Capaci, lo striscione contro Berlusconi dove fu ucciso Falcone: “Ha finanziato la mafia. Non può essere gradito al Quirinale”

 

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Capaci, lo striscione contro Berlusconi dove fu ucciso Falcone: “Ha finanziato la mafia. Non può essere gradito al Quirinale”

L’iniziativa dell’associazione Scorta Civica, nata per testimoniare solidarietà al pm Nino Di Matteo, ha protestato contro la presenza al Colle del leader di Forza Italia, ricevuto per le consultazioni per la formazione del governo dal capo dello Stato.

Presidente chi ha finanziato la mafia non può essere gradito al Quirinale“. Con questo striscione appeso al ponte sull’autostrada Palermo – Trapani, all’altezza di Capaci – dove 26 anni fa Cosa nostra uccise il giudice Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti di scorta – l’associazione Scorta Civica, nata per testimoniare solidarietà al pm Nino Di Matteo, ha protestato contro la presenza al Quirinale di Silvio Berlusconi, ricevuto per le consultazioni per la formazione del governo dal capo dello Stato.

‘’Sergio Mattarella si sarebbe dovuto rifiutare di accogliere Berlusconi – sostiene Alfredo Russo di Scorta Civica – un condannato di cui si legge nelle sentenze che è uno atto a delinquere frequentemente e che ha finanziato la mafia dagli anni ’70 al ’92. Vorremmo che si desse risonanza a questo gesto perché il capo dello Stato deve sapere che non siamo d’accordo con questa scelta. E poi c’è la la tracotanza e la sfacciataggine di Berlusconi, è un paese alla rovescia, se sei un delinquente puoi avere successo, ma non tutti ci stanno”.

 

fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/04/06/capaci-lo-striscione-contro-berlusconi-dove-fu-ucciso-falcone-ha-finanziato-la-mafia-non-puo-essere-al-quirinale/4276508/

Ancora pesantissime accuse ai politici dal Pm Di Matteo: ”Su lotta a mafia e corruzione un silenzio assordante della politica”

 

Di Matteo

 

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Ancora pesantissime accuse ai politici dal Pm Di Matteo: ”Su lotta a mafia e corruzione un silenzio assordante della politica”

Di Matteo: ”Su lotta a mafia e corruzione un silenzio assordante della politica”

Il magistrato ricorda la sentenza Dell’Utri al Campidoglio intervenendo al convegno con Travaglio e la Raggi

“La lotta alla mafia dovrebbe essere il primo obiettivo di ogni governo e così finora non è stato. Un ulteriore segnale di preoccupazione è emerso dalla desolante assenza del tema dal tavolo della campagna elettorale con qualche eccezione, di tutto si è parlato e si continua a parlare, ma il silenzio sulle politiche antimafia in questi casi assume le caratteristiche del silenzio assordante”. E’ con queste parole che il sostituto procuratore nazionale antimafia, Antonino Di Matteo è intervenuto nel corso del convegno “Mafia 2.0 – Azioni di contrasto da parte dello Stato” che si è tenuto nella Sala della Piccola Protomoteca in Campidoglio. Un evento organizzato dall’associazione “Themis & Metis” in collaborazione con l’Aiga, l’Ordine degli Avvocati di Roma e la Presidenza dell’Assemblea Capitolina. “Se tutti abbiamo ormai capito quanto mafia e corruzione siano segmenti di un sistema criminale integrato, ci dobbiamo porre un problema – ha aggiunto ancora Di Matteo – Oltre 50 mila detenuti affollano le nostre strutture carcerarie, solo un numero irrilevante, credo non superino una decina di unità, sta scontando una pena definitiva per reati di corruzione o per reati tipici del crimine dei colletti bianchi: dieci su 55mila. Immaginate le conseguenze dell’entrata in vigore della legge di riforma dell’ordinamento penitenziario recentemente approvata dal Governo che dà la possibilità di scontare in regime diverso da quello carcerario una pena fino a un massimo di 4 anni o gli ultimi 4 anni di una pena più alta – ha proseguito -, anche quei dieci soggetti che stanno espiando una pena per corruzione lascerebbero immediatamente il carcere. Se la situazione è questa dobbiamo avere il coraggio di dire che sostanzialmente il fenomeno della corruzione in Italia è impunito”. Il magistrato, pm di punta dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, ha evidenziato come il rapporto tra mafia e potere sia da sempre una prerogativa delle criminalità organizzate e che lo stesso, da sempre, non può essere circoscritto ad un fenomeno prettamente meridionale.

Le sentenze dimenticate
“Ho sempre lavorato in Sicilia e mi indignavo e tuttora mi indigno quando viene relegata la questione mafiosa al solo territorio siciliano o al meridione. La questione mafiosa è una questione nazionale – ha detto Di Matteo -. Come si fa a pensare e sostenere che la questione mafiosa sia una questione locale quando abbiamo avuto delle conclusioni anche di sentenze passate in giudicato in ordine ai rapporti significativi del sette volte presidente del Consiglio Andreotti con le famiglie mafiose palermitane o all’intermediazione assicurata per almeno 20 anni dal senatore Dell’Utri e alla stipula dei patti a cui ha contribuito il senatore Dell’Utri tra l’allora imprenditore Silvio Berlusconi e i capi delle famiglie mafiose siciliane? – ha detto Di Matteo – Come si fa a relegare a questioni marginali questioni che hanno riguardato ad altissimo livello l’esercizio del potere non solo in Sicilia ma in tutto il Paese? Ecco perché il silenzio mi preoccupa”.
Di Matteo ha quindi evidenziato la necessità della “primazìa della politica nella lotta alla mafia. Da cittadino che ha fatto una determinata esperienza nella lotta alla mafia io continuo a sognare una politica che sia in prima linea nella lotta alla mafia e non come avviene oggi nella migliore delle ipotesi solo al traino dell’azione repressiva della magistratura”. La conseguenza, ha spiegato Di Matteo, è che “la magistratura accerta le eventuali responsabilità penali e la sussistenza di reati ma naturalmente il principio della presunzione di innocenza riguarda le responsabilità penali. Ci sono dei comportamenti che ancor prima di essere descritti in una sentenza definitiva sono accertati e dovrebbero fare scattare delle responsabilità di tipo politico che invece nel nostro Paese troppe poche volte sono state azionate”.Tra le conseguenze di questo “atteggiamento della politica”, Di Matteo ha citato anche il fatto che “comunque nonostante quello che è stato accertato si è assistito alla santificazione di Andreotti e che nel 2008 il senatore Dell’Utri e il senatore Cuffaro sono stati ricandidati”. E ricordando le parole della sentenza contro l’ex senatore di Forza Italia, condannato in via definitiva per Concorso esterno in associazione mafiosa, ha evidenziato come “nonostante in una sentenza definitiva ci sia scritto cheSilvio Berlusconi ha mantenuto e rispettato almeno dal 1974 al 1992 quei patti stipulati con Cosa Nostra grazie all’intermediazione di Dell’Utri ancora oggi questa persona esercita un ruolo assolutamente importante e assume ruoli decisivi nella politica nazionale anche di stretta attualità (tanto da essere ascoltato al Quirinale nelle consultazioni per la formazione del nuovo Governo, ndr)”.

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Bontà codice etico
Nel suo intervento Di Matteo ha anche voluto tornare su quanto disse in riferimento al codice etico approvato in particolare dal Movimento cinque stelle. Una presa di posizione che fece discutere. “In un convegno – ha ricordato il magistrato – intervenni per sottolineare il carattere positivamente innovativo del codice etico che il M5S aveva approvato. E’ stata considerata come una apertura di credito nei confronti del M5S in quanto organismo politico. In realtà il dato è certamente molto più importante: l’approvazione di quel codice rappresentava finalmente un momento di separazione tra il concetto di responsabilità penale e il concetto di responsabilità politica. Quello era, e mi auguro che sia ancora, il fattore più apprezzabile di quel codice”.

