Il 29 aprile di 103 anni fa nacque Enrico Mattei – Cari italiani non dimenticate mai l’Uomo che visse lottando per la libertà e per questo motivo fu assassinato!

Enrico Mattei

 

 

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Quando Enrico Mattei e l’Italia facevano paura al mondo

Il 29 aprile di 103 anni fa nacque Enrico Mattei – Cari italiani non dimenticate mai l’Uomo che visse lottando per la libertà e per questo motivo fu assassinato!

Enrico Mattei, un Uomo che visse lottando per la libertà, per il benessere di tutti, contro ogni forma di sfruttamento, di sottomissione. Un visionario nella posizione di poter risolvere la gran parte dei problemi del mondo semplicemente proponendo un modello diverso di gestire il petrolio.

Un Uomo che voleva un capitalismo diverso, etico, funzionale per tutti, anche per i più deboli.  Un uomo che voleva trattare con i paesi arabi in modo pacifico, alla pari. Che voleva creare la possibilità di rendere liberi ed indipendenti i paesi del terzo mondo. Un uomo che aveva la visione di un mondo dove le risorse energetiche sono di tutti, non di poche ricche società.

Ed il 27 Ottobre del 1962 fu assassinato. Fu assassinata l’Italia, fu assassinata la libertà.

La sua storia

Enrico Mattei nasce il 29 aprile del 1906 ad Acqualagna, nelle Marche Primo di cinque fratelli. La famiglia è modesta, il padre brigadiere dei carabinieri.

Finite le scuole elementari, Enrico frequenta la scuola tecnica inferiore. Diplomato, è assunto in una fabbrica di letti di Scuriatti come verniciatore. Nel 1923 entra come garzone alla Conceria Fiore. La carriera di Mattei nell’Azienda è rapida: prima operaio, poi, a soli vent’anni, direttore del laboratorio e infine collaboratore principale del padrone della Conceria.

 Nel 1929, per la crisi economica, la Conceria chiude. Si trasferisce a Milano dove continua la sua attività industriale; nel 1934 fonda l’industria Chimica Lombarda. Lo sviluppo dell’impresa assume un ritmo veloce, cresce rapidamente anche il fabbisogno di materie prime. Mattei tenta di trovare una propria fonte attraverso l’integrazione verticale dell’impresa, ma il progetto viene insabbiato per l’opposizione del regime e degli altri operatori italiani del settore.

Mattei si diploma ragioniere e si iscrive all’Università Cattolica. Nel maggio 1943  entra in contatto con i circoli antifascisti milanesi. Viene creato, nel 1944, un Comando militare Alta Italia del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) di cui Enrico Mattei fa parte per la Dc.

Terminata la guerra , Enrico Mattei venne incaricato di liquidare le attività dell’Agip ma Mattei sceglie di disattendere questa indicazione; nel 1953 fonda l’Eni.

Con la stessa intraprendenza e tenacia che lo aveva caratterizzato tutta la vita, Mattei riesce ad affermare il ruolo strategico dell’energia nello sviluppo economico italiano e a ispirare fiducia nel possibile miracolo dell’indipendenza energetica.
E’ abile nel costituire una rete di collaboratori capaci di muoversi sulla scena internazionale e questo diverrà uno dei punti di forza che la società, oltre gli interessi specifici, saprà offrire all’azione diplomatica dell’Italia. E’ tra i primi a coltivare lo spirito di frontiera e il rispetto delle culture diverse.
Nel film “Il caso Mattei” il protagonista dice a un giornalista: “Il petrolio fa cadere i governi, fa scoppiare le rivoluzioni, i colpi di stato, condiziona l’equilibrio nel mondo…se l’Italia ha perso l’autobus del petrolio è perché gli industriali italiani, questi grandi industriali, non se ne sono mai occupati…non volevano disturbare la digestione dei potenti… Il destino di milioni e milioni di uomini nel mondo in questo momento dipende da 4 o 5 miliardari americani… La mia ambizione è battermi contro questo monopolio assurdo. E se non ci riuscirò io, ci riusciranno quei popoli che il petrolio ce l’hanno sotto i piedi“.

Il 27 ottobre 1962 il “Morane Saulnier 760” di Mattei proveniente da Catania e diretto a Linate precipita a Bascapè (Pavia). Ad oggi sono ancora discordi le opinioni sulla natura dell’incidente mortale occorso a Mattei, da varie ipotesi confermate da testimonianze di mafiosi pentiti negli anni ’90, sembrerebbe che fosse stata piazzata una bomba sull’aereo e che si fosse trattato quindi di un sabotaggio. Totale incertezza si ha sui possibili mandanti, si va da ipotesi che vanno dalla CIA, alle “Sette Sorelle” (le sette grandi multinazionali del petrolio nate per lo più alla fine dell’Ottocento ad opera di alcuni famosi petrolieri), a interessi politici italiani rivali di Mattei.

 

Quando Enrico Mattei e l’Italia facevano paura al mondo – In ricordo di un Grande Italiano!

 

Enrico Mattei

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Quando Enrico Mattei e l’Italia facevano paura al mondo – In ricordo di un Grande Italiano!

 

QUANDO ENRICO MATTEI E L’ITALIA FACEVANO PAURA AL MONDO

Alle 18,40 del 27 ottobre 1962, in Lombardia, il sole è appena tramontato e c’è una pioggia leggera. Il bireattore Morane-Saulnier 760, con due passeggeri a bordo, è pilotato da Irnerio Bertuzzi, ex capitano dell’Aeronautica con due medaglie d’argento, una di bronzo e una croce al merito. È un pilota oltre l’eccezionale. Bertuzzi, da un’altitudine di 2000 metri, comunica alla torre di controllo di Linate di essere in dirittura d’arrivo: è l’ultima volta che sentono la sua voce.

