I soldati italiani in Niger a proteggere l’uranio dei francesi… Ma “loro” Vi prendono per i fondelli chiamandola “missione di pace”…!

 

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I soldati italiani in Niger a proteggere l’uranio dei francesi… Ma “loro” Vi prendono per i fondelli chiamandola “missione di pace”…!

 

Soldi e uranio, col rischio di finire in mezzo a una guerra. L’Italia in Niger con 500 soldati, su invito della Francia? Motivo ufficiale: fermare, nel Sahel, la tratta dei migranti e il fondamentalismo islamico. Ma attenzione: il Niger ha appena ottenuto, dalla conferenza parigina dei donatori, un super-finanziamento da 23 miliardi di dollari. Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, “allo sviluppo e alla sicurezza”, i cui appalti sono destinati a imprese europee. «Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo, per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”», scrive il blog “Senza Soste”, che mette a fuoco anche l’altra possibile motivazione della strana missione italiana, annunciata da Gentiloni dal ponte di una portaerei. «Il punto è che in Niger, oltre ai 23 miliardi di dollari in aiuti che andranno trasformati in appalti, c’è qualcosa che vale, come sempre, una spedizione militare: qualcosa di serio, come quel tipico prodotto da green economy che è l’uranio». Non è certo una novità: proprio per l’uranio destinato al nucleare fu montato, nel 2002, il caso Nigergate. «In poche parole, si scrive Niger e si legge uranio. Stiamo parlando del quinto produttore di uranio al mondo ma con una popolazione, di venti milioni di persone, stimata tra le dieci più povere del pianeta».

In Niger c’è anche Arlit, una delle capitali mondiali della produzione di uranio impoverito, continua il newsmagazine. E’ proprio il pericolosissimo materiale «che provocò la morte dei soldati italiani al ritorno dalle missioni coloniali in Kosovo, Afghanistan e Jugoslavia (340 morti, 4000 malati, una strage silenziata al massimo dai media, con D’Alema e Mattarella, all’epoca ministro della difesa, che in materia negarono l’impossibile)». Ma in Niger, continua “Senza Soste”, «se si scrive uranio si legge Areva, una multinazionale francese a proprietà pubblica, con un proprio distinto grattacielo al quartiere parigino della Défense». Il campo si fa quindi più chiaro: resta in mano francese lo sfuttamento e l’export dell’uranio del Niger, i cui proventi non vanno certo ad una popolazione ben al di sotto del livello di povertà. «L’export di uranio del Niger, oltre a non fruttare niente per il popolo di quel paese e inquinarne pesantemente le acque, fornisce energia per il 50 per cento della popolazione francese». E’ evidente quindi che «lo sviluppo drammaticamente ineguale in Niger è un affare interno della Francia». Ma anche esterno, «perchè nella fornitura di energia atomica in Ue, che è circa un terzo di quella complessiva, l’uranio permette alla Francia di essere la principale produttrice di energia del continente, con una quota del 17,1% sulla produzione totale Ue e davanti a Germania (15,3%) e Regno Unito (in calo, ma al 13,9%)».

Così è tutto più chiaro, scrive “Senza Soste”: «Gli scafisti di un paese senza sbocco al mare c’entrano poco, se non come fake news all’amatriciana». L’Italia? Forse potrebbe ricavarne, in cambio, anche una quota di energia. Ma, al netto degli eventuali appalti per Roma – una possibile fetta dei 23 miliardi concessi in “aiuti” – il blog segnala che le nostre truppe saranno inserite in un disegno, interamente francese, di ristrutturazione “coloniale” dell’area, dopo la crisi apertasi nel 2011 per Areva, costretta a rivedere una serie di reattori dopo il disastro giapponese di Fukushima. Il 2011, ricorda la “Bbc”, è anche l’anno del cosiddetto “uranium-gate”, che coinvolge l’Areva in fenomeni di corruzione in Niger, con fondi neri finiti in Russia e in Libano, fuori dal controllo di Parigi. Altro obiettivo, per la Francia: contrastare la presenza della Cina sul terreno: «E visto che in Africa i cinesi non esistono, sul piano militare, non c’è niente di meglio che ristrutturare Areva dall’interno e far valere la propria presenza sul campo in termini di truppe, con l’aiuto dell’Italia». Il rischio? La guerriglia: dopo la sollevazione dei Tuareg che ha minacciato proprio le miniere di uranio, si è già fatta sentire una guerriglia definita “islamista”, che ha già colpito siti francesi nel 2013.

«Secondo fonti africane in lingua inglese, la guerra dell’uranio in Niger sembra essere appena cominciata: una guerra con gli Usa che forniscono i droni, mentre la Francia e l’Italia sono sul campo – la prima a difendere i propri interessi diretti, la seconda a supporto», cercando di rimediare appalti o magari una posizione privilegiata nella produzione di energia. Gruppi islamisti? In un articolo seguito all’uccisione di quattro soldati americani nell’area, il “Guardian” parla di gruppi in grado di colpire ma difficili da identificare, «in una delle più remote e caotiche zone di guerra del pianeta». Ed è in questo tipo di zona che la Francia vuol rimettere ordine, con l’aiuto italiano, anche per fronteggiare la minacciosa concorrenza del Kazakhstan, super-produttore di uranio. «Se ne può stare certi: le mosse legate al Niger vedranno un piano di decisione politico, su più capitali dell’Occidente, e uno legato alla situazione sui mercati finanziari. Poi si potrà raccontare degli scafisti, dei progressi contro la guerriglia islamista», a beneficio dei grandi media e del loro pubblico ignaro. Non a caso, è già partito il ritornello degli “aiuti” per fronteggiare la devastante emergenza-siccità che sta flagellando l’area. «Per evitare tragedie nel Sahel, legate alla fuga dai territori, basterebbe intervenire sulle crisi idriche, favorendo le naturali economie locali, e non immaginare di creare fortezze da fantascienza».

Se però andiamo a vedere la vastità della crisi idrica che tocca il Niger, aggiunge “Senza Soste”, vediamo che non comprende solo quel paese ma anche tutta la grande fascia sub-sahariana, dalla Mauritania all’Eritrea. E spesso, le zone toccate dalla crisi idrica coincidono con quelle interessate dalla cosiddetta guerriglia islamica: è il caso del Mali, oggetto di intervento francese a inizio 2013. «Parigi interviene, quando la crisi economica e politica precipita, per “stabilizzare” economia e situazione politica del paese e far valere gli interessi francesi. La novità è che, stavolta, interviene anche l’Italia», coinvolta anche nell’intricato dopoguerra in Libia. Riusciranno a pesare sulla crisi, i maxi-appalti in arrivo? «A essere cinici – scrive “Senza Soste” – con 150 milioni annui, e qualche cerimonia militare, l’Italia si dovrebbe garantire un po’ di appalti, per una cifra magari 20 o 30 volte superiore, per le proprie imprese dal settore infrastrutture a quello della fornitura». Secondo Gianandrea Gaiani di “Analisi Difesa”, non è né garantito l’affrancamento dalla subalternità militare a Parigi, già evidenziatosi con la crisi libica del 2011, né il processo di razionalizzazione dei flussi migratori. La politica italiana? Considera “naturale” «l’assenza di qualsiasi visione strategica sull’Africa, continente la cui sinergia tra miseria e boom demografico è ottima candidata ad essere un futuro problema per l’Europa».

