piani dei migliori hotel, lontani anni luce dai bisogni quotidiani della popolazione. Per esempio il presidente della Costa d’Avorio, Felix HouphouëtBoigny, aveva fatto costruire in pieno deserto una pista di pattinaggio su ghiaccio per i propri figli. Quando alcuni capi di Stato si offrirono per donare a Sankara un aereo presidenziale, la risposta fu che era meglio fare arrivare in Burkina Faso macchinari agricoli. E la terra burkinabè non è mai stata particolarmente fertile, inaridita dall’Harmattan, il vento secco proveniente dal deserto del Sahara che lambisce i confini settentrionali del Paese.
Per ridare impulso all’economia si decise di contare sulle proprie forze, di vive re all’africana, senza farsi abbagliare dalle imposizioni culturali provenienti dall’Europa: “Non c’è salvezza per il nostro popolo se non voltiamo completamente le spalle a tutti i modelli che ciarlatani di tutti i tipi hanno cercato di venderci per anni”. “Consumiamo burkinabè”, si leggeva sui muri di Ouagadougou, mentre per favorire l’industria tessile nazionale i ministri erano tenuti a vestire il faso dan fani, l’abito di cotone tradizionale, proprio come Gandhi aveva fatto in India con il khadi.
Le magre risorse vennero impiegate per mandare a scuola i bambini e le bambine – nel 1983 la frequenza scolastica era attorno al 15% – e per fornire cure mediche ai malati, organizzando campagne di alfabetizzazione e di vaccinazione capillare contro le infermità più diffuse come la febbre gialla, il colera e il morbillo. L’obiettivo era di fornire 10 litri di acqua e due pasti al giorno a ogni burkinabè, impedendo che l’acqua finisse nelle avide mani delle multinazionali francesi o statunitensi e cercando finanziamenti che fossero funzionali allo sviluppo idrogeologico del Paese, non al profitto di pochi uomini d’affari.
Il Burkina Faso divenne un esempio per le altre nazioni, governate da élitecorrotte e supine ai dettami provenienti dagli istituti economici internazionali. Se un piccolo Paese, condannato anche dalla geografia (il deserto avanzava verso sud di sette chilometri all’anno mangiandosi campi coltivati; esiste un solo corso fluviale e non c’è alcuno sbocco sul mare) riusciva a levare il proprio grido di dolore e di insofferenza e a dimostrare che i problemi che affliggevano l’Africa si potevano risolvere, cosa avrebbero potuto fare Paesi con immense risorse naturali? Il 15 ottobre 1987 Sankara, che a dicembre avrebbe compiuto 38 anni, veniva ucciso: troppo scomodo, troppo generoso, troppo attento alle esigenze della povera gente. Quando i giovani africani cominciarono a chiedere ai propri governanti di seguire l’esempio di Sankara, il complotto prese forma e coinvolse chi, in Burkina Faso, in Africa e in Europa, non poteva tollerare la sua indisciplina e la sua semplicità.
In quattro anni Sankara aveva invitato i Paesi africani a non pagare il debito estero per concentrare gli sforzi su una politica economica che colmasse il ritardo imposto da decenni di dominazione coloniale. Dominazione che era anche culturale: “Per l’imperialismo”, affermava, “è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità”.
Ecco così spiegato l’impulso dato al Festival Panafricaine du Cinéma de Ouagadougou (Fespaco), la più importante rassegna continentale, con il fine di sviluppare la cinematografia locale a scapito di quella europea, uno dei tanti strumenti per legittimare la superiorità dei “bianchi” e l’inferiorità degli Africani. Nel 1986, durante i lavori della 25esima sessione dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) tenutasi a Addis Abeba, Sankara espresse in modo molto semplice perché il pagamento del debito doveva essere rifiutato: “Noi siamo estranei alla creazione di questo debito e dunque non dobbiamo pagarlo. […] Il debito nella sua forma attuale è una riconquista coloniale organizzata con perizia. […] Se noi non paghiamo, i prestatori di capitali non moriranno, ne siamo sicuri; se invece paghiamo, saremo noi a morire, possiamo esserne altrettanto certi”.
Sempre a Addis Abeba, Sankara invocò il disarmo, proponendo ai Paesi africani di smettere di acquistare armi e di dissanguarsi in dispute fomentate dall’estero per protrarre l’arretratezza e la dipendenza del continente. L’invito era di adottare misure a favore dell’occupazione, della tutela ambientale, della pace tra i popoli, della salute. A New York, qualche mese prima, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Sankara aveva tuonato contro l’ipocrisia di chi fornisce aiuti ai Paesi in via di sviluppo (mentre per altre vie si inviano armi) e contro l’egoismo di chi, per esempio, si rifiuta di investire nella ricerca contro la malaria – che in Africa provoca ogni anno milioni di morti – solo perché è una malattia che non riguarda i Paesi del nord del mondo. “Ci sentiamo una persona sola con il malato che ansiosamente scruta l’orizzonte di una scienza monopolizzata dai mercanti di armi. […] Quanto l’umanità spreca in spese per gli armamenti a scapito della pace!”.
Sankara espresse la convinzione che per eliminare i lasciti coloniali fosse indispensabile avviare un processo di unione di tutti gli Stati (dal Maghreb al Capo di Buona Speranza) del continente, che doveva diventare un’entità politica coesa e rispettata sul piano internazionale: “Mentre moriamo di fame e nel nostro Paese ci sono migliaia di disoccupati, altrove non si riescono a sfruttare le risorse della terra per mancanza di manodopera. Se ci fosse maggiore cooperazione, potremmo arrivare all’autosufficienza alimentare e non dovremmo più dipendere dagli aiuti internazionali”.
Primo passo era la fine dell’apartheid in Sudafrica, dove la minoranza “bianca” godeva in realtà del sostegno economico dei Paesi occidentali. Sankara ebbe parole di rimprovero per tutti, a partire da François Mitterrand: “Che senso ha organizzare marce contro l’apartheid, mentre si producono e si vendono armi al Sudafrica?”.
Forse non è un caso che Sankara venne ucciso quattro giorni dopo che a Ouagadougou si era tenuta una Conferenza panafricana contro l’apartheid. Il “Président du Faso”, come viene ancora oggi ricordato dai burkinabè, si è sacrificato dimostrando che è possibile rispondere, all’africana, ai problemi dell’Africa, con chiarezza e talvolta ingenuità, come quando chiese che “almeno l’1% delle somme colossali destinate alla ricerca spaziale sia destinato a progetti per salvare la vita umana”.
Dinanzi alle Nazioni Unite Sankara liberò davanti al mondo intero, ponderando con attenzione ogni singola parola, il grido di dolore di miliardi di esseri umani che soffrono sotto un sistema crudele e ingiusto: “Parlo in nome delle madri che nei nostri Paesi impoveriti vedono i propri figli morire di malaria o di diarrea, senza sapere dei semplici mezzi che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo investire nei laboratori cosmetici o nella chirurgia plastica a beneficio del capriccio di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi di assunzione calorica nei loro pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel”.

