Ipocrita fino alla nausea… Pantani, morto per overdose, un campione intoccabile… Stefano Cucchi, ucciso dalla polizia, la prova che “la droga fa male”… Due pesi e due misure di un ingannatore sempre a caccia di consenso e voti…

 

Ipocrita

 

 

 

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Ipocrita fino alla nausea… Pantani, morto per overdose, un campione intoccabile… Stefano Cucchi, ucciso dalla polizia, la prova che “la droga fa male”… Due pesi e due misure di un ingannatore sempre a caccia di consenso e voti…

Premesso che sottoscriviamo parola per parola quanto riportato dal Tweet di Salvini, compreso l’illazione che il Pirata abbia subito una sorta di accanimento, e non solo della sfortuna… È stato un eroe, ci ha fatto sognare, ha subito “strani” torti e forse bisognerebbe indagare bene sulla sua morte…

Detto questo: Stefano Cucchi, ucciso dalla polizia, era la prova che “la droga fa male”; Marco Pantani, morto per overdose, un campione intoccabile. Due pesi e due misure di un ingannatore sempre a caccia di consenso e voti.

Salvini ha detto quello che alla gente fa piacere sentire. Insomma ha fatto la solita sparata “piaciona” nella sua eterna lotta per il consenso e per qualche voto in più. E chissenefrega della coerenza… Tanto, quelli che lo stanno a sentire…

Fosse stato coerente, avrebbe dovuto prendere le distanze dal Pirata in nome della sua battaglia alla droga che “fa sempre male”, pure se vieni massacrato di botte da qualche Carabiniere allucinato…

Ormai Salvini è una macchietta che sente il bisogno, quasi patologico, di abbracciare qualunque figura più o meno popolare della storia italiana, da Berlinguer a Don Camillo e Peppone, passando per Pantani… il tutto alla faccia della coerenza

Le chiacchiere stanno a zero: Pantani è morto per droga, Cucchi no.

Per Salvini il primo è un campione intoccabile, il secondo un tossico da denigrare. La differenza è politica, perché il furbone sa che a toccare i miti sportivi in questo paese si rischia il linciaggio. Ma in questo caso, data la delicatezza dell’argomento, avrebbe dovuto avere almeno il buon gusto di tacere.

 

By Eles

 

Ilaria Cucchi ha querelato Salvini: “Questo signore smetta di fare spettacolo sulla nostra pelle”

 

Ilaria Cucchi

 

 

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Ilaria Cucchi ha querelato Salvini: “Questo signore smetta di fare spettacolo sulla nostra pelle”

Ilaria Cucchi ha querelato Matteo Salvini

“Ora basta. Lo devo a Stefano, a mio padre ma soprattutto a mia madre. Questo signore deve smetterla di fare spettacolo sulla nostra pelle”.

Sono le parole con cui Ilaria Cucchi ha querelato Matteo Salvini per le sue frasi sul fratello Stefano, dopo la condanna dei carabinieri, lo scorso 14 novembre. Ilaria Cucchi ha querelato il leader della Lega per il reato di diffamazione, regolato dall’articolo 595 terzo comma del Codice penale.

In un tweet di Ilaria Cucchi mostra gli atti della querela sporta nei confronti di Matteo Salvini.

La querela è nei confronti di Matteo Salvini, “nonché di chiunque altro venga ritenuto responsabile per i reati di cui all’articolo 595, 3 comma c.p., e per ogni altro reato che la S.V. ravviserà nei fatti esposti, chiedendo che i responsabili vengano perseguiti e puniti a norma di legge, con riserva di costituirsi parte civile nell’instaurando procedimento penale”.

Matteo Salvini, dopo la sentenza di condanna a 12 anni per i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro per l’omicidio di Stefano Cucchi aveva detto: “Se qualcuno ha usato violenza, ha sbagliato e pagherà. Questo testimonia che la droga fa male sempre e, comunque, io combatto la droga in ogni piazza”.

“Che c’entra la droga? Salvini perde sempre l’occasione per stare zitto. Anch’io da madre sono contro la droga, ma Stefano non è morto di droga”, aveva dichiarato Ilaria Cucchi all’indomani delle parole di Salvini, annunciando la querela, che è arrivata puntuale il 22 novembre 2019.

Caso Cucchi, Salvini: “Questo caso testimonia che la droga fa male sempre” …ma probabilmente si riferiva alla droga che lui aveva assunto quando diceva “Ilaria Cucchi mi fa schifo, si vergogni”

 

Cucchi

 

 

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Caso Cucchi, Salvini: “Questo caso testimonia che la droga fa male sempre” …ma probabilmente si riferiva alla droga che lui aveva assunto quando diceva “Ilaria Cucchi mi fa schifo, si vergogni”

Salvini non chiede scusa…

Il leader della Lega: “Non posso chiedere scusa per eventuali errori altrui”

“Se qualcuno lo ha fatto è giusto che paghi, sono vicinissimo alla famiglia e ho invitato la sorella al Viminale, questo testimonia che la droga fa male sempre e comunque”.

Così Matteo Salvini si pronuncia oggi sul caso Cucchi.

“Non posso chiedere scusa per eventuali errori altrui – aggiunge Salvini, incalzato da un cronista che gli ricorda di aver attaccato Ilaria Cucchi – Devo chiedere scusa anche per il buco dell’ozono?. Per quel che mi riguarda, come senatore e come padre, combatterò la droga, posso dirlo?”, aggiunge ancora. “Se qualcuno ha sbagliato paga; in divisa e non in divisa. Punto. Fatemi aggiungere: io sono contro lo spaccio di droga sempre e comunque”, conclude Salvini.

Ma forse si riferisce alla droga che lui aveva assunto quando diceva “Ilaria Cucchi mi fa schifo, si vergogni”…

“Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello, ma quel post mi fa schifo. Ci sarà un 1% tra chi porta la divisa che sbaglia e deve pagare. Anzi, deve pagare doppio perché porta la divisa. Ma io sto sempre e comunque con polizia e carabinieri. E averne di polizia e carabinieri, come quelli che abbiamo in Italia. La sorella di Cucchi si dovrebbe vergognare, per quanto mi riguarda”.

Così il leader della Lega, Matteo Salvini, ospite de La Zanzara (Radio24) parlava nel gennaio 2016

 

Gli altri Stefano Cucchi – da Aldrovandi a Giuseppe Uva – Gli altri casi di abusi in divisa di cui sapete poco o niente perché questi non hanno una sorella che scrive cose che “fanno schifo” al nostro Ministro degli Interni…!

