20 marzo 1994: 26 anni fa la misteriosa morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

 

Ilaria Alpi

 

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20 marzo 1994: 26 anni fa la misteriosa morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

A distanza di tanti anni, per Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, morti in circostanze misteriose il 20 marzo 1994 a Mogadiscio mentre indagavano su un misterioso traffico internazionale di armi e rifiuti tossici, la giustizia non è ancora arrivata.

Non aveva ancora 33 anni (li avrebbe compiuti di lì a breve, il 24 maggio) Ilaria Alpi, coraggiosa giornalista e fotoreporter del Tg3 uccisa a Mogadiscio il 20 marzo 1994 insieme al suo collega cineoperatore Miran Hrovatin.

Conosceva l’arabo, il francese e l’inglese, e ciò le aveva permesso di far carriera come corrispondente dal Cairo per i due principali quotidiani comunisti del tempo, l’Unità e Paese Sera. In seguito, grazie ad una borsa di studio, era stata assunta alla RAI. Anche nel colosso televisivo pubblico gli esteri continuavano a rimanere la sua specialità.

La prima volta che giunse in Somalia fu nel dicembre 1992 per seguire, come inviata del Tg3, la missione di pace Restore Hope voluta dalle Nazioni Unite per riportare pace ed ordine nel martoriato paese del Corno d’Africa, precipitato nel caos dopo la caduta di Siad Barre. Alla missione partecipava anche l’Italia, e ciò aveva provocato inizialmente non poche riserve presso l’ONU e gli Stati Uniti, che al nostro paese rimproveravano gli stretti rapporti intrattenuti proprio con Siad Barre nel corso degli Anni ’80.

Le inchieste di Ilaria Alpi si concentrarono quasi fin da subito su uno strano traffico di armi e di rifiuti tossici che, a quanto pare, vedeva pure il coinvolgimento dei servizi segreti italiani e di alte istituzioni del nostro paese. In sostanza, molti paesi industrializzati, europei in particolare, stoccavano i rifiuti più sgraditi in alcuni paesi africani, e fra questi la Somalia era stata individuata come meta ideale. In cambio i gruppi politici locali ricevevano tangenti e soprattutto armi, divenute indispensabili nel momento in cui, scoppiata la guerra civile in Somalia, i vari signori della guerra si contendevano ferocemente il predominio nel paese.

A novembre, un mese prima dell’arrivo di Ilaria Alpi, in Somalia era stato misteriosamente assassinato il sottufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi, e proprio da qui la giornalista italiana aveva voluto far partire la propria inchiesta. Li Causi, infatti, era proprio il principale informatore di Ilaria Alpi in merito a questo inquietante traffico di armi e di rifiuti.

Quel 20 marzo 1994 Ilaria Alpi e il suo collega Miran Hrovatin stavano ritornando da Bosaso, città situata nel nord della Somalia, dove avevano intervistato il cosiddetto “Sultano di Bosaso”, Abdullahi Moussa Bogor. Questi aveva parlato di stretti contatti fra ufficiali del governo di Siad Barre e funzionari italiani sul finire degli Anni ’80. A Bosaso Ilaria Alpi era salita su alcuni pescherecci ormeggiati presso il porto, e che si credeva fossero i mezzi con cui avveniva quel misterioso traffico di armi e rifiuti. Quelle imbarcazioni facevano capo ad una società di diritto pubblico somala, che dopo la caduta di Siad Barre, erano illecitamente divenute proprietà personale di un misterioso imprenditore italo-somalo.

Ritornati a Mogadiscio, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non trovarono il loro autista personale, e al suo posto si presentò Ali Abdi, che li accompagnò all’Hotel Sahafi, vicino all’aeroporto, e quindi all’Hotel Hamana. Proprio a pochi metri dall’Hotel Hamana, in prossimità dell’ambasciata italiana, nel quartiere Sahafi, i due vennero uccisi.

Poco dopo, sul luogo del delitto, gli altri unici due giornalisti italiani presenti a Mogadiscio, Giovanni Porzio e Gabriella Simoni. Successivamente giunse una troupe guidata da un reporter freelance americano, che sorprese i due giornalisti mentre spostavano i corpi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin dall’auto in cui erano stati uccisi a quella di un imprenditore italiano, che successivamente li trasportò fino al Porto Vecchio. Una troupe della Svizzera Italiana che si trovava all’Hotel Sahafi, dall’altra parte della cosiddetta “linea verde”, filmò su richiesta di Gabriella Simoni le stanze di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin e i loro effetti personali, che vennero quindi raccolti.

Partirono immediatamente numerose inchieste. Nel 1998 il sostituto procuratore di Roma, Franco Ionta, formulò la richiesta di rinvio a giudizio con l’accusa di concorso in omicidio aggravato per il cittadino somalo Omar Hashi Hassan, accusato di essere stato alla guida del famigerato Land Rover su cui si trovava il commando che compì l’esecuzione dei due giornalisti. L’anno dopo Franco Frattini, all’epoca a capo del Comitato Parlamentare per i Servizi di Informazione e Sicurezza e per il Segreto di Stato, confermò che effettivamente il movente del duplice omicidio andava ricercato proprio nell’indagine che Ilaria Alpi stava conducendo, e che aveva messo in luce quel misterioso traffico di armi e di rifiuti di cui non si doveva assolutamente parlare.