Bescapè è un paesino di contadini, in provincia di Pavia. Pompieri, Carabinieri e giornalisti accorrono per quello che sembra un incendio, ma sono i resti brucianti del bireattore. I testimoni vengono intervistati; Mario Ronchi, un contadino, dice: “Il cielo rosso bruciava come un grande falò, e le fiammelle scendevano tutt’attorno… l’aeroplano si era incendiato e i pezzi stavano cadendo sui prati, sotto l’acqua”. Un’altra contadina di Bascapè, Margherita Maroni, dichiara: “Nel cielo una vampata, uno scoppio, e delle scintille venivano giù che sembravano stelle filanti, piccole comete”. Sugli alberi attorno al relitto vengono trovati resti umani. Appena si viene a sapere chi c’era a bordo dell’aereo, però, cambia tutto: i testimoni ritrattano, sostengono di aver visto le fiamme a terra, e di averlo detto fin dall’inizio. I Carabinieri vanno nella sede della RAI per sequestrare i filmati delle interviste, ma li trovano privi di traccia audio. L’inchiesta si apre e chiude molto velocemente: si è trattato di un incidente aereo.

Ma chi c’era a bordo del Morane-Saulner?

Enrico Mattei nasce nel 1906 ad Acqualagna, nelle Marche, uno di quei paesi graziosi, in mezzo al nulla. Primo di cinque fratelli in una famiglia modesta – suo padre è un brigadiere dell’Arma e sua madre una casalinga – è uno studente brillante, ma che non si applica, come tutti i ragazzi che non sanno ancora con certezza cosa vorrebbero fare nella vita. Un giorno, in una casa di campagna, Mattei assiste a questa scena: due cani enormi si avventano su una ciotola di cibo. Un gattino spelacchiato e malconcio si avvicina alla ciotola nel tentativo di mangiare qualcosa, ma uno dei cani gli tira una zampata talmente forte da farlo volare contro il muro e spaccargli la spina dorsale.

Enrico Mattei ha appena compiuto tredici anni quando capisce cosa vuole fare nella vita.

Si trasferisce a Matelica, un altro piccolo paese in cui vengono lavorati pelle, pietra, ferro; entra come fattorino in una conceria, a diciassette anni diventa operaio, a diciannove è già vicedirettore, a venti direttore. Nel 1928, complici le politiche economiche del fascismo, la conceria fallisce. Così Mattei si trasferisce a Milano e si reinventa come venditore di vernici: in tre mesi diventa rappresentante per un’azienda tedesca. Studia chimica e viaggia molto per l’Italia. Nel 1931 apre una propria azienda con appena due operai, che in tre anni diventano venti.

Grazie all’aiuto e alle lezioni private del vicino di casa, Marcello Boldrini, riesce a laurearsi in ragioneria. Nel 1936 sposa una ballerina; poi, nel 1944, in pieno ventennio fascista, gli viene chiesto di entrare nella Resistenza per occupare nel comando militare del CLN il posto di rappresentante per la Democrazia Cristiana. Mattei accetta: affida l’azienda a due dei suoi fratelli e si mette all’opera. Cura i collegamenti interni, trova soldi, risorse e armi. Sotto di lui le forze partigiane democristiane passano da 2mila uomini a 65mila unità. I fascisti lo arrestano, ma lui riesce a evadere e a guerra finita gli viene concesso l’onore di marciare in prima fila nel corteo per la Liberazione di Milano. La Resistenza gli conferisce la medaglia d’oro e il generale USA Mark Wayne la stella di bronzo.

È ora di ricostruire l’Italia. Mattei torna a vestire i panni del civile e viene nominato commissario speciale all’Agip, una piccola azienda fondata durante il ventennio che si occupasse di “cercare, acquistare, trattare e commerciare petrolio”. L’Agip è sempre stata sfortunata: aveva scavato oltre 350 pozzi tra Italia, Albania, Ungheria e Romania senza trovarne una goccia. Aveva avuto delle microscopiche concessioni in Iran, ma le aveva cedute. Nei corridoi si mormora che Agip sia l’acronimo di Associazione Gerarchi In Pensione. Mattei dovrebbe semplicemente liquidarla, ma, appena entrato, si pone una domanda che nessuno si è fatto prima: perché abbattere l’unica azienda petrolifera statale? Chi lo vuole?

Be’, molta gente. Innanzitutto gli americani, perché ci hanno appena liberato e puntano a espandere il loro dominio petrolifero. Lo vogliono anche le aziende private Edison e Montecatini, per evitare la concorrenza statale. In questo clima di guerriglia, Mattei contatta il suo predecessore, allontanato per motivi non chiari. Si chiama Zanmatti. Lui gli rivela che con le ultime trivellazioni del 1944 era stato trovato del metano a Caviaga, in provincia di Lodi, ma il fascicolo era stato subito chiuso e secretato: il fronte avanzava e non ci si poteva permettere che il gas finisse in mani sbagliate. Mattei vola a Caviaga, dove trova ancora attrezzature, macchinari e i vecchi operai disoccupati. Perché, finita la guerra, non è ripartito niente?

Dal nulla riceve la telefonata di Giorgio Valerio, presidente di Edison, che si offre di comprare tutte le attrezzature dell’Agip per 60 milioni di lire. È un’offerta esorbitante: perché qualcuno dovrebbe acquistare dei rottami a peso d’oro? Mattei rifiuta. Riassume Zanmatti e tutti i vecchi tecnici, chiede un prestito in banca, unifica Agip Roma e Agip Milano. Il 17 ottobre 1945 diventa vicepresidente dell’azienda e riapre gli impianti di Caviaga. Nel marzo 1946, dal pozzo numero 2 esce metano.

Ora bisogna solo portarlo nelle case degli italiani.

A livello di burocrazia sarebbe un inferno, ma Enrico ragiona da cattolico e agisce da partigiano: scava viadotti durante la notte, posa i tubi, e la mattina dopo li ricopre, chiedendo scusa. Quando arrivano avvocati, multe e processi, li paga – se avesse fatto tutto legalmente avrebbe dovuto pagare il doppio e perdere il quadruplo del tempo, forse senza ottenere nulla. Ora Enrico non è più solo un imprenditore, di fatto è diventato un condottiero. Se trovasse il petrolio renderebbe l’Italia autosufficiente dal punto di vista energetico; indipendenza energetica significherebbe indipendenza economica, che significherebbe a sua volta indipendenza politica. Mattei ha la visione di un’Italia che rialza la testa dopo la guerra e che va avanti sulle proprie gambe, senza dover rendere conto a nessuno.

