33 anni fa il dirottamento dell’Achille Lauro che sfociò nella famosa “Notte di Sigonella ” – Segnò la fine di Bettino Craxi che ebbe la grave “colpa” di mostrare le palle opponendosi alla prepotenza degli Stati Uniti, facendosi rispettare e, per una volta, facendo rispettare l’Italia…!

 

Achille Lauro

 

 

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33 anni fa il dirottamento dell’Achille Lauro che sfociò nella famosa “Notte di Sigonella ” – Segnò la fine di Bettino Craxi che ebbe la grave “colpa” di mostrare le palle opponendosi alla prepotenza degli Stati Uniti, facendosi rispettare e, per una volta,  facendo rispettare l’Italia…!

 

 

Il dirottamento dell’Achille Lauro fu un atto terroristico avvenuto il 7 ottobre1985, con il sequestro, da parte di un gruppo di 4 terroristi palestinesi, dei passeggeri della nave da crociera italiana e l’uccisione di Leon Klinghoffer, cittadino statunitense paralitico e di fede ebraica.

Il 7 ottobre 1985, mentre compiva una crociera nel Mediterraneo, al largo delle coste egiziane, venne dirottata da un commando di Palestinesi aderenti al Fronte per la Liberazione della Palestina (FLP): Bassām al-ʿAskar, Aḥmad Maʿrūf al-Asadī, Yūsuf Mājid al-Mulqī e ʿAbd al-Laṭīf Ibrāhīm Faṭāʾir.

A bordo erano presenti circa 550 persone (201 passeggeri e 344 uomini di equipaggio). I quattro terroristi erano partiti da Genova mentre la nave stava per salpare le ancore, ed erano muniti di passaporti ungheresi e greci. All’ora di pranzo i quattro sbucarono sul ponte di comando armati di Kalašnikov, e intimarono al comandante Gerardo De Rosa di far rotta verso il porto di Tartus, in Siria.

Giulio Andreotti, ministro degli esteri, mobilitò l’egiziano Boutros Boutros-Ghali (che assicurò piena collaborazione) e il siriano Hafiz al-Asad, che inizialmente era disposto a consentire l’attracco della nave nel porto di Tartus ma poi rifiutò a causa delle pressioni degli Stati Uniti.

La sera stessa 60 incursori italiani del Colonnello Moschin arrivarono alla base militare di Akrotiri, a Cipro, pronti a intervenire, seguendo un piano sviluppato insieme all’UNIS del COMSUBIN, presenti in fase di pianificazione. Si decise però alla fine la via diplomatica.

Dopo frenetiche trattative diplomatiche si giunse, in un primo momento, ad una felice conclusione della vicenda, grazie all’intercessione dell’Egitto, dell’OLP di Arafat (che in quel periodo aveva trasferito il quartier generale dal Libano a Tunisi a causa della guerra del Libano) e dello stesso Abu Abbas (uno dei due negoziatori, proposti da Arafat, insieme a Hani al-Hassan, un consigliere dello stesso Arafat), che convinse i terroristi alla resa in cambio della promessa dell’immunità.

Dopo il divieto di sbarcare in Siria, l’Achille Lauro approdò nelle acque egiziane.

Due giorni dopo si scoprì tuttavia che a bordo era stato ucciso un cittadino statunitense, Leon Klinghoffer, ebreo e paralitico a causa di un ictus: l’episodio provocò la reazione degli Stati Uniti che volevano l’estradizione dei dirottatori per processarli nel loro Paese.

Ad uccidere il passeggero fu il terrorista Yūsuf Mājid al-Mulqī.

L’11 ottobre un Boeing 737 egiziano si alzò in volo per portare a Tunisi i membri del commando di dirottatori, assieme allo stesso Abu Abbas, Hani al-Hassan (l’altro mediatore dell’OLP) e ad agenti dei servizi e diplomatici egiziani, secondo gli accordi raggiunti (salvacondotto per i dirottatori e la possibilità di essere trasportati in un altro Stato arabo): mentre era in volo, alcuni caccia statunitensi lo intercettarono costringendolo a dirigersi verso la Naval Air Station Sigonella, in Italia, dove fu autorizzato ad atterrare poco dopo la mezzanotte.

L’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi si oppose tuttavia all’intervento degli Stati Uniti, chiedendo il rispetto del diritto internazionale e sia i VAM (Vigilanza Aeronautica Militare) che i carabinieridi stanza all’aeroporto si schierarono a difesa dell’aereo contro la Delta Force statunitense che nel frattempo era giunta su due C-141. A questa situazione si aggiunse un altro gruppo di carabinieri, fatti giungere da Catania dal comandante generale dei Carabinieri  Riccardo Bisogniero.

A quel punto la questione centreale riguardava Abu Abbas: pur di proteggerlo il governo italiano sembrò disposto a rischiare uno scontro armato con gli Stati Uniti. Craxi disse che la giustizia italiana avrebbe processato i sequestratori e aggiunse che non era possibile indagare su persone ospiti del governo egiziano a bordo di quel Boeing, dal momento che era protetto con l’extraterritorialità.

Si trattò della più grave crisi diplomatica del dopoguerra tra l’Italia e gli Stati Uniti, che si risolse cinque ore dopo con la rinuncia degli Stati Uniti ad un attacco all’aereo sul suolo italiano.

I quattro membri del commando terrorista furono presi in consegna dalla polizia e rinchiusi nel carcere di Siracusa e furono in seguito condannati, scontando la pena in Italia. Per il resto della giornata vi furono numerose trattative diplomatiche tra i rappresentanti del governo italiano, di quello egiziano e dell’OLP.

Il governo italiano chiese all’ambasciatore egiziano lo spostamento del Boeing 737 dalla base di Sigonella all’aeroporto di Ciampino per «poter esplorare la possibilità di compiere ulteriori accertamenti». Craxi spiegò che il Boeing era trasferito a Roma per rispondere all’impegno preso con Reagan di «concedere il tempo necessario» affinché il governo italiano potesse disporre «di elementi o evidenze che dimostrassero […] il coinvolgimento dei due dirigenti palestinesi nella vicenda». Alla ripartenza dell’aereo con destinazione Ciampino si unirono al velivolo egiziano un velivolo del SISMI che era nel frattempo giunto con l’ammiraglio Fulvio Martini (che nelle prime ore della crisi era stato costretto a seguire le trattative solo per via telefonica) e a una piccola scorta di due F-104S decollati dalla base di Gioia del Colle e altri due decollati da Grazzanise, voluta dallo stesso Martini. Nel frattempo un F-14 statunitense decollò dalla base di Sigonella senza chiedere l’autorizzazione e senza comunicare il piano di volo, e cercò di rompere la formazione del Boeing e dei velivoli italiani, sostenendo di voler prendere in consegna il velivolo con Abbas a bordo, venendo però respinto dagli F-104 di scorta.

