Aldo Moro ucciso il 9 maggio di 42 anni fa – La sconvolgente deposizione raccolta da Imposimato: “le forze speciali di Dalla Chiesa stavano per liberare Moro, ma una telefonata dal VIMINALE li fermò”!

 

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Aldo Moro ucciso il 9 maggio di 42 anni fa – La sconvolgente deposizione raccolta da Imposimato: “le forze speciali di Dalla Chiesa stavano per liberare Moro, ma una telefonata dal VIMINALE li fermò” !!!

Sono armai oltre 4o anni dal rapimento di Aldo Moro, l’inizio di un caso del tutto particolare. Un caso gestito in maniera assai ambigua dalla politica e dai poteri dell’epoca…

Il 9 maggio del 1978 Aldo Moro veniva poi giustiziato….

Aldo Moro doveva morire? E’ quasto che ha sempre sostenuto il Giudice Imposimato…

Il giorno prima di morire, Aldo Moro era a un passo dalla salvezza: le forze speciali del generale Dalla Chiesa stavano per fare irruzione nel covo Br di via Montalcini, sotto controllo da settimane. Ma all’ultimo minuto i militari furono fermati da una telefonata giunta dal Viminale: abbandonare il campo e lasciare il presidente della Dc nelle mani dei suoi killer. E’ la sconvolgente rivelazione che Giovanni Ladu, brigadiere della Guardia di Finanza di stanza a Novara, ha affidato a Ferdinando Imposimato, oggi presidente onorario della Corte di Cassazione, in passato impegnato come magistrato inquirente su alcuni casi tra i più scottanti della storia italiana, compreso il sequestro Moro. Prima di passare il dossier alla Procura di Roma, che ora ha riaperto le indagini, Imposimato ha impiegato quattro anni per verificare le dichiarazioni di Ladu, interrogato nel 2010 anche dal pm romano Pietro Saviotti.

Decisive, a quanto pare, le testimonianze degli ex “gladiatori” sardi Oscar Puddu e Antonino Arconte, l’allora agente del Sismi che tempo fa rivelò di
aver ricevuto da Roma la richiesta di contattare in Libano i palestinesi dell’Olp per favorire la liberazione di Moro, ben 14 giorni prima che lo statista venisse effettivamente rapito. Secondo il brigadiere Ladu, all’epoca semplice militare di leva nei bersaglieri, la prigione romana di Moro, in via Montalcini 8, era stata individuata dai servizi segreti e da Gladio e controllata per settimane. Non solo: «L’8 maggio del 1978 – scrive  Piero Mannironi su “La Nuova Sardegna” – lo statista Dc che sognava di cambiare la politica italiana doveva essere liberato con un blitz delle teste di cuoio dei carabinieri e della polizia, ma una telefonata dal Viminale bloccò tutto, e il giorno dopo Moro fu ucciso. Il suo cadavere fu fatto ritrovare nel portabagagli di una Renault rossa in via Caetani. In quel momento – continua Mannironi – la storia italiana deragliò da un percorso progettato da Moro e dal suo amico-nemico Berlinguer, tornando nello schema ortodosso della politica dei blocchi e incamminandosi poi verso un tragico declino morale».

Il giudice Imposimato, ora avvocato, conobbe il super-testimone Giovanni Ladu soltanto nel 2008: «Si presentò nel suo studio all’Eur insieme a due colleghi, autorizzato dal suo comandante». Il brigadiere delle Fiamme Gialle aveva scritto un breve memoriale, nel quale sosteneva di essere stato con altri militari a Roma, in via Montalcini, per sorvegliare l’appartamento-prigione in cui era tenuto il presidente della Dc. Un appostamento cominciato il 24 aprile 1978 e conclusosi l’8 maggio, alla vigilia dell’omicidio di Moro. Perché Ladu ha atteso ben trent’anni anni prima di parlare? «Avevo avuto la consegna del silenzio e il vincolo al segreto – ha detto a Imposimato – ma soprattutto avevo paura per la mia incolumità e per quella di mia moglie. La decisione di parlare mi costa molto, ma oggi
spero che anche altri, tra quelli che parteciparono con me all’operazione, trovino il coraggio di parlare per ricostruire la verità sul caso Moro».