Questo mette in grave difficoltà il piano di colonizzazione che altre potenze avevano messo in atto fin dal 1928 con l’accordo della linea rossa e gli accordi di Achnacarry. Sette aziende avevano stabilito quali sarebbero state le zone d’estrazione e i prezzi di vendita del greggio: di fatto si trattava di un cartello, che prevedeva di spartirsi il 75% del petrolio estratto da Africa e Medioriente. C’erano dentro le statunitensi Esso, Mobil, Texaco, Chevron e Gulf oil, la Shell dall’Olanda, e la British Petroleum. Mattei le chiamava le “sette sorelle”. Sorellastre: oltre a imporre clausole contrattuali vergognose, trattavano gli operai locali alla stregua di schiavi e si imponevano ai governi, considerandoli miserabili. Avevano già deciso di fare dell’Italia un cliente: tra loro e i portafogli nazionali c’era solo Mattei.

Iniziano così a fargli la guerra. Grazie agli agganci con la politica italiana, il 9 maggio 1947 riescono a infilare nel cda Eugenio Cefis, il suo uomo di fiducia Raffaele Girotti e un avvocato siciliano, Vito Guarrasi, detto “Don Vito”. Personaggio spaventosamente controverso, cugino di Enrico Cuccia, Guarrasi, ha mani dappertutto – sul lotto di una banca, sul quotidiano comunista L’Ora (dove lavora il giornalista Mauro De Mauro) – ed è socio della Ra.Spe.Me, che opera nel settore medico. Il suo socio è Alfredo Dell’Utri, padre di Marcello. I nuovi membri rimuovono Mattei dalla carica di vicepresidente, ma non riescono a estrometterlo. Ottengono l’accesso agli archivi segreti delle ricerche Agip e fanno chiudere Caviaga, mentre una raffineria di Marghera viene venduta alla British Petroleum. La Edison si prepara a trasformare l’Agip in una società divisa un terzo a lei, un terzo all’AGIP e un terzo alla società Metano, che poi è un nome fittizio per coprire una partecipata Edison. Mattei ha bisogno di più forza per difendersi, così nel 1948 entra in politica. Tramite agganci e conoscenze arriva fino a De Gasperi in persona. Quando la Democrazia Cristiana vince le elezioni, De Gasperi spazza via il CDA dell’AGIP e nomina presidente Marcello Boldrini. Lui mette vicepresidente Mattei, che sceglie i suoi uomini tra vecchi commilitoni e compaesani. Gli USA contrattaccano e stanno per far approvare una legge mineraria capestro, quando succede qualcosa che nessuno avrebbe potuto prevedere: a Cortemaggiore l’Agip trova il petrolio.

È una sacca da pochissimi ettolitri, ma a Mattei basta. Contatta la stampa e i fotografi. Da bravo venditore ingigantisce talmente tanto la questione che le azioni salgono, la legge sullo sfruttamento minerario cade e, anzi, il Parlamento decide di riservare allo Stato le ricerche nel sottosuolo della Val Padana. Mattei estrae metano a Cornegliano, Pontenure, Bordolano, Correggio e Ravella. Indice un concorso per il logo e sceglie il cane a sei zampe che sputa fuoco. Lo slogan “il miglior amico dell’italiano a quattro ruote” è di Ettore Scola. Inventa le stazioni di servizio coi gabinetti, la pulitura vetri gratis, il controllo di olio e pneumatici; dove non arrivano i metanodotti, porta il gas con le bombole; vende l’idrogeno derivato dal metano alle aziende di fertilizzanti, facendone crollare i prezzi del 70% e permettendo a chiunque di coltivare campi. Abbassa anche il prezzo della benzina, mettendo in crisi la Edison e la Montecatini. Nel 1952 fonda l’Eni (con vicepresidente sempre Boldrini) e trasforma la vita degli italiani.

Quando il petrolio di Cortemaggiore sta per finire, Mattei si rende conto che è ora di cercarlo all’estero. Nel dicembre del 1959 incontra a Montecarlo un rappresentante della Shell: gli propone di aprire insieme una raffineria in Tunisia, ma il rappresentate rifiuta: “Tratto coi petrolieri, non coi venditori”. È guerra aperta. Mattei finanzia Il Giorno, un quotidiano da cui diffonde le idee per una politica estera che si distingua da quella colonialista degli altri Paesi.

È una filosofia che prende il nome di “Neoatlantismo” e che alle sette sorelle non piace – perché ci vuol poco a capire che vincerà. Mattei offre ai Paesi produttori di diventare suoi partner e si impegna a estrarre solo il 50% del greggio. Non guarda il terzo mondo dall’alto in basso, ma come se si trattassero di pari – anche lui, una volta, era povero e ignorante. Offre tecnologia, borse di studio, addirittura scuole di formazione a Metanopoli, la città che ha fatto edificare in Val Padana. E non truffa mai, perché Mattei è un venditore e sa che gli accordi capestro all’inizio fruttano, ma poi non fanno che crearti nemici.


Visita del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi a Metanopoli

Nel 1957 ottiene l’autorizzazione a cercare petrolio in tre zone dell’Iran. Il dipartimento di Stato americano scrive che “Gli obiettivi di Mattei in Italia e all’estero dovrebbero destare preoccupazioni. Mattei rappresenta una minaccia per gli obiettivi della politica che gli Stati Uniti intendono perseguire in Italia”. L’anno successivo Mattei arriva anche in Giordania. Il 9 settembre 1960 nasce l’Organisation of Petroleum Exporting Countries, detta OPEC. Ne fanno parte Venezuela, Iraq, Iran, Kuwait, Arabia. Il suo sogno è un’unificazione mondiale del patrimonio energetico: ricreare un cartello, ma in maniera equa ed etica. Il mondo sta abbracciando la sua visione.

