Di troppa “pacchia” si può anche morire: la storia di Gaye Demba, il migrante disperato che si è tolto la vita

 

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Di troppa “pacchia” si può anche morire: la storia di Gaye Demba, il migrante disperato che si è tolto la vita

Il giovane del Gambia era ospite di una struttura della diocesi dopo aver vissuto a lungo negli scantinati. Il dolore del vescovo Nosiglia: “Una vita di violenze e soprusi”.

Pacchia, telefonini, scarpe firmate. I luoghi comuni razzisti sono tanti, la realtà è molto diversa. Drammatica. Molto drammatica.
“Il suo gesto obbliga tutti quanti a riflettere sulle ferite interiori che hanno segnato profondamente Demba e molti altri immigrati”. Cosi’ il vescovo di Torino, monsignor  Cesare Nosiglia interviene sul suicidio di Gaye Demba, un 28enne originario del Gambia, che aveva vissuto negli scantinati dell’ex Moi e che ora era ospitato in una struttura della diocesi.
“Questo ragazzo – ha sottolineato Nosiglia – è giunto nel nostro Paese dopo aver subìto violenze e soprusi molto pesanti che hanno minato profondamente la sua vita, provocando fragilità che purtroppo si sono manifestate nel suo gesto estremo.Sono le stesse ferite, le medesime fragilità a cui ciascuno di noi è esposto”.

“Ferite e fragilità che non dipendono dal colore della pelle né dal passaporto o dal conto in banca”, ha aggiunto Nosiglia ricordando che nell’ultimo anno e mezzo era stato seguito da una équipe di persone e professionisti che “hanno fatto tutto quanto possibile per offrire a questo giovane ragioni positive ma purtroppo non è stato sufficiente”.
“Chiedo a tutti di contribuire a far crescere nella nostra città un clima che non sia né di odio né di rifiuto né di paura, ma sia invece di reciproca accoglienza, attenzione e rispetto”.

Gaye Demba aveva vissuto fino al primo sgombero, programmato nel 2017, all’ex Moi, l’ex complesso olimpico attualmente oggetto di un piano di totale sgombero che dovrebbe concludersi entro il 2019 grazie anche al sostegno del governo. “Seguivamo da vicino questo ragazzo che aveva più volte dato segni di forte depressione – spiega Sergio Durando, direttore della Pastorale Migranti di Torino -. Aveva già manifestato nel tempo volontà autodistruttive, e purtroppo era stato sottoposto a marzo ad un tso all’Ospedale Mauriziano, ma poi era uscito”.

“I responsabili della struttura hanno fatto tutto quanto è stato umanamente  possibile per offrire a questo giovane ragioni positive e opportunità utili a costruire una vita nuova e diversa, ma purtroppo tutto questo impegno non è stato sufficiente – conclude. Nosigna -.  Il suo gesto obbliga tutti quanti a riflettere sulle ferite interiori che hanno segnato profondamente Demba e molti altri immigrati. Sono le stesse ferite, le medesime fragilità a cui ciascuno di noi è esposto. Ferite e fragilità che non dipendono dal colore della pelle né dal passaporto o dal conto in banca”.

Il triste suicidio di una grande nazione

 

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Il triste suicidio di una grande nazione

Un sistema economico in cui prevale l’offerta di impieghi sulla domanda di lavoratori va immediatamente corretto, incoraggiando la nascita di nuove imprese che possano soddisfare l’offerta.

Più imprese nascono, più i lavoratori hanno forza contrattuale individuale perché possono proporre i loro talenti al migliore offerente. I lavoratori che non hanno talenti di alto valore sono costretti a studiare e specializzarsi per migliorare le personali capacità professionali e renderle più pregiate, incremento di valore che si traduce in paghe più elevate perché la professionalità più è alta, più è ambita dalle imprese. Ecco cosa rende una nazione più ricca e più giusta. Ora facciamo mente locale sulla cultura che ha ingessato questo paese da metà anni ‘70 in avanti. Abbiamo creato un clima favorevole alla nascita di nuove aziende? Abbiamo stimolato la competizione economica e individuale incoraggiando l’ambizione al miglioramento e all’arricchimento, frutto dell’eccellenza e non della furberia? Abbiamo responsabilizzato le generazioni di giovani che si sono succedute, garantendogli l’accesso all’istruzione ma costringendole a sudarsi il pezzo di carta?

Abbiamo fatto l’esatto contrario, e nel giro di trenta/quarant’anni l’Italia si è spenta da tutti i punti di vista, morale, economico, imprenditoriale e umano. Abbiamo dato la caccia al titolare della “fabbrichetta” accusato di essere evasore fiscale e sfruttatore degli operai e le fabbrichette hanno chiuso. Abbiamo trasformato scuole e università in diplomifici perché si è stabilito che concludere il ciclo di studi è un “diritto civile”.

Abbiamo tacciato di spietato darwinismo sociale concetti come ambizione e desiderio di emergere, e ci ritroviamo a discutere leggi e provvedimenti che ristabiliscano la meritocrazia a norma di legge. Un professionista che guadagna molti soldi perché i suoi clienti gli pagano i suoi servizi non deve dare troppo nell’occhio, mentre un burocrate di stato che guadagna più di Obama è intoccabile.

Un sindacalista che ha lavorato in azienda metà di un lavoratore comune, grazie ai “distacchi sindacali” pagati fior di quattrini, può andare in pensione prima e con una rendita mensile incomparabilmente più alta. E nessuno protesta. Ma questa deriva, non ce l’hanno imposta con le truppe di occupazione, l’abbiamo assorbita, ci abbiamo sguazzato e ora che il fiume è quasi in secca e i pesci boccheggiano, invochiamo ancora più Stato che ci garantisca ossigeno per vivere.

(Mauro Gargaglione)

fonte: http://zapping2017.myblog.it/2018/01/20/incubo-peste-suina-cresce-lallarme-in-europa/