Piazza Fontana: quando Sandro Pertini non strinse le mani al questore di Milano Marcello Guida. Erano sporche per il suo passato da fascista e del sangue dell’anarchico Pinelli…

 

Piazza Fontana

 

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Piazza Fontana: quando Sandro Pertini non strinse le mani al questore di Milano Marcello Guida. Erano sporche per il suo passato da fascista e del sangue dell’anarchico Pinelli…

Poco dopo la strage di Piazza Fontana, Sandro Pertini, allora presidente della Camera dei deputati, si recò a Milano in visita ufficiale e, incontrando l’allora questore Marcello Guida, si rifiutò pubblicamente di stringergli la mano, ricordando il suo passato di fascista (Guida fu anche direttore del confino di Ventotene, proprio dove Pertini fu recluso sotto il fascismo).

Fu un gesto che ruppe il protocollo e che ebbe un forte rilievo mediatico.

Alcuni anni dopo, alla fine del ’73, lo stesso Pertini, intervistato da Oriana Fallaci, aggiunse che a determinare quel gesto fu anche che su Guida «gravava l’ombra della morte» dell’anarchico Giuseppe Pinelli, avvenuta appunto quando Guida era questore di Milano.
Dall’intervista di Oriana Fallaci a Sandro Pertini pubblicata il 27 dicembre del 1973 sul settimanale “L’Europeo”:

“Lei sa che al presidente della Repubblica, della Camera, del Senato, spetta viaggiare col saloncino, che poi è una vettura speciale attaccata al treno. Sicché vado a Milano e, quando il saloncino è fermo su un binario morto perché sto facendo colazione, il mio segretario dice: «Il questore Guida ha chiesto di ossequiarla, signor presidente». E io rispondo: «Riferisca al questore Guida che il presidente della Camera Sandro Pertini non intende riceverlo». 

Mica perché era stato direttore della colonia di Ventotene, sa? Non fosse stato che per Ventotene, avrei pensato: ormai tu sei questore e voglio dimenticare che hai diretto quella colonia, che vieni dal fascismo, che eri un fascista. Perché su di lui gravava, grava, l’ombra della morte di Pinelli. 

E a me basta che Pinelli sia morto in quel modo misterioso quando Guida era questore di Milano perché mi rifiuti di accettare gli ossequi di Guida. Oriana, io non sono capace di far compromessi!”.

«E’ anche un uomo che ha tanto da dire, senza esser sollecitato, infatti non si intervista Sandro Pertini. Si ascolta Sandro Pertini. Nelle sei ore che trascorsi con lui, sarò riuscita sì e no a piazzare quattro o cinque domande e due o tre osservazioni. Eppure furono sei ore di incanto». Ebbe a dire Oriana Fallaci

E sempre nella stessa intervista Pertini parla ancora di Piazza Fontana, di Guida e Pinelli, delle forze dell’ordine:

«De Gasperi sbarcò dal governo noi socialisti e si tenne solo i socialdemocratici e fece piazza pulita degli antifascisti che avevamo messo nelle prefetture, ad esempio, nella polizia. Noi avevamo creato elementi nuovi: questori non usciti dal fascismo o addirittura antifascisti, sa? Questori e prefetti che eran stati partigiani, su al nord. Ma lentamente, lentamente, il governo centrale di Roma ce li tolse. E rimise i vecchi arnesi, senza che noi riuscissimo a impedirlo».

«E il risultato è che oggi la polizia italiana è in gran parte fascista», ebbe a notare la Fallaci.

«Oriana, non è che voglia fare il difensore d’ufficio. Ci mancherebbe altro. Ma la colpa non è tutta dei poliziotti e dei carabinieri. La colpa è di chi non gli ha mai spiegato che non devono considerarsi al servizio della classe padronale, che la classe padronale non rappresenta l’ordine. Io gliel’ho detto in tanti comizi, invece: “Non dovete considerare malfattori i lavoratori che scendono in piazza. A parte il fatto che quel diritto gli è concesso dalla Costituzione, essi non sono malfattori. Sono lavoratori che protestano per difendere le loro famiglie. E quindi anche le vostre. Perché anche voi siete figli di contadini, anche voi siete figli di operai. Non lo capite che la classe padronale non scende in piazza perché non ne ha bisogno?”.