A Metanopoli ormai ci sono studenti provenienti da tutto il mondo. Nello stesso anno Mattei osa ciò che nemmeno le sette sorelle potevano prevedere: chiude un accordo con l’URSS per ottenere “quantitativo molto considerevole di petrolio”, grazie al quale copre il 25% del fabbisogno dell’Eni e a un prezzo mai visto prima. È il colpo definitivo al cartello delle sette sorelle. Il 12 novembre, sul New York Times, un articolo accusa lui di essere filosovietico e l’Italia “di non rispettare i patti del dopoguerra”, oltre ad aver compromesso “futuri equilibri politici”.

Nel 1962 Mattei muore, a bordo del suo aereo. L’inchiesta si chiude “nell’impossibilità di accertare le cause dell’incidente”. Ma non è un incidente. Qualcuno ha messo 100 grammi di esplosivo Compound-B nel cruscotto, perché detonasse all’attivazione del carrello: chi? Il regista Francesco Rosi decide di girare un film sulla vicenda e si avvale dell’aiuto del giornalista de L’Ora, Mauro De Mauro. Dopo alcune indagini, il reporter confessa a un collega di avere in mano “una roba grossa che farà tremare l’Italia”. Ed è per questo che viene neutralizzato. Non viene ucciso per strada com’è tipico degli omicidi mafiosi: viene sequestrato senza rivendicazioni, né richieste di riscatto. Anche le indagini sulla sparizione di De Mauro subiscono depistaggi. Nel 1973 esce un libro chiamato Questo è Cefis – L’altra faccia dell’onorato presidente. Lo pubblica la AMI di Graziano Verzotto, uomo di Enrico Mattei e informatore di Mauro De Mauro. Il libro è scritto da un misterioso Giorgio Steimetz, sul cui vero nome ancora oggi si nutrono dubbi. Il libro subisce l’opera di censura più potente che si sia vista in epoca moderna. Viene ritirato da tutte le librerie, persino dalla Biblioteca nazionale di Roma e da quella di Firenze – che per legge dovrebbero ricevere una copia di ogni libro stampato in Italia. Dentro pare ci sia una biografia non autorizzata del presidente, che dopo la morte di Mattei è passato alla Montedison – frutto della fusione di Edison e Montecatini. Ma qualcuno riesce a leggere il libro, ed è Pier Paolo Pasolini. Quando viene assassinato nel 1975 sta scrivendo Petrolio: il personaggio di Cefis avrebbe il nome di Troya. Purtroppo il libro è incompleto, si arresta al capitolo “Lampi sull’Eni” di cui esisteva solo una nota, chiamata “appunto 21”.


Scena dal film “Il Caso Mattei” di Francesco Rosi

Francesco Rosi Nel film “Il Caso Mattei”

Scena dal film “Il Caso Mattei”

Mattei e il suo Jet personale

Passano gli anni. Arriva la crisi energetica del 1973, poi quella del 1979. Le sette sorelle vacillano, mentre l’Occidente scopre che affidare il proprio fabbisogno energetico a una risorsa presente nei luoghi più instabili del pianeta non è una buona idea. Negli anni ’90, il pentito Gaetano Iannì, ex capomafia, rivela che il misterioso sabotatore dell’aereo di Mattei sarebbe Peppe Di Cristina, all’epoca criminale potentissimo, dietro incarico di Cosa Nostra. Anche il boss Tommaso Buscetta conferma e ricostruisce le ultime ore di Mattei in maniera ben dettagliata e credibile. Stando alla sua versione, la richiesta sarebbe provenuta dalle famiglie mafiose di Philadelfia, con cui Cosa Nostra voleva stringere di nuovo i rapporti. Nel 1995 il sostituto procuratore Vincenzo Calia apre nuove indagini sul delitto Mattei, dopo aver scoperto che le prime erano state fatte a dir poco male. Trova nella sede dei servizi segreti due note, scritte a mano: dicono che il fondatore della P2 è stato un certo Eugenio Cefis, il quale avrebbe poi passato il comando a Licio Gelli quando le cose già stavano andando male. Di recente il senatore Marcello Dell’Utri è stato interrogato in merito al famigerato “appunto 21” del libro di Pasolini. Perché sembra sia uno dei pochi ad averlo letto.

Nel 1909, nel libro The meaning of truth, William James scrisse che il più grande nemico di qualsiasi nostra verità è il resto, della nostra verità. Probabilmente non sapremo mai cos’è successo davvero. Erano gli anni di piombo, in cui poteri immensi avevano scelto di combattersi sul nostro territorio. C’erano petrolieri, CIA, KGB, SISDE, SISMI, Gladio nera, Gladio rossa, israeliani, palestinesi, ex fascisti, ex partigiani, massoni, anarchici, politici comprati, preti. Districare quella matassa, o cercarvi una logica, è difficile. E spesso ha un risultato parziale. Mattei oggi è ricordato dall’Eni con affetto, rispetto e nostalgia. Quel gattino è diventato una tigre capace di cavarsela dove gli eredi delle sette sorelle annaspano. E tutto perché l’Eni ha messo in pratica quello che Mattei aveva insegnato: che i contratti capestro creano solo nemici.

O terroristi.

 

 

fonte: https://thevision.com/cultura/enrico-mattei-eni/

15 marzo 1972 – La strana morte di Giangiacomo Feltrinelli, l’editore che voleva strappare l’Italia al fascismo

 

Feltrinelli

 

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15 marzo 1972 – La strana morte di Giangiacomo Feltrinelli, l’editore che voleva strappare l’Italia al fascismo

La mattina del 15 marzo 1972, ai piedi di un traliccio dell’alta tensione alla periferia di Milano, il corpo carbonizzato di un uomo vestito da guerrighiero viene ritrovato da un passante. Nelle tasche ha i documenti di Vincenzo Maggioni, ma è Giangiacomo Feltrinelli, fondatore dell’omonima casa editrice milanese, uno degli uomini più influenti d’Italia. Per la magistratura è ‘incidente’, ma sul suo corpo ci sono apparenti segni di violenza. Chi voleva morto Feltrinelli?