Stefano Cucchi

 

 

 

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Gli altri Stefano Cucchi – da Aldrovandi a Giuseppe Uva – Gli altri casi di abusi in divisa di cui sapete poco o niente perché questi non hanno una sorella che scrive cose che “fanno schifo” al nostro Ministro degli Interni…!

Gli altri Stefano Cucchi – I casi di abusi in divisa ancora aperti in Italia

“La criminalizzazione della vittima è una costante nei casi di malapolizia,” spiega Checchino Antonini, giornalista e attivista di ACAD(Associazione contro gli abusi in divisa). “Di questi casi si tende a parlare in termini emotivi, della pena che si prova per l’una o per l’altra parte. Si parla di onore o disonore dell’Arma, e non si indaga, per esempio, il legame con il proibizionismo o con il razzismo. Non si mette in discussione il tipo di addestramento ricevuto e non si parla del fatto che da tempo è in atto una forte criminalizzazione dei conflitti sociali. L’ossessione per il decoro e un’emergenza sicurezza che è tutto meno che un’emergenza (visto che i reati sono in continuo calo) portano a una vera e propria repressione di alcuni stili di vita.” Il migrante, il tossico, l’attivista dei centri sociali, il senzatetto, lo spacciatore diventano tutte categorie percepite come zavorre sociali (della serie “mi dispiace che sia morto MA”).

Pensiamo a quanta importanza ha avuto, nel caso Cucchi, lo stigma della droga: il tossicodipendente, il piccolo spacciatore vengono dipinti come soggetti pericolosi, non integrati nella società e sui quali, in fondo in fondo, ogni abuso di potere è giustificato. Addirittura Aldrovandi, che non era un tossico, non era un delinquente e non era nemmeno uno straniero, come in un primo momento avevano pensato i poliziotti (“Ma figurati se ti chiami Federico!”), in mancanza di meglio è stato descritto come “uno vestito da centro sociale.”

Per guardare il fenomeno da un punto di vista più generale, abbiamo cercato di raccogliere i casi di cittadini morti durante un’azione delle forze dell’ordine o sotto la loro custodia negli ultimi 15 anni (dal 2003 al 2018).

Sono tutti casi ancora aperti, oppure controversi perché liquidati in maniera troppo sommaria.

DAVIDE BIFOLCO

Cosa è successo: 5 settembre del 2014, rione Triano a Napoli. Sono le 2 di notte e una pattuglia di carabinieri si lancia all’inseguimento di tre ragazzini, tutti in sella allo stesso scooter e tutti senza casco. Secondo i carabinieri, tra di loro c’è il latitante 24enne Arturo Equabile, che smentirà più avanti. I ragazzi non si fermano all’alt, ma i carabinieri riescono a bloccarli, solo che nei momenti concitati del fermo dalla pistola del carabiniere Gianni Macchiarolo parte un colpo che che colpisce al petto Davide Bifolco, 16 anni, uccidendolo. Sembra che Macchiarolo si fosse dimenticato di inserire la sicura.

A che punto siamo nelle indagini: Il 16 ottobre 2018 i giudici della corte d’appello di Napoli hanno dimezzato la pena a Gianni Macchiarolo, che in primo grado era stato condannato a 4 anni e 4 mesi. La condanna è ora ridotta a 2 anni con la pena sospesa. “Se questa è la giustizia italiana allora siamo rovinati: Davide è stato trattato così perché è figlio delle periferie,” ha commentato Gianni Bifolco, padre di Davide. “Ho perso un figlio di 16 anni senza un perché,” dice ancora e poi, rivolgendosi a Macchiarolo: “Vorrei sapere mio figlio cosa ti ha fatto, non sei neanche venuto a chiedere scusa.” Dopo la sentenza, nel suo quartiere è stato organizzato un presidio di protesta. Da settembre è in libreria Lo sparo nella notte di Riccardo Rosa, un libro che ricostruisce la vicenda.

Il suo caso è molto simile a quello di Mario Castellano, 17enne morto nel 2000 sempre a Napoli. L’agente di polizia che ha ucciso Castellano però è stato condannato in via definitiva a 10 anni con l’accusa di omicidio volontario.

GIUSEPPE UVA

Cosa è successo: La notte del 13 giugno 2008 un operaio 43enne di Varese viene fermato mentre, con un amico, sta spostando delle transenne in mezzo alla strada. Vengono portati entrambi in caserma e da lì Uva viene trasportato all’ospedale con un TSO. La mattina dopo muore nel reparto di psichiatria, in seguito a un attacco cardiaco. Il corpo presenta diversi lividi: sul viso, sulla mano, sul fianco. I testicoli sono tumefatti. L’amico Alberto sostiene di aver sentito Giuseppe urlare e chiamare aiuto quando si trovavano entrambi in caserma.

A che punto siamo nelle indagini: I due carabinieri e i sei poliziotti finiti sotto processo sono stati tutti assolti in primo grado e, a maggio 2018, anche in appello. La sorella Lucia, commentando la svolta nel caso Cucchi, ha detto: “Il muro caduto su Stefano mi dà giustizia anche per Giuseppe. Ma so che chi l’ha ucciso non confesserà.” Lei comunque è determinata a ricorrere in cassazione.

MARCO GUERRA

Cosa è successo: È il 15 luglio del 2015 a Carmignano di Sant’Urbano, un paesino sul confine tra Rovigo e Padova. Mauro Guerra, 32 anni, viene convocato alla caserma dei carabinieri che vogliono imporgli un TSO, non si sa bene su richiesta di chi. Mauro non ne vuole sapere. Il tira e molla tra lui e i carabinieri dura ore e li porta fino a casa della famiglia di Mauro, che si ritrova assediata da una decina di carabinieri. Dopo tre ore, Mauro sembra non poterne più e si lancia in una fuga nei campi, inseguito dai carabinieri. Un carabiniere lo raggiunge e lo prende per un polso, Guerra lo colpisce e un altro carabiniere, il maresciallo Marco Pegoraro, gli spara a distanza ravvicinata. Il corpo rimane a terra per quasi tre ore. Nessuno verifica i parametri vitali e nessuno permette ai familiari, presenti durante tutta l’operazione, di avvicinarsi.