di Carlo Batà

fonte: https://www.peacelink.it/mosaico/a/6192.html

Incassavano 35 euro al giorno per l’accoglienza dei rifugiati, ma li sfruttavano nei campi a 0,90 centesimi l’ora. Qualcuno spieghi al nostro Ministro degli Interni che questi sono i criminali che deve far arrestare!

 

 

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Incassavano 35 euro al giorno per l’accoglienza dei rifugiati, ma li sfruttavano nei campi a 0,90 centesimi l’ora. Qualcuno spieghi al nostro Ministro degli Interni che questi sono i criminali che deve far arrestare!

 

Incassavano 35 euro al giorno per l’accoglienza dei rifugiati sfruttati nei campi a 0,90 centesimi l’ora

 

I gestori incassavano 35 euro al giorno per dar loro accoglienza. In realtà venivano sfruttati nei campi e picchiati se ritenuti ‘troppo lenti’

Di Maria Teresa Improta

Riportiamo da QuiCosenza.it:

Accoglienza e caporalato in provincia di Cosenza. Si è tenuta oggi l’udienza preliminare a carico dei 13 indagati per abuso d’ufficio, tentata truffa aggravata per il conseguimento di fondi pubblici, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Una vicenda sulla quale la Procura di Cosenza ha acceso i riflettori dopo una denuncia sporta da un nigeriano ospite del centro di accoglienza Villa Letizia di Camigliatello Silano. L’uomo ha raccontato agli investigatori di essere stato costretto a firmare il foglio delle presenze nel Cas, mentre in realtà era costretto a lavorare dalle 6:00 alle 17:00 nei campi a raccogliere fragole e patate per 0,90 centesimi l’ora. Nelle intercettazioni captate nel corso delle investigazioni e dalle testimonianze raccolte è poi emerso uno scenario definito dal colonnello Fabio Ottaviani del comando provinciale di Cosenza “una vera e propria tratta degli schiavi che andava avanti da tempo”. I rifugiati, per ciascuno dei quali i gestori incassavano 35 euro al giorno al fine di garantire la loro sussistenza, venivano selezionati in base al carattere mite e il fisico prestante. In tutto erano una trentina tra ghanesi, somali, nigeriani e senegalesi prelevati dal Cas Santa Lucia del Centro giovanile universitario jonico suddiviso in due strutture a Camigliatello Silano e Spezzano Piccolo.