Una volta giunti a Ciampino, intorno alle 23:00, un secondo aereo statunitense, fingendo un guasto, ottenne l’autorizzazione per un atterraggio di emergenza e si posizionò sulla pista davanti al velivolo egiziano, impedendone un’eventuale ripartenza. Su ordine di Martini al caccia venne allora dato un ultimatum di cinque minuti per liberare la pista, in caso contrario sarebbe stato spinto fuori pista da un Bulldozer: dopo tre minuti il caccia statunitense ridecollò, liberando la pista. Per questo episodio il governo italiano protestò con l’ambasciatore Maxwell M. Rabb.

Gli Stati Uniti richiesero nuovamente la consegna di Abu Abbas, in base agli accordi di estradizione esistenti con l’Italia, senza tuttavia portare prove del reale coinvolgimento del negoziatore nel dirottamento. I legali del Ministero di Grazia e Giustizia e gli esperti in diritto internazionale consultati dal governo ritennero comunque non valide le richieste statunitensi.

Il Boeing egiziano venne quindi trasferito a Fiumicino, dove Abu Abbas e l’altro mediatore dell’OLP furono fatti salire su un diverso velivolo, un volo di linea di nazionalità jugoslava la cui partenza era stata appositamente ritardata. Solo il giorno successivo, grazie alle informazioni raccolte dai servizi segreti israeliani (che tuttavia non erano state consegnate al SISMI durante la crisi, pur essendo già disponibili), si ottennero alcuni stralci di intercettazioni che potevano legare Abu Abbas al dirottamento. La CIA consegnò solo alcuni giorni dopo (16 ottobre) i testi completi delle intercettazioni, effettuate da mezzi statunitensi, che provavano con certezza le responsabilità di Abu Abbas, il quale venne processato e condannato all’ergastolo in contumacia.

Il ministro della difesa Giovanni Spadolini e altri due ministri repubblicani (Oscar Mammì e Bruno Visentini) presentarono le dimissioni in segno di protesta contro Craxi, provocando una crisi di governo successivamente rientrata.

Il governo Craxi, nonostante le prepotenti sollecitazioni americane, mostrò fermezza e determinazione.

Craxi mostrò di avere le palle facendosi risoettare e non permettendo ancora una volta agli americani di trattarci come un loro zerbino…

Ma probabilmente tutto questo segnò anche la fine della sua carriera politica… Gli americani hanno bisogno di leccaculo e non di gente con le palle.

Tratto da Wikipedia

 

La Casellati va in visita negli Stati Uniti in coincidenza col concerto del figlio. E gli italiani, guarda le coincidenze, le pagano il viaggio…

 

Casellati

 

 

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La Casellati va in visita negli Stati Uniti in coincidenza col concerto del figlio. E gli italiani, guarda le coincidenze, le pagano il viaggio…

 

Casellati tour negli Usa col concerto del figlio

(di Carlo Tecce – Il Fatto Quotidiano) – Succede. “Una coincidenza”, per dirla con Leonardo Sciascia. Maria Elisabetta Alberti Casellati va negli Stati Uniti per una visita ufficiale, tre giorni a Washington, tre giorni a New York. Il presidente del Senato gira in lungo e largo, stringe mani autorevoli di qua, rende omaggi e saluta con affetto di là. E succede. Il figlio Alvise, ex avvocato negli Usa, direttore d’orchestra, si esibisce al Central Park di New York e la mamma, la seconda carica dello Stato, assiste compiaciuta. Succede. Anzi, è successo lunedì pomeriggio.

Casellati è partita martedì 26 giugno per gli Stati Uniti, prima tappa a Washington per incontri misti: “Alcuni giudici della Corte Suprema, la leadership del Congresso, presidenti delle Commissioni del Senato”, si legge nel comunicato di Palazzo Madama. Poi si trasferisce a New York, venerdì viene ricevuta alle Nazioni Unite da Miroslav Lajcak, presidente dell’assemblea e da Antonio Guterres, segretario generale. Cena dal console Francesco Genuardi, tra i commensali gli italiani all’estero. Il viaggio dagli alleati – parecchio intenso, con “un’agenda fittissima” (cit. Palazzo Madama) – rallenta nel weekend: inaugura il padiglione Italia al “Summer fancy food show” e va al museo Frick Collection per un’esposizione sul “George Washington di Canova”. Lunedì, la mattina è frenetica: un salto a Wall Street per l’apertura della Borsa, corona di fiori al memoriale dell’11 settembre e pranzo da Eataly.

Il programma del pomeriggio è inesistente per l’impegno al Central Park. Il figlio Alvise ha un concerto pagato pure da Brooks Brothers e dalla multinazionale Eni, un evento gratuito per avvicinare le comunità italiane e americane e far risuonare il Rigoletto, la Traviata, il Barbiere di Siviglia nella caotica metropoli. Si chiama “Opera italiana is in the air”, patrocini di prestigio e contribuiti di Banca Intesa. E mamma è in platea. Oggi Casellati rientra in Italia, non digiuna di arte perché ha trascorso il martedì del congedo tra i musei Metropolitan e Guggenheim.

Palazzo Madama ha omesso il concerto di Alvise finché il Fatto non ha chiesto spiegazioni, incuriosito da una bizzarra coincidenza. Così ieri sera, in una nota, il Senato ha informato gli italiani che la “visita di Casellati negli Stati Uniti va verso la conclusione” e, sorpresa, c’è pure il distensivo pomeriggio al Central Park col figlio Alvise: “In forma strettamente privata”. Succede.