Sempre nel 1999, Hassan venne assolto per non aver commesso il fatto: a quel punto emerse una nuova verità, ovvero che Hassan fosse stato offerto alla giustizia italiana dal presidente somalo Ali Mahdi come capro espiatorio con cui riallacciare i rapporti fra Italia e Somalia. Tuttavia, il processo di appello che si tenne nel 2000 ribaltò completamente la sentenza, con la condanna all’ergastolo per Hassan accusato di duplice omicidio con l’aggravante della premeditazione.

Ahmed Ali Rage detto Gelle, testimone chiave contro Hassan insieme a Ali Abdi, si era nel frattempo reso irreperibile. Quanto ad Abdi, poco dopo aver fatto ritorno in Somalia, venne ucciso.

La Cassazione confermò la condanna per Hassan, senza però la premeditazione, e quindi con una pena detentiva di 26 anni. Nel 2016, tuttavia, avvenne una nuova svolta: appurata l’inattendibilità dell’ormai scomparso Gelle, sulle cue deposizioni era stata formulata l’accusa, Hassan venne nuovamente riconosciuto come innocente e scarcerato dopo aver scontato 17 dei 26 anni totali di condanna.

Intanto, nel 2006, si era riunita una Commissione Parlamentare d’Inchiesta che dopo tre anni concluse i suoi lavori con tre relazioni contrapposte, una approvata a maggioranza e le altre due sostenute dalla minoranza. Durante i lavori della Commissione vennero ascoltati numerosi testimoni e persone considerate informate dei fatti, come l’ex ambasciatore Mario Scialoja e vari funzionari del SISMI e del SISDE. Nella tesi sostenuta dalla maggioranza, si diceva che molto probabilmente l’assalto al mezzo su cui viaggiavano Ilaria Alpi e Miran Hrovatin era finalizzato a compiere una rapina o un rapimento, e che la morte dei due fosse stata solo una conseguenza non prevista. La fonte su cui tale tesi faceva affidamento era un rapporto riservato di UNOSOM del 3 aprile 1994.

Sui lavori della Commissione e soprattutto sui suoi risultati si sollevarono molte polemiche, finché la Corte Costituzionale non dichiarò che “non spettava alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin adottare la nota del 21 settembre 2005 (prot. n. 2005/0001389/SG-CIV), con la quale è stato opposto il rifiuto alla richiesta, avanzata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma, di acconsentire allo svolgimento di accertamenti tecnici congiunti sull’autovettura corpo di reato, e annulla, per l’effetto, tale atto”.

Così, nel gennaio 2011, la Commissione Parlamentare riaprì il caso, ed il 5 settembre dell’anno dopo Carlo Taormina dichiarò: “Ilaria Alpi è morta a causa di una rapina. Era in vacanza non stava facendo nessuna inchiesta, la commissione che presiedevo lo ha accertato. Ho un documento che manterrò privato per rispetto alla sua memoria che racconta tutta un’altra storia”. Inevitabili e ben comprensibili le polemiche che scoppiarono dopo tale dichiarazioni.

Il 21 novembre 2014 Luciana Riccardi, madre di Ilaria, ha scritto una lettera ai vertici dell’Associazione e del Premio Ilaria Alpi in cui, dimettendosi da socio, ha chiesto di chiudere il premio giornalistico perché non è stata fatta giustizia sulla morte della figlia. Anzi, “questo impegno con l’andare degli anni è divenuto particolarmente oneroso, anche per l’amarezza che provo nel constatare che, nonostante il nostro impegno, le indagini in sede giudiziaria non hanno portato alcun risultato”.

Tra omissioni e ricostruzioni tutt’altro che verosimili, il mistero della morte di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin anziché farsi più chiaro diventa sempre più oscuro ed impenetrabile.

 

tratto da: http://www.opinione-pubblica.com/20-marzo-1994-la-misteriosa-morte-di-ilaria-alpi-e-miran-hrovatin/

20 marzo 1979 – 41 anni fa l’omicidio di Mino Pecorelli. Un omicidio tutt’ora avvolto nel mistero… Nel 2002 Andreotti fu riconosciuto come mandante e condannato a 24 anni, ma un colpo di bacchetta magica della Cassazione annullò tutto…!

 

20 marzo

 

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20 marzo 1979 – 41 anni fa l’omicidio di Mino Pecorelli. Un omicidio tutt’ora avvolto nel mistero… Nel 2002 Andreotti fu riconosciuto come mandante e condannato a 24 anni, ma un colpo di bacchetta magica della Cassazione annullò tutto…!

 

La sera del 20 marzo 1979 Mino Pecorelli fu assassinato da un sicario che gli esplose quattro colpi di pistola in via Orazio a Roma, nelle vicinanze della redazione del giornale.