Se ritenuti troppo lenti venivano percossi con calci, schiaffeggiati e insultati se chiedevano il motivo per il quale non gli veniva corrisposto il misero salario. Molti di loro invece di dormire nei centri in cui risultavano domiciliati vivevano nei pressi dei terreni in cui lavoravano, in stanze fredde e sporche. Questo quanto emerso dalle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria che oggi sono risultate essere diverse da quelle proposte dalla difesa degli indagati. Il Procuratore della Repubblica Aggiunto Marisa Manzini ha quindi chiesto che il giudice attivasse quelli che sono i poteri istruttori che gli competono per sentire direttamente alcuni rifugiati. Nello studio del fascicolo il Pm infatti si è resa conto che l’attività difensiva, consistita nell’assumere informazioni da alcuni migranti, ha determinato che negli atti vi siano dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria (che li ha interrogati con un interprete madre lingua inglese) di contenuto diverso da quello che hanno detto ai legali degli indagati. Un’incongruenza generata dal fatto che i teste sono stati sentiti in italiano senza la presenza di un mediatore, quindi potrebbe darsi che le domande non siano state comprese a pieno e per questo le risposte risultino sommarie.

Si è quindi chiesto al giudice, prima di decidere, di ascoltarli per avere l’immediata percezione del contenuto delle loro dichiarazioni. Ciò è stato fatto sia per valutare la posizione dei due imputati che hanno scelto di essere giudicati in abbreviato (Fulvio Serra e Gianpaolo Serra titolari della società agricola La Sorgente Srl dove lavoravano i migranti) sia di altri per i quali è in corso l’udienza preliminare. Solo Corrado Scarcelli (responsabile del Cas Santa Lucia) dopo essere finito in carcere ha patteggiato la pena, mentre le altre persone coinvolte nell’operazione del maggio 2017 attendono la pronuncia sull’eventuale rinvio a giudizio. Si tratta di Vittorio Imbrogno ritenuto l’uomo che aveva il compito di reclutare i rifugiati e portarli nei campi, Luca Carucci lo psicologo presidente dell’associazione Centro giovanile universitario jonico, Giorgio Luciano Morrone responsabile Cas Santa Lucia, Franco Provato, Gianluca Gencarelli, Renato Gabriele,  Giuseppe Gabriele, Giorgio Gabriele, Vincenzo Perrone, Salvatore Perrone e Vincenzo Pasqua. Rinviata alla prossima settimana sia la discussione dell’udienza preliminare, sia del processo con rito abbreviato, dopo che il giudice avrà sciolto la riserva in merito alla richiesta di ascoltare i migranti affiancati da un interprete. Se la richiesta istruttoria del Procuratore della Repubblica Aggiunto Marisa Manzini verrà accolta i migranti testimonieranno, se invece l’istanza non verrà accolta si discuterà direttamente delle responsabilità da imputare ai 13 uomini accusati di essere caporali travestiti da volontari.

 

 

tratto da: http://www.politicamentescorretto.info/2018/07/11/incassavano-35-euro-al-giorno-per-laccoglienza-dei-rifugiati-sfruttati-nei-campi-a-090-centesimi-lora/

Così Amazon uccide la dignità dei lavoratori e l’economia locale

 

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Così Amazon uccide la dignità dei lavoratori e l’economia locale

Sfruttamento dei lavoratori, aumento della povertà, crisi dei piccoli negozianti, impoverimento dell’economia locale. Massimo Angelini riassume le drammatiche conseguenze legate alla crescita del colosso dell’ecommerce e invita tutti a dissociarsi da quello che oggi si presenta come il monopolio in più rapida espansione e commercialmente più aggressivo. Italia che Cambia sostiene la sua iniziativa “Amazon addio”.

“Amazon addio”. Questo il nome dell’iniziativa lanciata da Massimo Angelini e rilanciata da Comune-info contro la più grande Internet company al mondo, una delle più grandi società del pianeta.

“Amazon – scrive Massimo Angelini – sta guadagnando una posizione di monopolio mondiale straordinaria e pericolosa: la sua crescita, accompagnata da una progressiva concentrazione e automazione dei processi di distribuzione, sempre più di frequente viene associata:
– alla chiusura di negozi e librerie, e alla conseguente perdita di posti di lavoro;
– a una riduzione della qualità del lavoro, sempre più misurato, controllato, malpagato, precario, e meno tutelato;
– all’elusione della tassazione nei paesi dove opera, compresa l’Italia”.

“In questo scenario – si legge ancora – chiude il piccolo commercio, si perdono posti di lavoro, si erodono garanzie per quelli che restano, si mette a rischio la posizione dei lavoratori del commercio e della logistica, ma anche quella dei produttori ai quali, in progresso di tempo e crescendo la posizione di monopolio, più facilmente il prezzo di uscita delle merci potrà essere imposto al ribasso.