Un rivoluzionario è caduto. Lo dipingono ora come un isolato, un avventuriero, come un deficiente o come un crudele terrorista. Noi sappiamo che dopo aver distrutto la vita del compagno Feltrinelli, ne vogliono infangare e seppellire la memoria – come si fa con i parti mostruosi. Si, perchè Feltrinelli ha tradito i padroni, ha tradito i riformisti. Per questo tradimento è per noi un compagno. Per questo tradimento i nostri militanti, i compagni delle organizzazioni rivoluzionarie, gli operai di avanguardia chinano le bandiere rosse segno di lutto per la sua morte… Il compagno Feltrinelli è morto. E gli sciacalli si sono scatenati. Chi lo vuole terrorista e chi vittima. Destra e sinistra fanno il loro mestiere di sempre. Noi sappiamo che questo compagno non è né una vittima, né un terrorista. È un rivoluzionario caduto in questa prima fase della guerra di liberazione dello sfruttamento […]

(Il ricordo sulle Pagine di Potere Operaio, 26 marzo 1972).

La mattina del 15 marzo 1972, ai piedi di un traliccio dell’alta tensione alla periferia di Milano, Luigi Stringhetti, sceso per portare al passaggio il cane Twist, trova il corpo carbonizzato di un uomo sulla 40ntina. Sul posto accorre un giovane commissario di polizia in carriera, Luigi Calabresi, salito agli onori delle cronache per le sue indagini sulla strage di Piazza Fontana. Sul corpo del malcapitato si trovano dei documenti intestati a Vincenzo Maggioni,  ma 24 ore dopo si scoprirà che il cadavere del traliccio appartiene invece a Giangiacomo Feltrinelli, Marchese di Gargnano, fondatore dell’omonima casa editrice milanese, intellettuale comunista.

Feltrinelli (rimasto) ucciso
È una morte assurda, intrisa di domande, inspiegabile. Secondo la prima ricostruzione, Feltrinelli, l’editore che aveva dato alle stampe Il dottor Živago e Il Gattopardo, sarebbe stato ucciso da un incidente occorso mentre maneggiava un ordigno che avrebbe dovuto, mettendo fuori uso il traliccio dell’ENEL, far saltare l’elettricità sabotando il congresso del PCI che avrebbe portato all’elezione di Luigi Berlinguer, come segretario. A riprova delle intenzioni dell’editore ex partigiano, nelle sue tasche vengono ritrovati tre mazzi di chiavi che aprono rispettivamente le porte di tre immobili di Milano, rispettivamente in via Boiardo, via Delfico e via Subiaco, altrettanti covi delle Brigate Rosse. Il particolare delle chiavi, assunto come elemento a favore della tesi dell’attentato finito male, di per sé non convince. Se c’era qualcosa che i brigatisti osservavano religiosamente, era l’estrema riservatezza delle sedi, soprattutto quelle di carcerazione, tanto che nessuno che non fosse direttamente responsabile di quella base doveva essere a conoscenza della sua posizione, nemmeno i capi, figurarsi affidare a un solo uomo le chiavi di tre basi. Eppure.

I dubbi
Difficile, poi, immaginare un uomo come Giangiacomo Feltrinelli, ex partigiano, comunista di stampo rivoluzionario che credeva nella guerriglia in stile ‘Che Guevara’ per gestire il conflitto con i neofascisti, si lanciasse in un’avventura di questo tipo, aderendo alle linee di quelle BR che non aveva mai appoggiato. Da non sottovalutare era poi l’estrema imprudenza di un simile comportamento, considerato che dal 1969 al marzo al 1972, ovvero fino al giorno della morte, Feltrinelli era riparato in Austria per sottrarsi al controllo serrato dei Servizi Segreti che lo controllavano da quasi 30 anni, da quando, cioè, aveva fondato i  i GAP, gruppi di azione partigiana, mentre da ben tre anni i funzionari dei Servizi entravano e uscivano dai suoi uffici.

Scalfari e il manifesto: “Omicidio”
Sin dai primi tempi dopo la morte dell’editore questi e altri dubbi vengono sollevati da nomi altisonanti della stampa come Eugenio Scalfari e Camilla Cederna che non ebbero timore a scrivere un manifesto in cui si diceva che Feltrinelli era stato ‘assassinato’. La tesi è questa: l’editore è stato aggredito e fatto esplodere. La domanda, a fronte di tanti legittimi dubbi, è: chi lo voleva morto? Feltrinelli era un editore coraggioso, pionieristico, ma soprattutto (politicamente) uomo scomodo, tanto che l’intelligence di diversi paesi, compreso Israele, che a Milano aveva una base operativa e che era ben presente nei gagli dell’eversione rossa e nera, lo tenevano d’occhio. Perfino la CIA aveva gli occhi dei suoi informatori sull’imprenditore milanese. Feltrinelli, tanto per cominciare, era inviso al Mossad, perché simpatizzante (per alcuni finanziatore) dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, che in Italia dopo il ‘Lodo Moro’, si muoveva liberamente. “A uccidermi sarà il Mossad”. Ovviamente, il caso è archiviato.

La pista
Nel 2012, quarant’anni dopo i fatti e dopo 20 della temutissima ascesa al potere della destra (liberale) che con Berlusconi governerà dal ’94 al 2011, prove emerse da altri processi riporteranno in auge la tesi dell’omicidio. Lo scrive il Corriere, citando una perizia ignorata dalla magistratura a firma dei medici legali Gilberto Marrubini e Antonio Fornari i quali rilevano che “alcune delle lesioni riscontrate sul cadavere di Giangiacomo Feltrinelli non possano e non devono essere ascritte ad esplosione”.  Si tratta di ferite “sfalsate nel tempo”, che i due riconducono, in maniera neanche troppo indiretta, all’ipotesi di un pestaggio.