Riforme
Il sostituto procuratore nazionale antimafia ha anche affrontato temi importanti come quello delle intercettazioni telefoniche, della riforma penitenziaria ribadendo la necessità di “mantenere fermi certi strumenti giuridici” rilanciando il contrasto contro la mafia e la corruzione anche prevedendo strumenti ulteriori come ad esempio l’utilizzo dell’agente provocatore “già previsto dal nostro codice in materia di reati come il traffico di stupefacenti, traffico di armi o la pedopornografia”. Inoltre ha chiesto che da parte delle istituzioni vi sia l’impegno a salvaguardare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura a cominciare dalla nomina dei membri laici del Csm: “Io condivido la preoccupazione di Davigo quando sostenne il pericolo di una magistratura genuflessa rispetto al potere politico. Una magistratura che ha mutuato dalla peggiore politica gli odiosi sistemi di sparizione del potere con il sistema delle correnti con il rischio che si ragioni in criteri di opportunità politica anziché rispetto alla doverosità del nostro agire. Anche la politica dovrebbe combattere la burocratizzazione e la gerarchizzazione dell’attività giudiziaria perché la difesa dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura è una lotta di libertà del popolo. Un esempio: la Costituzione prevede che nell’elezione dei membri laici del Csm la scelta vada fatta tra professori ed avvocati. Non sta scritto da nessuna parte che debbano essere membri di un partito politico. I parlamentari devono nominare personalità che si pongano il problema di tutelare l’autonomia e l’indipendenza del Csm, non di portarci dentro i desiderata dei loro referenti politici”.

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Infine, a quasi 26 anni dalle commemorazioni delle stragi, Di Matteo ha anche auspicato che lo sforzo per la ricerca della verità su quel delicato periodo storico non sia solo “sulle spalle di pochi magistrati o investigatori” ma riparta proprio dalla politica e dalle considerazioni della Commissione Parlamentare antimafia in cui si afferma come “probabile o concretamente possibile il dato di partecipazione di altri soggetti oltre Cosa nostra alla campagna stragista”.
All’incontro hanno anche partecipato il sindaco di Roma, Virginia Raggi, ed il giornalista e direttore de Il Fatto QuotidianoMarco Travaglio. La prima ha voluto ribadire la bontà dell’operato della propria amministrazione: “Cercare di fare le cose nel rispetto della legge implica dei tempi. E’ intollerabile sentirsi dire ‘prima si stava meglio’”. “Si stava meglio cosa?” ha incalzato la Raggi parlando di “appalti truccati” e del fatto che “si facevano favori. Noi stiamo pagando i debiti di chi ‘faceva le cose meglio’. In apparenza era tutto bello poi qualcuno ha alzato il tappeto. E bisogna avere un po’ di coraggio e onestà per farlo e a volte si resta soli. Ma si va avanti lo stesso. Noi lo stiamo facendo e andiamo avanti”.
Poi a prendere la parola è stato Marco Travaglio che con la solita chiarezza ha evidenziato le mille contraddizioni della politica che “scientemente” legifera seguendo criteri che alla fine non sono mai per la tutela di tutti ma di pochi.

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“Lo Stato è disorganizzato non perché non sa organizzarsi ma sceglie di non organizzarsi scientemente contro la criminalità – ha detto il giornalista – E ci sono norme da cialtroni. Leggi spot che in realtà presentano buchi enormi e che vanno incontro alle esigenze specifiche di qualcuno”. Travaglio ha anche fatto degli esempi come la legge sul voto di scambio politico-mafioso (416 ter) che ha portato alla dissoluzione di interi processi come ad esempio il caso del deputato siciliano Antinoro “condannato nei primi due gradi di giudizio e poi assolto dopo l’arrivo della nuova legge che prevede che si dimostri che vi sia il procacciamento di voti con le modalità mafiose”. Poi ancora la normativa sull’Antiriciclaggio definito come un “vero cabaret, laddove si prevede che questo non è punibile quando il denaro e le altre utilità vengono destinati al godimento personale”. Ed infine la legge sulle intercettazioni telefoniche. “In questo caso – ha detto Travaglio – è da anni che si pensa a come fermarle. All’inizio pensavano di toglierle dalle mani dei magistrati oggi invece si punta a toglierle dalla disponibilità dei giornalisti e quindi dei cittadini. Una legge assurda che rischia di togliere dagli occhi dei cittadini le informazioni indecenti sui potenti ma anche di privare i pm e gli avvocati di prove importantissime perché ci sarà un soggetto delle forze dell’ordine che arbitrariamente deciderà cosa è rilevante e cosa no”.

Travaglio ha anche evidenziato come sia bassissimo il numero di articoli di giornale che hanno pubblicato intercettazioni che non erano penalmente rilevanti a dimostrazione che “non c’è alcuna gogna mediatica e per colpire questi reati ci sono già le leggi a tutela della privacy e il reato di diffamazione”. L’auspicio finale è che da queste considerazioni un prossimo governo possa concretamente legiferare contro mafia e corruzione senza che il diritto di pochi sia anteposto a quello dei molti.

 

TRATTO DA: http://www.antimafiaduemila.com/home/primo-piano/69742-di-matteo-su-lotta-a-mafia-e-corruzione-un-silenzio-assordante-della-politica.html

 

Trattativa, le agghiaccianti dichiarazioni di Luca Cianferoni, l’Avvocato di Totò Riina: “Borsellino assassinato dallo Stato come Matteotti”

 

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Trattativa, le agghiaccianti dichiarazioni di Luca Cianferoni, l’Avvocato di Totò Riina: “Borsellino assassinato dallo Stato come Matteotti”

Trattativa, Avvocato di Totò Riina: “Borsellino assassinato dallo Stato come Matteotti”

Trattativa Stato mafia, Arringa difensiva dell’Avvocato di Totò Riina “Anche da morto Riina deve fare da parafulmine”

Siamo avvocati o siamo caporali?”. Con questa premessa degna di Totò, l’avvocato Luca Cianferoni ha esordito oggi nella sua personalissima arringa pronunciata in difesa del suo assistito Salvatore Riina, conclusasi con la richiesta di piena assoluzione, invece che quella di non doversi procedere per intervenuta morte dell’imputato.

Subito un’ardita affermazione: la mafia siciliana e’ stata favorita dagli Stati Uniti fin dal 1945 perche’ speculare all’Armata Partigiana del maresciallo Tito, la prima per il suo viscerale anticomunismo, i secondi  ( Tito ed il suo esercito), per la fiera opposizione all’Unione Sovietica.

Il suo assistito? Parafulmine perfin da morto, oggetto e non soggetto di trattativa. Di chi, di che cosa? Dei boiardi di stato, ansiosi di restare nei loro posti di potere, passando trasformisticamente ad una nuova formazione politica, Forza Italia.

In questo quadro i carabinieri della Gestapo (il ROS), “da sempre connotati a destra e un pochino legionari”,  ed il Sismi, contrapposti al Sisde ed alla polizia di Gianni de Gennaro, “sinistrorsi”.

Qui mi permetto di eccepire con un ricordo contraddittorio. De Gennaro, conseguita la maturità classica al prestigioso collegio privato Massimo di Roma, si iscrisse alla facoltà  di Giurisprudenza della Statale, insieme con il mio collega di corso Raffaello Parente (fratello del piu’ noto Mario), il quale, quando frequentammo alla Scuola di Guerra, nel 1989/90, il corso di Stato Maggiore e le cronache parlavano già del questore De Gennaro, ci racconto’ di quell’episodio in cui, durante i moti studenteschi, De Gennaro, attivista del FUAN, era finito in Questura.

Mi direte voi, “un peccato di gioventù”. Oggi e’ presidente del Centro Studi Americani, e di Leonardo (gia’Finmeccanica). Pensate che sarebbe consentito tutto ciò, da oltre oceano, ad un uomo  di sinistra?

Perdonate la divagazione. Torno all’arringa di Cianferoni, che dipinge fra l’altro un quadro del carcerario allucinante, Pianosa specializzata nella creazione di pentiti “guidati”, grazie a torture e sevizie sistematiche che ricordano quelle inflitte dagli ammiragli argentini ai desaparesidos, opera in mano ai servizi, anche ora che non c’e’ piu’ Siciliano Giacinto, direttore.

“Gian Carlo Caselli, perche’ non anche lui fra gli imputati? In cosa il suo comportamento differì da quello di Mori?”.

Prosegue – l’ avvocato Cianferoni – quest’ultimo comunque succubo del generale  Ganzer, specializzato nella creazione  di raffinerie di eroina che poi scopriva “vizio anche del colonnello Riccio”.

Il top dell’arringa, è riservato a Giorgio Napolitano “che mangiava cento milioni al mese  dei fondi neri del Sisde da ministro degli interni”.

Solo su una cosa l’avvocato conviene con l’ex Presidente della Repubblica, “l’intima consunzione di un intero assetto politico istituzionale” la tubercolosi che ha ucciso la prima Rerpubblica.

Giova pero’ concludere con una rivelazione sull’attentato di via dei Georgofili voluto – ci narra l’avvocato – per colpire la piu’ importante loggia massonica fiorentina, quella di cui era membro Spadolini quando fece cadere il governo Craxi, colpevole di aver resistito agli americani a Sigonella.