A che punto siamo nelle indagini: Rinviato a giudizio nel 2017, il maresciallo Marco Pegoraro è tuttora sotto processo con l’accusa di omicidio per eccesso colposo di legittima difesa. Quest’estate Chi l’ha visto? ha mandato in onda per la prima volta dei video dell’accaduto. Dopo gli spari, si sente distintamente un dialogo: “Lo hai beccato, maresciallo?”, chiede il carabiniere “Sì.” risponde Pegoraro. “Hai fatto bene, marescià, hai fatto bene. Quel bastardo, figlio di t***a.”

RICCARDO MAGHERINI

Cosa è successo: La notte del 3 marzo del 2014, in una stradina di Borgo San Frediano, nel centro storico di Firenze, l’ex calciatore Riccardo Magherini viene bloccato dai carabinieri. Sembra abbia assunto della cocaina, in ogni caso è in preda a una forte paranoia. Ha addirittura rubato un cellulare a un cameriere per chiamare aiuto. I due carabinieri lo trattengono, lo ammanettano a terra e iniziano a prenderlo a calci nell’addome, mentre lui continua a gridare aiuto: “Vi prego, ho un figlio!” Qualcuno si affaccia alle finestre e riprende la scena. Intanto arriva un’ambulanza, che non interviene. Poi ne arriva un’altra, ma è tardi: Magherini è già morto per asfissia posturale, come stabilirà l’autopsia (nonostante all’inizio si sia cercato di dare la colpa alla cocaina).

A che punto siamo nelle indagini: Il processo si è concluso con la condanna in primo grado, confermata in appello, a otto mesi per “cooperazione in omicidio colposo” per i due carabinieri. L’avvocato Anselmo ha però chiesto l’annullamento della sentenza e un nuovo processo, questa volta per omicidio preterintenzionale, che tenga conto delle percosse come causa della morte.

ALDO BIANZINO

Cosa è successo: 12 ottobre 2007. La polizia arriva al casale della famiglia Bianzino, nel bel mezzo della campagna umbra. Aldo Bianzino fa il falegname, ha 43 anni e vive con la compagna Roberta, il figlio Rudra e l’anziana madre di lei. È pacifista e appassionato di filosofie orientali. Durante la perquisizione viene trovata una piccola coltivazione casalinga di marijuana. Aldo e Roberta sono arrestati e portati nel carcere perugino di Capanne. 48 ore dopo Aldo è morto. Roberta invece viene scarcerata e quando chiede di vedere il compagno le viene risposto: “Martedì, signora. Dopo l’autopsia.”

A che punto siamo nelle indagini: Il decesso è stato attribuito a un aneurisma. Nel 2009 l’indagine per omicidio è archiviata e nel 2015 l’agente Gianluca Cantoro è condannato a un anno di carcere per omissione di soccorso. Una prima perizia del medico legale di parte, però, aveva rilevato danni cerebrali e danni al fegato. L’ipotesi era di pestaggio con tecniche militari.

Maggio 2018. Rudra Bianzino, ora 25enne, ha deciso di chiedere la riapertura del processo per la morte del padre, alla luce di nuove perizie mediche, effettuate nel 2017, secondo le quali la causa di morte sarebbe un’emorragia subaracnoidea provocata “non da un aneurisma ma da un trauma.”

KAYES BOHLI

Cosa è successo: 5 giugno 2013, Riva Ligure. Sono le 19.05 quando una telefonata anonima al 112 denuncia attività di spaccio nel piazzale del supermercato Lidl. I tre carabinieri che vanno sul posto ci trovano Bohli, pregiudicato tunisino di 36 anni, che tenta di resistere all’arresto, ma viene immobilizzato, caricato in auto e portato alla caserma di Riva Ligure. Durante il breve tragitto perde conoscenza. Un’ora e mezza più tardi è al pronto soccorso, morto per asfissia. Dopo circa un mese, un anonimo fa circolare una foto di Bohli ferito in caserma, poco prima dell’arrivo dell’ambulanza. C’è anche una “didascalia”: “Ecco come ha massacrato il tunisino.”

A che punto siamo nelle indagini: Dopo che i tre militari sono stati prosciolti in sede di udienza preliminare, il PM Cavallone ha deciso di ricorrere in Cassazione. Il risultato è stato il il proscioglimento di un carabiniere, Di Sipio, e il rinvio a giudizio degli altri, Ventura e Palumbo. Il procedimento a loro carico è ancora in corso.

STEFANO CABIDDU

Cosa è successo: 20 luglio 2003. Roncadelle, in provincia di Brescia. Dietro al centro commerciale Brescia 2000, tra la tangenziale e il fiume Mella, c’è un boschetto di robinie inghiottito dal buio, dove due carabinieri stanno svolgendo un’ispezione armati di torcia e di pistola. I due sentono delle voci, percepiscono dei movimenti, poi un grido e dalla pistola di uno dei due parte il colpo che uccide Stefano Cabiddu, operaio 23enne. Cosa ci faceva Cabiddu in quel boschetto? Niente di losco. Aveva passato la giornata a Brescia con i due fratelli e lungo la strada di casa si erano fermati in quell’area appartata per un banale bisogno fisiologico. Il fratello Raffaele, vedendo qualcuno spuntare nel buio, si era spaventato e aveva urlato.

A che punto siamo nelle indagini: Nel 2004 il caso è stato archiviato senza nemmeno un processo. Il procuratore capo di Brescia Giancarlo Tarquini lo ha definito “un doloroso incidente”.

CRISTIAN DE CUPIS

Cosa è successo: È la mattina del 12 novembre 2011. Cristian de Cupis, 36 anni, viene trovato morto nel suo letto nel reparto protetto dell’ospedale Belcolle di Viterbo. Tre giorni prima, il 9 novembre, era stato arrestato dalla Polizia ferroviaria mentre si trovava alla stazione Termini di Roma, per via del suo comportamento violento nei confronti di alcuni passanti e della stessa polizia. Dopo alcune ore era stato trasportato al pronto soccorso dell’ospedale Santo Spirito. Sul corpo ha numerose escoriazioni dovute ai tentativi di sottrarsi all’arresto, dicono gli agenti. Ma ai medici del pronto soccorso de Cupis dice di essere stato vittima di un pestaggio. Il decesso viene refertato come arresto cardiocircolatorio. La famiglia viene a sapere del suo arresto soltanto alla comunicazione della morte.