“Eliminato perché sapeva di Gladio”
L’inchiesta, nonostante la rilettura di questi documenti, non viene riaperta e tutto resta esattamente com’era fino alla morte di Inge Feltrinelli, all’anagrafe, Inge Schönthal, la terza moglie dell’editore, che qualche mese prima di morire, nel 2018, dichiara: “La morte di mio marito fu un omicidio politico: Giangiacomo sapeva di Gladio. Era un uomo scomodo. Troppo scomodo, troppo libero, troppo ricco; troppo tutto. Era tenuto d’occhio da cinque servizi segreti, inclusi Mossad e Cia. E ovviamente quelli italiani. Forse sono stati loro. Lui sapeva di Gladio e dei loro depositi di esplosivi. Temeva un golpe di destra; e non era una paura immaginaria”.

L’epilogo
Nonostante gli allarmanti sospetti della donna che fu la sua ultima compagna, del caso Feltrinelli non si è più indagato. Eppure restano incise quasi a provocazione, queste sue parole sul senso politico che dava alla sua attività: “Io cerco di fare un’editoria che magari ha torto lì per lì, nella contingenza del momento storico, ma che, quasi per scommessa, io ritengo abbia ragione nel senso della storia”.

fonti:

http://pochestorie.corriere.it/2018/03/14/la-misteriosa-morte-di-giangiacomo-feltrinelli-editore-borghese-innamorato-della-revolucion/?refresh_ce-cp

https://www.fanpage.it/la-strana-morte-di-giangiacomo-feltrinelli-leditore-che-voleva-strappare-litalia-al-fascismo/

Uccide a calci e pugni la fidanzata e confessa. Il sorriso diabolico del femminicida

 

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Uccide a calci e pugni la fidanzata e confessa. Il sorriso diabolico del femminicida

Christian Ioppolo, 26 anni ha confessato di avere ucciso Alessandra Immacolata Musarra ed è stato trasferito nel carcere di Messina.

Dopo un lungo interrogatorio in Questura Christian Ioppolo, 26 anni, ha confessato di avere ucciso a calci e pugni la fidanzata, la 29enne Alessandra Immacolata Musarra, trovata morta vicino al letto nel suo appartamento in contrada da Campolino, in zona Santa Lucia Sopra Contesse, un rione in collina che si affaccia Messina.

Christian era geloso di un ex ragazzo della vittima e temeva che i due si fossero riavvicinati. Era diventato ossessivo e per questo lei aveva deciso di lasciarlo. Mercoledì sera l’ultima discussione. Nelle immagini il giovane lascia la questura di Messina per essere trasferito al carcere di Gazzi con l’accusa di omicidio.

Ha sul viso il sorriso beffardo e diabolico di chi poi non ha fatto chissà che di grave…

Che merda!

Tratto da: https://www.globalist.it/news/2019/03/08/uccide-a-calci-e-pugni-la-fidanzata-e-confessa-il-sorriso-diabolico-del-femminicida-2038421.html

I giornali titolano: Sorprese ladro e gli sparò, Salvini lo va a trovare in carcere: “Chiederò la grazia” – Ma la storia è diversa: il ladro era in fuga. Fu preso, fatto inginocchiare, picchiato e poi colpito con una fucilata al petto… Ma il nostro Ministro degli Interni sta dalla parte di questi delinquenti…!

 

Salvini

 

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I giornali titolano: Sorprese ladro e gli sparò, Salvini lo va a trovare in carcere: “Chiederò la grazia” – Ma la storia è diversa: il ladro era in fuga. Fu preso, fatto inginocchiare, picchiato e poi colpito con una fucilata al petto… Ma il nostro Ministro degli Interni sta dalla parte di questi delinquenti…!

Da Fanpage:

Sorprese ladro e gli sparò, Salvini lo va a trovare in carcere: “Chiederò la grazia”

L’imprenditore Angelo Peveri è stato condannato nei giorni scorsi in via definiva a quattro anni e mezzo di carcere per tentato omicidio dopo aver sparato ai ladri in fuga e averne ferito uno. Il Ministro dell’Interno è andato a trovarlo in carcere spiegando: “Non è giusto che sia in galera un imprenditore che si è difeso dopo 100 furti e rapine e invece sia a spasso un rapinatore in attesa di un risarcimento dei danni”

“Cercheremo di fare di tutto perché stia in galera il meno possibile, dal mio punto di vista non doveva nemmeno entrarci”, così il Ministro dell’intero Matteo Salvini si è espresso oggi uscendo dal carcere di Piacenza dove ha incontrato l’imprenditore Angelo Peveri, l’uomo condannato in via definiva a quattro anni e mezzo di carcere per aver sparato a un ladro entrato in un suo cantiere senza che sussistesse la legittima difesa, come stabilito anche dalla Cassazione. Fin da primo momento Salvini si era schierato a fianco dell’imprenditore telefonandogli personalmente ma con l’arresto definito dell’uomo ora ha voluto manifestargli la sua solidarietà andandolo a trovare in carcere dicendosi pronto anche a chiedere la grazia.

Ma le cose non sono andate proprio così…

“La legittima difesa in questa storia non c’entra nulla”. A dirlo sono stati il pubblico ministero Ornella Chicca, che otto anni fa coordinò le indagini del Nucleo operativo dei carabinieri di Piacenza, e il procuratore capo Salvatore Cappelleri. In un’intervista a firma di Paolo Marino apparsa sul quotidiano Libertà mercoledì 20 febbraio, il procuratore Cappelleri spiega che “la legittima difesa non è mai entrata nel processo”. Ossia gli avvocati di Peveri e Botezatu non hanno mai sostenuto questa tesi. Ovviamente, il caso, oggi spettacolarizzato, va ricondotto a estrema prudenza e riguardo. “Ora che è stata scritta la parola fine sulla vicenda, tutti dovrebbero accettare la ricostruzione dei fatti per quella che è – ha detto il procuratore – e penso che questo atteggiamento dovrebbe valere a maggior ragione per chi ricopre cariche istituzionali, da cui mi aspetterei parole di grande prudenza”.

Come andarono le cose quella notte di ottobre del 2011?