C’e’ un punto per cui Cianferoni e la sua arringa entreranno nella storia d’Italia: quando ascrive totalmente allo stato’l’assassinio di Paolo Borsellino: “Borsellino assassinato come Matteotti”

Conclude addebitando ai magistrati che indica come  “i nuovi padroni d’Italia, che usano la giustizia come i militari facevano una volta con i carri armati”, l’imperdonabile ipocrisia di non averlo mai dichiarato in aula.

 

 

tratto da: https://www.themisemetis.com/mafia/trattativa-mafia-borsellino-assassinato-dallo-come-matteotti/1570/

Dell’Utri resta in carcere e la moglie urla: bisogna vergognarsi di essere italiani… Ma vergognarsi di essere mafiosi proprio NO, vero?

 

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Dell’Utri resta in carcere e la moglie urla: bisogna vergognarsi di essere italiani… Ma vergognarsi di essere mafiosi proprio NO, vero?

Sono proprio senza vergogna…

Leggiamo su Il Giornale:

Il dolore della moglie di Dell’Utri: “Vergognarsi di essere italiani”

Lo sfogo di Miranda Ratti: “Quando c’è un accanimento nel negare il diritto alla salute non c’è niente da fare ma è una vergogna”

“C’è da vergognarsi ad essere italiani”: sono parole pesanti come macigni quelle pronunciate da Miranda Ratti, moglie di Marcello Dell’Utri, all’indomani della sentenza che nega la scarcerazione del marito, da tempo malato.

Parlando ai microfoni di TgCom 24, la moglie dell’ex senatore di Forza Italia confessa tutta la propria amarezza per una decisione che la lascia a un tempo stupita e addolorata: “Se viene negato il diritto alla salute bisogna vergognarsi di essere italiani. Ci stupiamo di Turchia e Venezuela, ma evidentemente non sappiano guardare in casa nostra”.

Una staffilata ai giudici che hanno ritenuto che Dell’Utri non potesse lasciare il carcere nonostante un tumore e una cardiopatia. La signora Ratti parla di un “accanimento contro cui non c’è nulla da fare”, senza riuscire a capacitarsi di come sia stata la respinta di trasferire il marito “in una struttura adeguata, polifunzionale e ben strutturata” per curarlo.

“Sembra inutile dire – aggiunge la moglie di Dell’Utri – che nella magistratura non ho nessuna fiducia perché anche quest’ultima istanza dimostra un accanimento, e contro l’accanimento, se uno è prevenuto, non c’è nulla da fare. È una sentenza assurda che va a nuocere non solo alla salute di mio marito e alla nostra famiglia, ma allo Stato di diritto, perché i principi della Costituzione non vengono assolutamente rispettati”.

Il Giornale

Io, fossi in loro, mi vergognerei più ad essere mafiosi!

Vi consigliamo di leggere:

Trattativa, i Pm: “Nel ’94 Cosa Nostra appoggiò Forza Italia. Tra la mafia, Dell’Utri e Berlusconi rapporto paritario” …Ma ora non fatevi distrarre: Di Maio ha sbagliato un altro congiuntivo!

 Per non dimenticare – Il pentito di mafia Spatuzza: “Incontrai il boss Graviano, era felice come se avesse vinto al Superenalotto, mi fece il nome di Berlusconi. Aggiunse che in mezzo c’era anche il compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani”…!

Berlusconi contro i Cinquestelle: “Noi abbiamo un passato di cui essere fieri” – Sì, è vero, e si chiama MAFIA…!

Elezioni politiche: Avete fatto caso che la mafia non esiste nei programmi dei partiti? Troppo utile per mettersela contro??

 

Elezioni

 

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Elezioni politiche: Avete fatto caso che la mafia non esiste nei programmi dei partiti? Troppo utile per mettersela contro??

Elezioni politiche: la mafia non esiste nei programmi dei partiti

La criminalità organizzata continua a intimidire e infiltrarsi nel tessuto sociale, economico e democratico del paese, ma i partiti in corsa per le elezioni politiche non sembrano interessati al tema.

Sono passati tre anni da quando, nel suo discorso di insediamento, Mattarella annunciava: “La lotta contro la mafia e quella contro la corruzione sono priorità assolute”. Più di trenta secondi di applausi incorniciavano quelle parole, anche se i programmi elettorali che avevano portato deputati e senatori in Parlamento non sembravano particolarmente attenti al tema.

Né la coalizione centrista Monti per l’Italia, né il Movimento 5 stelle affrontavano il problema con proposte programmatiche. Lega Nord e Popolo della Libertà trattavano il tema nel capitolo sulla sicurezza (ventesimo punto di ventitré), proponendo “prosecuzione dell’opera del Governo Berlusconi nel contrasto totale alla criminalità organizzata e piena e totale implementazione dell’Agenzia per i beni confiscati”. Mentre Sinistra Ecologia e Libertà accennava al tema riguardo alla legalizzazione delle droghe leggere e dedicava alla lotta alla criminalità organizzata l’intera pagina 35 (di 45), lo stesso interesse non era dimostrato dal Partito Democratico. Otto righe e mezzo a pagina tre di cinque nel programma per le politiche con Bersani segretario e, nel documento congressuale per la candidatura di Matteo Renzi alle primarie 2013, si accennava alla mafia a pagina 11 di 17 per proporre la riforma della giustizia e, alla pagina successiva, tra i vari interventi per il Sud, si annunciava un “efficace controllo del territorio contro l’illegalità diffusa e la criminalità organizzata”.

Quel lungo applauso alle parole di Mattarella poteva però rappresentare una dichiarazione d’intenti, una presa di coscienza di un problema colpevolmente ignorato in campagna elettorale ma vivo nelle intenzioni del legislatore. È stato davvero così?

Dopo il discorso di Mattarella gli interventi normativi nella lotta contro la criminalità organizzata sono stati scarsi. La riforma del voto di scambio politico-mafioso, art. 416-ter del codice penale, era infatti precedente all’insediamento del Presidente della Repubblica e al suo applaudito intervento, essendo stata approvata nell’aprile 2014. Peraltro, pur definendo meglio il reato in questione, non pare aver risolto i problemi di effettività dell’illecito.

Un intervento contro la criminalità organizzata, comunque, c’è stato, anche se approvato non senza polemiche quasi al termine della legislatura: si tratta della riforma del Codice antimafia. In realtà, più che sulla mafia, le modifiche sembrano mirare alla corruzione (e non solo), aggiungendo un nuovo tipo di confisca e modificando in parte i procedimenti per le misure di prevenzione. Non sono mancate critiche, anche autorevoli: l’ex ministro della giustizia e presidente emerito della Consulta Flick ha rilevato, ad esempio, come l’ampliamento delle figure di confisca possa aumentare la confusione rispetto a un numero già alto di misure simili.

Intanto, un’altra campagna elettorale è ormai entrata nel vivo e, finalmente, sono stati pubblicati su alcuni siti, o comunque depositati al Ministero degli Interni, i programmi dei diversi partiti. La lotta alla mafia sembra però anche questa volta un tema marginale, quando non proprio ignorato.

Il programma unitario di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia non cita la questione: né una proposta, né una parola. La stessa assenza si registra nei programmi di Casapound, Forza Nuova e Destre Unite Forconi. Il Popolo della famiglia cita invece il tema nella mezza pagina di programma: alla terzultima riga, si indica come il reperimento delle risorse per i progetti di finanziamento alle famiglie (in particolare alla donna madre, contro l’aborto, il gender, le unioni civili, il biotestamento…) debba avvenire anche attraverso “la confisca dei beni derivanti da una guerra senza tregua alla criminalità organizzata”. Non è dato sapere il come.

Il programma del M5S nomina la mafia, ma è estremamente sintetico: il punto 14 di 20 è dedicato alla “Lotta contro corruzione, mafie e conflitti d’interesse” e prevede cinque punti: modifica 416ter sul voto di scambio politico mafioso, riforma della prescrizione, daspo per i corrotti, agente sotto copertura, intercettazioni informatiche ai reati di corruzione. Non c’è una parola più di queste per chiarire le modalità di attuazione o anche soltanto il significato delle proposte. Per cercare qualche spiegazione bisogna tornare al fascicolo del programma provvisorio sulla Giustizia, che propone come misura lo spostamento dei processi per mafia nelle Corti d’appello, misura che, peraltro, non si legge nei cinque punti ufficiali citati.

I Radicali di +Europa nominano la lotta alla mafia in due punti, prima come una delle ragioni per la legalizzazione delle droghe, poi come un punto delle politiche per il Mezzogiorno. Il Partito Democratico, invece, dedica qualche parola alla pagina 7 di 10, nel paragrafo sulle misure previste per la sicurezza contro il terrorismo e per la cultura, premettendo “mentre ribadiamo il nostro impegno in patria contro tutte le forme di illegalità, a cominciare dalla criminalità organizzata di stampo mafioso”. Nel programma pubblicato sul sito, 100 cose fatte, 100 cose da fare, il Partito democratico rivendica il Codice antimafia e propone di “valorizzare l’Agenzia per i Beni Confiscati per permettere una migliore gestione dei beni strappati alla mafia”.