Non vale la pena rievocare il passato. La figlia Ludovica assunta al ministero per la Salute con un contratto da capo della segretaria del sottosegretario – non è uno scioglilingua – Elisabetta Alberti Casellati. Robe di una dozzina di anni fa. Oppure la consulenza sempre di Ludovica – ex dipendente di Publitalia, la cassaforte pubblicitaria di Mediaset – per curare i rapporti con i media di Barbara Degani, sottosegretaria all’Ambiente nei governi di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, amica di famiglia. Il giorno dell’elezione al vertice di Palazzo Madama, Casellati ha commosso la stampa con la corsa a Genova – in volo di linea – per vedere il figlio Alvise al teatro “Carlo Felice”. Adesso ha soltanto sfruttato una coincidenza, di quelle talmente perfette che non ammettono retropensieri. Semmai, ossequi.

fonte: https://infosannio.wordpress.com/2018/07/04/casellati-tour-negli-usa-col-concerto-del-figlio/

Dagli Usa: “con Craxi l’Italia era un paese rispettato e sovrano”

 

Craxi

 

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Dagli Usa: “con Craxi l’Italia era un paese rispettato e sovrano”

A 18 anni dalla morte di Bettino Craxi, ricordare una delle più importanti figure politiche del dopoguerra può essere utile per cogliere la parabola di un paese un tempo protagonista della scena internazionale, e metterlo a confronto con la sua irrilevanza politica nel contesto attuale. Se prima era impensabile che l’Italia craxiana rimanesse fuori dalla porta dei consessi internazionali che contano, oggi purtroppo questo è una amara realtà. Per capire come veniva considerata l’Italia prima del suo declino sulla scena internazionale è interessante vedere cosa ne pensava il suo storico alleato, gli Usa, in un documento – analizzato in passato da ricercatori e storici di Craxi – del Dipartimento di Stato Usa intitolato “Il fattore Craxi nella politica estera italiana”, nel quale Washington si sofferma ad analizzare l’appiglio del tutto peculiare di Bettino Craxi nella conduzione delle relazioni internazionali dell’Italia. Sono i diplomatici americani stessi di stanza all’ambasciata Usa in Italia, a rendersi conto della personalità forte dell’ex segretario socialista. Un atteggiamento che dapprima sorprende gli americani, abituati più ai modi pacati e misurati dei predecessori di Craxi a Palazzo Chigi. Il suo stile, nel documento, viene definito «determinato e diretto», tanto da portarlo occasionalmente «fuori dai margini».

Washington guarda con curiosità ma anche con preoccupazione a questo nuovo interlocutore italiano, il quale non sembra temere lo scontro con lo storico alleato. L’amicizia e il rapporto con gli Usa non sono mai in discussione, ma non si respira affatto un’aria di sudditanza nei confronti degli americani. Al contrario Craxi durante la sua esperienza a Palazzo Chigi dal 1983 al 1987, ha delineato chiaramente i confini dei rapporti bilaterali tra i due paesi. In nessun momento, l’amicizia Italia-Usa andava nella direzione di piegare gli interessi nazionali ad esclusivo vantaggio di quelli del partner statunitense. Sigonella è solamente l’apogeo di uno tra i momenti più importanti di Craxi a Palazzo Chigi, e segna un chiaro trionfo geopolitico italiano che non mancò di suscitare un certo scalpore negli ambienti internazionali. Quando il segretario socialista arriva a schierare nella drammatica notte del 10 ottobre 1985 i carabinieri contro i Navy Seals che nella base di Sigonella volevano prendere in custodia i terroristi dell’Achille Lauro, nonostante la competenza giurisdizionale sui loro reati fosse chiaramente italiana, gli americani capiscono che il primo ministro italiano fa sul serio.

Lo stesso Dipartimento di Stato Usa nel documento non può fare a meno di riconoscere che in quella circostanza, Craxi uscì chiaramente come pieno «difensore della sovranità nazionale» da quella delicata crisi diplomatica tra i due paesi, tanto che Washington si sofferma a ripensare «l’attività militare nell’area». Gli Usa, più semplicemente, si rendono conto che l’Italia non è una dépendance dove possono prendersi la libertà di intervenire senza consultare i padroni di casa. Ma non è questo l’unico momento di una politica estera tesa, dal principio alla fine, alla difesa della sovranità nazionale. Sigonella non è un episodio estemporaneo frutto di un’esplosione di orgoglio nazionale poi sopito successivamente. Solamente l’anno dopo, l’Italia si trova nel bel mezzo di un’altra crisi diplomatica ancora una volta con il suo alleato di riferimento, gli Usa, e la Libia. Il  14 aprile 1986 gli Stati Uniti bombardano la residenza di Gheddafi, il quale risponde il giorno dopo con un fallito attacco missilistico contro l’isola di Lampedusa. Craxi è furente con il suo alleato per quella decisione unilaterale di attaccare la Libia e non manca di esternarlo pubblicamente agli americani. Anche in questa circostanza, si legge nell’analisi, Washington stessa non può fare altro che prendere atto che l’Italia sotto la conduzione craxiana rivendica il suo spazio di indipendenza e sovranità, e non è disposta a sacrificare i suoi rapporti con altre potenze in nome del rapporto privilegiato con gli Stati Uniti.

Il “fattore Craxi” di cui parlano gli americani si può identificare proprio con il principio guida imprescindibile che ha accompagnato tutta l’originale esperienza di Bettino Craxi al governo, ovvero la protezione degli interessi italiani prima di ogni cosa. L’Italia non veniva umiliata dalle potenze estere proprio perché dotata di una classe dirigente che mai avrebbe permesso che il paese avesse subito affronti pari a quelli che sta subendo attualmente nei contesti europei ed internazionali. La rotta della sovranità nazionale è stata smarrita, sostituita da una volontà di asservimento di una mediocre classe dirigente genuflessa ai desiderata delle potenze estere pur di raggiungere i propri scopi personali. L’europeismo era la cifra politica di Craxi in politica estera, ma non era certamente una religione come quella attuale alla quale è impossibile opporsi “perché non c’è alternativa”. Fu proprio lui stesso dall’esilio di Hammamet negli ultimi anni della sua vita ad intuire la deriva che avrebbe portato il cieco rispetto di quei parametri di Maastricht, divenuti un tabù intoccabile che nessun premier osa rimettere in discussione. «L’Italia è un grande paese», disse Craxi, e deve far valere i suoi diritti in Europa. Quanti politici di oggi hanno il suo attaccamento alla patria? La riconquista della sovranità passa per la maturazione di una classe dirigente con una coscienza nazionale e un amor patrio. Bettino Craxi aveva tutto questo. Ecco perché va ricordato.