Ladu ha raccontato che il 20 aprile del 1978 era partito dalla Sardegna per il servizio militare. Destinazione: 231° battaglione bersaglieri Valbella di Avellino. Dopo tre giorni, lui e altri 39 militari di leva furono fatti salire su un autobus, trasportati a Roma e alloggiati nella caserma dei carabinieri sulla via Aurelia, vicino all’Hotel Ergife. Furono divisi in quattro squadre e istruiti sulla loro missione: sorveglianza e controllo di uno stabile. A tutti i militari fu attribuito uno pseudonimo, e Ladu diventò “Archimede”. Lui e la sua squadra presero possesso di un appartamento in via Montalcini che si trovava a poche decine di metri dalla casa dove, dissero gli ufficiali che coordinavano l’operazione, «era tenuto prigioniero un uomo politico che era stato rapito». Il nome di Moro non venne fatto, ma tutti capirono.

Il racconto di Ladu è ricco di dettagli: controllo visivo 24 ore su 24, micro-telecamere nascoste nei lampioni, controllo della spazzatura nei cassonetti. Per mimetizzarsi, i giovani militari di leva indossavano tute dell’Enel o del servizio di nettezza urbana. Così controllarono gli spostamenti di “Baffo”, poi riconosciuto come Mario Moretti, che entrava e usciva sempre con una valigetta, o della “Miss”, Barbara Balzerani. Vestito da operaio, un giorno Ladu fu inviato con un commilitone a verificare l’impianto delle telecamere all’interno della palazzina dove era detenuto Moro. Invece di premere
l’interruttore della luce, il brigadiere sardo si sbagliò e suonò il campanello. Aprì la “Miss” e Ladu improvvisò con prontezza di spirito, chiedendo se era possibile avere dell’acqua.

Un racconto agghiacciante nella sua precisione, continua il reporter della “Nuova Sardegna”. Nell’appartamento sopra la prigione di Moro erano stati piazzati dei microfoni che captavano le conversazioni. La cosa che stupì Ladu era che il personale addetto alle intercettazioni parlava inglese. «Scoprimmo in seguito – ricorda – che si trattava di agenti segreti di altre nazioni, anche se erano i nostri 007 a sovrintendere a tutte le operazioni». Altri particolari: era stato predisposto un piano di evacuazione molto discreto per gli abitanti della palazzina ed era stata montata una grande tenda in un canalone vicino, dove era stata approntata un’infermeria nel caso ci fossero stati dei feriti, nel blitz delle teste di cuoio, le unità speciali antiterrorismo dei carabinieri di Dalla Chiesa.

«L’8 maggio tutto era pronto – dice ancora Ladu – ma accadde l’impensabile. Quello stesso giorno, alla vigilia dell’irruzione, ci comunicarono che dovevamo preparare i nostri bagagli perché abbandonavamo la missione. Andammo via tutti, compresi i corpi speciali pronti per il blitz e gli agenti segreti. Rimanemmo tutti interdetti perché non capivamo il motivo di questo abbandono. La nostra impressione fu che Moro doveva morire». Ladu ha raccontato di aver sentito dire da alcuni militari dei corpi speciali che tutto era stato bloccato da una telefonata giunta dal ministero dell’interno. Mentre smobilitavano, un capitano intimò al brigadiere sardo: «Dimenticati di tutto quello che hai fatto in questi ultimi 15 giorni». Successivamente, seguendo una trasmissione in tv, Ladu avrebbe riconosciuto uno degli ufficiali che coordinavano l’operazione: il
generale Gianadelio Maletti, ex capo del controspionaggio del Sid, che i militari in quei giorni avevano soprannominato, per la sua pettinatura, “Brillantina Linetti”.