Programmi un po’ più approfonditi sul tema sono quelli di Liberi e Uguali e di Potere al Popolo. Nel programma di LeU, alla lotta alla mafia sono dedicate un centinaio di parole alle pagine 12 e 13 (di 17), con proposte di intervento su tracciabilità dei pagamenti, educazione alla legalità, tutela di testimoni e collaboratori di giustizia. Differenza essenziale rispetto a Potere al Popolo è l’affermazione secondo cui “il regime del carcere duro per i mafiosi che mantengano un rapporto con i propri territori d’influenza non va mitigato”. La differenza in realtà è più apparente che sostanziale: il programma di PaP propone infatti che ci sia “abolizione del 41 bis, riconosciuto quale forma di tortura dall’ONU e da altre istituzioni internazionali”, ma specifica che si debbano adottare “al suo posto misure di controllo, per i reati di stampo mafioso, allo stesso tempo efficaci ed umane, che non permettano la continuità di rapporto con l’esterno”. Tornando alla lotta alla mafia, Potere al Popolo (a pagina 14 di 15 del programma) propone “il contrasto dei fenomeni corruttivi diffusi e della reimmissione di capitali di provenienza mafiosa, inasprendo le pene e allungando i termini di prescrizione per riciclaggio e autoriciclaggio” e “l’educazione all’antimafia, chiedendo ai Comuni di ottemperare all’obbligo di informare la cittadinanza sui beni confiscati, e favorendo le amministrazioni che risocializzino questi beni”.

Insomma, escluse queste ultime forze politiche, la lotta alla criminalità organizzata non sembra impegnare inchiostro e pensieri dei partiti in corsa per le elezioni politiche. Eppure, anche quando il paese non si interessa di mafia, la mafia si interessa del paese.

La criminalità organizzata è un fenomeno mutevole e parassitario, che si adatta alla realtà sociale che lo ospita. Non è una questione meridionale, ma raggiunge ormai una dimensione globale, sia in uscita che in ingresso, e riguarda diverse sezioni dell’economia legale e illegale, dal traffico di droga all’usura, dalla movimentazione terra allo smaltimento dei rifiuti, fino a infiltrarsi nell’edilizia, nella sanità e anche nelle decisioni politiche attraverso il voto di scambio e i diversi fenomeni corruttivi.

Non manca la caratteristica storica mafiosa di controllo del territorio e violenza intimidatoria, come dimostrano le stese di Camorra che continuano a preoccupare Napoli, ma anche “episodi di violenza posti in essere con tracotante audacia in pieno centro a volto scoperto con la finalità di affermare sul territorio la presenza di un sodalizio altrettanto prepotente e sopraffattore con il conseguente assoggettamento della popolazione”, come recitava l’ordinanza della Procura antimafia milanese per fatti avvenuti a Cantù, nel profondo nord.

Centrali sono però anche gli investimenti nel traffico di stupefacenti, il polmone finanziario della mafia, e il racket dell’usura. Secondo il rapporto di Confesercenti e Sos Impresa, L’usura dopo la crisi: tra vecchi carnefici e nuovi mercati, il giro d’affari derivante dai prestiti a tassi usurai si aggira intorno ai 24 miliardi di euro, in aumento rispetto al rapporto del 2011 che si fermava a 20 miliardi, il tutto mentre le denunce continuano a calare.

La criminalità organizzata è però anche, se non soprattutto, un problema politico e democratico. Secondo i dati di Ossigeno per l’informazione, l’osservatorio sui cronisti minacciati e sulle notizie oscurate promosso da FNSI e Ordine dei Giornalisti, a oggi sono 3508 i giornalisti minacciati, sia tramite querele temerarie e pretestuose, sia attraverso minacce più evidenti, come avvertimenti, aggressioni e danneggiamenti: questa realtà, unita ad altri problemi (come il conflitto di interessi tra politica e informazione e le proposte di ridurre la libertà di espressione sul web), ha portato organizzazioni come Freedom House a declassare l’Italia come paese partly free, parzialmente libero, relativamente alla libertà di stampa. Agli effetti sull’informazione, oggetto peraltro anche di relazioni parlamentari, devono aggiungersi anche le intimidazioni dirette agli amministratori pubblici: secondo il rapporto 2016 di Avviso Pubblico, Amministratori sotto tiro, sono stati censiti 479 nuovi casi di minacce, cioè un’intimidazione ogni diciannove ore. Il dato è più che raddoppiato dal 2011 e rappresenta una stima ridotta, dal momento che conta solo i fenomeni denunciati e resi pubblici, non tutti quelli taciuti per paura o per calcolo. La mafia non è infatti sempre in lotta con lo Stato, ma spesso è a esso convergente e contigua: lo dimostrano i decreti di scioglimento per 232 amministrazioni locali, così come le condanne relative al voto di scambio che, come già segnalato, accomunano ormai nord e sud, oltre alle inquietanti questioni che emergono dal processo sulla trattativa Stato-mafia.

Ma prima ancora che giudiziario, la mafia è un problema sociale e politico, un parassita infiltrato in un corpo che sembra spesso aver rinunciato a cercare anticorpi: per questo, contro la criminalità organizzata si dovrebbero opporre reazioni anche sul piano sociale e politico. Per parafrasare un discorso di Paolo Borsellino, infatti, la politica non deve soltanto essere onesta, ma anche apparire tale, perché le sentenze possono operare solo sul piano giudiziario, identificando reati e illegalità, con tutte le dovute garanzie per gli imputati, che non possono essere condannati sulla base di sospetti; un partito, invece, deve conoscere le categorie dell’opportunità, dell’intransigenza, della trasparenza.

E, anche se sulla sezione dedicata alla criminalità organizzata sul sito del Ministero degli Interni continua a campeggiare la celebre citazione di Borsellino, «Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene.», stiamo assistendo a un’altra campagna elettorale in cui l’influenza mafiosa sul sistema sociale, economico e democratico viene pressoché ignorata: forze che si candidano alla guida del governo trascurano completamente il tema, altre lo trattano in maniera superficiale o macchiettistica e soltanto pochissime dedicano alla questione qualche parola, per quanto vaga.

Si tratta di un silenzio, una rimozione, che, consapevole o inconscia, deve preoccupare: perché se la criminalità è organizzata, deve essere organizzata anche la politica antimafia. Sempre che voglia davvero opporsi alla mafia.

fonte: https://www.fanpage.it/elezioni-politiche-la-mafia-non-esiste-nei-programmi-dei-partiti/

Trattativa, i Pm: “Nel ’94 Cosa Nostra appoggiò Forza Italia. Tra la mafia, Dell’Utri e Berlusconi rapporto paritario” …Ma ora non fatevi distrarre: Di Maio ha sbagliato un altro congiuntivo!

 

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Trattativa, i Pm: “Nel ’94 Cosa Nostra appoggiò Forza Italia. Tra la mafia, Dell’Utri e Berlusconi rapporto paritario” …Ma ora non fatevi distrarre: Di Maio ha sbagliato un altro congiuntivo!

 

Trattativa, i pm: “Nel ’94 Cosa nostra appoggiò Forza Italia. Tra la mafia, Dell’Utri e Berlusconi rapporto paritario”

All’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, la pubblica accusa è arrivata al punto clou della requisitoria del processo sul patto segreto tra pezzi delle Istituzioni e boss mafiosi: la fine dell’escalation di terrore che ha sconvolto l’Italia tra il 1992 e il 1993. E quindi la nascita della Seconda Repubblica. “Nel 1993 l’ex senatore è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio dei mafiosi, cioè fermare le bombe in cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario. Ciò è avvenuto quando si è insediato il primo governo di centrodestra”

Il rapporto tra Marcello Dell’UtriSilvio Berlusconi e Cosa nostra, definito dalla corte di cassazione come “paritario“. La nascita di Sicilia Libera e l’intenzione dei boss di entrare direttamente in politica. Il cambio di cavallo dei padrini che puntano tutto sulla neonata Forza Italia. E quindi il patto siglato dai boss alla fine del 1993 con l’ex senatore: le stragi si interrompono, tra Stato mafia torna la pace. È un punto di svolta quello ripercorso nell’udienza numero 209 del processo sulla Trattativa tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. All’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, la pubblica accusa è arrivata al punto clou della requisitoria: la fine dell’escalation di terrore che ha sconvolto l’Italia tra il 1992 e il 1993. E quindi la nascita della Seconda Repubblica.