 

fonte: http://www.libreidee.org/2018/01/soldati-italiani-in-niger-a-proteggere-luranio-dei-francesi/

 

Il malessere del modello tedesco – La ricchezza della Germania è solo una fake news

 

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Il malessere del modello tedesco – La ricchezza della Germania è solo una fake news

di Emanuel Pietrobon

Viaggio nella Germania che ha subito gli effetti della globalizzazione, dell’immigrazione selvaggia e della denazificazione.

La propaganda europeista da anni martella le opinioni pubbliche dei 28 veicolando la (falsa) convinzione che la Germania sia il più grande successo dell’Eurozona e che le sue ricette applicate in società ed economia dovrebbero essere assunte a modelli di riferimento per l’intera comunità europea. La realtà non corrisponde esattamente ai racconti del Comitato Ventotene e basterebbe uno sguardo, neanche tanto approfondito, alla situazione interna del paese per capire che si tratta di uno dei più grandi miti costruiti dalla fabbrica di fake news, insieme a quello svedese.

Secondo un’inchiesta del Der Spiegel del 2012, la ricetta economica tedesca basata su un modello neomercantilista fortemente dipendente dalla politica esportatrice verso territori extracomunitari che ha reso possibile al paese di diventare la prima potenza economica d’Europa sarebbe un finto successo perché ha arricchito una piccola parte della popolazione a fronte dell’impoverimento di milioni di tedeschi.

Infatti, da anni gli stipendi di operai generici e dipendenti base sono bloccati, caratterizzati da contratti precari con poche possibilità di regolarizzazione a tempo indeterminato e bonus (di qualsiasi tipo) nulli; inoltre la paga mensile media per diverse mansioni è lentamente diminuita sotto la soglia dei 800 euro e figure professionali come cuochi, camerieri e insegnanti percepiscono stipendi inferiori a quelli del 2003.

Marzahn è uno dei simboli di quella Germania volutamente dimenticata e assassinata dalla globalizzazione: palazzi di recente costruzione e aree giochi nascondono un tasso di disoccupazione doppio rispetto alla media nazionale, la metà della popolazione vive di sussidi statali e criminalità dilagante

La causa di tutto ciò? L’inchiesta accusa le politiche neoliberiste che hanno deregolamentato il mercato del lavoro tedesco nel nome della flessibilità, comportando un generale abbassamento dei salari e una precarizzazione dei rapporti di lavoro: oltre 900mila i cosiddetti “precari” nel 2012 rispetto ai 300mila del 2003. Nel 2015, il Paritätische Gesamtverband, un’associazione attiva nel sociale, denunciava in un rapporto il ritorno della povertà nel paese ai livelli del pre-unificazione: 12 milioni e 500mila degli 80 milioni di cittadini guadagnavano meno di 540 euro al mese, vivendo in stato di povertà. Una situazione, a detta dell’associazione, causata dai tagli alle politiche di tutela del lavoro. Nello stesso anno, secondo il Destatis, l’ufficio di statistica tedesco, erano oltre 3 milioni i poor worker, ossia quei lavoratori in soglia di povertà per via dello stipendio non allineato al costo della vita. E che dire della situazione sociale? Tanto è stato scritto sugli stupri di massa del capodanno di Colonia del 2016 operati da bande di immigrati, specialmente medio-orientali e balcanici – parte di essi richiedenti asilo, rifugiati umanitari e profughi, e da allora la Germania è stata sconvolta da diversi attentati a matrice islamista; eventi che hanno giocato un ruolo fondamentale nell’ascesa di partiti antisistema come Alternativ für deutschland alle recenti elezioni.

Il modello d’integrazione tedesco forse non è mai stato capace di germanizzare i non autoctoni, ed oggi più che mai mostra la vastità delle sue falle tra attentati terroristici, proliferazione di ghetti e no-go zones. Secondo una ricerca del Gatestone Institute, nel 2016 soltanto 34mila rifugiati, su oltre un milione di entrati nel paese tra il 2014 e il 2015, avevano trovato un’occupazione regolare, con contratto e tutele sindacali. Dati confermati, in parte, anche dalla Bundesagentur für Arbeit, l’Agenzia federale del lavoro, che nello stesso anno denunciava che dei 2 milioni e 500mila abitanti del paese senza occupazione, il 43,1% era straniero o tedesco naturalizzato. La stessa agenzia nel rapporto approfondiva le cause della situazione occupazionale tra etnie, sottolineando l’importanza giocata dal diverso background culturale nelle possibilità di trovare un’occupazione, o quantomeno una soddisfacente, ed integrarsi meglio nella società. Un’inchiesta del Wall Street Journal dello stesso anno ha invece portato alla luce il fallimento del progetto di inserimento dei profughi nel mondo della grande imprenditoria tedesca, tanto auspicato dal governo Merkel nel 2015. Tra i casi più clamorosi Deutsche Post, che ha offerto 1000 posti di lavoro a rifugiati ricevendo solo 235 domande di partecipazione, e Continental AG che ha avviato un percorso formativo con finalità d’assunzione per 50 rifugiati, terminato soltanto da 15 degli aspiranti.

In Germania, durante le celebrazioni del capodanno 2016, specialmente a Colonia, hanno avuto luogo delle violenze di massa operate da bande organizzate di profughi, richiedenti asilo e immigrati mediorientali e balcanici, al termine delle quali circa 2mila persone sono state vittime di stupri, aggressioni e rapine

Se la situazione lavorativa dei nuovi tedeschi è drammatica, quella vissuta dai tedeschi è tragica stando al rapporto “Sulla criminalità nel contesto della migrazione” della BKA, la polizia federale tedesca, coprente reati compiuti da stranieri, richiedenti asilo e profughi nel periodo 2013-17. Nel 2016, questa categoria di persone si sarebbe macchiata di 3404 reati sessuali (su un totale di 6100 denunciati) unamedia di 9 al giorno; un aumento vertiginoso considerando i 559 crimini a sfondo sessuale del 2013, per una media di 2 al giorno. Secondo il rapporto le principali nazionalità protagoniste di tali reati sarebbero in ordine: Siria, Afganistan e Pakistan. Alla luce di questi numeri, forse non è un caso che in occasione delle celebrazioni del nuovo anno, le autorità berlinesi abbiano deciso di realizzare zone di sicurezza per le donne a Pariser Platz, suscitando scalpore in Occidente, ma ottenendo consensi nel paese.