A che punto siamo nelle indagini: Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni ha fatto notare diverse circostanze poco chiare nella procedura di arresto e ha rivelato l’esistenza di un testimone del pestaggio a cui de Cupis sarebbe stato sottoposto alla stazione. Nonostante ciò non è mai stato aperto un procedimento penale.

ABDERRAHMAN SALHI

Cosa è successo: 23 maggio 2011, Montagnana, provincia di Padova. Dalla sponda del Frassine un contadino nota un corpo a faccia in giù nelle acque del fiume. Si tratta di Abderrahman Salhi, 24 anni, marocchino, senza fissa dimora. Gli amici con cui condivideva una baracca non avevano sue notizie da nove giorni: l’ultima volta l’avevano visto salire su una macchina dei carabinieri. Era la sera della “Festa del prosciutto” e Abderrahman si era ubriacato e aveva dato fastidio a qualche residente. Forse è caduto nel fiume per errore. Ma proseguendo con le indagini, viene fuori che Abderrahman nel fiume non ci è finito per conto suo, ce l’hanno messo i carabinieri, secondo una prassi informale che in quel periodo andava di moda nel padovano: quella di dare “una rinfrescata d’idee” a ubriachi e senzatetto, immergendoli con la forza nelle acque gelide del Frassine. Almeno sette i casi documentati.

 A che punto siamo nelle indagini: L’inchiesta per omicidio colposo è stata archiviata nel 2012, perché l’autopsia ha rilevato segni compatibili con una caduta.

A tutti questi si aggiungono casi più recenti, come la morte sospetta di un detenuto moldavo nel carcere di Terni, a settembre, o come Jefferson Tomalà, ucciso a maggio nella sua abitazione durante un TSO. Per la cronaca, il carabiniere che gli ha sparato ha recentemente aggredito anche un profugo ipovedente, spruzzandogli prima del peperoncino negli occhi. Il tutto, sembra, per via di “un equivoco.”

Naturalmente, rassegne di questo tipo tendono a essere incomplete, anche perché sono molti i casi che non catturano l’attenzione mediatica e restano confinati nella cronaca locale. Inutile dire che in questa categoria rientrano molti stranieri. Nel 2005, per esempio—l’anno della morte di Federico Aldrovandi—muoiono anche due immigrati nel giro di due mesi. Un 26enne tunisino a Milano, vittima del colpo accidentale della pistola di un finanziere, e un senegalese a Torino, ucciso da un agente di polizia durante un semplice controllo.

Nel 2006 invece viene ucciso Giuseppe Laforè, sinti di 51 anni. Non si era fermato al posto di blocco. Come per Pasquale Guadagno (ucciso nel 2007), anche per Laforè è difficile trovare informazioni su come si sia concluso l’iter giudiziario. E lo stesso vale per Aziz Amiri, ucciso nel 2010.

Il conto poi si potrebbe integrare con i suicidi nelle carceri, alcuni sospetti o poco chiari, come quelli di Carmelo Castro (2009), di Niki Aprile Gatti (2008), di Stefano Frapporti (2009) o di Francesco Smeragliuolo (2013). O con i morti in carcere per condizioni di salute trascurate, omissioni di soccorso o per circostanze ancora più nebulose, come Riccardo Boccaletto (2007), Simone La Penna (2009) e Carlo Saturno (2011).

Passando in rassegna tutti questi casi, emergono alcune osservazioni. Una prima evidenza sono le circostanze ricorrenti. Spesso sono coinvolte le procedure farraginose che ancora regolano il Trattamento sanitario obbligatorio (TSO)oppure ci si trova in presenza di una gestione del posto di blocco ancora figlia delle Legge Reale degli anni di piombo. Tommaso della Longa, autore insieme ad Alessia Lai di Quando lo Stato uccide, sottolinea un altro aspetto che lascia spiazzati: la quasi totale impunità di cui godono colleghi e testimoni che hanno mentito sullo svolgimento dei fatti. Per paura, o in nome di quello spirito corporativo tanto diffuso nelle forze dell’ordine.

In quasi tutti questi casi, d’altronde, come spiega l’avvocato Fabio Anselmo, “gli imputati in divisa sono oggetto delle indagini compiute dai loro stessi colleghi.” Tommaso della Longa, a proposito, ricorda il caso paradossale di Riccardo Rasman: il PM aveva affidato le indagini proprio agli stessi tre agenti che erano intervenuti per il TSO del ragazzo.

Ho chiesto sia a Tommaso della Longa che a Checchino Antonini se la svolta nel caso Cucchi può rappresentare un precedente significativo per altri casi del genere. Della Longa non è convinto ma vuole essere ottimista. A dargli speranza è soprattutto il fatto che “la consapevolezza nel grande pubblico sta crescendo e l’opinione pubblica sta cambiando radicalmente. Soprattutto, le persone si sono rese conto di avere a disposizione un’arma potente: la videocamera dei propri smartphone, e sanno meglio come tutelarsi.”

Antonini è più pessimista: “Ogni processo ha un iter diverso, e questo è giusto. Restano invece uguali il clima e la mentalità. In particolare l’idea introiettata dalle forze dell’ordine di dover fare il lavoro sporco al posto tuo.” È questo il primo pensiero che deve essere sradicato.

 

fonte: https://www.vice.com/it/article/43eenp/casi-di-abusi-in-divisa-ancora-aperti-in-italia?utm_campaign=sharebutton&fbclid=IwAR0EE_yGWxh8OGZ4LSpgA3F4GGtCesRNtWpEeB6Y2Qshq5RfR6BtGIS5RSE

 

 

 

Storia di malafede, razzismo e squallido populismo di alcuni nostri politici: Stefano ucciso dai Carabinieri? Era solo un drogato – Desirée in cerca di droga viene uccisa dal negro? Poverina, siamo tutti Desirée, sarai sempre nei nostri cuori…

 

politici

 

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Storia di malafede, razzismo e squallido populismo di alcuni nostri politici: Stefano ucciso dai Carabinieri? Era solo un drogato – Desirée in cerca di droga viene uccisa dal negro? Poverina, siamo tutti Desirée, sarai sempre nei nostri cuori…

 

Parliamo di due ragazzi sfortunati.

Due ragazzi che non dovevano morire. E soprattutto non dovevano morire in quel modo.

Cosa li accomuna oltre una morte violenta per mano di ignobili aguzzini? Purtroppo una triste storia di droga. Certa per Desirée, non del tutto per Stefano.