Un passaggio avvenuto per un motivo particolare. Quale? “Alla fine del 1993 Marcello Dell’Utri si è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio per conto di Cosa nostra, cioè fermare le bombe in cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario. Ciò è avvenuto quando un nuovo governo si era appena formato, nel marzo del 1994, con la nomina di Silvio Berlusconialla carica di presidente del consiglio”, ha detto il pm Francesco Del Bene, che rappresenta la pubblica accusa insieme a Nino Di MatteoRoberto Tartaglia e Vittorio Teresi.  Per i pm Dell’Utri – imputato per minaccia a corpo politico dello Stato insieme agli altre sei persone (per Nicola Mancino l’accusa è di falsa testimonianza, per Massimo Ciancimino concorso esterno a Cosa nostra) “aveva un potere ricattatorio su Berlusconi per effetto dei rapporti pregressi“.

Gli anni ’70 e lo stalliere, i soldi della droga – Quali rapporti? Per delinearli i pm partono da lontano. E citano la sentenza definitiva che ha condannato Dell’Utri a sette anni di carcere per concorso esterno. “I giudici hanno scritto – ha detto Del Bene citando le motivazioni del verdetto – che fin dagli anni Settanta Marcello Dell’Utri intratteneva un rapporto paritariocon esponenti di Cosa nostra”. Contatti che per i pm “sono proseguiti anche dopo la scomparsa dei boss Mimmo Teresi e Stefano Bontate, suoi iniziali interlocutori, uccisi dai corleonesi di Totò Riina”. Nella requisitoria ha dunque fatto la sua comparsa Vittorio Mangano, il boss di Porta Nuova assunto da Berlusconi e Dell’Utri come stalliere nella villa di Arcore nel 1974. “La presenza di Vittorio Mangano ad Arcore, mafioso del mandamento di Porta Nuova, per il tramite di Dell’Utri, rappresenta la convergenza di interessi tra Berlusconi e Cosa nostra”, dicono i pm, che durante una delle udienze del processo hanno ascoltato anche la deposizione del pentito Gaetano Grado. “Negli anni Settanta – aveva detto il collaboratore di giustizia l’11 giugno del 2015 – portava fiumi di miliardi da Palermo a Milano. Erano soldi del traffico di droga di Cosa nostra che Mangano consegnava a Dell’Utri, poi Dell’Utri li consegnava a Berlusconi che li investiva nelle sue società, mi pare anche per Milano due. La mafia ha bisogno di investire. Siccome i soldi della droga erano talmente tanti che non si sapeva più quanti fossero, Mangano esportava fiumi di denaro su a Milano”.

L’intimidazione: gli attentati alla Standa- Il sostituto procuratore ha poi ricordato gli attentati alla Standa di Catania, che all’epoca era di proprietà di Silvio Berlusconi. Secondo l’accusa gli attentati intimidatori sarebbero cessati solo dopo un accordo tra Cosa nostra e Berlusconi, “attraverso l’intermediazione di Dell’Utri”. Già in una delle scorse udienze, il pm Roberto Tartaglia aveva spiegato. “I boss puntarono all’intimidazione, per poi raggiungere il patto”, disse il magistrato riferendosi proprio gli attentati alla Standa: “Il pentito Malvagna ci ha raccontato che scese un alto dirigente Fininvest per risolvere la questione”. Chi era quell’alto dirigente? “Era Dell’Utri”, ha detto un altro pentito, Maurizio Avola, riferendo di un incontro tra l’ex senatore e il capomafia Nitto Santapaola.

Il rapporto paritario e i Graviano- “La Cassazione  ci dice che tra Cosa nostra e Berlusconi e Dell’Utri il rapporto era paritario. Dell’Utri era un nuovo autorevole interlocutore del dialogo con Cosa nostra”,  ha continuato il magistrato che poi ha citato le dichiarazioni del pentito Tullio Cannella. “Gli agganci potenti con esponenti politici – aveva detto il collaboratore di giustizia – li avevano i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss del mandamento di Brancaccio a Palermo. Erano loro che si occupavano di politica per risolvere e i problemi di Cosa nostra, come la legislazione sui collaboratori di giustizia”. Dichiarazioni che i pm collegano a quelle di Gaspare Spatuzza sulle confidenze ricevute nell’autunno del 1993 da Giuseppe Graviano: “C’è in piedi una situazione che, se andrà a buon fine, ci permetterà di avere tutti i benefici, anche per il carcere”. “Il collaboratore Cannella ha riferito anche che 15 giorni prima della scadenza per la presentazione delle liste elettorali per le politiche del 1994 – ha aggiuntoDel Bene – si rivolse a Leoluca Bagarella per avere la possibilità di inserire un candidato del suo movimento Sicilia Libera nel Polo delle Libertà. Bagarella gli disse che lo avrebbe messo in grado contattare un soggetto per l’inserimento di un candidato per il Pdl. La persona che avrebbe incontrato era Vittorio Mangano“.

Così la mafia votò Forza Italia – Sicilia Libera è il movimento creato su input dello stesso Bagarella, al vertice dei corleonesi nel 1993 dopo l’arresto del cognato Totò Riina.  “Il movimento Sicilia Libera ha in sé tutti i protagonisti del reato di attentato a corpo politico dello Stato che contestiamo agli imputati di questo processo. Cosa nostra ha l’esigenza di interloquire direttamente con le istituzioni e Bagarella tenta di farlo con questo movimento politico nel cui statuto vengono inseriti i punti che tanto stanno a cuore alla mafia, tra cui la giustizia e provvedimenti sul mondo carcerario“. Poi, però, succede qualcosa. Succede che alla fine del 1993 lo stesso Bagarella “sa della discesa in campo di Silvio Berlusconi per le politiche del 1994 e decide dirottare il suo sostegno a Forza Italia, e di fatto decide di dare sostegno a Marcello Dell’Utri attraverso i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Così, lascia perdere il Sicilia Libera che aveva fondato e di fatto confluisce in Forza Italia”.

Quello che disse Cancemi – Per la verità, però, a parlare di Berlusconi e Dell’Utri come possibile soluzione ai problemi di Cosa nostra era stato lo stesso Riina già nel giugno del 1992, quando la nascita di Forza Italia era ancora alle primissime battute. A sostenerlo – lo ha ricordato nelle scorse udienze il pm Di Matteo – era stato il pentito Salvatore Cancemi. Nel corso della riunione del giugno ’92, “Riina si prese la responsabilità di eliminare Paolo Borsellino“. Nella stessa circostanza aggiunse che “andava coltivato il rapporto con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri“.  “Non è un racconto del relato ma proviene dalla voce di un autorevole capomafia”, aveva detto Di Matteo. Le dichiarazioni di Cancemi, secondo l’accusa, riscontrano quanto detto in carcere da Giuseppe Graviano. Intercettazioni che hanno fatto riaprire le indagini su Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi e che sono state al centro di un acceso dibattito processuale tra accusa e difesa.

L’opinione di Riina – Anche Riina era stato intercettato in carcere dalla procura di Palermo. E quelle registrazioni sono state lette in aula dal pm Del Bene.  “Berlusconi era una persona inaffidabile mentre Marcello dell’Utri era una persona seria che ha mantenuto la sua parola”, ha detto il magistrato riferendosi alle confidenze fatte dal copo dei capi al codetenuto Alberto Lo Russo. “Riina considerava Dell’Utri una persona seria, dalla sua parte, che ha mantenuto la parola data. Oppure Riina è ritenuto un boss solo per tenerlo al 41bis mentre poi, quando parla, viene considerato rincoglionito?”, ha aggiunto ancora il pm alla fine della settima udienza dedicata all’esposizione della requisitoria. La cui fine è prevista per domani quando i quattro magistrati esporranno davanti alla corte d’Assise le richieste di pena. Sarà anche l’ultima udienza per Di Matteo eDel Bene: promossi allaprocura nazionale antimafia sono stati applicati al processo sulla Trattativa solo fino alla fine della requisitoria. Sono anche gli unici due magistrati che seguono l’inchiesta dall’inizio: dal 2008 con le prime iscrizioni del registro degli indagati. Dieci anni dopo il processo sul patto segreto che avrebbe portato uomini delle istituzioni a sedere allo stesso tavolo della piovra è alle battute finali.

fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/01/25/trattativa-pm-nel-94-cosa-nostra-appoggio-forza-italia-tra-la-mafia-dellutri-e-berlusconi-rapporto-paritario/4115952/

Catanzaro, 170 arresti per ‘ndrangheta tra Italia e Germania. Dieci amministratori locali in manette… Ma Voi continuate a votarli, mi raccomando…

 

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Catanzaro, 170 arresti per ‘ndrangheta tra Italia e Germania. Dieci amministratori locali in manette… Ma Voi continuate a votarli, mi raccomando…

Catanzaro, 170 arresti per ‘ndrangheta tra Italia e Germania. Dieci amministratori locali in manette

Le famiglie mafiose controllavano più o meno tutto: dalle aziende agricole agli appalti per la gestione dei boschi della Sila. Dai semilavorati per la pizza all’esportazione dei prodotti alimentari. Dal vino alla gestione dei migranti. E se la politica locale spesso subiva il controllo, altrettanto spesso era parte attiva dell’organizzazione.