Un capitolo a parte andrebbe dedicato alla salute mentale dei tedeschi. Secondo una ricerca dell’OCSE sull’utilizzo e abuso di farmaci nei paesi sviluppati, in Germania il numero di coloro che consumano antidepressivi con assiduità è aumentato del 46% tra il 2007 ed il 2011, facendo del paese uno dei più afflitti dal problema della farmacodipendenza dietro la regione scandinava. Dati sorprendenti anche secondo l’organizzazione che aveva associato l’incremento nell’uso di questi farmaci alla recente crisi economica, salvo poi dover fare marcia indietro leggendo i numeri di Germania e paesi scandinavi, in cui l’abuso è andato crescendo senza sosta, quindi apparentemente slegato ai cicli economici. Il tema dell’utilizzo di antidepressivi in Germania ha attirato l’attenzione di diversi studiosi e centri di ricerca. Secondo un’inchiesta del 2015 di Deutsche Welle, la principale emittente pubblica tedesca, in Germania la media dei consumatori di antidepressivi è aumentata dai 52 ogni 1000 abitanti del 2000 ai 104 del 2012 – la media europea è stabile a 56 ogni 1000 abitanti.

Nonostante il trend economico positivo, in Germania l’uso di psicofarmaci è andato aumentando vertiginosamente negli ultimi 17 anni, come denunciato dall’Ocse, posizionandosi ai primi posti tra i paesi sviluppati, dietro solo alle nazioni scandinave

L’emittente, riprendo i dati forniti dall’Ocse e dalla Techniker Krankenkasse, un’importante compagnia tedesca di assicurazione sanitaria, ha portato alla luce diversi dati: tra il 2000 e il 2013 sono aumentati del 2% i lavoratori assicurati a cui sono stati prescritti antidepressivi, gli antidepressivi sono prescritti ad un tasso due volte maggiore alle donne rispetto che agli uomini, i lavoratori in età matura prendono più antidepressivi rispetto a quelli più giovani e l’uso di antidepressivi è più frequente tra operatori dei servizi sociali, precari ed operai. L’indagine si conclude con l’opinione del dottor Malek Bajbouj, professore di neuropsichiatria all’ospedale universitario di Berlino, secondo il quale nel paese non è in corso alcuna epidemia di abuso da psicofarmaci, ma si tratterebbe piuttosto di un aumento legato alla maggiore accettazione sociale dei trattamenti farmacologici e alla minore stigmatizzazione di coloro che ne fanno uso.

La Germania è, quindi, anche questo: un palazzo in rovina che viene costantemente riverniciato e ammodernato superficialmente in modo tale da nasconderne le crepe e renderne gradevole l’aspetto, ma destinato a soccombere sul proprio peso, un gigante d’argilla che ha deciso di rimediare alla crisi demografica dando luogo ad una politica migratoria che ha fatto entrare nel paese oltre un milione di persone nel solo 2015 salvo poi ricorrere a ripari impacciati e miopi ai primi segnali di instabilità sociale. Un paese che ha perso la bussola ma che continua a guidare il resto della squadra, l’Ue, verso la stessa, tragica sorte.

Fonte: L’INTELLETTUALE DISSIDENTE

Telegraph – L’Eurozona sta diventando una macchina per l’impoverimento dei popoli!

 

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Telegraph – L’Eurozona sta diventando una macchina per l’impoverimento dei popoli!

Il britannico Telegraph pubblica un commento desolante su come l’eurozona si sia (prevedibilmente) tradotta da catastrofe finanziaria a catastrofe sociale, con una proporzione sempre crescente di persone in povertà sia relativa che assoluta. Nel frattempo però nel resto d’Europa questa tendenza è molto più contenuta o spesso opposta, a evidenziare indubitabilmente ciò che la teoria aveva annunciato: l’euro è la singola principale causa di aumento della povertà nel vecchio continente.

 

Traduzione a cura di Grim (@gr_grim)

di Matthew Lynn, 24 ottobre 2016

Le corse agli sportelli sono all’ordine del giorno. I mercati obbligazionari vanno nel panico, e i governi del Sud-Europa necessitano di bail-out [salvataggi economici, NdT] ogni pochi anni. La disoccupazione è schizzata alle stelle e la crescita rimane asfittica, non importa quante centinaia di miliardi di denaro la Banca Centrale Europea stampi ed inietti nell’economia.

Ormai siamo tutti annoiatamente consapevoli di come l’eurozona sia stata un disastro finanziario. Ma ora inizia a diventare evidente che essa è anche un disastro sociale. Quello che spesso viene omesso dalle discussioni sui tassi di crescita, sui bail-out e sull’armonizzazione bancaria è che l’eurozona sta diventando una macchina di impoverimento.

Mentre la sua economia è in stagnazione, milioni di persone stanno cadendo in uno stato di vera e propria deprivazione. I tassi di povertà sono aumentati vertiginosamente in tutta Europa, sia che li si misuri in termini relativi che in termini assoluti, e gli aumenti peggiori si sono verificati all’interno dell’area che adotta la moneta unica.

Non potrebbe esserci un atto d’accusa più scioccante del fallimento dell’euro, o un promemoria più potente che gli standard di vita cominceranno a migliorare solo se la moneta unica verrà sottoposta a riforme radicali, o smantellata.

L’Eurostat, l’agenzia statistica dell’Unione Europea, ha pubblicato da poco le ultime analisi sul numero di persone “a rischio di povertà o esclusione sociale”, confrontando i dati del 2008 con quelli del 2015. Tra i 28 membri dell’Unione, cinque Paesi hanno sperimentato una significativa crescita di questo valore, paragonato con l’anno del crollo finanziario. In Grecia il 35,7% della popolazione rientra in questa categoria, rispetto al 28,1% del 2008. Un incremento di 7,6 punti percentuali. A Cipro l’incremento è stato di 5,6 punti percentuali: ora il 28,7% della popolazione è classificato come “povero”. In Spagna tale valore è aumentato di 4,6 punti percentuali, in Italia di 3,2 punti, e persino il Lussemburgo, difficilmente considerabile un Paese a rischio di deprivazione materiale, ha visto il tasso di povertà salire al 18,5% dal 2008, in aumento di tre punti.

Ma la situazione non è così tetra dappertutto. In Polonia, il tasso di povertà è sceso dal 30,5% al 23%. In Romania, Bulgaria e Lettonia, ci sono state considerevoli riduzioni della povertà rispetto ai valori del 2008 – in Romania, ad esempio, la percentuale e scesa di sette punti, raggiungendo il 37%.