Mentre alcuni si compiacciono dell’efficienza, della comodità e del relativo risparmio – perché è vero che i prodotti inviati attraverso Amazon arrivano presto e spesso sono venduti a un prezzo ribassato – c’è una parte di mondo che diventa più povero, meno tutelato, ricattabile: se a un risparmio di tempo e denaro individuali corrisponde un maggior costo sociale (oltre che personale) in termini di dignità dei lavoratori e posti di lavoro, allora il bilancio è certamente negativo. E lo è per tutti, anche per chi persegue i soli propri interessi individuali, perché una società più povera, in termini economici, morali, di sicurezza è un costo per tutti”.

“Poiché i monopoli – tutti – generano maggiore povertà, favoriscono la concentrazione dei capitali e contribuiscono ad allargare la forbice che separa una minoranza progressivamente più ridotta e più ricca da una maggioranza più allargata e sempre più povera, proponiamo un gesto di resistenza e di schieramento a partire dalla dissociazione da quello che oggi si presenta come il monopolio in più ampia e rapida espansione e commercialmente più aggressivo: Amazon”.

 

tratto da: https://www.pressenza.com/it/2018/04/cosi-amazon-uccide-la-dignita-dei-lavoratori-leconomia-locale/

Studente critica l’alternanza scuola-lavoro su Facebook: 6 in condotta. Perchè se pubblichi foto di svastiche è libertà di pensiero, ma se parli di diritti dei lavoratori sei un pericoloso reazionario ribelle.

 

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Studente critica l’alternanza scuola-lavoro su Facebook: 6 in condotta. Perchè se pubblichi foto di svastiche è libertà di pensiero, ma se parli di diritti dei lavoratori sei un pericoloso reazionario ribelle.

 

Modena, studente critica l’alternanza scuola-lavoro su Facebook: punito con il sei in condotta

Dopo il primo giorno di lavoro il ragazzo ha scritto un post che descriveva la situazione come “sfruttamento” e lamentava di non essere pagato. Il preside: “A scuola va bene, ma volevamo dargli un segnale”

Punito con il sei in condotta per aver criticato su Facebook il sistema dell’alternanza scuola lavoro. Il protagonista è uno studente di quarta superiore di un istituto tecnico di Carpi, in provincia di Modena, che lo scorso febbraio, dopo il primo giorno passato all’interno di un’azienda metalmeccanica della zona, si era lamentato del progetto pensato per accorciare le distanze tra scuola e mondo del lavoro.

Come riporta la Gazzetta di Modena, lo studente ha pubblicato un post che secondo la scuola conteneva pesanti critiche all’azienda e al personale scolastico. E per questo è stato punito dal consiglio di classe con il sei in condotta. “Nel post – spiega il preside Paolo Pergreffi – lo studente faceva riferimento all’alternanza scuola lavoro come ad una condizione di sfruttamento. Lamentava di non essere pagato per mansioni che considerava ripetitive. Questo proprio il primo giorno in azienda, quando le imprese, tra le prime caratteristiche che chiedono c’è la buona educazione, al di là delle competenze tecniche.Evidentemente la presa di posizione è dovuta a convinzioni ideologiche sull’alternanza scuola lavoro, probabilmente antecedenti rispetto all’inizio del periodo in azienda”.

La decisione di punire lo studente con il sei in condotta è direttamente legata a questo episodio: “Il ragazzo va bene a scuola, ma il consiglio di classe ha voluto dare un segnale per un’inversione di rotta nel comportamento. Si tratta comunque di un giudizio intermedio che non pregiudicherà la promozione” conclude il preside.

I primi a schierarsi dalla parte del ragazzo sono stati gli esponenti del Comitato Sisma.12, associazione nata dopo il terremoto del 2012 in Emilia ma impegnata in diverse attività sul territorio: “Quello della scuola che sanziona con il sei in condotta lo studente che ha espresso il suo pensiero è un atteggiamento repressivo e antidemocratico – attacca Aureliano Mascioli, del comitato – Ci siamo già scontrati con questo tipo di atteggiamento che le istituzioni hanno sempre verso i terremotati. La scuola non deve prestarsi a questi metodi di intimidazione”.

 

 

tratto da: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/04/03/modena-studente-critica-lalternanza-scuola-lavoro-su-facebook-punito-con-il-sei-in-condotta/4268097/

4 agosto 1983, Thomas Sankara, il “Che Guevara” africano, è il 1º Presidente del Burkina Faso – Thomas Sankara: un nome e una storia che dobbiamo conoscere. Una storia molto scomoda per noi occidentali che abbiamo fatto di tutto per insabbiare.

 

Thomas Sankara

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4 agosto 1983, Thomas Sankara, il “Che Guevara” africano, è il 1º Presidente del Burkina Faso – Thomas Sankara: un nome e una storia che dobbiamo conoscere. Una storia molto scomoda per noi occidentali che abbiamo fatto di tutto per insabbiare.

 

4 agosto 1983 – Thomas Sankara diventa il 1º Presidente del Burkina Faso

“Mentre i rivoluzionari come individui possono essere uccisi, non puoi uccidere le loro idee”

Ci hanno prestato i soldi gli stessi che ci hanno colonizzato. E allora, cos’è il debito se non un neocolonialismo governato dai paesi che hanno ancora ‘pruritì imperiali?