I proiettili, calibro 7,65, trovati nel suo corpo sono molto particolari, della marca Gevelot, assai rari sul mercato (anche su quello clandestino), ma dello stesso tipo di quelli che sarebbero poi stati trovati nell’arsenale della banda della Magliana, rinvenuto nei sotterranei del Ministero della Sanità.

L’indagine aperta all’indomani del delitto seguì diverse direzioni, coinvolgendo nomi come Massimo Carminati (esponente dei Nuclei Armati Rivoluzionari e della banda della Magliana), Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti.

Tutti vennero prosciolti il 15 novembre 1991; successivamente, le ipotesi sul mandante e sul movente fiorirono a grappoli: da Licio Gelli (risultato estraneo ai fatti) a Cosa nostra, fino ad arrivare ai petrolieri ed ai falsari di Giorgio De Chirico (Antonio Chichiarelli, membro della Banda della Magliana).

Il 6 aprile 1993, il pentito Tommaso Buscetta, interrogato dai magistrati di Palermo, parlò per la prima volta dei rapporti tra politica e mafia e raccontò, tra le altre cose, di aver saputo dal boss Gaetano Badalamenti che l’omicidio Pecorelli sarebbe stato compiuto nell’interesse di Giulio Andreotti.

La magistratura aprì un fascicolo sul caso. In questo faldone vennero aggiunti, man mano che le indagini proseguivano e per effetto delle deposizioni di alcuni pentiti della “banda della Magliana”, il senatore Giulio Andreotti, l’allora pm Claudio Vitalone, Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calò in qualità di mandanti, e inoltre Michelangelo La Barbera e Massimo Carminati in qualità di esecutori materiali.

Il 24 settembre 1999 fu emanata la sentenza di assoluzione per tutti gli imputati “per non avere commesso il fatto”.

Il 17 novembre 2002, la corte d’assise d’appello di Perugia condannò Andreotti e Badalamenti a 24 anni di reclusione come mandanti dell’omicidio.

La corte d’appello confermò invece l’assoluzione per i presunti esecutori materiali del delitto.

Il 30 ottobre 2003 la Corte di Cassazione annullò senza rinvio la condanna inflitta in appello a Giulio Andreotti e a Badalamenti, affermandone definitivamente l’innocenza.

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Andreotti e l’omicidio Pecorelli

Andreotti è stato anche processato per il coinvolgimento nell’omicidio di Mino Pecorelli. Secondo i magistrati investigatori, Andreotti commissionò l’uccisione del giornalista, direttore della testata Osservatore Politico (OP). Pecorelli – che aveva già pubblicato notizie ostili ad Andreotti, come quella sul mancato incenerimento dei fascicoli SIFAR sotto la sua gestione alla Difesa – aveva predisposto una campagna di stampa su finanziamenti illegali della Democrazia Cristiana e su presunti segreti riguardo il rapimento e l’uccisione dell’ex Presidente del Consiglio Aldo Moro avvenuto nel 1978 ad opera delle Brigate Rosse.

In particolare, il giornalista aveva denunciato connessioni politiche dello scandalo petroli, con una copertina intitolata Gli assegni del Presidente con l’immagine di Andreotti, ma accettò di fermare la pubblicazione del giornale già nella rotativa.

Il pentito Tommaso Buscetta testimoniò che Gaetano Badalamenti gli raccontò che «l’omicidio fu commissionato dai cugini Salvo per conto di Giulio Andreotti», il quale avrebbe avuto paura che Pecorelli pubblicasse informazioni che avrebbero potuto distruggere la sua carriera politica.

In primo grado nel 1999 la Corte d’assise di Perugia prosciolse Andreotti. Successivamente, il 17 novembre 2002, la Corte d’assise d’appello ribaltò la sentenza di primo grado per Badalamenti e Andreotti, condannandoli a 24 anni di carcere come mandanti dell’omicidio Pecorelli.

Il 30 ottobre 2003 la sentenza d’appello fu annullata senza rinvio dalla Cassazione, annullamento che rese definitiva la sentenza di assoluzione di primo grado.

Per la Cassazione la sentenza d’appello si basava su «un proprio teorema accusatorio formulato in via autonoma e alternativa in violazione sia delle corrette regole di valutazione della prova che del basilare principio di terzietà della giurisdizione», sostenendo che il processo di secondo grado avrebbe dovuto confermare il giudizio di assoluzione, basato su una «corretta applicazione della garanzia». I supremi giudici aggiunsero che le rivelazioni di Buscetta non si basavano su elementi concreti «circa l’identificazione dei tempi, delle forme, delle modalità e dei soggetti passivi (intermediari, submandanti o esecutori materiali) del conferimento da parte di Andreotti del mandato di uccidere», oltre al fatto che mancava il movente e che la sentenza di condanna non aveva spiegato né come né perché l’imputato avrebbe ordinato l’omicidio del giornalista.

 

 

fonti:

https://www.ilmemoriale.it/politica/2017/10/24/omicidio-di-mino-pecorelli.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Giulio_Andreotti