Cosa c’è di diverso tra i Paesi nei quali la povertà è aumentata in modo drammatico, rispetto a quelli nei quali è diminuita? Avete indovinato. Gli aumenti più significativi del tasso di povertà si sono tutti verificati in Paesi all’interno della moneta unica. Ma le diminuzioni sono state tutte nei Paesi al di fuori di essa.

E c’è di peggio. Sono definiti “a rischio di povertà” gli individui che vivono con meno del 60% del reddito nazionale medio. Ma quello stesso reddito medio è crollato negli ultimi sette anni, dato che la maggior parte dei Paesi all’interno dell’eurozona devono ancora riprendersi dalla crisi del 2008. In Grecia il reddito medio è sceso da 10.800 a 7.500 euro all’anno. In Spagna il calo non è stato altrettanto drammatico, ma il reddito medio è comunque sceso da 13.996 a 13.352 euro all’anno. Nella realtà, le persone stanno diventando più povere sia in termini relativi che in termini assoluti.

Ci sono altri tipi di misurazione che rendono lampante il fenomeno. In tutta l’UE, l’8% delle persone sono definite in stato di “grave deprivazione materiale”, il che significa che non hanno accesso a ciò che la maggior parte delle società civilizzate considerano beni di prima necessità – se si mette la spunta a quattro caselle su nove, caselle che includono “non essere in grado di pagare il riscaldamento per la propria abitazione” o “non poter mangiare un pasto a base di carne, pesce o proteine simili almeno a giorni alterni”, o “non avere soldi per un telefono”, allora si ricade in questa categoria.

Sorprendentemente, numerosi Paesi all’interno dell’eurozona stanno cominciando ad essere in testa alle classifiche per questo tipo di misurazioni. La Grecia sta inevitabilmente scalando la classifica, con il 22% della sua popolazione che ad oggi è in stato di “grave deprivazione materiale”, rispetto a al solo 11% del 2008. In Italia, un Paese che vent’anni fa era prospero come qualsiasi altro al Mondo, uno scioccante 11% della popolazione si trova oggi in stato di “deprivazione materiale”, paragonato col 7,5% di sette anni fa. In Spagna il tasso di deprivazione è raddoppiato, e a Cipro è aumentato di più del 50%.

Eppure, se si analizzano i Paesi al di fuori della moneta unica, si scopre che al loro interno quel tasso è sostanzialmente stabile (come nel Regno Unito, ad esempio) o sta diminuendo a velocità di tutto rispetto – nella Polonia attualmente in rapida crescita economica, ad esempio, il tasso di persone in stato di “deprivazione materiale” si è dimezzato negli ultimi sette anni e, al 7,5% odierno, è molto più basso di quello registrato in Italia.

Questo è importante. L’UE si è fissata l’obiettivo di ridurre in maniera significativa i principali indicatori di povertà entro il 2020. Sta fallendo miseramente. Anzi, ancora peggio: sta diventando lampante che una delle sue principali politiche, cioè la creazione dell’euro, assieme ai vari “programmi di salvataggio”, fiacchi e malriusciti che l’hanno tenuto insieme a malapena, è ampiamente responsabile di questo fallimento.

È difficile pensare che esista un’altra spiegazione plausibile per la netta differenza tra il tasso di povertà dei Paesi all’esterno dell’eurozona e quello dei Paesi al suo interno. Perché la Grecia o la Spagna dovrebbero essere in uno stato così drasticamente peggiore di un qualsiasi Paese dell’Est Europa? E perché l’Italia dovrebbe passarsela peggio del Regno Unito, quando i due Paesi si trovavano a livelli di ricchezza sostanzialmente simili durante gli anni novanta? (Gli italiani per un certo periodo addirittura ci superarono come PIL pro capite). Anche in un’economia tradizionalmente di estremo successo come l’Olanda, che non è stata colpita da alcun tipo di crisi finanziaria, si sono registrati grossi incrementi sia della povertà relativa che di quella assoluta.

Infatti non è difficile capire che cosa sia successo. In primo luogo, un sistema valutario disfunzionale ha strangolato la crescita economica, facendo crescere la disoccupazione a livelli precedentemente impensabili. In seguito, dopo che alcuni Paesi sono andati in bancarotta e hanno avuto bisogno di aiuti finanziari, l’UE, assieme alla BCE e al FMI, ha imposto pacchetti di austerità che hanno drasticamente tagliato welfare e pensioni. Con queste premesse, non c’è da sorprendersi che la povertà sia aumentata.

Nei mercati finanziari ci si concentra all’infinito sullo stato dei sistemi bancari all’interno dell’eurozona, sulla crescita dei deficit di bilancio o sui rischi della deflazione e dei disastrosi effetti che essa potrebbe causare sui prezzi delle attività finanziarie. Ma, in ultima analisi, la crisi finanziaria non è così importante. Ad essa si può rimediare con i bail-out, o stampando più denaro. E anche se non fosse possibile, ciò significherebbe semplicemente che alcune banche o fondi d’investimento si troveranno in cattive acque.

Ma il fatto che i livelli di povertà stiano crescendo ad un ritmo così veloce in quelle che un tempo erano Nazioni floride è scioccante. E non c’è alcuna avvisaglia che questa crescita stia rallentando – in alcuni Paesi come la Grecia o l’Italia, la crescita della povertà sta addirittura accelerando. Quelli che una volta erano Paesi estremamente poveri (come la Bulgaria) o Paesi a reddito medio (come la Polonia), stanno rapidamente sorpassando quella che una volta era considerata l’Europa sviluppata.

Non potersi permettere un telefono o un pasto a base di carne per tre giorni alla settimana non è affatto divertente. Ma, grazie all’euro, è questo il destino di milioni di europei – ed esso non cambierà finché la moneta unica non verrà smantellata.

 

fonte: http://vocidallestero.it/2016/10/25/telegraph-leurozona-sta-diventando-una-macchina-per-limpoverimento-dei-popoli/

Cosa potrebbe accadere se usciamo dall’Euro? Ce lo spiega l’Islanda che senza Euro si è liberata della crisi ed ora ha un PIL che cresce del 3% l’anno !!

 

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Cosa potrebbe accadere se usciamo dall’Euro? Ce lo spiega l’Islanda che senza Euro si è liberata della crisi ed ora ha un PIL che cresce del 3% l’anno !!