E agli operai ho detto: “Non dovete considerare i carabinieri e gli agenti di pubblica sicurezza come nemici da combattere. Non sono vostri nemici, sono figli di operai e contadini come voi!”.

“Il guaio è che i nostri carabinieri e ancor più i nostri poliziotti si mettono sull’attenti appena vedono un padrone. Sono rimasti al tempo in cui l’autorità era rappresentata dal parroco, dal feudatario, dal maresciallo dei carabinieri e tutti gli altri eran sudditi.

Però com’è che, quando gli spiego certe cose, capiscono?

Com’è che a Rimini un colonnello di pubblica sicurezza mi ha detto: “Lei ha parlato come si deve parlare, senza asprezza né settarismo. Permetta che le stringa la mano”. Com’è che a Saluzzo un maresciallo dei carabinieri ha pianto per la commozione?

Io conosco un dirigente della polizia che dice: “Tocca a noi rieducarli, presidente. Da soli non possono rendersi conto che a spingere in piazza gli operai sono i padroni. Abbiamo avuto una polizia borbonica, poi una polizia papalina, poi una polizia fascista. Farli diventare democratici è un lavoro lento, faticoso, ma non impossibile”.

Oriana, non sono tutti fascisti. Non sono tutti Guida. E lo stesso discorso vale per l’esercito. Non bisogna dimenticare i seicentomila soldati e ufficiali che finirono nei campi di concentramento, i trentamila che vi morirono insieme a settemila carabinieri, la divisione Acqui che combatté a Cefalonia e a Corfù contro i tedeschi, la divisione Sassari che si batté a Porta San Paolo contro i tedeschi, il generale Perotti che fu fucilato insieme a due operai a Torino, gli alpini che andarono coi partigiani di Cuneo. Non devono dimenticarlo nemmeno loro. E, se lo dimenticano, bisogna ricordarglielo!».

«Sì, più degli sciagurati che volevano ammazzarci (Pertini era nella lista nera di milleseicento antifascisti da liquidare in caso di golpe della Rosa dei Venti, ndr) a me interessano i mandanti: non è possibile che le piste rosse si trasformino sempre in piste nere!

Strage di piazza Fontana: il questore Guida annuncia subito la pista rossa, Pinelli e Valpreda, poi viene fuori che è una pista nera. Bomba in via Fatebenefratelli: idem. Episodi di Padova: idem. Ora sono a Padova e non è possibile che si tratti di episodi isolati, indipendenti l’uno dall’altro. C’è dietro un’organizzazione che assomiglia tanto a quelle di altri paesi.

Ma è così chiaro che si vuol turbare l’ordine pubblico per ristabilire con la forza l’ordine pubblico! Come coi colonnelli in Grecia, coi generali in Cile. E noi non vogliamo che l’Italia diventi una seconda Grecia, un secondo Cile».

 

15 dicembre 1969: 50 anni fa l’assassinio di stato dell’anarchico Pinelli

 

Pinelli

 

 

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15 dicembre 1969: 50 anni fa l’assassinio di stato dell’anarchico Pinelli

Terminate le scuole elementari, Pinelli dovette andare a lavorare, prima come garzone, poi come magazziniere. L”inizio della sua militanza politica risale al periodo della Resistenza: fu giovane staffetta partigiana.

Il 12 dicembre 1969 a Milano nella sede della banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana, alle 16,37, scoppiò una bomba che causò la morte di 16 persone e il ferimento di altre 88. Nella stessa ora a Roma scoppiarono altre bombe. Infine, nella banca Commerciale di Milano venne trovata una borsa contenente una bomba che venne fatta esplodere in tutta fretta, eliminando una prova preziosa per le indagini.

Immediatamente, a dimostrazione di un disegno già preordinato, le indagini, pur senza alcun indizio, seguirono la pista anarchica. Il commissario Luigi Calabresi, già alle 19,30 (3 ore dopo la strage), fermò alcuni anarchici davanti al circolo di via Scaldasole.