(Cesare Sacchetti, “Il fattore Craxi, Bettino visto dagli americani”, da “La Cruna dell’Ago” del 18 gennaio 2018).

tratto da: http://www.libreidee.org/2018/01/gli-usa-con-craxi-litalia-era-un-paese-rispettato-e-sovrano/

Trump not welcome: la protesta del piccolo rifugiato contro il miliardario xenofobo

 

 

Trump

 

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Trump not welcome: la protesta del piccolo rifugiato contro il miliardario xenofobo

Su ordine del presidente i richiedenti asilo provenienti dall’America centrale sono stati respinti alla frontiera con il Messico: la Casa Bianca li considera una minaccia

La loro protesta ha fatto il giro del mondo: “Resteremo qui fino a quando anche l’ultimo di noi non sarà passato”. E’ il gridoCentinaia di migranti centroamericani premono alla frontiera fra Messico e Stati Uniti. Sono i richiedenti asilo giunti in carovana dopo un viaggio lungo un mese, su treni merci, bus, a piedi.

Ci sono donne e bambini, alcuni di loro fuggono da paesi dove rischiano la vita. Ma sono stati fermati ala frontiera Usa, dopo che la autorità americane hanno temporaneamente bloccato gli ingressi in quanto il centro per le richieste del passaggio di San Ysidro, all’altezza di San Diego, è sovraffollato.

Uno dei molti ‘viaggi della speranza’ che diverse simili carovane di migranti hanno negli anni compiuto inseguendo sognando una nuova vita negli Stati Uniti. Ma questa volta la marcia dei migranti è stata seguita passo dopo passo dall’amministrazione Trump, che l’ha tacciata di essere una minaccia per gli Usa.

La migliore risposta è di questo bambino: Trump non è il benvenuto…!

 

tratto da: http://www.globalist.it/world/articolo/2018/05/01/trump-not-welcome-la-protesta-del-piccolo-rifugiato-contro-il-miliardario-xenofobo-2023565.html

Wikipedia dice che la guerra in Vietnam è cessata il 30 aprile 1975. Ma non è così. Non è così almeno per chi ha subito gli effetti dei crimini americani…!

Vietnam

 

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Wikipedia dice che la guerra in Vietnam è cessata il 30 aprile 1975. Ma non è così. Non è così almeno per chi ha subito gli effetti dei crimini americani…!

 

La guerra in Vietnam non è ancora finita

A oltre quarant’anni dalla guerra in Vietnam, gli effetti degli agenti chimici utilizzati dagli Stati Uniti sono ancora ben visibili. Il fotoreportage di Damir Sagolj.

In 15 anni di guerra, dal 1960 al 1975, in Vietnam furono sganciate oltre cinque milioni di bombe: quasi il doppio di quelle lanciate dagli Alleati durante la seconda guerra mondiale. Ma le forze aeree americane non sganciarono solo esplosivi.

Il Vietnam fu bombardato con il napalm, sostanza incendiaria che si incolla alla pelle e la ustiona; con il fosforo bianco, che corrode i tessuti sino alle ossa; con bombe a frammentazione, le cui schegge esplodono in ogni direzione; e con 73 milioni di litri di agenti tossici, tra cui 43 milioni di litri del diserbante Agente Arancio, prodotto soprattutto dalla multinazionale americana Monsanto.

Sono passati 40 anni dalla guerra, ma le cicatrici – fisiche e psicologiche – sono ancora ben visibili. Il fotografo dell’agenzia giornalistica Reuters Damir Sagolj è stato in Vietnam per documentare gli effetti dei bombardamenti con armi chimiche. Tra i vietnamiti e i veterani statunitensi che hanno combattuto in Vietnam, sono comuni i problemi mentali, respiratori e dermatologici.

Dopo quattro decenni, l’Agente Arancio continua a provocare vittime. Gli effetti letali dell’erbicida sono passati da una generazione all’altra. I nipoti di chi respirò l’aria avvelenata dagli agenti chimici nascono ancora con gravi deformazioni fisiche. L’associazione vietnamita delle Vittime dell’Agente Arancio e della Diossina (Vava)ha dichiarato che oltre 4,8 milioni di persone nel Paese sono state contaminate dall’erbicida e che, fra queste, tre milioni circa sono morte a causa degli effetti dell’Agente Arancio.

“L’ex soldato vietnamita Do Duc Diu mi ha mostrato il cimitero che ha costruito per i suoi dodici bambini: morirono tutti poco dopo la nascita”, racconta il fotoreporter Damir Sagolj. “Vicino c’è lo spazio per seppellire le sue figlie, che sono ancora vive ma gravemente malate”.

“L’uomo, che combatteva nel Vietnam del Nord, era stato esposto all’erbicida tossico. Per oltre vent’anni lui e sua moglie hanno cercato di avere un bambino che fosse sano. Ma i figli morivano uno dopo l’altro. Pregavano sempre e provarono a far visita persino a un leader spirituale, ma non servì a nulla. Scoprirono gli effetti dell’Agente Arancio solo dopo la nascita del loro quindicesimo figlio”.

Gli Stati Uniti hanno smesso di utilizzare l’Agente Arancio nel 1971, quattro anni prima della fine della guerra. Per venti anni molti vietnamiti sono rimasti all’oscuro di cosa fosse successo nel loro Paese.

fonte: https://www.tpi.it/2015/07/16/effetti-conseguenze-guerra-vietnam-deformazioni-agente-arancio/

I dieci attacchi chimici americani di cui non bisogna parlare – Insomma, invece di rompere i coglioni ad Assad, andiamo a bombardare gli Stati Uniti d’America…!

 

Assad

 

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I dieci attacchi chimici americani di cui non bisogna parlare – Insomma, invece di rompere i coglioni ad Assad, andiamo a bombardare gli Stati Uniti d’America…!

 

I dieci attacchi chimici americani di cui non bisogna parlare

Washington non solo non dispone dell’autorità legale per un intervento militare in Siria. Gli manca anche l‘autorità morale. Stiamo parlando di un governo che durante la storia ha fatto uso di armi chimiche, contro persone innocenti, molto più prolifiche e letali di quelle per cui ora viene incolpato Assad, costretto a doversi difendere dalle accuse provenienti dal complesso militare-industriale occidentale dal grilletto facile, deciso a soffocare ulteriori indagini prima di colpire.

