Black Power, quando alle olimpiadi gli atleti si ribellarono al razzismo – Esattamente 50 anni fa, il 16 ottobre del ’68, la storica protesta di Tommy Smith e John Carlos…

 

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Black Power, quando alle olimpiadi gli atleti si ribellarono al razzismo – Esattamente 50 anni fa, il 16 ottobre del ’68, la storica protesta di Tommy Smith e John Carlos…

Black Power, quando alle olimpiadi gli atleti si ribellarono al razzismo

Sono passati 50 anni dal gesto di Tommy Smith e John Carlos che alzarono il pugno con il guanto nero. Mentre Peter Norman aveva un distintivo per i diritti civili. Furono discriminati e cacciati.

Certo che ci emozioniamo ancora nel vedere questa foto di 50 anni fa. Era il 16 ottobre del 1968, in quegli anni le Olimpiadi non erano soltanto quella cosa che sognano Malagò ed altri, erano un momento in cui etica, sport e politica scendevano in campo. Ecco perché questa foto è importante. Perché Dopo aver vinto la finale del 200 metri con un record mondiale stratosferico, Tommy Smith, con il suo compagno di squadra e compagno delle Black Power, John Carlos, cambiò per sempre la storia alzando il pugno nero chiuso al cielo. Il pugno destro Smith, quello sinistro Carlos. Le conseguenze repressive per loro furono furionde. Cacciati dalla squadra americana, la loro carriera finì con quella meravigliosa testimonianza politica.
E grandissimo fu anche Norman, che appoggiò i due colleghi americani e fu punito duramente dalla repressiva squadra austrraliana. Anche lui finì la sua carriera all’omnbra di quei pugni chiusi.

In una immagine simbolica la storia di tre uomini coraggiosi, non solo campioni dello sport. Etica, coraggio e ribellione al sistema ingiusto: Tommy Smith, John Carlos e Peter Norman.

Leggete questo pezzo straordinario di Gianni Mura su quella premiazione che ha cambiato la storia.

Bisogna sforzarsi di non guardare i due a testa bassa, il pugno chiuso alzato in un guanto nero, calze nere e niente scarpe, sul podio. Bisogna concentrarsi sull’ atleta di sinistra, bianco, lo sguardo dritto, le braccia lungo i fianchi. Bisogna ricordare alcune cose, di quel 1968 perennemente associato al Maggio francese. Il 16 marzo il massacro di My Lai, il 4 aprile l’ assassinio di Martin L. King, il 5 giugno tocca a Bob Kennedy.

Aggiungiamoci il Biafra, i carri armati sovietici sulla primavera di Praga, la strage di piazza delle Tre Culture poco prima che cominci l’ Olimpiade messicana. Bisogna sapere che la finale dei 200 metri la vince Tommie Smith in 19″83 (primo a scendere sotto i 20″) davanti a Norman (20′ 06″)e Carlos (20′ 10″). Carlos parte forte, troppo forte. Smith lo passa a 30 metri dalla linea e corre gli ultimi 10 a braccia alzate. Norman ai 100 metri è solo sesto, viene fuori nel finale, supera Carlos negli ultimi metri. Bisogna sapere che nel ‘ 67 Harry Edwards, sociologo a Berkeley, voce baritonale, discreto discobolo, ha fondato l’ Ophr, Olympic program for human rights. L’ idea è che gli atleti neri boicottino i Giochi, ma è difficile da realizzare. Chi aderisce porta il distintivo, una sorta di coccarda, ed è libero di manifestare la sua protesta come crede. Smith e Carlos, accolti alla San José perché bravi atleti, a loro volta studenti di Sociologia, portano il distintivo e vogliono manifestare.

Bisogna anche avere un’ idea sull’ età dei tre sul podio. Tutti nati nel mese di giugno. Smith nel Texas, settimo di undici figli. Ha 24 anni. Suo padre raccoglie cotone. Norman è il più anziano, ha 26 anni, suo padre è macellaio, famiglia molto credente e vicina all’ Esercito della salvezza. Carlos ha 23 anni,è figlio di un calzolaio, natoe cresciuto ad Harlem. Appena giù dal podio la loro carriera sarà finita, bruciata, e la vita un inferno. Ma loro non lo sanno e, se lo sanno, non gliene importa. Nel sottopassaggio che va dagli spogliatoi al podio Norman assiste ai preparativi dei due americani. Tutto è fortemente simbolico, dalla mancanza di scarpe (indica la povertà) alla collanina di piccole pietre che Carlos mette al collo (ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato). Smith e Carlos spiegano. E Norman dice: «Datemi uno dei distintivi, sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti». Così anche Norman sistema la coccarda sulla sinistra della tuta. C’ è un problema, Carlos ha dimenticato i suoi guanti neri al villaggio, mentre Smith ha con sé quelli comprati da Denise, sua moglie. «Mettetevene uno tu e l’ altro tu», consiglia Norman. Così fanno. Smith alza il pugno destro e Carlos il sinistro. 
«Se ne pentiranno tutta la vita», dice Payton Jordan, capodelegazione Usa. Vengono cacciati dal villaggio, Smith e Carlos. Uno camperà lavando auto, l’ altro come scaricatore al porto di New York e come buttafuori ad Harlem. Sono come appestati. A casa di Smith arrivano minacce e pacchi pieni di escrementi, l’ esercito lo espelle per indegnità. A casa di Carlos minacce telefoniche a ogni ora del giorno e della notte. Sua moglie si uccide. Solo molti anni dopo li riprenderannoa San José, come insegnanti di educazione fisica. E nel 2005 Norman sarà con loro, per l’ inaugurazione di un monumento che ricorda quel giorno in Messico. Norman in Australia viene cancellato. Supera 13 volte il tempo di qualificazione per i 200 e 5 quello per i 100, ma a Monaco ‘ 72 non lo mandano. Nessuna spiegazione. Gioca a football ma smette per un infortunio al tendine d’ Achille, rischia l’ amputazione di una gamba. Insegna educazione fisica, svolge attività sindacale, arrotonda in una macelleria. Il più grande sprinter australiano non è coinvolto in Sydney 2000 né tantomeno invitato (col suo 20″06 avrebbe vinto l’ oro). 
Sofferente di cuore, muore il 3 ottobre 2006. Smith e Carlos vanno a reggere la bara, il 9 ottobre. La banda suona “Chariots of fire”. Il 9 ottobre diventa, su iniziativa Usa, la giornata mondiale dell’atletica. Il nipote Matt ha girato un lungometraggio sul nonno, intitolato “Salute”, trovando pochi finanziatori in patria («È una storia che riguarda due atleti neri»). Non erano due neri e un bianco a chiedere rispetto e giustizia su quel podio, erano tre esseri umani. «Sono affari vostri», poteva dire Norman, ma non lo disse e non si pentì mai, e gli altri due nemmeno. Tutte cose che la foto non dice.

 

tratto da: https://www.globalist.it/life/2016/10/16/black-power-quando-alle-olimpiadi-gli-atleti-si-ribellarono-al-razzismo-206908.html