Una decina amministratori locali tra sindaci, vicesindaci, assessori e presidenti dei consigli comunali di Cirò Marina, Strongoli, Mandatoriccio, Casabona e San Giovanni in Fiore. In manette anche il presidente della Provincia di Crotone Nicodemo Parrilla, eletto esattamente un anno fa con il 62,2% dei voti. Un’inchiesta mastodontica, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, è stata portata a termine stanotte dai carabinieri del Ros che hanno arrestato per mafia 170 persone in Calabria: 131 sono finite in carcere e 39 agli arresti domiciliari.

Numerosi sequestri, inoltre, sono stati eseguiti dai militari del Comando provinciale di Crotone e dal Noe di Catanzaro. L’ordinanza di custodia cautelare dell’operazione “Stige” è stata firmata dal gip di Catanzaro Giulio De Gregorio su richiesta del procuratore Nicola Gratteri, dell’aggiunto Vincenzo Luberto e dei sostituti Domenico Guarascio, Fabiana Rapino e Alessandro Prontera.

Associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione, favoreggiamento, turbativa d’asta e corruzione elettorale. C’è di tutto e di più nelle oltre 1300 pagine che riassumono il lavoro della Dda. Anni di indagini che hanno fatto luce sul controllo capillare del territorio, a cavallo tra le province di Crotone e Cosenza, da parte della cosca Farao-Marincola di Cirò Marina e del clan Giglio di Strongoli.

Il blitz è scattato stamattina all’alba in Calabria e in altre regioni d’Italia. Ma anche all’estero, in Germania dove la holding dei clan ha allungato i suoi tentacoli. Tredici gli arresti che gli uomini del Raggruppamento operativo speciale hanno eseguito nelle zone dell’Assia e di Stoccarda dove, grazie a una cellula distaccata delle famiglie calabresi, la cosca dei “cirotani” si è imposta nel settore della distribuzione dei prodotti vinicoli e di semilavorati perpizze.

Se la Germania è un territorio da colonizzare, il crotonese era casa loro. Soprattutto i Comuni di Cirò Marina, Cariati, Torretta di Crucoli, Strongoli e Casabona dove gli interessi della cosca vanno dal mercato ittico ai servizi portuali, dai servizi di lavanderia industriale a quelli della distribuzione di prodotti alimentari, dalla gestione dei servizi per l’accoglienza dei migranti allo smaltimento dei rifiuti, dalle agenzie di slot-machine a quelle per la distribuzione di bevande, dai servizi di onoranze funebri alla gestione dei lidi fino agli appalti per il taglio dei boschi della Sila.

Il pubblico come il privato doveva sottostare ai desiderata della ‘ndrangheta. Nelle carte della Procura, infatti, ha trovato spazio la storia di un’azienda agricola e di un frantoio che due imprenditori non sono riusciti a vendere perché il boss Salvatore Giglio ha allontanato l’ex deputato Franco Laratta e il sindaco di Petilia Policastro Amedeo Nicolazzi influenzando le trattative che questi avevano con i proprietari.

Se le estorsioni sono una costante, gli appalti arrivano dopo i voti. È tutto legato per la Dda di Catanzaro secondo cui, se alcuni politici locali sono concorrenti esterni della ‘ndrangheta, molti altri sono di fatto affiliati alla cosca Farao-Marincola. Non è un caso che, con l’operazione “Stige”, sia stata praticamente decimata l’amministrazione del Comune di Cirò Marina dove, assieme a boss e gregari, sono finiti dietro le sbarre anche il sindaco Nicodemo Parrilla che, proprio grazie “alle pressioni ‘ndranghetistiche esercitate sui consiglieri del Comune di Casabona” è stato eletto anche presidente della Provincia di Crotone.

Tramite Antonio Anania, ritenuto “tra gli esponenti più attivi della ‘ndrangheta cirotana”, per Parrilla i voti li avrebbe trovati Giuseppe Sestito, detto “Pino” uno dei plenipotenziari della cosca che, dal 2006 al 2016 ha sempre deciso chi doveva guidare il Comune.

I carabinieri hanno arrestato anche il vicesindaco Giuseppe Berardi, il presidente del Consiglio comunale Giancarlo Fuscaldo, l’ex sindaco Roberto Siciliani e il fratello Nevio che è stato anche lui ex assessore dello stesso Comune. Sono finiti in carcere pure il vicesindaco di Casabona Domenico Cerrelli, il sindaco di Mandatoriccio Angelo Donnici, il suo vice Filippo Mazza (che ha la delega ai lavori pubblici), l’ex vicesindaco di San Giovanni in Fiore Giovanbattista Benincasa e il sindaco di Strongoli Michele Laurenzano, del Pd. Quest’ultimo, secondo i pm della Dda di Catanzaro, forniva un “concreto, specifico, consapevole e volontario contributo ai componenti dell’associazione mafiosa”.

 

fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/01/09/catanzaro-170-arresti-per-ndrangheta-tra-italia-e-germania-dieci-amministratori-locali-in-manette/4081586/

 

Per non dimenticare – Il pentito di mafia Spatuzza: “Incontrai il boss Graviano, era felice come se avesse vinto al Superenalotto, mi fece il nome di Berlusconi. Aggiunse che in mezzo c’era anche il compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani”…!

 

Berlusconi

 

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Per non dimenticare – Il pentito di mafia Spatuzza: “Incontrai il boss Graviano, era felice come se avesse vinto al Superenalotto, mi fece il nome di Berlusconi. Aggiunse che in mezzo c’era anche il compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani”…!

 

Da Il Fatto Quotidiano del 09.06.2017:

Trattativa, Graviano intercettato in carcere: “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Stragi ’93? Non era la mafia”

La procura di Palermo migliaia di pagine di registrazioni captate nel carcere di Ascoli, durante l’ora di socialità del boss di Brancaccio, ora indagato per la Trattativa. Secondo gli inquirenti le parole del padrino rappresentano un elemento di prova nel procedimento attualmente in corso davanti alla corte d’assise di Palermo. Durante la sua ora di socialità, infatti, il boss parla delle stragi del 1993, del 41 bis, dei dialoghi con le istituzioni. Ma soprattutto parla dell’ex premier Il boss di Brancaccio sembra volere attribuire all’ex premier il ruolo di mandante delle stragi del 1993

Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza”. E poi: “Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa“. E ancora: “Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia”. La voce del boss Giuseppe Graviano irrompe nel processo sulla Trattativa tra pezzi delloStato e Cosa nostra. Ore e ore di intercettazioni in cui il padrino di Brancaccio parla della Trattativa per alleggerire le condizioni carcerarie dei detenuti mafiosi, tirando in ballo direttamente  Silvio Berlusconi, al quale sembra sembra voler attribuire il ruolo di mandante delle stragi del 1993.  “Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi, lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa”, dice intercettato nel carcere di Ascoli il 10 aprile del 2016, mentre parla col compagno di ora d’aria, Umberto Adinolfi, camorrista di San Marzano sul Sarno.

Anche Graviano indagato – Trentadue conversazioni, registrate durante le ore di socialità condivise dai due detenuti nel carcere marchigiano tra il marzo 2016  e l’aprile del 2017 che adesso sono finite agli atti del processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. A depositarle il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Nino Di MatteoRoberto Del Bene e Roberto Tartaglia, che hanno iscritto il nome del boss di Brancaccio nel registro degli indagati con le accuse di minaccia a corpo politico dello Stato in concorso con altri boss. È lo stesso reato contestato ai dieci imputati del processo sulla Trattativa. Secondo gli inquirenti le parole di Graviano rappresentano un elemento di prova nel procedimento attualmente in corso davanti alla corte d’assise di Palermo. Durante la sua ora di socialità, infatti, il boss di Brancaccio parla delle stragi del 1993, del 41 bis, dei dialoghi con le istituzioni. Ma soprattutto parla di una persona, parla di Silvio Berlusconi.

