23-24 marzo 1944, 335 martiri nella cava alle Fosse Ardeatine – Una lapide eterna di orrore sul nazifascismo!

 

Fosse Ardeatine

 

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23-24 marzo 1944, 335 martiri nella cava alle Fosse Ardeatine – Una lapide eterna di orrore sul nazifascismo!

Raccontate questo a quei coglioncelli che vanno dicendo “hanno fatto anche cose buone…”

24 marzo 1944, 335 martiri nella cava alle Fosse Ardeatine

Nell’eccidio delle Fosse Ardeatine morirono 335 italiani. Fu un’azione punitiva, la rappresaglia in seguito all’attacco dei partigiani alle truppe tedesche in via Rasella. Un massacro delle cui dimensioni ci si rese conto solo nel dopoguerra, quando furono recuperati e identificati i corpi delle vittime.

Il 23 marzo 1944, 17 partigiani fecero esplodere un ordigno in via Rasella, a Roma, mentre passava una colonna di militari tedeschi. Nell’attentato vennero uccisi 32 militari, mentre altri 10 soldati morirono nei giorni successivi. Nell’esplosione morirono anche due civili italiani. La sera del 23 marzo, il comandante della polizia e dei servizi di sicurezza tedeschi a Roma, il tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, insieme al comandante delle forze armate della Wermacht di stanza nella capitale, il generale Kurt Malzer, disposero che l’azione di rappresaglia consistesse nella fucilazione di dieci italiani per ogni soldato tedesco ucciso, e suggerirono che le vittime venissero selezionate tra i condannati a morte detenuti nelle prigioni di Regina Coeli e via Tasso. Il generale Eberhard von Mackensen – la cui giurisdizione comprendeva anche Roma – approvò la proposta.

Il luogo scelto per l’esecuzione fu una cava di tufo dismessa sulla via Ardeatina, a un passo dalle catacombe cristiane. La cava fu ritenuta idonea per poter eseguire la rappresaglia in segreto ed essere utilizzata come fossa comune dove occultare i cadaveri.

Il numero dei prigionieri che erano già stati condannati a morte, però, non era sufficiente. Per questa ragione, i nazisti aggiunsero alla lista altri detenuti, molti dei quali arrestati per motivi politici, altri sospettati di aver preso parte ad azioni della Resistenza, 57 cittadini ebrei, molti dei quali erano detenuti nel carcere romano di Regina Coeli, ed alla fine anche alcuni civili fermati per caso nelle vie di Roma.

Il giorno seguente, agli ordini dei capitani delle SS Erich Priebke e Karl Hass, i camion caricarono tutti gli artestati, 335 e tutti uomini, e li portarono alle cave dove fu compiuto il massacro.

Il più anziano tra gli uccisi aveva poco più di settant’anni, il più giovane quindici. Quando le vittime vennero radunate all’interno delle cave, Priebke e Hass si accorsero che erano 335 anziché 330. Le SS però decisero che rilasciare quei 5 prigionieri avrebbe potuto compromettere la segretezza dell’azione e quindi decisero di ucciderli insieme agli altri. I prigionieri selezionati furono condotti all’interno delle grotte con le mani legate dietro la schiena. Già prima di raggiungere il luogo dell’esecuzione, Priebke e Hass avevano deciso di non utilizzare il metodo tradizionale del plotone di esecuzione; ai militari incaricati di far fuoco venne ordinato di occuparsi di una vittima alla volta e di sparare da distanza ravvicinata, in modo da risparmiare tempo e munizioni.

Gli ufficiali nazisti portarono quindi i prigionieri all’interno delle fosse, obbligandoli a disporsi in file di cinque legati tra loro e a inginocchiarsi; lì li uccisero uno a uno con un colpo alla nuca. Quando il massacro ebbe termine, Priebke e Hass ordinarono ai militari del genio di chiudere l’entrata delle fosse facendola saltare con l’esplosivo.

Qualcuno sentì le esplosioni, altri raccontarono di aver visto qualcosa: iniziò a diffondersi la voce dell’eccidio. L’unica informazione a riguardo arrivò da un trafiletto del Messaggero: “Il comando tedesco ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato, 10 criminali comunisti badogliani verranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito”.

Chi fossero le vittime e dove precisamente fossero seppellite non era dato sapere. Nei giorni e nei mesi successivi, però, i familiari di prigionieri scomparsi si recarono alle cave dove lasciarono fiori e messaggi dedicati ai loro cari, pur non avendo la certezza che fossero sepolti lì. Solo dopo la guerra le cave furono aperte e si potè procedere all’identificazione dei corpi delle vittime.