E cosa invece fa divergere le storie di questi ragazzi? La malafede, il razzismo e lo squallido populismo di alcuni nostri politici…

Quante ne abbiamo sentite su Stefano Cucchi? Era solo un drogato …ma era stato ammazzato da Carabinieri, peraltro “ariani”

Per Desirée invece… Povera figlia, siamo tutti Desirée, sarai sempre nei nostri cuori …ma era stata ammazzata da un negro.

Stefano solo un drogato, Desirée una martire, un’eroina, un esempio….

Facciamo qualche nome?

Ignazio La Russa, all’epoca del massacro di Stefano, ministro della Difesa, che appena venne fuori il ‘caso Cucchi’ si affrettò a difendere l’Arma dei Carabinieri. Carlo Giovanardi, secondo il quale Stefano era solo un povero spacciatore che sarebbe morto non per le violenze ma di inedia e di sciopero della fame. Il sindacalista della polizia e leghista Gianni Tonelli, che parlò di ‘vita dissoluta per le quali si pagano le conseguenze’.

E poi l’attuale ministro dell’Interno. Sì, Matteo Salvini, quello che: “Ilaria Cucchi? Mi fa schifo…!”

Signore e Signori, sì, esistono morti di serie A e morti di serie B. E a deciderlo sono gli sciacalli che ci governano…

By Eles

Nella democratica Italia succede anche questo: Carabinieri presiedano le proiezioni di “Sulla Mia Pelle” e schedano chi assiste al film sull’assassinio di Stefano Cucchi …“Vogliamo la lista dei partecipanti”

 

Sulla Mia Pelle

 

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Nella democratica Italia succede anche questo: Carabinieri presiedano le proiezioni di “Sulla Mia Pelle” e schedano chi assiste al film sull’assassinio di Stefano Cucchi …“Vogliamo la lista dei partecipanti”

 

Carabinieri alla proiezione del film su Stefano Cucchi: “Vogliamo la lista dei partecipanti”

E’ accaduto in una libreria di Siderno, in Calabria: i due militari hanno chiesto ala titolare la lista dei partecipanti alla proiezione del film “Sulla Mia Pelle” e hanno presidiato l’evento durante tutta la sua durata.

Chi assiste a una proiezione del film “Sulla mia pelle”, girato per raccontare gli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, rischia di essere schedato dai carabinieri. No, non è un’esagerazione, ma ciò che è realmente accaduto a Siderno, un comune calabrese: durante la proiezione del lungometraggio, pianificata da tempo dalla signora Roberta Strangio, titolare della libreria all’interno del centro commerciale La Gru, si sono presentati due carabinieri in divisa: “Mi hanno salutato e chiesto la lista dei partecipanti”. La donna – racconta La Stampa – è rimasta molto spiazzata per l’inusuale richiesta, che mai le era stata fatta prima nonostante in quella libreria proiezioni e presentazioni di libri siano piuttosto comuni. La signora Strangio, infatti, risponde che non esiste nessuna lista dei partecipanti, al che i due militari rinunciano a conoscere nomi e cognomi degli spettatori ma non lasciano il locale, presidiandolo fino alla fine del film.

La giornalista che ha moderato il dibattito: “Mi sono sentita intimidita”
Roberta Strangio racconta: “Ogni tanto i due si affacciavano nella saletta per ascoltare, ma non sono mai intervenuti. Non c’è mai stata alcuna intimidazione, sia chiaro”. Maria Teresa D’Agostino, giornalista freelance che ha moderato il dibattito al termine del film, ha aggiunto: “Dopo la conclusione del dibattito  ho ripensato a ciò che è successo e mi sono sentita un po’ intimidita. Ma solo in un secondo momento”. Resta da camire per quale ragione due carabinieri siano stati inviati presso la libreria con il preciso mandato di ottenere nomi e cognomi dei partecipanti alla proiezioni. Cosa avrebbero dovuto fare con quella lista di persone? Il colonnello Gabriele De Pascalis, comandante del gruppo di Locri, raggiunto dalla Stampa ha escluso categoricamente la volontà di schedare i presenti e ha parlato di “attività di routine”.

fonte: https://www.fanpage.it/carabinieri-alla-proiezione-del-film-su-stefano-cucchi-vogliamo-la-lista-dei-partecipanti/

Non solo Stefano – I tanti casi Cucchi di cui non sappiamo nulla

 

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Non solo Stefano – I tanti casi Cucchi di cui non sappiamo nulla

 

«In sezione un detenuto non si massacra, si massacra sotto… Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto». È il 2 novembre 2009 quando una conversazione tra due guardie penitenziarie del carcere di Castrogno (Teramo), registrata illegalmente, diventa un caso nazionale. Il caso, però, finirà con un’archiviazione per l’impossibilità di dimostrare il fatto, e anche per l’omertà registrata proprio nell’ambiente carcerario.

Pochi giorni prima, il 22 ottobre, in un letto dell’Ospedale Pertini di Roma, muore Stefano Cucchi, mentre si trova sotto custodia cautelare. Grazie alla ferma determinazione della famiglia a far luce sull’accaduto, il suo caso è noto a tutti e ha portato al rinvio a giudizio di cinque carabinieri per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità. Uno degli imputati, nove anni dopo, durante il processo Cucchi bis, ha confessato il pestaggio accusando due colleghi. Il 24 ottobre ci sarà la prossima udienza per l’audizione di ulteriori testimoni.

Ma quanti Stefano Cucchi ci sono in Italia? In quali condizioni vivono i detenuti, di cui un terzo sono in custodia cautelare, dunque in attesa di una sentenza definitiva?

Giuseppe Uva, 43 anni, in custodia cautelare non c’è mai nemmeno arrivato. Il 14 giugno 2008 l’uomo viene fermato a Varese mentre con un amico sposta delle transenne nel quartiere di Biumo, dopo aver guardato una partita e bevuto del vino. Uva viene prima portato alla caserma dei carabinieri di via Saffi, poi finisce all’Ospedale di Circolo per un Trattamento sanitario obbligatorio. Nel frattempo, mentre si trovava anche lui in caserma, l’amico chiamava il 118, sussurrando: “Venite, stanno massacrando di botte un ragazzo”. Uva muore la mattina successiva in ospedale, dopo tre iniezioni, per un arresto cardiaco dovuto a una patologia di cui soffriva. Il caso giudiziario è controverso. Finisce il 31 maggio 2018 con i 2 carabinieri e i 6 poliziotti imputati assolti dall’accusa di omicidio e sequestro di persona con formula piena dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano. Ora resta la Cassazione.