C’era un paese che aveva nei confronti delle potenti banche estere un debito di diversi miliardi, pari a decine di migliaia di euro di debito a carico di ciascun cittadino! Le banche creditrici, appoggiate dal governo, hanno proposto misure drastiche a carico dei cittadini, che ciascun cittadino avrebbe dovuto pagare con tasse e/o minori servizi, qualcosa come 100 euro al mese per 15 anni! I cittadini sfiduciarono il governo, si fece strada l’idea che non era giusto che tutti dovessero pagare per errori e ruberie commessi da un manipolo di banchieri e politici, decisero poi di fare un referendum che con oltre il 90% dei consensi stabilì che non si dovesse pagare il debito.
Nazionalizzarono quindi le banche (prima private) che avevano portato a questo disastro economico e, tramite Internet, decisero di riscrivere la Costituzione (prevedendo anche che l’economia fosse al servizio del cittadino e non viceversa). Per riscrivere la nuova costituzione vennero scelti dei cittadini che dovevano essere maggiorenni, avere l’appoggio di almeno 30 persone e NON AVERE LA TESSERA di ALCUN PARTITO!Chiunque poteva seguire i progressi della Costituzione davanti ai propri occhi. Le riunioni del Consiglio erano trasmesse in streaming online e chiunque poteva commentare le bozze e lanciare da casa le proprie proposte. Veniva così ribaltato il concetto per cui le basi di una nazione vanno poste in stanze buie e segrete, per mano di pochi saggi. Sembra una favola vero? Ma non lo è affatto!
Nonostante tutto, a sentire i parassiti di Bruxelles la decisione dell’Islanda di rimanere fuori dall’Unione Europea sarebbe un errore colossale visto che tale rifiuto condannerebbe i cittadini islandesi a decenni di povertà, declino e bassissima crescita economica, ma per loro sfortuna la matematica non è un’opinione e i dati recentemente rilasciati dall’istituto di statistica islandese danno un quadro completamente diverso.
E così mentre i paesi dell’area euro sono ancora impantanati in una recessione senza fine, per quest’anno l’economia islandese è destinata a crescere del 2.7%, nel 2015 del 3.3% e tra il 2016 e 2018 la crescita annua dovrebbe oscillare tra il 2.5 e il 2.9%.
A trascinare tale crescita è l’aumento dei consumi privati che quest’anno dovrebbe salire del 3.9% e del 4% nel 2015 per poi mantenersi al 3% annuo fino al 2018.
Quindi, mentre gli italiani sono costretti a rinunciare anche all’acquisto di beni essenziali come pasta e pane, i cittadini islandesi possono permettersi di spendere qualcosina in più – si fa per dire, vero? – visto che non devono sottostare ai diktat della BCE e della Merkel.
Però c’è anche un altro motivo dietro alla crescita dei consumi, ed è legato alla decisione del governo islandese di condonare parte dei mutui detenuti dalle famiglie islandesi.
Infatti, come sopra citato,subito dopo la bancarotta delle tre principali banche islandesi il governo decise nazionalizzare queste banche e ridurre parte dei mutui ad esse dovute – tagliando di molto gli interessi sui prestiti concessi – così da dare un pò di ossigeno alle famiglie islandesi colpite dalla crisi.
Tale decisione all’epoca fu fortemente criticata dalle agenzie di rating – e dalle banche straniere che perdevano lauti “guadagni” usurai – ma i politici islandesi se ne sono altamente fregati e adesso gli effetti benefici di tale decisione cominciano a farsi sentire.
Quello che sta succedendo in Islanda è un esempio da manuale su come vada gestito un paese per farlo uscire dalla crisi finanziaria, ma ovviamente la stampa di regime italiana ha censurato questa storia perché la verità dà fastidio ai parassiti di Bruxelles e ai loro burattini del governo Renzi, ad iniziare dal ministro dell’Economia Padoan.
by Eles
fonte: http://siamolagente2016.blogspot.it/2017/03/cosa-potrebbe-accadere-se-usciamo.html

 

L’Unione Europea approva il nuovo principio contabile sui crediti delle banche: un fantastico regalo alle banche tedesche, ma un suicidio per l’Italia!

 

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L’Unione Europea approva il nuovo principio contabile sui crediti delle banche: un fantastico  regalo alle banche tedesche, ma un suicidio per l’Italia!

È stato approvato stamattina in seduta plenaria il regime transitorio di 5 anni per introdurre dal 2018 il nuovo principio contabile IFRS 9 sui crediti delle banche. Quest’ultimo determinerà il passaggio da un modello basato sulla rilevazione delle perdite sostenute a un modello basato sulla rilevazione delle perdite attese, anche se non ancora effettivamente realizzate.

Si tratta di un ulteriore tassello dell’agenda UE che si aggiunge a una serie di azioni di accanimento sul rischio di credito che sta mettendo in difficoltà il sistema bancario tradizionale focalizzato sul finanziamento di famiglie e imprese. Soprattutto il sistema del credito italiano, mentre purtroppo non vediamo parallelamente alcuna azione o iniziativa per monitorare e ridurre il rischio finanziario sistemico legato ai titoli illiquidi, come i derivati, di cui sono piene le banche francesi e tedesche. Una bomba a orologeria che rappresenta la vera minaccia nascosta alla stabilità del sistema bancario europeo.

Nel merito, le banche saranno tenute ad accantonare maggiori riserve di capitale anche per i crediti in bonis, ai primi segnali di deterioramento, indipendentemente dal verificarsi di eventi oggettivi, ma tenendo conto della sola probabilità di perdite in futuro. Nonostante il regime transitorio che diluirà in 5 anni gli effetti negativi sui coefficienti di capitale dei maggiori accantonamenti, la modifica contabile avrà evidenti e concrete ripercussioni sul capitale delle banche, sulla gestione dei prestiti e sulla capacità di sostenere l’economia reale e concedere credito a famiglie e imprese. Saranno inoltre esclusi dal regime transitorio (cosiddetto phase-in) i maggiori accantonamenti sui crediti classificati come deteriorati.

Ma c’è di più. Queste nuove regole non varranno per tutte le banche europee. Per esempio, non per le oltre 1.600 banche locali e regionali della Germania, la quasi totalità del sistema creditizio tedesco, che continueranno tranquillamente a seguire i principi contabili nazionali. Un privilegio che si aggiunge al vantaggio di aver ottenuto l’esclusione dal sistema di vigilanza unica della BCE entrato in vigore nel 2014. È una situazione assolutamente inaccettabile che crea ulteriori distorsioni della concorrenza tra sistemi bancari nazionali e amplifica le già profonde asimmetrie che caratterizzano questa finta unione bancaria fondata su 2 pesi e 2 misure.

Ancora una volta a uscirne penalizzate saranno soprattutto le banche piccole e le banche che hanno un modello di business incentrato sui prestiti a famiglie e PMI, già soffocate da una vigilanza e regole asfissianti.

 

fonte: http://www.efdd-m5seuropa.com/2017/11/regalo-alle-banche-t.html

Un altro successo dell’Euro e dell’Unione Europea: l’Europa è l’area dove la schiavitù è cresciuta di più nel 2016!!!

 

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Un altro successo dell’Euro e dell’Unione Europea: l’Europa è l’area dove la schiavitù è cresciuta di più nel 2016!!!