Ecco una lista di 10 attacchi con armi chimiche effettuati dal governo degli Stati Uniti o dai suoi alleati contro i civili…

1. L’esercito americano lanciò 20 milioni di galloni di sostanze chimiche sul Vietnam tra il 1962 e il 1971

Durante la guerra del Vietnam, l’esercito americano ha lanciato oltre 20 milioni di galloni di sostanze chimiche , tra cui l’altamente tossico Agent Orange, sulle foreste e i campi coltivati ??del Vietnam e dei paesi limitrofi, distruggendo deliberatamente le scorte alimentari, mandando in frantumi l’ecologia della foresta e devastando le vite di centinaia di migliaia di persone innocenti. Il Vietnam ha stimato che oltre 400.000 persone sono state uccise o mutilate, 500.000 bambini sono nati con malformazioni e 2 milioni di persone sono state colpite dal cancro o da altre malattie. La Croce Rossa del Vietnam ha invece stimato che fino a 1 milione di persone sono rimaste disabili o con problemi di salute a causa dell’uso dell’ Agent Orange.

2. Israele attaccò i civili palestinesi con fosforo bianco nel 2008-2009
fosforo

Il fosforo bianco è un’orribile arma chimica incendiaria che scioglie la carne umana fino all’osso.

Nel 2009, molti gruppi per la difesa dei diritti umani , tra cui Human Rights Watch, Amnesty International e la Croce Rossa Internazionale, riferirono che il governo israeliano stava attaccando i civili con armi chimiche. Un team di Amnesty International affermò di aver trovato “la prova inconfutabile del diffuso utilizzo del fosforo bianco” come arma in aree civili densamente popolate. L’esercito israeliano negò in un primo momento le accuse ma, alla fine, dovette ammettere che erano vere.

Dopo la serie di accuse da parte di tali organizzazioni non governative, l’esercito israeliano colpì anche una sede delle Nazioni Unite (!) a Gaza con un attacco chimico .

3. Washington attaccò civili iracheni con il fosforo bianco nel 2004

Nel 2004, giornalisti “embedded” con le forze armate Usa in Iraq, iniziarono a scrivere sull’uso del fosforo bianco a Falluja contro gli insorti iracheni. Prima l’esercito mentì, affermando che l’utilizzo del fosforo bianco serviva per creare cortine di fumo o per illuminare obiettivi. In seguito dovete invece ammettere di aver utilizzato questa sostanza chimica volatile come arma incendiaria. In quel periodo, la RAI, la televisione italiana, trasmise un documentario dal titolo “Fallujah, la strage nascosta“, il quale, tra terribili filmati e fotografie, interviste a testimoni oculari con i residenti di Falluja e soldati statunitensi, rivelava come il governo degli Stati Uniti avesse indiscriminatamente lanciato fosforo bianco sulla città irachena e arso completamente donne e bambini.

4. La CIA aiutò Saddam Hussein a massacrare iraniani e curdi con armi chimiche nel 1988

Documenti della CIA dimostrano che Washington era a conoscenza del fatto che Saddam Hussein stava usando armi chimiche (tra cui Sarin, gas nervino e iprite) nella guerra Iran-Iraq, e nonostante ciò continuò a passare informazioni ai militari iracheni sui movimenti delle truppe iraniane, pur sapendo che Hussein avrebbe usato tali informazioni per lanciare attacchi chimici. All’inizio del 1988, Washington avvertì Saddam Hussein di un movimento delle truppe iraniane che avrebbe fatto concludere la guerra con una sconfitta decisiva per il governo iracheno. A marzo, un imbaldanzito Hussein, con nuovi amici a Washington, colpì un villaggio curdo occupato dalle truppe iraniane con agenti chimici, uccidendo fino a 5.000 persone e ferendone più di 10.000, la maggior parte delle quali erano civili. Altre migliaia morirono negli anni successivi a seguito di complicazioni, malattie e difetti congeniti.

5. L’esercito testò sostanze chimiche sui residenti poveri e neri dei quartieri di St. Louis nel 1950

Nei primi anni 1950, l’esercito posizionò polverizzatori in cima agli edifici dei quartieri poveri, abitati per lo più da neri, di St. Louis, comprese aree in cui ben il 70% dei residenti erano bambini con meno di 12 anni. Il governo disse ai residenti di star sperimentando una cortina fumogena per proteggere la città dagli attacchi dei russi ma, in realtà, stavano venendo diffuse nell’aria enormi quantità di solfuro di cadmio, una sostanza altamente tossica. Il governo ammise che c’era anche una seconda sostanza, ma se questa fosse radioattiva rimane un informazione ancora classificata . E non può essere diversamente. Sin dall’inizio dei test, un allarmante numero di residenti della zona si ammalarono di cancro. Doris Spates è nata nel 1955 in uno degli edifici che l’esercitò utilizzò per questi test con sostanze chimiche nel periodo 1953-1954. Spates perse il padre inspiegabilmente in quello stesso anno, quattro suoi fratelli sono morti di cancro e la stessa Doris è riuscita a sopravvivere ad un cancro cervicale.

6. La Polizia sparò gas lacrimogeni sui manifestanti di Occupy nel 2011

La selvaggia violenza della polizia contro i manifestanti di Occupy nel 2011 è stata ben documentata, tra cui l’uso di gas lacrimogeni e altre sostanze chimiche irritanti. L’uso dei gas lacrimogeni è vietato contro i soldati nemici in battaglia dalla Convenzione sulle armi chimiche. La polizia non poteva riservare ai manifestanti civili a Oakland, in California, la stessa cortesia e protezione che il diritto internazionale richiede per i soldati nemici sul campo di battaglia?