Imposimato è rimasto inizialmente perplesso e diffidente: il racconto di Ladu sconvolge tutte le esperienze investigative precedenti, ne annulla tutte le certezze e, soprattutto, pone un problema terribile: bloccando il blitz, qualcuno avrebbe quindi decretato la morte di Aldo Moro. «Per quattro anni, così, quel racconto rimase sospeso, in attesa di conferme e riscontri», aggiunge Mannironi. «Fino a quando non comparve il “gladiatore” Oscar Puddu». Grazie all’ex agente della “Gladio”, il quadro di quei giorni drammatici del 1978 è parso completarsi, trovando una nuova credibilità. Nel frattempo, lo stesso Imposimato aveva conosciuto altri ex “gladiatori” sardi, Antonino Arconte e Pierfrancesco Cancedda, e ascoltato i loro sconvolgenti racconti sul caso Moro: «Confermavano che nel mondo dei servizi segreti si sapeva dell’imminente sequestro di Moro». Arconte, in particolare, ricorda di aver personalmente consegnato, a Beirut, l’ordine di contattare l’Olp per stabilire un contatto con le Br, prima ancora del sequestro Moro. L’uomo a cui all’epoca Arconte consegnò il dispaccio, il colonnello Mario Ferraro, del Sismi, anni dopo fu trovato morto nella sua
abitazione romana, in circostanze mai chiarite.

«Giovanni Ladu, poi, non aveva e non ha alcun interesse a risvegliare i fantasmi che popolano uno dei fatti più oscuri della vita della Repubblica», osserva il giornalista della “Nuova Sardegna”. «Lui, soldato di leva in quel 1978, venne proiettato in un universo sconosciuto del quale sapeva poco o nulla». Ma perché il Sismi per una missione così delicata scelse di utilizzare quel manipolo di ragazzi inesperti? «Vista l’età, erano meno visibili, meno sospettabili da parte dei terroristi». Inoltre, non erano soli: secondo Ladu, erano controllati dal generale Musumeci, dai suoi uomini e da 007 che parlavano inglese. Resta da capire chi avrebbe fatto quella telefonata dal Viminale che, secondo questa ricostruzione, avrebbe condannato a morte Aldo Moro. A fermare Musumeci, conclude Mannironi, potevano essere solo Cossiga, ministro dell’interno, o Andreotti, presidente del Consiglio. Secondo Oscar Puddu, il generale Dalla Chiesa insistette per il blitz, ma fu bloccato da Andreotti e Cossiga. «Lo convocarono a Forte Braschi, la sede del Sismi, e lo redarguirono duramente». Come si sa, Dalla Chiesa fu poi trasferito a Palermo, dove fu ucciso in un agguato organizzato da Cosa Nostra.

 

tratto da: http://siamolagente2.altervista.org/la-sconvolgente-deposizione-raccolta-da-imposimato-le-forze-speciali-di-dalla-chiesa-stavano-per-liberare-moro-ma-una-telefonata-dal-viminale-li-fermo/

23 settembre 1916 – 23 settembre 2018 – Buon compleanno Aldo Moro, a te ed a tutti i misteri che 40 anni di indagini non sono riusciti e chiarire.

 

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Aldo Moro, tutti i misteri a 40 anni dal rapimento

Sei commisioni d’inchiesta, cinque processi e un numero infinito di teorie e ricostruzioni aleatorie. Ma non esiste ancora una verità ufficiale sull’omicidio del leader Dc. E tante domande rimangono inevase.