La fondazione Thompson Reuters ha pubblicato un report relativo alla situazione della schiavitù nel mondo, intesa come situazione in l’attività lavorativa non viene pagata o viene pagata in modo  assolutamente sproporzionato.

L’Europa è l’area del mondo che ha visto il maggior incremento della  schiavitù , con 5 paesi che appaiono fra i peggiori all’interno dell’unione, cioè Italia, Romania, Grecia, Bulgaria e Cipro. Non si nasconde che quest’incremento sia dovuto alla crisi ed ai forti flussi migratori, ha fatto si che molti di questi uomini, venuti in europa pagando forti cifre , stiano lavorando senza paga, e che perfino il sistema produttivo si sta riadattando alla schiavitù.

Un grande risultato per i governi “Di Sinistra” di Grecia ed Italia,  che sono riusciti a riportare la schiavitù a livelli fra i più alti in Europa.

Nel mondo si calcola vi siano 21 milioni di schiavi, molti dei quali bambini al lavoro forzato, e questi sono i paesi con più elevato livello di sfruttamento  della schiavitù

Corea del Nord , Siria e Sud Sudan guidano la classifica. Ci sono perà paesi come l’India , dal 15mo al 41mo posto, e la Thailandia, dal 21mo al 48mo posto.

tramite: http://www.stopeuro.org/un-altro-successo-delleuro-e-della-ue-lunione-e-larea-dove-la-schiavitu-e-cresciuta-di-piu-nel-2016/

Un solo dato per farVi riflettere e capire: da quando c’è l’Euro le tasse in Italia sono aumentate dell’80%…!

 

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Un solo dato per farVi riflettere e capire: da quando c’è l’Euro le tasse in Italia sono aumentate dell’80%…!

TASSE IN ITALIA AUMENTATE DELL’80% (AVETE LETTO BENE: 80%) DA QUANDO CI SONO UE E EURO: ANCORA POCO E IL PAESE MUORE

La notizia si può riassumere così: le tasse in Italia sono aumentate dell’80% da quando c’è la Ue ed è diventato operativo l’euro. E non si tratta di un’opinine, ma di un rigoroso studio fatto da esperti in materia. L’ufficio studi della Cgia ne ha individuate un centinaio, un elenco, quello delle tasse pagate dagli italiani, composto da addizionali, accise, imposte, sovraimposte, tributi, ritenute. A un sistema tributario molto frammentato, che continua a tartassare cittadini e imprese, si accompagna un gettito estremamente concentrato in poche voci: le prime 10 imposte, infatti, valgono 421,1 miliardi di euro e garantiscono l’85,3 per cento del gettito tributario complessivo che nel 2015 (ultimo dato disponibile) si e’ attestato a 493,5 miliardi di euro.

“Anche quest’anno – sottolinea Paolo Zabeo, coordinatore dell’ufficio studi Cgia – ciascun italiano paghera’ mediamente 8 mila euro di imposte e tasse, importo che sale a quasi 12 mila euro considerando anche i contributi previdenziali. E la serie storica indica che negli ultimi 20 anni le entrate tributarie nelle casse dello Stato sono aumentate di oltre 80 punti percentuali, quasi il doppio dell’inflazione che, nello stesso periodo, e’ cresciuta del 43 per cento”. Le imposte che pesano di piu’ sui portafogli dei cittadini italiani sono due e rappresentano piu’ della meta’ (il 54,2 per cento) del gettito totale: l’Irpef e l’Iva.

La prima (Imposta sul reddito delle persone fisiche) spolia gli italiani che lavorano di 166,3 miliardi di euro l’anno (il 33,7 per cento ovvero un terzo del totale) mentre la seconda e’ pari a 101,2 miliardi di euro (20,5 per cento). Per le aziende le imposte che pesano di piu’ sono l’Ires (Imposta sul reddito delle societa’), che nel 2015 ha rapinato alle imprese del Paese 31,9 miliardi di euro e l’Irap (Imposta regionale sulle attivita’ produttive) che ha sottratto altri 28,1 miliardi (sempre all’anno).

Ma non è affatto finita qui.

Va altresi’ tenuto conto che la pressione tributaria (imposte, tasse e tributi sul Pil) in Italia (che pesano per un altro 29,6 per cento) e’ la quarta piu’ elevata dell’Area euro dopo la Danimarca, la Svezia (che però non hanno fortunatamente scelto l’euro)  la Finlandia e il Belgio (che invece hanno deciso malauguratamente per loro di averlo) e superiore di ben 6 punti percentuali rispetto a quella tedesca (23,6 per cento). “Si tratta di una posizione ancor piu’ negativa se si considera l’altra faccia della medaglia, ovvero il livello dei servizi che nel nostro Paese deve migliorare moltissimo”.

Va però precisato che Danimarca e Svezia hanno il miglior welfare del mondo e le retribuzioni media sono del 40% più alte delle retribuzioni medie italiane.

Ritornando alla lista delle 100 tasse degli italiani: 1. quella piu’ elevata: l’Irpef;

  1. quella che paghiamo tutti i giorni: l’Iva;
  2. la piu’ pagata dalle societa’: l’Ires;
  3. la piu’ rapinosa per le imprese: l’Irap;
  4. la piu’ singolare: quella applicata dalle Regioni sulle emissioni sonore degli aeromobili (che solo a pensarla verrebbe da ridere, se non fosse invece vera e applicata)
  5. la piu’ lunga (come dicitura): imposta sostitutiva imprenditori e lavoratori autonomi regime di vantaggio e regime forfettario agevolato;
  6. la piu’ corta (acronimi esclusi): bollo auto;
  7. l’ultima grande imposta introdotta: la Tasi;
  8. la piu’ odiata dalle famiglie: la rapina voluta da Mario Monti che passa sotto il nome di Imu e Tasi attualmente applicate sulle seconde e terze case;
  9. le piu’ stravaganti: le imposte sugli spiriti (distillazione alcolici), quelle sui gas incondensabili e sulle riserve matematiche di assicurazione (tasse su accantonamenti obbligatori delle assicurazioni). La tassa annuale sulla numerazione e bollatura di libri e registri contabili e, infine, tutte le sovraimposte di confine applicate dalla dogana (sugli spiriti, sui fiammiferi, sui sacchetti di plastica non biodegradabili, sulla birra, etc.).

E con tutto questo, i conti pubblici non tornano: il debito dello stato italiano continua a salire senza sosta e senza diminuzioni, anzi sta accelerando. I governi Letta-Renzi-Gentiloni hanno fatto crescere il debito pubblico al record assoluto di 2.279 miliardi di euro (dato del mese di luglio 2017). Dal 2013, quando il debito pubblico italiano aveva già raggiunto l’enorme quantità di 2.068 miliardi di euro, il trio di cui sopra l’ha fatto aumentare di altri 210 miliardi di euro.