“Noi africani siamo stati schiavi e adesso ci hanno ridotto a schiavi finanziari. Quindi, se ci rifiutiamo di pagare, di sicuro non costringeremo alla fame i nostri creditori” 

“Dobbiamo trovare la forza di dire a costoro guardandoli negli occhi che sono loro ad avere ancora debiti con noi, per le sofferenze che ci hanno inflitto e le risorse immani che ci hanno rubato”

“Vogliamo essere gli eredi di tutte le rivoluzioni del mondo e di tutte le lotte di liberazione dei popoli del Terzo Mondo”

Come avremmo potuto, noi occidentali, lasciare in vita o ricordare uno così?

Thomas Sankara, il “Che Guevara” africano ucciso nella terra degli uomini integri

Il 15 ottobre del 1987 il giovane presidente del Burkina Faso venne assassinato assieme alla sua scorta mentre stava andando ad un meeting alla periferia di Ouagadougou. Nessun altro leader africano ha più incarnato il sogno di un vero riscatto civile del continente.

Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso dall’agosto del 1983 al 15 ottobre del 1987, è uno di quei personaggi di cui pochi conoscono l’esistenza. Eppure  –  oggi a trent’anni della sua uccisione – vale la pena ricordare chi è stato e quanto la sua scomparsa abbia pesantemente inciso sui ritardi nella crescita civile, democratica ed economica dell’intero continente africano.

L’agguato. Ouagadougu, ore 16,30 di giovedì 15 ottobre del 1987. La sessione straordinaria del Consiglio Nazionale della rivoluzione del  Burkina Faso sta per avere inizio nel salone di un edificio – vetro e cemento – che si trova in un complesso nell’immediata periferia di Ouaga, come la chiamano gli abitanti della capitale. Il breve corteo di auto nere che accompagna Thomas Sankara,  38 anni, giovane presidente della Repubblica, un militare dai profondi sentimenti democratici, abbandona la strada asfaltata e s’immette su un breve tracciato di terra rossa per raggiungere la recinzione che circonda l’edificio. Sull’auto, appena girato l’angolo, sono già puntate le armi dei suoi assassini.

Non c’è scampo per nessuno. Dagli arbusti attorno alla costruzione viene lanciata una granata contro il corteo di Renault. Viene colpita l’auto con a bordo il presidente. A morire sul colpo sono il suo addetto stampa, Paulin Bamoumi e Frederic Ziembie, consigliere giuridico. Thomas Sankara è ferito e viene trascinato dalle guardie del corpo sotto il pergolato dell’edificio, da qui gli uomini della scorta reagiscono sparando verso i cespugli dai quali è partita la bomba. Ma si accorgono subito che non c’è scampo per nessuno. L’edificio è circondato da gente che lancia granate verso l’edificio. Sankara trova addirittura la forza per alzarsi in piedi, ma viene letteralmente falciato da una raffica di Kalashnicov. Morirà steso a terra, in un lago di sangue, dopo più di mezz’ora d’agonia, mentre attorno il commado finisce la strage, sparando a tutto ciò che si muove.

Le sue parole pesanti al mondo occidentale. La storia recente dell’Africa ha nella morte di Sankara  –  nonostante sia rimasto alla guida del suo paese solo 4 anni  –  il punto di svolta, il momento in cui è stato dirottato il corso degli eventi dell’intero continente. Del resto, come poteva durare a lungo uno così? Sankara (il Che Guevara africano) aveva cambiato nome al suo paese, da Alto Volta a Burkina Faso (la terra degli uomini integri) e non perdeva occasione per andare in giro a dire cose come queste: Ci hanno prestato i soldi gli stessi che ci hanno colonizzato. E allora, cos’è il debito se non un neocolonialismo governato dai paesi che hanno ancora ‘pruritì imperiali?. Noi africani siamo stati schiavi e adesso ci hanno ridotto a schiavi finanziari. Quindi, se ci rifiutiamo di pagare, di sicuro non costringeremo alla fame i nostri creditori. Se però paghiamo, saremo noi a morire. Quindi dobbiamo trovare la forza di dire a costoro guardandoli negli occhi che sono loro ad avere ancora debiti con noi, per le sofferenze che ci hanno inflitto e le risorse immani che ci hanno rubato“.

La trama di Campaoré. Nessuno tra quanti si sono incaricati di scrivere la storia recente del Burkina Faso ha escluso che dietro il violento colpo di Stato e l’omicidio di Sankara ci fosse la mano di Blaise Compaoré, salito al potere proprio il giorno stesso dell’uccisione del giovane presidente (il 15 ottobre 1987) e rimasto in carica  –  ininterrottamente  –  fino al 2014. Compaoré si è sempre rifiutato di autorizzare un’inchiesta sulle circostanze che hanno portato alla morte il suo predecessore.