«Il punto di questa vicenda è anche che non c’è stato nessun titolo di trattenimento, non c’è stato un arresto, a Uva non è stato fatto alcun tipo di verbale», spiega Valentina Calderone, direttrice dell’associazione A buon diritto. «Dalla Caserma nessuno ha contattato un pm e nessuno ha giustificato il trattenimento. Ci sono state più di due ore di totale vuoto di legalità che secondo la parte civile configurano un sequestro di persona».

I casi seguiti dall’associazione, che fa un lavoro di “accompagnamento istituzionale alle famiglie e advocacy”, in questi anni, dall’omicidio Aldrovandi in poi, non sono meno di cinquanta. Non esiste peraltro una statistica di casi come questi, gli elementi in gioco sono troppi: dove avviene il fatto, l’omertà dei coinvolti, la situazione personale della vittima, quali strumenti economici e culturali ha per poter affrontare un percorso che dopo la denuncia è faticosissimo.

Un altro dei casi seguiti da A buon diritto è quello di Stefano Gugliotta, picchiato durante un fermo da parte di un agente in tenuta antisommossa avvenuto la sera del 5 maggio 2010, in occasione di una finale di Coppa Italia, a Roma. Il ragazzo, senza casco alla guida del motorino, stava andando con un amico ad una festa. Dopo il pestaggio viene prima trasferito in Questura, poi a Regina Coeli dove resta una settimana con le accuse di lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. Stefano viene prosciolto grazie a un video girato col cellulare da un abitante del palazzo di fronte al luogo dell’accaduto. I medici refertano le ferite riportate dal giovane: lividi, lesioni alla testa, un dente rotto. Il risarcimento ammonta a 40mila euro. E i 9 agenti coinvolti sono stati condannati anche in Appello per lesioni gravi e falso, a seconda delle singole posizioni.

La Casa Circondariale di Regina Coeli (Roma), quella in cui Gugliotta ha trascorso una settimana, è uno degli Istituti visitati da Antigone nel 2017. L’associazione ha visitato 86 delle 190 carceri presenti in giro per l’italia e sono ormai vent’anni che si occupa di monitorare e verificare se i diritti dei detenuti vengono assicurati e ne rende conto in un Rapporto dettagliato, arrivato alla sua 14esima edizione. Gli Istituti oggi collaborano con più trasparenza. Regina Coeli ha un tasso di sovraffollamento del 156,1 per cento. E spesso proprio il problema del sovraffollamento nelle carceri dà il via a tutta una serie di problematiche (sanitarie, igieniche, trattamentali, educative) che abbassano la soglia di garanzia dei diritti dei detenuti. A Como, nel profondo nord, il tasso è del 200 per cento, a Taranto del 190 per cento. La crescita di quasi 2.000 detenuti nel corso dell’ultimo anno, che sono passati dai 56.289 del marzo 2017 ai 58.223 del marzo 2018 in alcune carceri ha reso la situazione sempre più invivibile e tesa. Il tasso di suicidi dietro le sbarre (numero dei morti ogni 10 mila persone) è salito dall’8,3 del 2008 al 9,1 del 2017: in numeri assoluti significa passare da 46 morti del 2008 a 52 morti del 2017.

Le botte e la malasanità spesso possono incontrarsi. Il diritto alla salute, peraltro è centrale in regime penitenziario. La storia del Signor Felice (nome di fantasia) è forse la storia di molti. L’uomo affetto da gravi problemi cardiaci e di deambulazione non ha visite mediche garantite e neanche la possibilità di svolgere la fisioterapia di cui avrebbe bisogno e racconta episodi di violenza a cui avrebbe assistito nel precedente penitenziario e che hanno fortemente inciso sulla sua condizione psicologica e fisica. L’art. 1 della Legge sull’Ordinamento Penitenziario impone che il trattamento penitenziario debba essere conforme ad umanità e assicurare il rispetto della dignità della persona. Una disposizione che risulta essere violata ogni volta che le necessarie cure vengano negate o ritardate, e questo purtroppo succede, come testimoniano le diverse segnalazioni ricevute da Antigone, dai detenuti e dalle loro famiglie.

La prima volta che Antigone si costituisce parte civile in un processo penale che vede imputati cinque agenti di polizia penitenziaria per violenze commesse a danno di due detenuti, Renne e Cirino, è il 27 ottobre del 2011. La Corte europea dei diritti dell’uomo, il 26 ottobre 2017, ha riconosciuto che Renne e Cirino furono vittime di torture e di trattamenti inumani e degradanti condannando lo Stato italiano a risarcire i due ex reclusi con 80 mila euro ciascuno. Da questa esperienza, Antigone, oltre ad offrire supporto, ha iniziato ad essere presente nei processi penali accanto alle persone detenute.

«Dimostrare in udienza fatti come questi è sempre molto complicato» – spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio Antigone. «Lo era ancora di più quando non c’era il reato di tortura e i tempi di prescrizione erano piuttosto rapidi. Il reato introdotto non è quello che avevamo disegnato noi ma pensiamo sia comunque una risorsa importante». Peraltro, il detenuto che denuncia una violenza o una negligenza è spesso esposto a rischio di ritorsioni.

C’è poi un ulteriore elemento da tenere in considerazione. Le denunce che arrivano ad Antigone sono situazioni che si protraggono per tempo. «Anche se è sbagliato – spiega Scandurra – purtroppo dai detenuti un certo livello di violenza è tollerato. Ci dicono “Sono stato picchiato ingiustamente, in maniera sproporzionata”. Mai affermano “sono stato picchiato”».

Di azione punitiva di inaudita violenza parla Giuseppe Rotundo che il 13 gennaio 2011 riesce a far uscire una lettera dal carcere indirizzata al suo avvocato in cui denuncia di essere stato vittima di un pestaggio da parte di tre agenti di polizia penitenziaria.  «Carissimo avvocato, – scrive Rotundo – ciò che legge è sicuramente una sporca faccenda. La prego vivamente di provvedere ad inviare qui il più presto possibile un suo collaboratore (meglio se con la macchina fotografica) affinché possa documentare le mie condizioni di salute, sono stato ridotto in uno stato pietoso, il mio volto al momento in cui le scrivo è irriconoscibile, gambe e braccia sono contuse e gonfie, ho tutto il corpo dolorante e pieno di ematomi. Sono stato ridotto in questo stato da un gruppetto di agenti di custodia (…) Il medico interno si è limitato al minimo indispensabile, è comprensibile poiché sono coscienti che hanno commesso una vera e propria spedizione punitiva di inaudita violenza (…) n.b. Metto il mittente di altro detenuto poiché ho seri motivi per ritenere che col mio nome e cognome questa lettera non giungesse a destinazione cioè a lei». Il processo si trova attualmente in fase dibattimentale davanti al Tribunale di Foggia e nasce da una riunione di due procedimenti in quanto anche i tre agenti di polizia hanno a loro volta denunciato di essere stati assaliti dal detenuto. La prossima udienza è fissata per il 25 ottobre 2018 e la prescrizione è oramai sempre più vicina.