7. L’FBI attaccò uomini, donne e bambini con gas lacrimogeni a Waco nel 1993

Durante l’assedio di Waco, una cruenta operazione di polizia condotta negli Stati Uniti nel 1993 per espugnare un ranch di Waco (Texas) dove era riunita una pacifica comunità di Avventisti del Settimo Giorno, l’FBI fece uso di gas lacrimogeni all’interno degli edifici, pur sapendo che dentro vi erano donne bambini e neonati. Il gas lacrimogeno è altamente infiammabile ed esplosivo.Tutti i palazzi che componevano il ranch bruciarono totalmente, provocando la morte di 49 persone, tra uomini e donne, e 27 bambini, inclusi alcuni neonati. Ricordate, attaccare un soldato nemico armato su un campo di battaglia con gas lacrimogeni è un crimine di guerra. Che tipo di crimine è attaccare un bambino con gas lacrimogeni?

8. L’esercito americano fece uso di uranio impoverito in Iraq nel 2003

In Iraq, l’esercito statunitense fece ampio uso di munizioni all’ uranio impoverito , un prodotto ottenuto come scarto del procedimento di arricchimento dell’uranio.. Come risultato, più della metà dei bambini nati a Fallujah dal 2007 al 2010 sono venuti alla luce con gravi difetti congeniti . Alcuni di questi difetti non erano mai stati visti prima al di fuori delle immagini presenti sui libri dei bambini nati nei pressi di dove vennero effettuati i test nucleari nel Pacifico. Il cancro e la mortalità infantile hanno anche visto un drammatico aumento in Iraq. Secondo Christopher Busby , segretario scientifico del Comitato europeo sui Rischi da Radiazioni: “Queste sono le armi che hanno assolutamente distrutto l’integrità genetica della popolazione dell’Iraq.” Dopo aver realizzato due dei quattro rapporti pubblicati nel 2012 sulla crisi sanitaria in Iraq, Busby ha descritto Fallujah come il paese con ” il più alto tasso di danno genetico in qualsiasi popolazione mai studiata.” [Inoltre anche i soldati che le hanno utilizzate si sono ammalati ndr].

9. L’esercito americano uccise centinaia di migliaia di civili giapponesi con il Napalm nel 1944-1945

Il Napalm è una sostanza altamente infiammabile che venne usata come arma dai militari degli Stati Uniti. Nel 1980, l’ONU dichiarò l’uso del napalm sulle popolazioni civili un crimine di guerra. Questo è esattamente ciò che fece l’esercito americano nella seconda guerra mondiale, lanciando abbastanza napalm su Tokyo per causare la morte di oltre 100.000 persone, ferirne un altro milione e lasciare un milione di senza tetto nel più mortale raid aereo della seconda guerra mondiale.

10. Il governo degli Stati Uniti lanciò bombe nucleari su due città giapponesi nel 1945

Anche se le bombe atomiche non possono essere considerate armi chimiche, credo che possiamo essere d’accordo sul fatto che appartengano alla stessa categoria. Di sicuro disperdono una notevole quantità di sostanze chimiche radioattive mortali. Sono altrettanto terrificanti, se non di più, delle stesse armi chimiche e, per la loro stessa natura, sono adatte per un solo scopo: spazzare via un’intera città piena di civili. Sembra strano che l’unico regime ad aver fatto uso di queste armi su altri esseri umani si è assunto la pretesa di tenere il mondo al sicuro da armi pericolose possedute da governi pericolosi.

Wesley Messamore

tratto da: http://www.siciliapress.com/i-dieci-attacchi-chimici-americani-cui-bisogna-parlare/

Quindi un po’ di coerenza, Gente. Non rompiamo i coglioni da Assad, andiamo a bombardare i criminali che stanno in Amerika!

Evo Morales: «Gli Stati Uniti sono il vero pericolo per la pace mondiale»

 

Evo Morales

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Evo Morales: «Gli Stati Uniti sono il vero pericolo per la pace mondiale»

Il presidente boliviano risponde agli Stati Uniti che si ostinano a voler dipingere il Venezuela come una minaccia

Non passa giorno senza che da Washington partano accuse dirette al Venezuela. Il paese minacciato, assediato finanziariamente e colpito da sanzioni viene definito una minaccia per la stabilità della regione americana e la pace mondiale.

In merito fa sentire la propria voce attraverso Twitter, il presidente della Bolivia Evo Morales. Il leader ‘Aymara’ scrive: «Ossessionati dal saccheggio delle risorse naturali, gli Stati Uniti accusano il Venezuela di essere una minaccia mondiale. Visti i precedenti di distruzione dell’ambiente, finanziamento di colpi di Stato sanguinosi, invasioni armate, embarghi economici e genocidi con bombe atomiche, gli Stati Uniti sono il vero pericolo per la pace mondiale».

Missioni di pace con armi radioattive? Per gli Stati Uniti é normale. E dall’Iraq alla Siria, una lunga scia di “pace” e bambini deformi!

Missioni di pace

 

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Missioni di pace con armi radioattive? Per gli Stati Uniti é normale. E dall’Iraq alla Siria, una lunga scia di “pace” e bambini deformi!

 

USA: Armi radioattive in Iraq, lasciando bambini deformi. Usate anche in Siria.

Durante le prime tre settimane del conflitto in Iraq del 2003, l’esercito statunitense ha commesso crimini di guerra eclatanti con armi radioattive. Anche se il Pentagono ha promesso di non usare mai questa tecnologia, il comando militare è andato avanti nel conflitto in Iraq del 2003, a distribuire missili carichi di uranio impoverito. Più di 2.000 tonnellate di questi rifiuti radioattivi e tossici son cascati in testa al popolo iracheno. Le ripercussioni radioattive dell’uranio impoverito  continueranno ad affliggere il popolo iracheno per molti anni a venire. Gli effetti sulla salute già si sono dimostrati sui soldati americani e non solo, anche sui nostri soldati, si parla di Cancro.

Secondo una nuova rivelazione dal Comando Centrale USA (CENTCOM), le stesse armi sono state utilizzate nei raid aerei nel novembre 2015 nelle province di Deir ez-Zor e Hasakah nella Siria orientale. Questa rivelazione contraddice una dichiarazione di marzo 2015, emessa dallo stesso  Comando Centrale degli Stati Uniti: “noi e gli aerei della coalizione non abbiamo e non useremo  munizioni all’uranio impoverito in Iraq o in Siria”. (Come no? poi lo avete ammesso! Criminali di guerra!)

Secondo il portavoce CENTCOM, il maggiore Josh Jacques, nel novembre 2015,  l’uranio impoverito è stato utilizzato è anche in gran quantità, per eliminare 350 convogli carichi di petrolio di proprietà dello Stato islamico. I danni di questo materiale radioattivo non si fermano quando il “nemico muore”, le ripercussioni durano per molti anni.