Quarant’anni da via Fani, da via Caetani e ancora non si sa perché sia morto Aldo Moro. Per salvaguardare segreti di Stato usciti per sbaglio? Per accelerare la crisi democratica del consociativismo Dc-Pci? Per aprire la strada a possibili derive autoritarie? Perché così voleva Kissinger, la Cia, il Kgb, gli israeliani, i palestinesi, i libici, la mafia? In quarant’anni se ne sono sentite di ipotesi, di fantapolitiche, di possibilità ragionate, si sono chiariti alcuni dubbi, sono state spazzate via alcune verità di comodo di stampo brigatista, revisionista, ma allo stato dell’arte vale sempre lo sberleffo che chi scrive raccolse dalla terrorista Anna Laura Braghetti, la carceriera di Moro: «Ma sì, indagate, indagate, non avete fatto altro per 25 anni, non farete altro per i prossimi 25». Come a dire che la verità vera la sapevano loro e sapevano come tenerla blindata, ne avevano facoltà perché lo Stato, tutta questa voglia di scoprire gli altarini ultimi, definitivi, non è che l’avesse. Intanto i testimoni spariscono uno dietro l’altro portandosi in tomba i segreti che contano; intanto le Commissioni d’inchiesta si susseguono e, sì, qualcosa fanno, ma un po’ alla maniera di Diogene che col lanternino cercava l’uomo.

Ma sì, indagate, indagate, non avete fatto altro per 25 anni, non farete altro per i prossimi 25 (ANNA LAURA BRAGHETTI, EX BRIGATISTA ROSSA).

Dove sta il memoriale vero, il manoscritto di Moro redatto durante la prigionia che usciva a pezzi, opportunamente emendato, dal covo milanese di via Monte Nevoso? La prima ondata finì nelle mani esperte e smaliziate del generale Dalla Chiesa il primo ottobre del 1978, dopo la retata dei nove brigatisti inchiodati nel covo, la seconda uscì 12 anni dopo, nel 1990, quando casualmente da un tramezzo veniva giù una pioggia d’armi, banconote e documenti. Dove le registrazioni audio dei suoi interrogatori? È vero che vengono conservati nel caveau di una banca svizzera, lingotti di ricatti? Dove stanno le svariate prigioni dell’ostaggio, a parte quella, leggendaria, di via Montalcini? Lungo il litorale di Marina di Palidoro, a Fiumicino? Dalle parti del Ghetto, vicino a dove la R4 col suo cadavere fu ritrovata?

CINQUE PROCESSI E SEI COMMISSIONI D’INCHIESTA. Quanti furono a prender parte al raid di via Fani? Da nove divennero prima 14, poi 20, forse, considerate le sentinelle d’appoggio, anche di più. Alcuni sono stati fatti filare al sicuro, in Nicaragua, anche tramite prelati come il famoso Abbè Pierre. Ancora, il ruolo di Gladio, degli apparati Nato, della falsa scuola di lingue francese Hyperion, centro di raccolta sia di terrorismi che di nuclei di spionaggio internazionali, dei viaggi di Mario Moretti avanti e indietro da Parigi e tante, tante altre stranezze che spingono il presidente della sesta e per ora ultima Commissione parlamentare, Giuseppe Fioroni, a parlare di «storia da riscrivere in molti suoi capitoli». Dopo 40 anni, cinque processi, due dei quali unificati, sei Commissioni parlamentari d’inchiesta, un labirinto infinito di sentenze, di condanne, di ipotesi, di dubbi, di sorprese, di conferme.

Ma i risvolti parziali, le tessere mancanti del mosaico, le incongruenze, i presupposti storici e politici, sono tutta roba in certo senso secondaria; prima di tutto il resto, oltre tutto il resto, perdura la madre di tutte le domande: perché proprio Moro? Per dire perché lo tolsero di mezzo, in quel modo contorto, all’apparenza inaspettato «improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l’ordine di esecuzione», per usare le parole del prigioniero, quasi incredulo, nell’ultima lettera alla moglie. Cinquantacinque giorni di stallo, con decine di migliaia di poliziotti, di carabinieri, di militari della finanza, dell’esercito, della marina, dell’aeronautica, con l’intromissione dei servizi segreti, non cavavano il classico ragno dal buco.