«Gli agenti dicono di averlo portato in una cella di isolamento in seguito ad un litigio verbale e che stava benissimo, tesi che però cozza con quanto detto da testimoni importanti, che confermano di averlo visto in quelle condizioni, quasi non riconoscendolo», commenta Simona Filippi, legale di Antigone. «Inoltre, in carcere quello che denuncia in generale è l’infame. La cosa molta è molto seria, basti pensare al fatto che ci sono dei reparti specifici in cui stanno i detenuti che denunciano. Esistono ancora delle regole non scritte che tutti rispettano e che lo stesso Rotundo ha rispettato, denunciando superando quella soglia di tolleranza».

Il Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa alla fine dell’anno scorso ha reso pubblico il rapporto della sua visita compiuta in Italia ad aprile 2016. Il Cpt ha raccolto denunce di maltrattamenti, tra cui l’uso non necessario ed eccessivo della forza da parte di carabinieri, agenti di polizia, e di custodia, in praticamente tutte le strutture detentive visitate. Inoltre, secondo il Cpt, le persone in custodia cautelare non sempre beneficiano delle garanzie offerte dalla legge.

«Oggi i detenuti sono più propensi a raccontare. Noi abbiamo avuto un aumento notevole delle segnalazioni in questi anni» – spiega Scandurra. Ma questo non vuol dire per forza che ci sia stato un aumento dei casi ma «che sembra più normale denunciare e lamentarsi». Inoltre, l’istituzione del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute ha aiutato.

E proprio il Garante dei detenuti di Lazio e Umbria, Stefano Anastasia, nel mese di agosto ha presentato un esposto alla Procura di Viterbo per la morte di un 21enne, Hassan Sharaf. Il detenuto avrebbe finito di scontare la pena il 9 settembre, all’interno del carcere punitivo di Viterbo, ma il 23 luglio scorso è stato trovato impiccato nella cella di isolamento dove era stato trasferito da appena due ore. Entrato in coma, è morto il 30 luglio nell’ospedale locale di Belcolle. Suicida, secondo le autorità penitenziarie. Il terzo dall’inizio dell’anno. Il Garante, in occasione di una visita, avrebbe ascoltato quel ragazzo  che aveva denunciato violenze e lesioni da parte degli agenti di Penitenziaria mostrandone i segni, tanto da chiederne un trasferimento mai arrivato. Secondo Anastasia sono almeno dieci i detenuti che hanno denunciato violenze subite in quell’Istituto.

«Questo problema in Italia esiste»,  conclude Scandurra. «Prova ne siano quei pochi casi che conosciamo e che generalmente riguardano abusi e violenze nei confronti di italiani, con una famiglia alle spalle. Di Stefano Cucchi ce ne sono tanti, di famiglie Cucchi purtroppo ce ne sono poche. Per ogni Stefano Cucchi ce ne sono molti che non riescono a ottenere quel livello di attenzione. Tra gli stranieri si può immaginare ce ne siano anche di più».

“Chiedere scusa per cosa? Stefano Cucchi è morto per droga”: le agghiaccianti, ignobili, meschine, vili, infami schifose parole di Giovanardi

 

Giovanardi

 

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“Chiedere scusa per cosa? Stefano Cucchi è morto per droga”: le agghiaccianti, ignobili, meschine, vili, infami schifose parole di Giovanardi

“Chiedere scusa per cosa? Stefano Cucchi è morto per droga”: le agghiaccianti parole di Giovanardi

L’ex senatore insiste anche dopo le accuse del carabiniere Tedesco ai suoi colleghi per il pestaggio del giovane romano: “le perizie hanno sempre escluso la morte per percosse”

“Non devo chiedere scusa alla famiglia Cucchi, perché dovrei farlo? La prima causa di morte di Stefano Cucchi è stata la droga”. Sono le agghiaccianti parole dell’ex senatore Carlo Giovanardi, intervenuto a la Zanzara, dopo le rivelazioni del carabiniere Francesco Tedesco che ha accusato i suoi colleghi del pestaggio del giovane romano.
“Vedremo nel corso del processo – ha detto Giovanardi – se le botte dei CC sono state causa della morte. Di cosa devo chiedere scusa? Non mi vergogno di nulla, le perizie hanno sempre escluso la morte per percosse, prendetevela con loro”.
“Bisogna chiedere scusa alle guardie penitenziarie – ha aggiunto l’ex senatore – assolte dopo 6 anni di calvario. Dissi che le guardie carcerarie erano vittime come Cucchi. Tutte le perizie dicono che la prima causa di morte di Cucchi è stata la droga. Volevano intitolargli una strada, ma non è un benemerito del Paese e prima di condannare i carabinieri facciamo finire i processi, poi eventualmente paghino”.
Giovanardi per anni ha difeso i carabinieri criticando la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, che sosteneva la tesi del pestaggio. Non è infatti la prima volta che l’ex senatore rivolge parole dure contro la famiglia Cucchi mettendo in dubbio che esista qualsiasi responsabilità a carico dei carabinieri.
Nel 2016, sempre alla Zanzara, disse: “Ilaria Cucchi dice che il decesso del fratello Stefano è stato causato dalle fratture? Davanti a 20 periti e 4 dei più grandi luminari che si sono pronunciati non credo certo agli asini che volano”.

tratto da: https://www.globalist.it/news/2018/10/12/chiedere-scusa-per-cosa-stefano-cucchi-e-morto-per-droga-le-agghiaccianti-parole-di-giovanardi-2032159.html

Dopo la confessione dei Carabinieri che pestarono a morte Stefano, Matteo Salvini invita Ilaria Cucchi al Viminale …Si, Matteo Salvini quello che diceva: “Ilaria Cucchi mi fa schifo”

 

Matteo Salvini

 

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Dopo la confessione dei Carabinieri che pestarono a morte Stefano, Matteo Salvini invita Ilaria Cucchi al Viminale …Si, Matteo Salvini quello che diceva: “Ilaria Cucchi mi fa schifo”

Quando Matteo Salvini diceva: “Ilaria Cucchi mi fa schifo”

Oggi il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, invita Ilaria Cucchi al Viminale dopo le ultime confessioni sul pestaggio e sulla morte del fratello Stefano. Ma nel 2016 l’attuale ministro dell’Interno si rivolgeva in ben altro modo a Ilaria: “Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello, ma mi fa schifo”, diceva riferendosi a una foto pubblicata dalla sorella di Stefano Cucchi.