Il ruolo delle forze nell’ombra. Naturalmente, il “gioco” sanguinoso che lo ha portato al potere, Campaoré non lo ha gestito da solo. Hanno dato sicuramente una mano le zone oscure dei servizi segreti di paesi ex coloniali, di nazioni confinanti e persino di criminali ricercati dalle polizie di mezzo mondo, come Charles Taylor, il mercenario senza scrupoli,  l’uomo che ha alimentato il conflitto civile in sierra Leone per il controllo delle miniere di diamanti, al soldi di chissà chi, e che dal 1991 al 2001 ha paralizzato il paese, provocando 50.000 morti e accusato di omicidi, stupri, amputazioni, reclutamento di bambini soldato.

Sepolto in fretta e furia. A Thomas Sankara venne data sepoltura in fretta e furia la sera stessa della sua morte. La sua salma riposa a Dagnoën, dentro una tomba sbrecciata e senza fiori, in un quartiere nella zona orientale di Ouagadougou. Ancora oggi, sia la famiglia che i suoi numerosi e disorganizzati sostenitori, non credono che il suo corpo di Thomas Sankara si trovi davvero lì. E questo spoega forse in parte il fatto che la tomba appare oggi desolatamente disadorna e semi abbandonata.

Il sogno interrotto di Sankara. Ecco, il quadro nel quale il “Che Guevara africano” è stato eliminato era questo: da una parte, il suo coraggio, la sua vitalità rivoluzionaria nel voler cambiare volto all’Africa, il suo pragmatismo maturato nella carriera militare e la sua incerta dimestichezza con la diplomazia; ma dall’altra, la morsa invisibile degli interessi rapaci dei potentati economici internazionali che continuano a depredare il continente con la complicità di leadership locali, che gravano sull’intero continente. Si è temuto insomma che l’equilibrio post coloniale potesse essere messo in discussione, sebbene da un paese come il Burkina, che non ha mai fatto gola a nessuno, tanto assenti sono ricchezze naturali degne di nota. Il disegno eversivo si è dimostrato comunque lungimirante, perché l’Africa è ancora lì, con i suoi Pil in crescita, qua e là, con alcuni incoraggianti segnali di crescita a macchia di leopardo. Ma il vero riscatto, quello sognato da Sankara, quello appare al momento ancora assai lontano all’orizzonte.

 

fonti:

-http://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2015/10/14/news/thomas_sankara-125097440/

-http://www.matteogracis.it/thomas-sankara-un-nome-e-una-storia-che-dobbiamo-conoscere/

-https://it.wikipedia.org/wiki/Thomas_Sankara

Gli schiavi che lavorano da mezzanotte all’alba

 

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Gli schiavi che lavorano da mezzanotte all’alba

Spesso stranieri. Lavorano di notte. Prendono 5,16 euro all’ora. Lordi. Se si lamentano perdono il posto. Ma grazie a loro i supermercati sono aperti h24. Bella comodità, no?

C’è un momento della notte, imprecisato ma non per questo meno inesorabile, in cui i supermercati romani si sincronizzano sul fuso di Manila. Al Carrefour di Tor Vergata, periferia meridionale della metropoli, succede a mezzanotte. Chiudono le porte alla clientela, ma le spalancano a una squadra di sei filippini dai venti ai trent’anni, piccoli di statura ma instancabili, che sgattaiolano dentro in maglietta rossa aziendale per farli sembrare ciò che non sono. In quello di viale Ciamarra, aperto h24, ne trovi altri chini sulle carcasse di bancali che hanno appena liberato dal cellophane a estrarre biscotti, tonno e sapone liquido per lavastoviglie da sistemare ognuno al suo posto. Ne avvicino un paio invano: o non parlano italiano o fingono per evitare grane. Altri ancora sono febbrilmente all’opera al quartiere Alessandrino non si sa da quanto, oppure al Pigneto o al Villaggio Olimpico.

All’ultimo controllo sul sito del gruppo francese che ha introdotto l’apertura notturna in Italia nel 2012 sono 183 i punti vendita dove non tramonta mai il sole. Un boom che di recente ha spinto, nella capitale come altrove, anche chi non fa il tempo pieno a spostare in avanti le lancette della chiusura. Di questo passo l’ultima zona de-commercializzata della giornata sarà presto espugnata. Con la schizofrenia tipica del tardo capitalismo, da consumatori brindiamo per la maggiore comodità, mentre da cittadini rabbrividiamo quando scopriamo la retribuzione oraria degli scaffalisti asiatici che rendono possibile l’acquisto non-stop. Cinque euro e sedici dice la busta paga che ho davanti agli occhi. Che per un turno di quattro ore ne fa venti lordi con i quali, sì e no, potranno comprare i barattoli e le scatolette che sistemano in un minuto. Se la cosa non vi impressiona in assoluto, apprezzatela meglio in termini relativi: per fare lo stesso lavoro un vero dipendente dell’azienda prenderebbe circa il doppio. Grande distribuzione, grandissima ingiustizia.