Nella notte del 12/12/1969 vennero illegalmente fermate circa 84 persone, tra cui Giuseppe Pinelli.

La sera del 15, dopo 3 giorni di continui interrogatori, Giuseppe Pinelli, illegalmente trattenuto essendo ampiamente scadute le 48 ore di fermo di polizia, morì volando dal 4° piano della questura.

Subito la polizia, per bocca del questore Marcello Guida (nel 1942 uomo di fiducia di Benito Mussolini e direttore del confino politico di Ventotene), comunicò che Pinelli si era buttato di sotto perchè “l’alibi era crollato”.

Qualche giorno dopo si scoprì che a mezzanotte meno due secondi (2 minuti prima della caduta di Pinelli) venne chiamata un’autoambulanza. Inoltre, la stanza dell’interrogatorio, larga 3,56×4,40 metri e contenente vari armadi e scrivania e la presenza di 6 persone, rendeva impossibile uno scatto di Pinelli verso la finestra. La stranezza fu che la finestra fosse aperta, trattandosi di dicembre e di notte. Pinelli cadde scivolando lungo i cornicioni. Non si dette quindi nessuno slancio; cadde senza un grido e senza portare le mani a protezione della testa, come se fosse già inanimato.

Tutti questi elementi raccolti in una controinchiesta portata avanti dai compagni e dalle compagne portarono poi alla luce la verità, e cioè che Pinelli fu assasinato.

“Noi accusiamo la polizia di essere responsabile della morte di Giuseppe Pinelli, arrestato violando per ben due volte gli stessi regolamenti del codice fascista. Accusiamo il questore e i dirigenti della polizia di Milano di aver dichiarato alla stampa che il suicidio di Pinelli era la prova della sua colpevolezza, e di aver volontariamente nascosto il suo alibi dichiarando che “era caduto”. Gli stessi inquisitori hanno dichiarato di non aver redatto alcun verbale edi interrogatorio di Pinelli, pertanto ogni eventuale verbale che venisse in seguito tirato fuori è da considerarsi falso. Accusiamo la polizia italiana di aver deliberatamente impedito che l’inchiesta si svolgesse sotto il controllo di un magistrato con la partecipazione degli avvocati della difesa.”

(da un comunicato del USI)

Sulla morte di Giuseppe Pinelli si aprì un primo processo per diffamazione a mezzo stampa intentato da Calabresi nei confronti di Pio Baldelli, direttore del periodico Lotta Continua, iniziato il 9 ottobre 1970, di cui era presidente del consiglio giudicante Carlo Biotti. Gli interrogatori dei testimoni riguardo alla morte di Pinelli presentarono evidenti discrepanze che spinsero la Procura della Repubblica a riaprire il caso Pinelli inviando un «avviso di reato» ai testimoni e al commissario Calabresi.

Il presidente Carlo Biotti ordinò la riesumazione della salma di Pinelli e la relativa autopsia, ma fu ricusato prima in corte d’appello, poi sospeso da ogni funzione, infine accusato di verbale rivelazione di segreti d’ufficio (si sostenne che aveva già comunicato ad altri la sua convinzione di giudizio), prima con un procedimento disciplinare e poi con un processo penale.

Biotti lasciò ogni carica, affrontando il processo prima disciplinare e poi penale che durò sette anni.

Un piccolo episodio è rivelatore del clima di quei giorni: Biotti andò al cinema e, riconosciuto dal pubblico, fu fragorosamente applaudito” per venti minuti da tutti gli spettatori alzati in piedi.

Il magistrato verrà portato sul banco degli imputati a Firenze e verranno chiesti per lui, oltre alla sospensione della pensione, diciotto mesi di reclusione. Ma il tutto si rivelerà una bolla di sapone: la lunga battaglia legale finì con l’assoluzione di Biotti da ogni accusa in ogni grado di giudizio, con formula piena!

Su denuncia della moglie di Pinelli fu aperta una nuova inchiesta, assegnata al giudice Gerardo D’Ambrosio nel settembre 1972. La salma di Pinelli venne riesumata e analizzata.