Un antifurto segnala un tentativo di manomissione a un escavatore della ditta Peveri lasciato sul greto del Tidone. Nel cantiere sul torrente, tre persone fuggono e Peveri esplode colpi di fucile a pompa verso i tre (lui sosterrà di aver sparato in aria, ndc) e una delle tre persone viene ferita al braccio. Dopo qualche tempo, Jucan Dorel, che si era allontanato senza un graffio, torna sul luogo del delitto per recuperare la sua auto. Lì viene riconosciuto da Botezatu che lo immobilizza e, dice il procuratore: “lo costringe a inginocchiarsi e lo immobilizza e a mettere le mani dietro la nuca”, quindi lo colpisce con un corpo contundente mai individuato. Peveri arriva subito dopo, e quando arriva il ladro è a terra, immobile. A quel punto viene afferrato per il collo e gli viene sbattuta la testa più volte sui sassi. La perizia balistica dirà che Peveri in quei frangenti ha esploso un colpo di fucile da una distanza di un metro e mezzo, due al massimo, che colpisce il ladro in pieno petto. LA perizia dirà che il colpo fu sparato “da una persona in piedi verso una persona supina”. Dorel da allora è invalido al 55% e ha avuto lesioni al polmone.

Questi, incensurato, patteggia una pena di 10 mesi per il tentato furto di gasolio. Nei giorni scorsi Dorel ha dichiarato che ai tempi era disoccupato. “Non sono come chi aggredisce le persone o ruba in casa”, ha detto l’uomo, 35enne all’epoca dei fatti, che oggi vive e lavora in provincia di Piacenza con la sua famiglia e si è trovato al centro della polemica per quel che successe sul greto del Tidone quella notte. Il “caso Peveri” è un caso di tentato omicidio che nulla c’azzecca con la legittima difesa. Ma sembra altro, a leggere i comunicati stampa dei partiti, i commenti sui social e ascoltando le prese di posizione dei sindaci che si sonos chierati con l’imprenditore e il suo dipendente.

Fonti:

https://www.fanpage.it/sorprese-ladro-e-gli-sparo-salvini-lo-va-a-trovare-in-carcere-chiedero-la-grazia/

https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2019/02/25/news/angelo_peveri_ladri_gasolio-220145446/?ref=fbpr&fbclid=IwAR2hfU4uXQXHGY89NDKv8xSZszXkehzatPrEt67hU561SjoEDN-pNixXxoU

https://www.articolo21.org/2019/02/caso-peveri-la-legittima-difesa-in-questa-storia-non-centra-nulla/

Assassinato 55 anni fa, il 21 febbraio del 1965 – Chi aveva paura di Malcolm X? …Tutti quelli che hanno paura della verità!

 

Malcolm X

 

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Assassinato 55 anni fa – Chi aveva paura di Malcolm X? …Tutti quelli che hanno paura della verità!

 

Malcolm X fu assassinato 55 anni fa.

Malcolm X sapeva che sarebbe stato ucciso. La sua fine gli era stata annunciata sia direttamente che indirettamente. Il 21 febbraio del 1965 mentre si accingeva a fare un discorso in una sala di Harlem, un commando di tre killer gli sparò contro una quarantina di pallottole. Quattordici lo colpirono. Una settimana prima gli avevano incendiato la casa sia a mo’ di avvertimento sia come preparazione dell’atmosfera dell’agguato mortale. La sala dove doveva parlare era sotto la sorveglianza di un folto gruppo di agenti di polizia che però, proprio nel momento della sparatoria, non si trovavano sul posto.

Chi aveva paura di Malcolm X? Si potrebbe dire, tutti quelli che hanno paura della verità. Malcolm X era stato capace di individuare e togliere il coperchio di menzogne cui era stato sottomesso il popolo dei negri che, da allora, si definiranno come afroamericani. Questo termine era ricavato dalla constatazione storica del sequestro di gruppi interi di africani per trasformarli in schiavi nel Nuovo Mondo. Dove non solo avrebbero dovuto lavorare per un padrone bianco ma avrebbero subito un vero e proprio annientamento della persona così da essere dequalificati da esseri umani a oggetto.

Distruzione della propria umanità mediante metodi di tortura e mortificazione avrebbero poi fatto scuola. Il nome stesso gli era negato. Gli schiavi avevano il nome del padrone. Per questo Malcolm X, che era venuto al mondo come Malcolm Little, cambiò il suo nome aggiungendogli una X, a significare l’incognita del proprio nome di origine. In seguito furono molti a cambiare il proprio nome allo stesso modo.

Malcolm X aveva scoperto i meccanismi mediante i quali “i diavoli bianchi” perpetuavano il proprio dominio nei confronti dei neri. La discriminazione nel campo economico sociale era alla base, ma anche la promozione a livello di borghesi per alcuni era possibile solo a costo della rinuncia della propria identità e dignità: processo di integrazione per quelli che Malcolm X definiva “zio Tom” o “negri da cortile”. Prevedendo anche che un giorno alcuni di questi avrebbero ricoperto posti di responsabilità nella amministrazione dello stato.

Malcolm X visse la sua adolescenza da emarginato, fu attivo in quasi tutti i commerci e le attività considerate illegali. Finché il cerchio si strinse e fu incarcerato. Nella prigione la sua vita si trasformò. Si dedicò allo studio, cercando di recuperare il tempo perso negli anni precedenti.

Nella prigione entrò in contatto con l’Islam. Divenuto predicatore per la Nazione dell’Islam, uscito dal carcere, cominciò a criticare e attaccare la religione dei bianchi, il cristianesimo, perché aveva coperto il regime di schiavitù. L’Islam prendeva così in lui la forma di una scelta di resistenza e attacco al potere razzista dei bianchi.