Oggi il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, invita Ilaria Cucchi al Viminale, dopo la confessione, con l’accusa nei confronti di due colleghi, del carabiniere che ha ammesso che il fratello Stefano è stato pestato. Ma un po’ di tempo fa, a gennaio 2016, Salvini non riservava le stesse parole di buon senso rivolte oggi a Ilaria Cucchi. Anzi. Ai tempi l’allora leader della Lega diceva esplicitamente “mi fa schifo”, riferendosi alla sorella di Stefano Cucchi. Partiamo da oggi. Dopo la notizia della confessione del carabiniere, Salvini decide di invitare “sorella e parenti” di Cucchi al Viminale: “Sono i benvenuti. Eventuali reati o errori di pochissimi uomini in divisa devono essere puniti con la massima severità, ma questo non può mettere in discussione la professionalità e l’eroismo quotidiano di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi delle forze dell’ordine”.

Salvini: La sorella e i parenti di Stefano #Cucchi sono i benvenuti al Viminale.
Eventuali reati o errori di pochissimi vanno puniti con la massima severità, ma ciò non può mettere in discussione professionalità e eroismo quotidiani di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi in divisa.

L’attacco a Ilaria Cucchi del 2016
A gennaio 2016, però, Salvini diceva cose diverse, intervistato da La Zanzara, trasmissione che va in onda su Radio24. Affermava, per esempio: “Io sto sempre e comunque con polizia e carabinieri. Se l’1% sbaglia deve pagare, anche il doppio. Però mi sembra difficile pensare che ci siano poliziotti o carabinieri che hanno pestato per il gusto di farlo”. Oggi gli ultimi fatti sembrano dargli torto in merito a questa dichiarazione. Ma non l’unica: “Ilaria Cucchi? Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello, ma mi fa schifo – affermava –. È un post che mi fa schifo, mi ricorda tanto il documento contro il commissario Calabresi”. Il riferimento era alla foto del carabiniere indagato per la morte di Stefano Cucchi che la sorella Ilaria aveva pubblicato su Facebook.

E ancora Salvini diceva: “La sorella di Cucchi si deve vergognare. La storia dovrebbe insegnare. Qualcuno nel passato fece un documento pubblico, erano intellettuali sdegnati contro un commissario di polizia che fu assassinato. I carabinieri possono tranquillamente mettere una foto in costume da bagno sulla pagina di Facebook. O un carabinieri non può andare al mare? È assolutamente vergognoso. I legali fanno bene a querelare la signora e lei dovrebbe chiedere scusa”.

Ilaria Cucchi: ‘Mi aspetto le scuse di Salvini’
Oggi è stata anche la stessa Ilaria Cucchi a chiamare in causa Matteo Salvini: “Oggi mi aspetto le scuse del ministro dell’Interno. A Stefano e alla nostra famiglia per tutto quello che ha sofferto”. Ilaria ha anche scritto un post su Facebook, senza far riferimento di alcun genere a Salvini: “Ci chieda scusa chi ci ha offesi in tutti questi anni. Ci chieda scusa chi in tutti questi anni ha affermato che Stefano è morto di suo, che era caduto. Ci chieda scusa chi ci ha denunciato. Chi ha fatto carriera politica offendendoci si deve vergognare. Lo Stato deve chiederci scusa. Deve chiedere scusa alla famiglia Cucchi”.

fonte: https://www.fanpage.it/quando-matteo-salvini-diceva-ilaria-cucchi-mi-fa-schifo/

 

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Cucchi

 

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Cucchi massacrato dai carabinieri, ma Salvini diceva : “La sorella mi fa schifo”

L’estremista di destra che vuole guidare il Viminale ha una doppia visione della legalità: pugno di ferro con comunisti e stranieri ma quando i reati sono fatti da forze dell ordine vanno infangate le vittime

Il governo è quasi pronto e vogliamo ricordare cosa diceva l’estremista di destra che vuole guidare il Viminale un anno fa.

Ilaria Cucchi? Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello, ma mi fa schifo. E’ un post che mi fa schifo. Mi ricorda tanto il documento contro il commissario Calabresi”. Lo diceva un anno fa Matteo Salvini, segretario della vecchia Lega Nord che per motivi elettorali si è trasformata in Lega (e basta) a La Zanzara su Radio 24, parlando della foto del carabiniere indagato per la morte di Stefano Cucchi, pubblicata da Ilaria Cucchi sul suo profilo Facebook in quei giorni.

“La sorella di Cucchi – aveva sottolinea Salvini – si deve vergognare. La storia dovrebbe insegnare. Qualcuno nel passato fece un documento pubblico, erano intellettuali sdegnati contro un commissario di polizia che poi fu assassinato. I carabinieri possono tranquillamente mettere una foto in costume da bagno sulla pagina di Facebook. O un carabiniere non può andare al mare? E’ assolutamente vergognoso. I legali fanno bene a querelare la signora e lei dovrebbe chiedere scusa”.

“Io sto sempre e comunque con polizia e carabinieri – aveva detto ancora il leader leghista – Se l’un per cento sbaglia deve pagare, anche il doppio. Però mi sembra difficile pensare che ci siano poliziotti o carabinieri che hanno pestato per il gusto di farlo”.

Per le ragazze stuprate a Firenze disse lo stesso: credeva ai carabinieri e non alle vittime.

La sua doppia visione della legalità ci disgusta: pugno di ferro con comunisti e stranieri, ma quando i reati sono commessi dalle forze dell ordine vanno infangate le vittime

 

fonte: http://www.globalist.it/news/articolo/2018/05/17/cucchi-massacrato-dai-carabinieri-ma-salvini-diceva-la-sorella-mi-fa-schifo-2024465.html

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