La sentenza dell’inchiesta sulla morte di Giuseppe Pinelli fu emessa nell’ottobre 1975: il caso venne chiuso attribuendo la morte di Pinelli ad un malore, secondo la sentenza del giudice D’Ambrosio.

Lo stress degli interrogatori, le troppe sigarette a stomaco vuoto unito al freddo che proveniva dalla finestra aperta avrebbero causato un malore e Pinelli, invece di accasciarsi come nel caso di un collasso, avrebbe subito un’alterazione del centro di equilibrio, che causò la caduta.

Nessuna imputazione, né per omicidio colposo né per abuso d’ufficio (Pinelli era trattenuto illegalmente dopo che il fermo era ormai scaduto) né per falso ideologico (per aver dichiarato che Pinelli si era suicidato) verrà mai contestata a nessuna delle persone coinvolte.

L’inchiesta della magistratura accolse le dichiarazioni dei coimputati, secondo i quali il commissario Calabresi non era presente nel momento della caduta.

Gerardo D’Ambrosio scrisse nella sentenza: “L’istruttoria lascia tranquillamente ritenere che il commissario Calabresi non era nel suo ufficio al momento della morte di Pinelli”. Erano invece presenti quattro agenti della polizia ed un ufficiale dei carabinieri, che furono prosciolti. L’unico testimone, Pasquale Valitutti, anch’egli presente in Questura e trattenuto in una stanza vicina, dichiarò sotto giuramento che al contrario il commissario era presente nella stanza da dove cadde Pinelli.

Con Pinelli venne indagato anche Pietro Valpreda, ed entrambi saranno dichiarati innocenti (Pinelli solo dopo la morte).

La vedova di Pinelli, Licia, ha sempre pensato che il marito possa essere svenuto in seguito alle percosse dei poliziotti e creduto morto, per cui venne inscenato il “suicidio”. Peraltro ritiene che il commissario Calabresi sia stato ucciso non per vendetta ma per farlo tacere sulle responsabilità dei suoi capi.

 

Salvini lo smemorato: si dimentica del 50° anniversario della Strage di Piazza Fontana. E quando se ne ricorda, con sole 2 righe su twitter e solo alle 16:00, dimentica che è stata una strage fascista!

 

smemorato

 

 

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Salvini lo smemorato: si dimentica del 50° anniversario della Strage di Piazza Fontana. E quando se ne ricorda, con sole 2 righe su twitter e solo alle 16:00, dimentica che è stata una strage fascista!

Salvini non si è sforzato più di tanto nel 50° anniversario della Strage di Piazza Fontana.

Lui, un re della tastiera, uno stacanovista dei social, un commentatore instancabile, si è completamente dimentico di Piazza Fontana…

Solo alle ore 16,00 del giorno del 50esimo anniversario dell’attentato più importante della storia dell’Italia post-fascismo, quello che ha dato il via ai cosiddetti “anni di piombo”, a Salvini è tornata la memoria.

Ma non del tutto. Scrive un laconico: “Mai più sangue, odio, violenza. Custodire la memoria del passato per costruire un futuro migliore. Onore a tutti i morti innocenti di Piazza Fontana”.

Una frase di prassi, essenziale, solo perchè forse qualcuno gli ha fatto notare che doveva pur scrivere qualcosa.

Ma il nostro “smemorato” dimentica la cosa più importante: che Piazza Fontana è stata UNA STRAGE FASCISTA…!

Ma guai a condannare i fascisti. Non dimentichiamo che il 90% del suo elettorato vieme dalle fogne del fascismo…

Quanta ipocrisia in due sole righe. Non solo si evita accuratamente di condannare i fascisti responsabili di quella strage, ma ci si nasconde dietro la “difesa della memoria”, concetto su cui lui più di tutti dovrebbe tacere, specie dopo il trattamento disgustoso che esponenti della Lega stanno riservando in questi mesi a Liliana Segre.

By Eles

12 dicembre – Tg e giornali commemorano i 50 anni della Strage di Piazza Fontana. Però nessuno dice che i mandanti, i fascisti Freda e Ventura, non hanno mai scontato alcuna pena! Ventura si è arricchito all’estero. Freda fa il giornalista, voluto anche da Belpietro per scrivere su Libero!