L’uranio impoverito è utilizzato nella fabbricazione di armi nucleari e come combustibile per i reattori nucleari. Questo materiale, in esclusiva per gli Stati Uniti e il Regno Unito, è usato in missili per perforare efficacemente la blindatura di un bersaglio. Nel corso dei due conflitti in Iraq, gli Stati Uniti hanno scatenato decine di migliaia di tonnellate di questa porcheria sul popolo iracheno. Hanno inquinato notevolmente il suolo e l’acqua di queste terre per molti anni a venire. L’uranio è una sostanza altamente tossica, se inalata o ingerita, ed è  direttamente collegata a difetti di nascita, infertilità, e tutti i tipi di cancro.

Le ripercussioni non solo affliggono gli iracheni, ma anche tutti i soldati che ritornano dalle missioni. Abbiamo pubblicato un articolo qualche settimane fa che parlava appunto di questo: 4.000 militari italiani malati di cancro.
Che dire? Grazie Stati Uniti per tutto il male che avete causato per l’imperialismo, e in molti vi considerano eroi…bel modo di fare gli eroi complimenti.

fonte: La mia parte intollerante

Quanto manca a una guerra tra Stati Uniti e Corea del Nord?

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Quanto manca a una guerra tra Stati Uniti e Corea del Nord?

Un vero conflitto è stato ritenuto a lungo improbabile se non impossibile, ma il vento sta cambiando, per il peggio.

Una guerra tra Stati Uniti e Corea del Nord provocherebbe decine di migliaia se non centinaia di migliaia di morti, comporterebbe il pericolo di un intervento cinese, porterebbe in prima linea i trentamila soldati americani dislocati nella Corea del Sud, potrebbe rendere inevitabile il ricorso ad armi nucleari per la prima volta dopo Hiroshima e Nagasaki e modificherebbe per molto tempo gli equilibri dell’area e i cruciali rapporti tra Washington e Pechino. Per questo, malgrado i test missilistici e atomici di Pyongyang e la «guerra delle parole» tra Kim Jong-un e Donald Trump, un vero conflitto è stato ritenuto a lungo improbabile se non impossibile.

Il vento cambia (in peggio)

Ma il vento sta cambiando, per il peggio. Esperti qualificati e diplomatici coinvolti nella crisi, ai quali il Corriere ha avuto accesso in diverse capitali, concordano nel ritenere che il punto di non ritorno si stia avvicinando ad una velocità pari a quella dei progressi nord-coreani nella sperimentazione degli ICBM (missili intercontinentali) e nella messa a punto di testate nucleari miniaturizzate. In realtà nessuno vuole la guerra, spiegano i nostri interlocutori, e meno di tutti la vuole Kim Jong-un che conosce bene la debolezza del suo Paese e punta sulla minaccia nucleare soltanto per ottenere uno status capace di proteggerlo da rovesciamenti di regime patrocinati dagli Usa (o dalla Cina). Ma tra non molto la tecnologia militare prevarrà sulle tattiche. Quando la Corea del Nord sarà effettivamente in grado di colpire con armi nucleari il territorio metropolitano degli Usa (e non soltanto Guam), l’America non potrà tollerare un simile rischio e «dovrà» attaccare le basi sotterranee che nascondono l’arsenale missilistico e atomico di Pyongyang. Quanto manca a questa Ora X? Pochi mesi, forse meno. E le sanzioni economiche contro Pyongyang non saranno in grado di fermare l’orologio. È per questo che politici, esperti e diplomatici sono impegnati in una corsa contro il tempo che è diventata una «corsa contro la guerra» . Il tentativo, a buon punto almeno sulla carta, è quello di fissare i parametri di un possibile accordo negoziale di compromesso tra Washington e Pyongyang utilizzando i buoni uffici di altri Paesi e, forse, anche un dialogo diretto ancora avvolto nel mistero.

Il caso Tillerson

Il Segretario di Stato statunitense è in visita a Pechino, il 30 settembre scorso. Ai giornalisti, nella sorpresa generale, confida che gli Usa stanno sperimentando «canali di comunicazione multipli e diretti con Pyongyang». Canali che non passano dalla Cina. Il giorno dopo, il presidente Trump mette in rete un tweet nel quale elogia le buone intenzioni di Tillerson ma gli dice anche che sta perdendo tempo. L’ultimo capitolo è del 15 ottobre scorso: Rex Tillerson, scrive una agenzia internazionale, dichiara che Trump non crede che il dialogo diplomatico con Pyongyang sia tempo perso. Caos all’interno dell’Amministrazione, oppure contatti per ora inconfessabili? La seconda ipotesi è la più verosimile.

Il formato negoziale

Chi ci sta lavorando ritiene che un negoziato anti-guerra dovrebbe prendere la forma di una conferenza regionale che poi regionale non sarebbe. Corea del Nord, Corea del Sud, Giappone e Cina. Ma ovviamente anche gli Stati Uniti. E la Russia, che pur avendo soltanto un piccolo confine con la Corea del Nord vuole avere un ruolo nella crisi per diventare influente in Asia dopo esserlo diventata in Medio Oriente. E ancora l’Europa, che potrebbe aver facilitato i canali di cui parla Tillerson. Dove, non importa (forse in qualche collaudata sede europea, come Ginevra o Vienna). Purché si cominci in tempo per congelare eventuali propositi bellici.