L’ultimo dato del debito pubblico italiano relativo alla lira, segnava l’equivalente di 1.358 miliardi di euro e si riferisce all’anno 2001. Dal 2001 al 2017, in questi disgraziatissimi 15 anni di euro, il debito pubblico italiano invece di diminuire grazie alla “valuta forte e stabile” come la definì Romano Prodi, è aumentato di quasi 1.000 (mille!) miliardi di euro. Lo stato italiano dal 1861 al 2001 (140 anni) ha accumulato un debito pubblico equivalente a 1.358 miliardi di euro. In 15 anni di euro, siamo alla catastrofe di oggi, nonostante l’aumento mostruso delle tasse, come scrive e documenta la Cgia.

 

tratto da: http://www.stopeuro.org/tasse-in-italia-aumentate-dell80-avete-letto-bene-80-da-quando-ci-sono-ue-e-euro-ancora-poco-e-il-paese-muore/

Ecco perché se salta l’Euro l’Italia rischia poco o nulla…

 

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Ecco perché se salta l’Euro l’Italia rischia poco o nulla…

Salta l’euro? Per l’Italia pochi rischi. Lo studio (francese)

Dall’analisi dell’Osservatorio Economico Francese (OFCE) emerge una conclusione che lo stesso team di studiosi definisce “inaspettata”

Negli ultimi mesi si sono letti report e si sono osservate simulazioni dagli esiti diversissimi fra loro a proposito di un eventuale collasso dell’aera euro e di un conseguente ritorno alle monete nazionali. L’ultimo in ordine di tempo è opera dell’OFCE, l’Osservatorio Economico Francese, e va in controtendenza rispetto alle teorie maggioritarie: secondo lo studio, infatti, i costi di un’uscita dall’Eurozona non sarebbero probabilmente così alti come si è portati a pensare per paesi in deficit come Italia e Spagna, mentre sarebbero più elevati del previsto per i paesi in surplus che potrebbero subire perdite di capitali, una conseguenza di default o svalutazioni.

LO STUDIO – La prima domanda da farsi sul piano prettamente economico è quali sarebbero le conseguenze di un ritorno alla valuta nazionale, che si svaluterebbe alimentando l’inflazione e riducendo il potere di acquisto delle famiglie. Sul breve termine l’impatto sarebbe estremamente negativo, ma sul lungo termine potrebbero esserci vantaggi notevoli per alcuni paesi. La questione più controversa riguarda i debiti privati e pubblici denominati nella nuova moneta. Secondo lo studio, con il ritorno alla lira che si rivaluterebbe dell’1%, l’Italia sarebbe il paese dell’area euro che avrebbe meno problemi economici e che correrebbe meno rischi in termini di debito pubblico. Dopo una svalutazione significativa, la lira sul lungo termine finirebbe per stabilizzarsi e addirittura avrebbe il potenziale di apprezzarsi dell’1% rispetto all’euro.

Non solo: i costi di un’uscita dall’Eurozona, stando ai numeri in oggetto, non sarebbero probabilmente così alti come si è portati a pensare per paesi in deficit come Italia e Spagna, mentre sarebbero piu’ elevati del previsto per i paesi in surplus che potrebbe subire perdite di capitali, una conseguenza di default o svalutazioni.

Addirittura, volendo prendere in considerazione i rischi per i bilanci dei singoli paesi in caso di ritorno alla lira (bilancio del settore pubblico e della banca centrale, bilanci delle aziende private e delle famiglie e bilanci delle banche), l’Italia è l’unico paese che non correrebbe alcun pericolo per i bilanci citati e anche Olanda e Francia presentano rischi bassi, limitati alle aziende non finanziarie e alle famiglie.

 

fonte: http://quifinanza.it/soldi/salta-leuro-per-litalia-pochi-rischi-lo-studio-francese/107830/?ref=libero

Banche Venete, dallo Stato pronti 17 miliardi di euro. Pari pari a quanto servirebbe per il reddito di cittadinanza. Ma loro sono le banche e voi non siete un cazzo!

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Banche Venete, dallo Stato pronti 17 miliardi di euro. Pari pari a quanto servirebbe per il reddito di cittadinanza. Ma loro sono le banche e voi non siete un cazzo!

Banche Venete a Intesa, ok della Ue. Dallo Stato fino a 17 miliardi di euro
Via libera al salvataggio. Padoan: da Intesa Sanpaolo l’offerta più significativa per i due istituti. Messina: in sicurezza 50 miliardi di risparmi. Dal Tesoro impegni fino a 17 miliardi. Il sì della Ue

Il salvataggio di Popolare Vicenza e Veneto Banca potrebbe costare teoricamente allo Stato fino a 17 miliardi. Intesa Sanpaolo, che secondo il governo ha presentato l’offerta «più credibile e utile» per la parte buona degli istituti, che saranno messi in liquidazione, riceverà dal Tesoro 5,2 miliardi per mantenere e rafforzare il patrimonio. Ma con il decreto varato ieri, e già approvato dalla Ue, lo Stato mette sul piatto garanzie fino a un massimo di altri 12 miliardi sui prestiti che, dopo essere stati valutati da Intesa, potranno essere retrocessi al Tesoro. L’impegno di 17 miliardi è potenziale: le attese del governo sono quelle di limitare l’impatto a breve a 7-8 miliardi, e di recuperarne in seguito 4 o 5.

Rimborsi ai piccoli

I piccoli risparmiatori che detengono le obbligazioni subordinate delle due popolari saranno rimborsati integralmente: Il Fondo Interbancario di tutela dei depositi restituirà l’80% dell’investimento e Intesa il residuo 20%. I fondi necessari, ha spiegato il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, al termine del consiglio dei ministri «non impattano sul deficit» e sono «già previsti in bilancio». Di fatto saranno “dirottati” sulla liquidazione delle venete i fondi stanziati a Natale per le ricapitalizzazioni precauzionali, come quella del Monte Paschi.

50 miliardi al sicuro

Varato il decreto che consente la cessione e il sostegno a Banca Intesa, Bankitalia ha chiesto la liquidazione dei due istituti e la nomina dei commissari che dovranno gestire il trasferimento delle attività a Intesa. Gli accordi raggiunti col Tesoro, secondo indiscrezioni, prevedono che il gruppo acquisisca 21,6 miliardi di crediti in bonis, attività finanziarie per quasi 9 miliardi, le partecipazioni in Banca Apulia, Banca Nuova, Sec, Servizi Bancari e le banche in Moldavia, Croazia e Albania. Verrebbero rilevati anche 26 miliardi di depositi, insieme a circa 900 sportelli e 10 mila dipendenti. «Mettiamo al sicuro 50 miliardi di risparmi e tuteliamo 2 milioni di clienti» sottolinea Intesa in una nota, in cui ricorda, peraltro, che sarebbe stata disponibile a fare la sua parte anche nella ricapitalizzazione precauzionale dello Stato, saltata «per l’insufficiente partecipazione del sistema».