 

Piazza Fontana

 

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12 dicembre – Tg e giornali commemorano i 50 anni della Strage di Piazza Fontana. Però nessuno dice che i mandanti, i fascisti Freda e Ventura, non hanno mai scontato alcuna pena! Ventura si è arricchito all’estero. Freda fa il giornalista, voluto anche da Belpietro per scrivere su Libero!

12 dicembre 1969 – La strage di piazza Fontana, un grave attentato terroristico nel centro di Milano presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura che causò 17 morti e 88 feriti. È considerata «la madre di tutte le stragi», il «primo e più dirompente atto terroristico dal dopoguerra», «il momento più incandescente della strategia della tensione» e soprattutto l’inizio del periodo passato alla storia come gli “anni di piombo”

Gli attentati terroristici di quel giorno furono cinque, concentrati in un lasso di tempo di appena 53 minuti, e colpirono contemporaneamente Roma e Milano. A Roma ci furono tre attentati che provocarono 16 feriti, uno alla Banca Nazionale del Lavoro in via San Basilio, uno in Piazza Venezia e un altro all’Altare della Patria; a Milano, una seconda bomba venne ritrovata inesplosa in piazza della Scala.

Nel giugno 2005 la Corte di Cassazione ha stabilito che la strage fu opera di «un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine nuovo» e «capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura», non più perseguibili in quanto precedentemente assolti con giudizio definitivo dalla Corte d’assise d’appello di Bari.

Le indagini si sono susseguite nel corso degli anni, con imputazioni a carico di vari esponenti anarchici e neofascisti; tuttavia alla fine tutti gli accusati sono stati sempre assolti in sede giudiziaria (peraltro alcuni sono stati condannati per altre stragi, e altri hanno usufruito della prescrizione, evitando la pena).

Al termine dell’ultimo processo del 2005 la Cassazione ha affermato che la strage fu realizzata dalla cellula eversiva di Ordine Nuovo capitanata da Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili in quanto assolti con sentenza definitiva nel 1987.

E allora, quale condanna hanno esemplare hanno subito gli assassini di 17 persone…?

Una beata binchia!

Franco Giorgio Freda, è libero da anni. Vive ad Avellino con una giovane scrittrice e fa ancora l’editore di ultradestra, con un sito che lo celebra come «un pensatore» da riscoprire: il padre «preveggente» di un «razzismo morfologico» da opporre «alla mostruosità del disegno di una società multietnica». Freda è stato condannato in tutti i gradi di giudizio per 16 attentati con decine di feriti che nel 1969 aprirono la strategia della tensione: bombe contemporanee sui treni delle vacanze, all’università di Padova, in stazione, in fiera e in tribunale a Milano.

La sua casa editrice però parla solo dell’assoluzione in appello per piazza Fontana (17 morti, 88 feriti), per insufficienza di prove (e abbondanza di depistaggi). Liberato nel 1986, Freda si è rimesso a indottrinare neonazisti fondando un movimento chiamato Fronte Nazionale: riarrestato, è stato difeso dall’avvocato Carlo Taormina e nel 2000 la Cassazione gli ha ridotto la condanna a tre anni per istigazione all’odio razziale. Dopo di che è tornato libero.

Non solo. Un ulteriore, squallido schiaffo ai parenti della vittima lo ha data Maurizio Belpietro che volle il boia di Piazza Fontana come opinionista per Libero. La rubrica si chiamava “L’Inattuale” e parliamo di Franco Freda, il fascista, il razzista.

Il braccio destro di Freda, Giovanni Ventura, che aveva confessato gli attentati del 1969 che prepararono piazza Fontana, non ha mai scontato alcuna condanna: è evaso nel 1978 e ha trovato rifugio sotto la dittatura in Argentina, che ha rifiutato di estradarlo.

A Buenos Aires è diventato ricco con un ristorante per vip, fino alla morte per malattia nel 2010.