QUELLE RIVELAZIONI SU GLADIO. Cinquantacinque giorni nei quali succedeva di tutto, falsi comunicati, falsi annunci della morte dell’ostaggio «mediante suicidio», maneggi della massoneria piduista e della banda della Magliana, covi platealmente scoperchiati, messaggi clamorosi, contraddizioni dei brigatisti che passano con disinvoltura da un comunicato in cui si ribadisce che «nulla verrà tenuto nascosto al popolo» alla affermazione impune secondo cui «il prigioniero non ha rivelato cose di cui il popolo non fosse già al corrente». E invece ha appena parlato di Gladio, del ruolo di Cossiga e di Andreotti, di retroscena democristiani potenzialmente esplosivi, censurati dai carcerieri e poi fatti sparire anche dai reperti.

C’è un ex senatore comunista, Sergio Flamigni, oggi 93enne, che in trent’anni ha scritto una sequela di libri in cui demolisce le false verità concordate fra Stato ed eversione: sul numero dei partecipanti all’operazione di via Fani, su quello dei carcerieri di Moro, sulle circostanze della prigionia, sulle omissioni e le compromissioni di Stato, sui memoriali di comodo come quello di Valerio Morucci che a suo modo è emblematico di una storia che a tutti i costi non si vuole risolvere. Documento dalla gestazione torbida, scritto insieme al giornalista della destra Dc Remigio Cavedon, veicolato da una religiosa carceraria, suor Teresilla Barillà, con funzioni di raccordo tra brigatisti detenuti e settori della Democrazia cristiana, fino al presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

FLAMIGNI E LA «RICOSTRUZIONE ADDOMESTICATA». Secondo Flamigni, il memoriale (architrave della sentenza-ordinanza del giudice Rosario Priore in esito del processo Moro-quater) s’incarica di offrire una ricostruzione addomesticata sull’intero affaire Moro, tale da soddisfare tutti e utile ad accelerare il corso dell’amnistia di fatto per i brigatisti coinvolti, che infatti otterranno i rispettivi vantaggi, non solo in termini di liberazione precoce, ma anche di reinserimento sociale e addirittura di notorietà mediatica remunerata. O, come diceva il giornalista-spione Mino Pecorelli prima d’essere a sua volta eliminato: «Verrà un’amnistia a tutto lavare, tutto obliare». E che sia «una versione che fa acqua da tutte le parti», quella ufficiale o meglio ufficializzata, non lo dice solo Flamigni, lo dice uno di loro, il brigatista Raimondo Etro, forse l’unico ad essersi totalmente staccato, ad aver ripensato integralmente la propria parabola, senza se e senza ma. È lo stesso che, quando parla di Moretti, lo indica così: «Il cosiddetto capo Mario Moretti».

Tanti perché all’interno di un perché più grande, che tutti li lega e tutti li copre. L’ex parlamentare del Pd Gero Grassi, intervistato dalla Rai, si dice convinto che via Montalcini non fu la prigione di Moro, almeno non l’unica, e che la prima, probabilmente, stava in via Massimi, lungo l’astruso tragitto dei terroristi che lo avevano sequestrato in via Fani: e un’azione così, di altissima tecnica militare, non la fa un pugno di pistoleri improvvisati, non la mettono insieme i rivoluzionari della domenica Morucci, Gallinari, Bonisoli e Fiore, con la regia di Moretti e la copertura di Loiacono e Casimirri, entrambi fatti filare via dall’Italia ad opera dei Servizi.

L’AFFOLLAMENTO INSPIEGABILE DI VIA FANI. Poi si saprà che in via Fani c’era una folla, in parte incomprensibile agli stessi brigatisti. C’erano mezzi, una moto con un autista e un passeggero che scarica una raffica di mitra contro uno che non c’entra niente, mancandolo per poco. C’era un benzinaio esperto di armi da fuoco, un fotografo i cui rullini subito spariscono, ci sono tecnici della Sip controllata dalla P2, c’è un colonnello dei Servizi, Camillo Guglielmi, che è lì perché doveva «andare a pranzo da un amico» alle 9 di mattina. Ci sono macchine che ostruiscono le manovre e consentono l’agguato, veicoli che spariscono e si ritrovano poche ore dopo, in via Licino Calvo, lungo la strada di fuga dei terroristi. Ci sono un sacco di circostanze che non ci sono, non tornano, non si spiegano. Dopodiché, l’insurrezione popolare sulla quale contano le Br, e forse non solo loro, non arriva: nelle fabbriche si brinda, nelle scuole e nelle università si viene colti «da una insana e febbrile eccitazione», come ricorda Nando Dalla Chiesa: ma sono, tutto sommato, minoranze, la base è incredula, non capisce e non vuole capire. Ma perché, qualcuno sano di mente poteva davvero aspettarsi un esito del genere, la guerra di popolo con Moro prigioniero?