L’operazione

Intesa riceverà 3,5 miliardi per riequilibrare il suo bilancio dopo l’acquisizione di attività e passività delle due venete, e 1,2 miliardi per la gestione degli eventuali esuberi. Poi ci sono le garanzie sui prestiti che per ora passano a Intesa, ma devono essere verificati: fino a 6,3 miliardi sui crediti dubbi e fino a 4 sui prestiti “in bonis”, ma ad “alto rischio”, più altri 2 di garanzie sui rischi legali.

Nessuna alternativa

Tutti i crediti in sofferenza (il Commissario Margareth Vestager, commentando l’ok Ue, parla di 18 miliardi) e quelli che Intesa retrocederà finiranno alla Sga, la spa del Tesoro che ha gestito la liquidazione del Banco di Napoli, chiudendola in attico. Padoan è convinto che «riuscirà a recuperare gran parte dei 5 miliardi, che rappresentano il vero esborso da parte dello Stato». «Il decreto va a favore delle banche, da cui dipende anche la possibilità di incoraggiare la ripresa» ha detto il premier, Paolo Gentiloni, mentre Padoan si è difeso. «Sento molte critiche, ma non c’erano alternative valide a costi inferiori».

fonte: http://www.corriere.it/economia/17_giugno_26/banche-venete-intesa-ok-ue-1b987b0e-59da-11e7-8109-77a9e9fc44b1.shtml

La profezia di Sandro Pertini: “l’Unione Europea ha il solo scopo di fare dell’Europa occidentale il campo di sfruttamento della finanza americana”

Sandro Pertini

 

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La profezia di Sandro Pertini: “l’Unione Europea ha il solo scopo di fare dell’Europa occidentale il campo di sfruttamento della finanza americana”

“Ormai a tutti è noto che l’Unione Europea e gli organismi derivanti dal Piano Marshall non sono l’espressione spontanea della volontà e delle esigenze dei popoli europei, bensì sono stati artificiosamente creati con lo scopo politico di fare d’un gruppo di nazioni europee uno schieramento in funzione antisovietica, e con lo scopo economico di fare dell’Europa Occidentale un campo di sfruttamento della finanza americana“.
Frase sorprendente, che è stata pronunciata da Sandro Pertini nel 1949, all’alba di quelpiano Marshall (dal nome del segretario di Stato Usa che lo annunciò il 5 giugno 1947) con cui gli Stati Uniti iniziavano ad esportare, in un’Europa distrutta, il loro modello economico e sociale al fine di sottometterla e colonizzarla. Pertini, compreso questo, ritirò anche la sua adesione dal manifesto di Ventotene, ovvero al progetto di Europa unita scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Ursula Hirschmann tra il 1941 ed il 1944 durante il loro confino sull’isola di Ventotene. Il manifesto si diversificava dal progetto di Pan-Europa del Conte Kalergi, che nel 1922 immaginava un’Europa a conduzione tecnocratica e non un’Europa in cui un Parlamento sovrano, eletto a suffragio universale, determinasse le politiche comuni.
Cosa comprese dunque Pertini già nel 1949? Che tra il dire ed il fare c’era di mezzo il mare… Nello specifico c’era di mezzo l’interesse dei poteri economici americani, che già alla fine della seconda guerra mondiale erano così forti e strutturati da creare un vero e proprio potere politico con mire di controllo e dominio globale. Il piano Marshall, fin dal suo esordio, avviava un vero e proprio processo di trasformazione strutturale delle economie europee di cui svilupparono i consumi e la dipendenza dall’estero, piuttosto che una vera e propria ricostruzione industriale e produttiva che avrebbe dato forza ed autonomia al vecchio continente. Appuntoaffrontavano la situazione con la chiara idea di colonizzarci.
Il piano però dovette essere rapidamente abbandonato perché la minaccia sovietica iniziava a farsi pesante, ciò avvenne nel 1951. Con il senno del poi è chiara la ragione del cambio di strategia, avvenuto in esclusiva chiave antisovietica. Era necessaria una nuova impostazione:prima della colonizzazione definitiva del continente bisognava disattivare il nemico comunista altrimenti i Paesi europei avrebbero potuto strizza l’occhio ad est. L’azione antisovietica possibile era logicamente solo quella che passava per l’abbandono delle politiche del piano, dunque era quella di fornire al vecchio continente una legislazione fortemente tutelante dei più deboli, al fine di battere il Comunismo dove esso avrebbe dovuto essere più forte, nel sociale e nel lavoro. Ciò implicava necessariamente dare forza produttiva all’Europa, renderla una potenza libera.
Quello che ovviamente era efficace in chiave anti sovietica però lo diveniva anche in chiave anti americana.Caduto il muro non si poteva lasciare che l’Europa proseguisse nella direzione intrapresa, diveniva pericoloso per gli interessi della finanza americana proseguire su questa strada, l’Europa non avrebbe avuto più ragioni per essere subalterna. Così si è ripartiti con una nuova strategia di aggressione del vecchio continente da parte della finanza americana. Ecco che in quest’ottica l’Europa unità è diventata, come avrebbe dovuto esserlo fin dal piano Marshall, solo un metodo più semplice di controllo di un vasto territorio, risultando molto più facile imporre la propria influenza con una leadership europea unica, piuttosto che imporla ad una pluralità di nazioni sovrane.
Ciò che Pertini intuì era dunque il percorso che aveva preso l’Unione fin dai suoi albori, quando era solo un pensiero, percorso che poi è diventato evidente e via via più chiaro con il Trattato di Maastricht e quell’insieme di regole che ha definitivamente fatto dell’Europa il campo di sfruttamento della finanza americana. Dopo il grande sviluppo delle democrazie europee, appunto al fine di evitare che i nostri Paesi passassero al comunismo, il lavoro per la finanza americana era diventato ben più complesso, era difficile far tornare indietro le democrazie senza quella che Mario Monti definirebbe “una crisi visibile e conclamata”. Tale crisi, escludendo l’invasione militare dell’Europa che non avrebbe avuto il consenso dell’opinione pubblica americana, poteva essere causata solo con mezzi non comprensibili alle masse. Ecco il ruolo dei parametri di convergenza europei (3% percento deficit/pil, ecc…), essi sono perfetti per causare la fine dell’indipendenza e della sovranità delle nazioni europee, senza che le opinioni pubbliche nazionali possano capire con precisione quanto sta accadendo.
D’altronde, proprio come diceva ancora Pertini, un uomo senza lavoro, che vive nella misera, non può essere certamente considerato libero. Questo comporta che esso non sarà neppure un uomo in grado di capire la sua condizione e reagire ad un nemico così occulto, subdolo e purtroppo per noi strategicamente molto preparato.
Tutto questo avviene oggi, alla luce del sole…