Tu consumatore non lo sai, vedi addetti in divisa e pensi che tutti dipendano dal logo che hanno stampigliato all’altezza del cuore, ma non è così. Che imbocchi un corridoio o un altro, ti metta in fila a una cassa o in quella accanto, puoi incrociare valvassori, valvassini o servi della gleba. I primi sono gli assunti (paga oraria media 10 euro, straordinari, notturno, ferie). I secondi gli interinali, che per legge dovrebbero prendere quanto i primi ma in verità portano a casa sugli 8 euro (niente anzianità, niente straordinario). I terzi quelli delle cooperative, con paghe variabili dai 7 ai 5 euro, parliamo di lordo, no malattia, no quasi niente e se ti lamenti tanti saluti e avanti un altro. Judito, il filippino ventinovenne che incontro al McDonald’s di via Trionfale, rifugio con aria condizionata e wifi gratuito di tanti naufraghi metropolitani, appartiene all’ultima classe. Dice: «Negli ultimi due anni ho lavorato per due diverse cooperative trovate su Infojobs.it. Scaffalista per Conad e per Carrefour. Scarico la merce dal camion, la tolgo dai pallet, la carico sugli scaffali facendo la rotazione a seconda delle scadenze. Per 7 mila colli serve una squadra di cinque-sei persone. Per 10 mila otto».

È veloce, gli fanno i complimenti, così a un certo punto fa notare che 5 euro e 50 sono proprio pochini. Almeno lo spostassero in un punto vendita più vicino casa, che è un aumento indiretto in moneta di tempo perso. Prima dicono di sì poi, l’impudenza va sanzionata, ci ripensano e gli offrono una sede ancora più lontana. Così trova un’altra cooperativa che di euro gliene dà 6,50, con lo straordinario al 20 per cento e un piccolo premio per il notturno. È felice sin quando non si accorge che il caporeparto pugliese fa fare tutto a lui e agli altri suoi connazionali mentre, sostiene, gli italiani se la prendono comoda ed escono per fumare. Sua moglie lavora tutto il giorno come domestica e spetta a lui portare alla materna il figlio di cinque anni che ora siede davanti a me fiero della sua maglietta di Spider-Man. «Devo lavorare di notte per guardarlo, ma sono bravo e posso far meglio di così» motiva le sue ultime dimissioni. Su internet ha prenotato due colloqui con altrettante agenzie interinali ed è fiducioso che la sua vita migliorerà presto.

Valeria, nome di fantasia come la maggior parte degli altri, è già una «somministrata» ma non per questo si fa illusioni. Fa la cassiera in orari variabili dalle 20 alle 3 del mattino in una cittadina ligure e vengo a sapere della sua storia perché manda una richiesta di aiuto a Francesco Iacovone, dell’Unione Sindacati di Base, mentre mi fa da guida nel primo dei miei tour Supermarket-by-night. Quanto deve essere acuto il disagio affinché una quarantenne inequivocabilmente sana di mente mandi un WhatsApp dopo mezzanotte a un sindacalista con fama di combattività? Mi racconta dei suoi contratti, comunicati anch’essi via WhatsApp di settimana in settimana, orari inclusi. Del fatto che la maggiorazione notturna del 50 per cento dei colleghi assunti, per lei si ferma al 15 («Basta considerare come ordinarie le ore notturne»). Dello stress di dover correre a cambiare il rotolo delle etichette della bilancia quando finisce, o a dare la chiave a chi non riesce a entrare in bagno, quando sei l’unica in negozio assieme alla guardia e agli scaffalisti che, però, non devono avere contatti col pubblico.

L’episodio più indigesto riguarda un cliente che, seccato per aver dovuto aspettare qualche minuto nella fascia oraria dove osa solo Marzullo, le ha detto con disprezzo «dovresti ringraziare di avere un lavoro»: «Io non devo ringraziare proprio nessuno, se non me, per questo lavoro di merda che ho». Ma il motivo per cui ha scritto a Iacovoni è che il caporeparto le ha appena negato due settimane di ferie: «Ovviamente non pagate: solo uno stacco dopo un anno e mezzo, per prendere fiato col mio compagno che lavora anche lui da Carrefour ma di giorno, così non ci vediamo mai». Non può permettersi il rischio di trovare al rientro un’altra al posto suo ma neppure vuole correre quello, a forza di chinare la testa, di finire per strisciare.