Il compromesso

Naturalmente è la parte più delicata del progetto, anche perché nessuna delle due parti in conflitto (Usa e Corea del Nord) accetterebbe di perdere la faccia. Bisogna partire, dice chi se ne occupa, dalle esigenze minime e indispensabili. Per gli Usa, si tratta per prima cosa di escludere che i vettori nord-coreani possano raggiungere il territorio metropolitano. Ma anche Guam andrebbe protetta in un nuovo patto di sicurezza regionale, e anche la Corea del Sud, e il Giappone. Per Kim Jong-un la chiave è una garanzia credibile che metta al riparo se stesso e il suo regime da colpi bassi. E Pyongyang vuole incrementare la sua importanza regionale, così come vuole proseguire (perché questo accade già) nel miglioramento dell’economia. La Cina vuole sicurezza e stabilità, la Russia vuole esserci. Lo scambio, allora, potrebbe prendere questa forma. La Corea del Nord accetta di fermare la ricerca e i test degli ICBM, e di distruggere quelli esistenti. Gli Usa non sarebbero più raggiungibili. Pyongyang conserva però un arsenale nucleare regionale che già possiede e che ha già inciso sugli equilibri dell’area. Inoltre, a tutela di Guam, dei Paesi alleati degli Usa, ma anche a garanzia contro le paure di Kim Jong-un, viene concluso un trattato di sicurezza regionale che esclude l’uso della forza e i cambiamenti di regime dall’esterno. E cancella le sanzioni. Garanti anche militari del rispetto del patto sono Cina e Russia, oppure soltanto la Cina, oppure ancora Cina e Usa. La riunificazione coreana sarà incoraggiata. La presenza americana nel Sud sarà ridotta ma non eliminata. Il Giappone non disporrà di armi nucleari.

Incognite che restano

Ammesso che si arrivi a tanto, dovranno essere risolte alcune questioni «accessorie» ma fondamentali. Prima fra tutte quella delle verifiche. Come potranno gli Usa verificare che la minaccia degli ICBM non esista più? Forse dovrà accontentarsi delle ispezioni cinesi se Pyongyang le accetterà, oppure di quelle dell’Onu. Qualcuno a Washington non sarà contento. Ma in questo arduo cammino negoziale, che potrebbe anche non riuscire ad avanzare, ogni passo va paragonato all’ormai incombente pericolo di una guerra di certo catastrofica ma ancora oggi imprevedibile nella reale portata delle sue conseguenze umane e strategiche. Ora il rullo di tamburi comincia ad avere una alternativa di pace, e la novità non è di poco conto.

fonte e articolo intero:

http://www.corriere.it/esteri/17_ottobre_29/washington-pyongyang-quanto-manca-all-ora-x-649b2c30-bc1c-11e7-b9f3-82f15d252a79.shtml

Signore e Signori, ecco a Voi gli Stati Uniti, quelli che si ergono a paladini della giustizia nel mondo: 88 armi ogni 100 abitanti. Negli ultimi 1.735 giorni 1.516 sparatorie!

 

Stati Uniti

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Signore e Signori, ecco a Voi gli Stati Uniti, quelli che si ergono a paladini della giustizia nel mondo: 88 armi ogni 100 abitanti. Negli ultimi 1.735 giorni 1.516 sparatorie!

 

Negli Stati Uniti 88 armi ogni 100 abitanti. Negli ultimi 1.735 giorni 1.516 sparatorie.
Negli Stati Uniti le probabilità di morire in un conflitto a fuoco sono 11 volte superiori rispetto a qualsiasi altro paese sviluppato: le sparatorie, spesso con vittime, sono state negli ultimi anni quasi una al giorno.

Ottantotto armi da fuoco ogni cento abitanti. E’ questo il dato che più di ogni altro spiega cosa è accaduto domenica sera a Las Vegas, quando Stephen Paddock, pensionato di 64 anni, si è affacciato dal 32esimo piano di un hotel ed ha aperto il fuoco sulle persone che stavano assistendo a un concerto country. L’uomo era riuscito a portare nella sua stanza di albergo 23 tra pistole e fucili e centinaia di munizioni, mentre una perquisizione nella sua casa ha rivelato che ne possedeva altre 19, tutte perfettamente funzionanti. E’ probabilmente proprio nella facilità di accesso alle armi da fuoco che vanne trovate le ragioni della tragedia di Las Vegas, la più grave sparatoria nella storia degli Stati Uniti, ma anche di altri episodi simili numericamente meno consistenti, ma ugualmente gravi e soprattutto praticamente quotidiani.

USA: negli ultimi 1.735 giorni 1.516 sparatorie
E’ il Guardian a fornire alcuni dati che spiegano il fenomeno della stragi negli Stati Uniti, paese in cima alle classifiche mondiali per la quantità di armi possedute dai suoi cittadini. Episodi come quello di Las Vegas capitano in un numero 11 volte superiore rispetto a qualsiasi altro paese sviluppato, secondo uno studio pubblicato nel 2014 nel Journal of International Criminal Justice. Negli ultimi 1.735 giorni le sparatorie sono state 1.516, molte delle quali con la presenza di vittime. Come detto, mediamente negli USA ci sono 88 pistole ogni 100 abitanti: un dato impressionante anche se rapportato al secondo paese di tale classifica, lo Yemen, dove le armi sono invece 54 ogni 100 abitanti.

Curare persone ferite dalle armi costa agli USA 2,8miliardi di dollari
Secondo il Guardian, sono 30mila le persone uccise dalle armi da fuoco ogni anno negli States. In due casi su tre si tratta di suicidi. Sono invece 100mila gli uomini, donne o bambini che vengono feriti, stando a uno studio pubblicato sulla rivista Health Affairs. In termini sanitari, il costo sostenuto per curare le persone coinvolte in conflitti a fuoco è di 2,8miliardi di dollari all’anno. Dati emblematici: per gli americani le probabilità di morire a causa di un conflitto a fuoco sono 25 volte più alte rispetto agli altri paesi sviluppati. Un sondaggio dell’Università di Harvard rivela che la metà delle armi da fuoco in circolazione nel paese è detenuta dal 3% appena della popolazione e che 7,7 milioni di cittadini posseggono tra gli otto e i 140 fucili o pistole.

Uomo, conservatore e residente fuori dalle città: il profilo dei proprietari di armi
Significativo il profilo dei possessori di armi: si tratta di bianchi, prevalentemente conservatori e residenti fuori dalle grandi città. Il reddito naturalmente incide sulla possibilità di acquistare legalmente un pezzo: chi guadagna almeno 25.000 dollari ogni anno entra più facilmente in un’armeria. Il 30% dei conservatori dichiara il possesso di un’arma, rispetto al 19% dei moderati e al 14% dei liberali. L’acquisto di pistole e fucili continua ad essere una prerogativa maschile, dal momento che le donne che si rivolgono alle armerie rappresentano una porzione ridotta (12%) del mercato.

fonte: https://www.fanpage.it/negli-stati-uniti-88-armi-ogni-100-abitanti-negli-ultimi-1-735-giorni-1-516-sparatorie/