“La cortesia al Berlusca” – “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia: per questo c’è stata l’urgenza. Lui voleva scendere… però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe unabella cosa“, dice Graviano: per i pm allude all’intenzione di Berlusconi di entrare in politica già nel  1992. Una frase che sempre gli investigatori interpretano come la necessità di un gesto forte in grado di sovvertire l’ordine del Paese. Come una strage appunto. Impossibile infatti non ricollegare quella “cortesia” fatta con “urgenza” al “colpetto” che secondo il pentito Gaspare Spatuzza si doveva dare per ordine dello stesso Graviano. Il collaboratore ha raccontato di aver incontrato il suo capomafia a Roma il 21 gennaio 1994. “Incontrai Giuseppe Graviano all’interno del bar Doney in via Veneto, a Roma. Graviano era molto felice, come se avesse vinto al Superenalotto, una Lotteria. Poi mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia. Quindi mi spiega che grazie a queste persone di fiducia che avevano portato a buon fine questa situazione, che non erano come quei quattro crasti dei socialisti”.

Il colpetto in via Veneto – A quel punto arriva la richiesta: “Graviano mi dice che l’attentato ai carabinieri si deve fare lo stesso perché gli dobbiamo dare il colpo di grazia“. Il riferimento è all’attentato allo stadio Olimpico contro il pullman dei carabinieri che gestiscono il servizio d’ordine pubblico durante le partite di calcio. Sarebbe stata l’ennesima strage di quel biennio ma fortunatamente alla fine era saltata a causa di un guasto al telecomando collegato all’autobomba. È quella la “cortesia” che Graviano sostiene di avere fatto a Berlusconi? Impossibile dirlo. È un fatto però che nello stesso periodo in cui Graviano incontra Spatuzza a Roma, Marcello Dell’Utri si trova nella capitale a pochi metri dal bar Doney di via Veneto: il 22 gennaio 1994, infatti, era in programma una convention di Forza Italia all’hotel Majestic, sempre in via Veneto e secondo gli accertamenti della Dia l’arrivo di Dell’Utri in albergo è registrato il 18 gennaio. È possibile che Graviano abbia incontrato Dell’Utri negli stessi giorni in cui dava quegli ordini a Spatuzza?

“Silvio traditore: gli faccio fare una mala vecchiaia” – Di sicuro c’è solo che pochi giorni dopo – il 27 gennaio del 1994 –  il boss di Brancaccio viene arrestato a Milano. Intercettato in carcere Graviano oggi prova sentimenti di vendetta nei confronti dell’ex cavaliere.  “Berlusconi – dice – quando ha iniziato negli anni ’70 ha iniziato con i piedi giusti, mettiamoci la fortuna che si è ritrovato ad essere quello che è. Quando lui si è ritrovato un partito così nel ’94 si è ubriacato e ha detto: Non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato. Pigliò le distanze e ha fatto il traditore“. Un concetto – quello del tradimento – sul quale Graviano torna più volte. “Venticinque anni mi sono seduto con te, giusto? – dice in un altro passaggio delle intercettazioni – Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, per che cosa? Per i soldi, perché tu ti rimangono i soldi. Dice: non lo faccio uscire più, perché sa che io non parlo, perché sa il mio carattere. Perché tu lo sai che io mi sto facendo, mi sono fatto 24 anni, ho la famiglia distrutta e senza soldi: alle buttane  glieli dà i soldi ogni mese. Io ti ho aspettato fino adesso perché ho 54 anni, i giorni passano, gli anni passano, io sto invecchiando e tu mi stai facendo morire in galera“. Quindi il mafioso stragista continua:  “Al Signor Crasto (cornuto, ndr) gli faccio fare la mala vecchiaia. Pezzo di crasto che non sei altro, ma vagli a dire com’è che sei al governo, che hai fatto cose vergognose, ingiuste“.

“Stragi ’93 non erano mafiose” – Già le cose vergognose. Graviano parla anche di quelle. “Poi nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia. Allora il governo ha deciso di allentare il 41 bis, poi è la situazione che hanno levato pure i 450″, dice il boss intercettato. Per i pm è un passaggio che dimostra come tra gli oggetti della cosiddetta Trattativa ci fosse l’allentamento del carcere duro: in cambio Cosa nostra avrebbe fatto cessare le stragi. E a questo proposito il boss ricorda il suo soggiorno nel supercarcere di Pianosa. “Pure che stavi morendo dovevi uscire e c’era un cordone, tu dovevi passare nel mezzo e correre. Loro buttavano acqua e sapone”. Una condizione che in passato era stata alleggerita. “Andavano alleggerendo del tutto il 41 bis – dice il boss – Se non succedeva più niente, non ti toccavano, nel ’93 le cose migliorarono tutto di un colpo”.

“Non avrebbero resistito a colpo di Stato” – “Graviano commenta anche quanto accaduto la notte del 27 luglio 1993, cioè la notte degli attentati contemporanei al Padiglione di arte contemporanea di Milano e alle basiliche di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro, a Roma. Si temette un golpeanche perché i telefoni di Palazzo Chigi rimasero del tutto isolati per alcune ore. “Quella notte si sono spaventati, un colpo di Stato, il colpo di Stato e Ciampi è andato subito a Palazzo Chigi assieme ai suoi vertici, fanno il colpo di Stato. Loro, loro hanno voluto nemmeno la resistenza, non volevano nemmeno resistere. Avevano deciso già… In quel periodo il 41 bis è stato modificato e 300 di loro…”. Nel novembre del ’93, in effetti, l’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso decise di non prorogare il ‘carcere durò per oltre 300 detenuti, quelli indicati dal boss Graviano nella intercettazione con Adinolfi.

“Ho messo incinta mia moglie al 41 bis” – Ma in carcere il boss parla anche di altro. Si lascia andare a confidenze e persino a vanterie. Come quando sostiene di avere messo incinta la mogliedurante la detenzione al carcere duro. Alla donna sarebbe stato permesso di entrare nell’istituto di pena e stare col marito. È lo stesso Graviano a raccontarlo a un compagno di detenzione.”Dormivamo nella cella assieme“, dice Graviano.”Mio figlio è nato nel ’97 – racconta Graviano – ed io nel ’96 ero in mano loro, i Gom (gli agenti di polizia penitenziaria ndr)”.  “Ti debbo fare una confidenza – prosegue il boss – prima di nascere il bambino, prima di incontrarmi con mia moglie, siccome una cosa del genere mi era successa in altre occasioni pure, io ho detto: no ci devo provare. Io sapevo che doveva venire la situazione, io tremavo…nascosta poi ad un certo punto … nascosta ni robbi (nascosta nella biancheria ndr) e dormivamo nella cella assieme. Cose da pazzi, tremavo. Quando è uscita incinta mi è finito quel tremolizzo, l’ansia che avevo”. Ufficialmente per la verità il figlio di Graviano sarebbe nato in provetta. Nel 1996 Giuseppe e Filippo Graviano  – detenuti al 41 bis già dal 1994 – sarebbero riusciti a fare uscire dal carcere le provette con il proprio liquido seminale, senza alcuna autorizzazione. Le loro mogli, Rosalia e Francesca, partorirono due bambini nati a distanza di un mese l’uno dall’altro. Una versione – quello del figlio in provetta – che viene adesso messa in dubbio da Graviano.

Graviano ai pm: “Non rispondo però vi verrò a cercare”- Il 28 marzo scorso, i pm della procura di Palermo sono andati a interrogare Graviano in carcere per contestargli le parole intercettate durante le due ore di socialità. “Quando sarò in condizioni sarò io stesso a cercarci e a chiarire alcune cose che mi avete detto”, ha detto il boss che si è avvalso della facoltà di non rispondere a causa delle sue “condizioni di salute che oggi non mi consentono di potere sostenere un interrogatorio così importante ed anche a causa del mio stato psicologico derivante dalle condizioni carcerarie che mi trovo costretto a vivere”. “Io – ha detto Gravian o ai pm – sono distrutto psicologicamente e fisicamente con tutte le malattie che ho, perché da 24 anni subisco vessazioni denunciate alle procure e le procure niente. Da quando mi è arrivato questo avviso di garanzia, entrano in stanza, mi mettono tutto sottosopra. I documenti processuali sono strappati. Mi hanno fatto la risonanza magnetica perché mentre cammino perdo l’equilibrio e hanno trovato una patologia che mi porterà a perdere la memoria, sarà tra cinque o dieci anni. Io assumo ogni giorno cinque capsule di antidepressivi, solo di antidepressivi e subisco vessazioni dalla mattina alla sera. Entrano in stanza e mi fanno tre perquisizioni a settimana”.