Gianni Lanzi, della Filcams Cgil, ne ha viste troppe per meravigliarsi. Contesta in radice l’allargamento dell’orario («Ma sul serio, chi ha l’impellente bisogno di farsi una carbonara alle 4 di notte?») e denuncia «la disumanizzazione del lavoro» quando due che fanno la stessa identica cosa prendono uno la metà dell’altro. Per darmi la misura del Far West mi racconta anche di grosse catene romane che avrebbero praticamente solo personale che gli arriva via cooperative e che poi si vantano di laute elargizioni alla Caritas. O di fuoriusciti dalla Carrefour che avrebbero aperto cooperative che poi intrattengono con la ex alma mater relazioni preferenziali. È sempre lui ad aiutarmi a decrittare la busta paga di Judito: «Com’è possibile dargli così poco? Perché il contratto collettivo che gli applicano è quello Cisal, uno di quelli che noi definiamo contratti pirata» («Accusa infamante» è la risposta, però la vera infamia continuano a sembrarmi i 5,16 euro). Tant’è che Aneta, altra cooperativa altro contratto, di base ne prende 7,23 che è poco ma tanto di più. Però, da quando ha denunciato i suoi capi, non fa più vita: «Prima i turni erano settimanali, ora arrivano giorno per giorno. Così devi essere sempre pronta all’alba, anche se alla fine lavori di notte. E il responsabile bestemmia, mi umilia in pubblico: è diventato insopportabile!».

 L’ufficio stampa di Carrefour, dal canto suo, è stato gentile e inutile in parti uguali. Gli ho chiesto un censimento di dipendenti, interinali e cooperativi, con relative differenze salariali, e mi ha risposto che «ovviamente tutti i lavoratori sono inquadrati anche da un punto di vista retributivo sulla base del contratto di riferimento aziendale». Ovviamente. È stato anche molto dettagliato su un progetto per valorizzare i prodotti lattiero-caseari piemontesi e su un «format gourmet (tipo Eataly) per privilegiare piccole produzioni autoctone». Ha rivendicato che le aperture notturne fanno lavorare ogni giorno centinaia di «giovani che vogliono arrotondare» (termine che andrebbe abolito per sempre) «e disoccupati che trovano un modo per guadagnare di più rispetto a un lavoro simile diurno» (magari). Infine ha aggiunto che in ogni caso le cooperative «devono rispettare precise regole e codici dell’azienda». Al che mi sono permesso di domandargli se questi codici fossero compatibili con i cinque euro e spiccioli, curiosità che lo ha letteralmente ammutolito.

Christian Raimo, in uno sterminato, magistrale e raro reportage sul tema, stima in 3.000 i lavoratori delle coop rispetto ai 20 mila assunti Carrefour. Il muro di gomma aziendale mi ha fatto tornare in mente uno spot della Conad, sapidamente parodizzato, con la moglie di un socio Conad che aspetta invano nel parcheggio perché l’abnegazione dell’uomo è tale che, dalle sette quando doveva uscire, non si farà vivo che due ore dopo. E anche un passaggio di 24/7 (Einaudi) il saggio in cui Jonathan Crary racconta l’assalto del capitalismo al sonno: «L’enorme quantità di tempo che trascorriamo dormendo, affrancati da quella paludosa congerie di bisogni artefatti, rappresenta uno dei grandi atti di oltraggiosa resistenza degli esseri umani alla voracità del capitalismo contemporaneo». Una resistenza che, a quanto pare, stiamo perdendo.

 C’è chi preferisce minimizzare, negando la novità del fenomeno: «I medici, gli infermieri, i poliziotti, i vigili del fuoco e i camerieri l’han sempre fatto». Iacovone, il sindacalista di base, sul suo sito si è dato la briga di risponder loro confrontando salari e  condizioni complessive. Il punto è che la somma di due torti non fa mai una ragione (dovrebbero guadagnare meglio anche loro). E che nella grande distribuzione notturna la caratteristica di servizio pubblico essenziale scolora. Tanto vale far notare che siamo in buona compagnia. In The Fissured Workplace David Weil segnala che oggi in America un lavoratore su tre non è assunto dall’azienda che corrisponde al marchio del prodotto.

Apple, per dire, a fronte a 63 mila dipendenti ha 750 mila contractors. Se le vendite del prossimo iPhone andranno meno bene del previsto, indovinate chi saranno i primi a saltare? Non c’è bisogno di licenziarli, basta non riassumerli. Magari con un iMessage gratuito. Quanto ai filippini non mi sorprende che accettino ciò che gli altri scartano. Hanno una soglia di sopportazione notoriamente alta. Di quella nazionalità è un terzo di tutti i marinai delle portacontainer e un terzo è anche la quota del loro stipendio rispetto a quello degli ufficiali europei. Però, come Judito dimostra, non bisogna esagerare. «Chiunque competa con gli schiavi, diventa uno schiavo» ammoniva Kurt Vonnegut, non sapendo di parlare a Salvini. Se oggi sono loro, domani saremo noi. Non expedit.

 

tratto da: http://www.repubblica.it/venerdi/articoli/2017/10/09/news/supermercati_notte-177802768/