La gestione del sequestro è complicata, inquinata, gli scenari mutano, obbligano a sacrificare l’ostaggio. E allora perché non dirlo chiaro, perché continuare a mentire anche su questo, perfino sulle circostanze dell’uccisione, i racconti di Maccari e Moretti completamente divergenti, sulla responsabilità dell’esecuzione, perfino sui fazzolettini infilati nel corpo agonizzante della vittima per tamponare il sangue? Moro come il primo Dc che capitava, il più facile da colpire? O capro espiatorio, agnello sacrificale per caso, imposto dagli eventi, dalle manovre di Stato, anti-Stato, forze esterne che confondono gli stessi brigatisti, li chiudono all’angolo? Perché lui quella mattina stava andando a riscuotere la fiducia del primo governo “di solidarietà nazionale” col sostegno del Pci, cosa che a quei leninisti delle Br pareva intollerabile come lo è sempre il riformismo nelle sfuriate rivoluzionarie da Terza Internazionale? Perché Moro era un progressista, uno che diceva «io temo la crisi» e in Italia una crisi c’è sempre ed è buona da soffiarci sopra, buona per eccitare gli animi, chiamarli a insurrezione mentre lui seguiva la strada dei tempi lunghi, delle riforme prudenti ma costanti, di concerto all’altro partito di massa, i comunisti ai quali non voleva lasciare il monopolio rappresentativo delle masse popolari? Perché era uno stratega mite e insidioso, deciso a inglobare la sinistra nella tradizione cattolica, ma anche capace di ribadire di fronte alle pretese clericali il ruolo laico del suo partito?

DOPO L’OMICIDIO LA SINISTRA SI CALCIFICA. Sì, tutto è possibile, tutto si può dire, ma messe così, lasciate così, sono tutte ricostruzioni aleatorie, suggestive. Che non risolvono la doppia questione, perché lui e perché ucciderlo anziché rilasciarlo, diffondere le sue memorie, i segreti anche traumatici che andava rivelando, che minacciava di rendere pubblici una volta rivelato. Dopo via Fani la politica italiana si calcifica, i comunisti perdono il treno governativo per quasi un ventennio, dovrà cadere il Muro, sorgere Tangentopoli, il biennio infuocato 1992-94, con Berlusconi a rimescolare tutto, per riaprire alla sinistra, nel frattempo post comunista, le porte del Palazzo. Oggi via Fani è una commemorazione, cappottini primaverili impettiti, corone di fiori lasciate sul posto dove mani stupide, probabilmente acerbe, hanno tracciato svastiche. Mentre un’altra commissione mette insieme nuovi tasselli, nuove incongruenze, nuove omertà e conclude nel segno del fatalismo: «Quella di Moro è una storia ancora da riscrivere in diversi capitoli». Dopo 40 anni. Alla domanda sul perché sia stato ucciso, su chi aveva interesse a levarlo di mezzo, si vanno opponendo risposte pleonastiche, che chiudono i conti senza spiegarli: «Moro è stato fatto fuori perché lo volevano morto, perché c’era una guerra, perché è toccato a lui». Perché sì.

 

tratto da: https://www.lettera43.it/it/articoli/politica/2018/03/16/aldo-moro-brigate-rosse-rapimento-via-fani-via-caetani-dubbi-misteri/218664/