Ghedini: “Parole destituite di fondamento” – Alle intercettazioni di Graviano replica l’avvocato Niccolò Ghedini, legale dell’ex cavaliere. “Dalle intercettazioni ambientali di Giuseppe Graviano –  dice l’avvocato –  depositate dalla Procura di Palermo, composte da migliaia di pagine, corrispondenti a centinaia di ore di captazioni, vengono enucleate poche parole decontestualizzate che si riferirebbero asseritamente a Berlusconi. Tale interpretazione è destituita di ogni fondamento non avendo mai avuto alcun contatto il Presidente Berlusconi né diretto né indiretto con il signor Graviano”.

fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/06/09/trattativa-graviano-intercettato-in-carcere-berlusca-mi-ha-chiesto-questa-cortesia-stragi-93-non-era-la-mafia/3647555/

Berlusconi contro i Cinquestelle: “Noi abbiamo un passato di cui essere fieri” – Sì, è vero, e si chiama MAFIA…!

 

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Berlusconi contro i Cinquestelle: “Noi abbiamo un passato di cui essere fieri” – Sì, è vero, e si chiama MAFIA…!

Noi abbiamo un passato di cui essere fieri, a differenza di questi nostri avversari a Cinque Stelle, che un passato non ce l’hanno neppure.

Così ha twittato Silvio Berlusconi…

E pensate che ci sono deficienti che lo prendono sul serio…

E allora, lasciando perdere per il momento P2, evasione fiscale, corruzione, condanne e prostituzione, vorremmo ricordare soli un “dettaglio” del passato di cui il nostra Silvio va tanto fiero: si chiama MAFIA.

Giusto come pro-memoria Vi riportiamo di seguito un breve passo delle motivazioni della sentenza di condanna di Dell’Utri.

Leggete e rabbrividite:

Tra il 16 ed il 19 maggio 1974 si svolgeva a Milano un incontro cui prendevano parte Marcello Dell’Utri, Silvio Berlusconi, Gaetano Cinà (legato alla “famiglia” mafiosa Malaspina) Stefano Bontade (capo della “famiglia” mafiosa S. Maria del Gesù ed esponente, fino a poco prima, insieme con Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio, del “triunvirato” massimo organo di vertice di “cosa nostra”), Mimmo Teresi (sottocapo della “famiglia” mafiosa S. Maria del Gesù), Francesco Di Carlo (“uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa Altofonte, di cui, all’epoca, era consigliere e di cui, in seguito, sarebbe diventato capo).

In tale occasione veniva raggiunto l’accordo di reciproco interesse, in precedenza ricordato, tra “cosa nostra” rappresentato dai boss mafiosi Bondante e Telesi, e l’imprenditore Berlusconi, accordo realizzato grazie alla mediazione di Dell’Utri che aveva coinvolto l’amico Gaetano Cinà, il quale, in virtù dei saldi collegamenti con i vertici della consorteria mafiosa, aveva garantito la realizzazione di tale incontro.

L’assunzione di Mario Mangano (all’epoca dei fatti affiliato alla “famiglia” mafiosa di Porta Nuova, formalmente aggregata al mandamento di S. Maria del Gesù, comandato da Stefabo Bondante) ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974 costituiva l’espressione dell’accorso concluso, grazie alla mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di cosa nostra e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa di quest’ultimo.

In cambio della protezione assicurata Silvio Berlusconi aveva cominciato a corrispondere, a partire dal 1974, agli esponenti di “cosa nostra” palermitana, per il tramite di Dell’Utri, cospicue somme di denaro che venivano materialmente riscosse da Gaetano Cinà.

QUI la sentenza completa

Il passaggio che Vi abbiamo riportato è a pagina 48.

By Eles

 

Dell’Utri, il vescovo Mogavero: “Se sta male disumano negargli il calore di una famiglia” – Ok, ora qualcuno chieda al monsignore perchè non ha parlato quando, solo quest’anno, ne sono morti 112 in carcere. Forse se uno non ha soldi e non è colluso con la mafia non è umano, ma una bestia?

 

Dell'Utri

 

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Dell’Utri, il vescovo Mogavero: “Se sta male disumano negargli il calore di una famiglia” – Ok, ora qualcuno chieda al monsignore perchè non ha parlato quando, solo quest’anno, ne sono morti 112 in carcere. Forse se uno non ha soldi e non è colluso con la mafia non è umano, ma una bestia?

 

Da Repubblica.it:

Dell’Utri, il vescovo Mogavero: “Disumano negargli il calore di una famiglia.

Il delegato Cei per il dialogo interreligioso: “Nessuno ci ha guadagnato a far morire Riina in carcere. La clemenza è sempre un atto di umanità”. 

“La grazia per Marcello Dell’Utri la si può certamente chiedere per le sue condizioni di salute, poi tocca però al Presidente della Repubblica concederla o meno. Ma negargli il calore di una famiglia, pur con tutte le garanzie di legge, nelle sue condizioni di salute, a me sembra davvero disumano”. Lo ha detto monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo e vescovo delegato per il dialogo interreligioso della Conferenza episcopale siciliana, parlando delle condizioni di salute dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, al quale il Tribunale di sorveglianza ha negato la sospensione di pena per potersi curare. “Se devo dirla tutta – aggiunge il prelato – io avrei voluto che anche Totò Riina potesse morire tra i suoi cari in casa, perché nessuno ci ha guadagnato nulla a farlo morire detenuto: Secondo me ci abbiamo perso in umanità. Perché la clemenza è sempre un atto di umanità e l’umanità è sempre superiore a qualsiasi ricerca di vendetta, comunque la si rivesta: di legalità o intransigenza”. Di avviso opposto l’arcivescovo emerito di Palermo, il cardinale Salvatore Romeo:  “Chi sono io per sostituirmi a un giudice? Le leggi si rispettano e si applicano, anche quando non ci piacciono. Credo che le procedure e le decisioni dei giudici del Tribunale di sorveglianza siano state adeguatamente documentate”.

Il dibattito è nato dopo la decisione del Tribunale di sorveglianza che ha negato la scarcerazione all’ex senatore: Dell’Utri ha annunciato, tramite i suoi legali, lo sciopero della fame e delle cure. “Preso atto della decisione del Tribunale che decide di lasciarmi morire in carcere – ha detto – ho deciso di farlo di mia volontà adottando da oggi lo sciopero della terapia e del vitto”. Ieri Forza Italia ha chiesto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella di concedere la grazia all’ex senatore.

Adesso, per monsignor Mogavero, “il giudice non ha una possibilità di eludere la norma che per lui è vincolante ma ci sono margini discrezionali anche nell’applicazione della norma. Le norme non sono una ghigliottina che taglia e basta, ma i giudici hanno sempre una forma interpretativa che permette di giostrare il rigore della norma con qualche ‘escamotage’, chiamiamolo così. Spetta all’intelligenza del giudice trovare il modo per applicarla senza evidenziarne l’aspetto del rigore estremo. Chi conosce la legge, sa bene che la legge stessa lo consente”. E ricorda: “Io sono stato nel Tribunale ecclesiastico – dice – E so che il rigore della dottrina a volte può esser coniugato con una interpretazione che guardi più al bene della persona, anziché all’affermazione teorica del primato della legge”.

Monsignor Mogavero, poi, rilancia: “Il carcere non è una vendetta. Se perdiamo di vista che il carcere serve non a vendicare la pubblica opinione per un fatto grave che l’ha colpita, ma serve per mettere in condizione, chi ha violato le leggi, di capire il male che ha fatto, e incamminarsi per un percorso di riabilitazione, se perdiamo di vista questo, allora le carceri ci sono e devono essere dure per tutti. E non devono aprirsi se non a conclusione della pena con il massimo del rigore. Se, invece, ci rendiamo conto che il carcere è un luogo di pena ma è anche un luogo dove ci sono delle persone e non dei mostri, o delle belve, perché nessuno è belva, neppure chi si è macchiato del delitto più grave”. Il vescovo ha un’opinione netta:  “Io, come uomo, dico che il carcere è un luogo terribile. Non so se tra quelli che hanno atteggiamenti oltranzisti siano mai entrati in un carcere. Io rimango molto colpito, ad esempio, dal rumore terribile delle chiavi che girano. E poi – aggiunge – i volti dei detenuti sono i volti delle persone che incontriamo tutti i giorni. E quando li vedo partecipare a messa o quando li sento parlare alla fine della messa, mi rendo conto che è una umanità ferita che ha bisogno di amore e non di sferzate continue”.

 

fonte: http://palermo.repubblica.it/cronaca/2017/12/09/news/dell_utri_mogavero_apre_alla_grazia_disumano_negarli_il_calore_di_una_famiglia_-183569745/