Tuttavia, a differenza della politica ufficiale della Nazione dell’Islam, Malcolm X non faceva nessuna concessione mentale nei confronti dei reali rapporti nella società. Egli riusciva a fare l’anatomia di questi rapporti facendo risaltare la condizione di schiavitù che la popolazione afroamericana aveva subito fino ad allora. Contundente era la sua analisi, il modo chiaro con cui esponeva la relazione schiavo-padrone e le conseguenze mentali che ciò provocava sulla popolazione: l’odio per la propria pelle, il proprio colore, il disprezzo per la propria gente. I suoi discorsi risvegliavano o facevano nascere sentimenti di orgoglio di razza, la coscienza della dignità oppressa.

Dopo il viaggio di pellegrinaggio alla Mecca, si stupì dell’esistenza di una popolazione bianca diversa da quella degli USA. Non solo, ma constatò il sentimento di fratellanza, di amorevolezza che esisteva tra le persone che incontrava. Questa nuova esperienza lo portò a considerare che la questione non era la lotta contro i bianchi in quanto razza, con lo scopo di ottenere alla fine un territorio autonomo dove la popolazione nera si sarebbe installata organizzando un proprio stato, indipendente dal potere dei bianchi, così come recitava il programma della Nazione dell’Islam.
In Malcolm X cominciò a maturare la conclusione che sarebbe stato necessario marciare insieme a quei bianchi che condividevano la critica e la volontà di lotta contro l’ordine costituito. Nel mentre, i capi della Nazione dell’Islam cominciavano a vedere l’agire di Malcolm X come una deviazione dall’obiettivo di arrivare a una collaborazione con la classe dirigente degli USA. Non solo il predicare di Malcolm X era considerato pericoloso ma la sua stessa persona costituiva per loro un pericolo, in quanto si era dimostrato come il più capace di unificare la popolazione nera e di guidarla. Così, dopo che la sua radiazione dalla Nazione dell’Islam si mostrò senza effetto, fu decisa la sua morte. Ma la lotta degli afroamericani continuò e aumentò anche dopo la sua morte.

Malcolm X fu un grande rivoluzionario del popolo nero. Riuscì a sollevarlo dal torpore della sottomissione, a liberargli la mente. A rivendicare l’origine degli schiavi neri nell’Africa e a occuparsi di percorrerne la sua storia. A mostrare che la storia dell’Africa non comincia con la conquista coloniale europea, ma è all’origine della storia umana.
di Nicolai Caiazza

 

fonte: http://www.globalist.it/world/articolo/2016/05/08/chi-aveva-paura-di-malcolm-x-69706.html

A 23 anni dall’assassinio di Ilaria Alpi, la madre Luciana ancora una volta ci insegna coraggio e la dignità!

 

Ilaria Alpi

 

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A 23 anni dall’assassinio di Ilaria Alpi, la madre Luciana ancora una volta ci insegna coraggio e la dignità!

Luciana Alpi ancora una volta ci ha insegnato il coraggio e la dignità

Sono trascorsi ormai 23 anni da quel 20 marzo 1994, giorno in cui Ilaria Alpi è stata uccisa in Somalia. La madre ieri ha annunciato che non attenderà più la Giustizia italiana.

Ilaria Alpi aveva solo 33 anni quando è stata assassinata a Mogadiscio insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin

Questo articolo è stato scritto il 18 marzo del 2017 dopo che Luciana Alpi, la mamma di Ilaria, aveva detto di voler smettere di frequentare uffici giudiziari e promuovere nuove iniziative visto che tutti i tentativi di scoprire la verità sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano finiti den nulla.

C’è un Paese intero che da più di 20 anni chiede la verità. Una verità che si è fatto di tutto per nascondere. Forse divulgarla ci avrebbe indignato troppo, avrebbe schifato anche un Paese come il nostro che conosce molto bene cosa sia il pelo nello stomaco e che convive senza farsi troppe domande con i misteri della storia.

Sono trascorsi ormai 23 anni da quel 20 marzo 1994, giorno in cui Ilaria Alpi, giovane giornalista, inviata del Tg3, è stata uccisa in Somalia. Ieri dopo un dolore che non fa a spiegare, mamma Luciana Alpi – la mamma di tutti i figli d’Italia che non hanno avuto giustizia- dopo aver subito anche l'”umiliazione di formali ossequi” ha preso una difficile decisione: gettare la spugna.

Ma attenzione: non si è arresa. Il suo è un altro modo di combattere. Continuare a difendere il nome di una figlia che in tanti nelle istituzioni hanno fatto finta di piangere in questi due lunghissimi decenni. Il suo è stato l’ergastolo del dolore, quello che tocca a tutti i genitori che hanno avuto la condanna di dover seppellire i propri figli, ma questa donna -personificazione della dignità di una fetta del Paese- non ha avuto la consolazione neppure di sapere che i responsabili (quelli veri) sono stati assicurati alla giustizia. Dolore doppio.

“Ho deciso di astenermi d’ora in avanti dal frequentare uffici giudiziari e dal promuovere nuove iniziative. Non verrà però meno la mia vigilanza contro ogni altro tentativo di occultamento”, ha detto la signora Luciana.
“Con il cuore pieno di amarezza, come cittadina e come madre – ha aggiunto Luciana Alpi – ho dovuto assistere alla prova di incapacità data, senza vergogna, per ben ventitré anni dalla Giustizia italiana e dai suoi responsabili, davanti alla spietata esecuzione di mia figlia Ilaria e del suo collega Miran Hrovatin. Non posso tollerare ulteriormente il tormento di un’attesa che non mi è consentita né dall’età né dalla salute”.

Viene da pensare a quelle due parole, due pietre, di Pasolini che calzano a pennello in questa vicenda torbida: Io so. Noi sappiamo chi sono i mandanti dell’assassinio di Ilaria Alpi, anche se continueranno a nasconderli.

Grazie Luciana Alpi: madre di dignità e coraggio di tutti gli italiani di buona volontà.

Il mio ultimo pensiero va Giulio Regeni, spero che mamma Paola non debba passare lo stesso inferno. L’inferno di un silenzio imposto.

 

tratto da: http://www.globalist.it/news/articolo/2017/03/18/luciana-alpi-ancora-una-volta-ci-ha-insegnato-il-coraggio-e-la-dignita-213326.html