Ricordiamo che nell’ultimo processo su piazza Fontana, la sentenza conclude che Freda e Ventura erano colpevoli, ma le nuove prove sono state scoperte troppo tardi, dopo l’assoluzione definitiva…

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12 dicembre 1969 – Piazza Fontana, la strage fascista e di Stato che non dobbiamo dimenticare

 

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12 dicembre 1969 – Piazza Fontana, la strage fascista e di Stato che non dobbiamo dimenticare

Il 12 dicembre 1969 una bomba a Milano alla Banca nazionale dell’Agricoltura. Fu l’inizio della strategia della tensione. Fascisti, servizi segreti italiani e americani uniti per destabilizzare l’Italia 

Il 12 dicembre 1969 la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano, alle 16:37 nel grande salone scoppiò un ordigno contenente 7 chili di tritolo, uccidendo 17 persone (13 sul colpo) e ferendone altre 87.

Una seconda bomba fu rinvenuta inesplosa nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala. La borsa fu recuperata ma l’ordigno, che poteva fornire preziosi elementi per l’indagine, fu fatto brillare dagli artificieri la sera stessa.

Una terza bomba esplose a Roma alle 16:55 nel passaggio sotterraneo che collegava l’entrata di via Veneto della Banca Nazionale del Lavoro con quella di via di San Basilio.

Altre due bombe esplosero a Roma tra le 17:20 e le 17:30, una davanti all’Altare della Patria e l’altra all’ingresso del Museo centrale del Risorgimento, in piazza Venezia. I feriti a Roma furono in tutto 16.

Gli attentati terroristici di quel giorno furono cinque, concentrati in un lasso di tempo di appena 53 minuti, e colpirono contemporaneamente le due maggiori città d’Italia: Roma e Milano.

 Ma cosa sanno della più recente storia italiana i ragazzi di oggi e di ieri? Cosa ricordiamo sui mandanti e gli esecutori materiali di piazza Fontana a Milano nel 1969 (parliamo di 17 morti e 88 feriti), di piazza della Loggia a Brescia (8 morti e 102 feriti) e del treno Italicus nel 1974 (12 morti e 48 feriti), del Rapido 904 nel 1984 (16 morti e 267 feriti). Cosa sappiamo o ricordiamo della bomba alla stazione di Bologna nel 1980 (85 morti e 200 feriti).

Quella tragica stagione di terrore va progressivamente eclissandosi dalla memoria e dal senso comune, anche se la verità rimane scritta in alcuni libri e nelle carte processuali di valenti magistrati che, pur in anni di giustizia prona e garante del “doppio Stato” e degli interessi di taluni “intoccabili” ancorati al potere reale (economico, politico, massonico, religioso o militare che fosse), a partire dalle singole stragi e nonostante i depistaggi hanno saputo ipotizzare un unico disegno eversivo, collegando poi il livello operativo degli esecutori a quello organizzativo e strategico dei mandanti nelle istituzioni: i Servizi segreti nel loro insieme – desiderosi di alimentare il disordine per generare la domanda di ordine – e non singole “mele marce”.

Negli anni caldi della “sovranità limitata”, dell’anticomunismo e dello stragismo di Stato, la punta avanzata della magistratura italiana ha davvero dovuto remare controvento: in quel clima da caccia alle streghe, più d’una inchiesta sarà loro sottratta e insabbiata a Roma presso quel Palazzo di giustizia, garante degli impunibili, che a buon motivo verrà ribattezzato “il porto delle nebbie”. All’opposto, poteva bastare una sentenza favorevole a un lavoratore, mettiamo, in un banale contenzioso di lavoro, per subire censure, procedimenti disciplinari e impedimenti alla carriera.

E per i giudici sinceramente democratici latori di pubbliche critiche, il rischio era quello di ritrovarsi tra gli schedati in odore di comunismo (al generale dei Servizi segreti Gian Adelio Maletti, nel 1980 verranno sequestrate le schede, aggiornate al 1974, di 77 magistrati).

Davvero, a fronte di tutto questo, la sovranità appartiene al popolo, come recita l’articolo 1 della nostra Costituzione? Davvero tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, come vorrebbe l’articolo 3? Davvero tutti i partiti hanno sempre potuto concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, come leggiamo all’articolo 49? E l’ordinamento delle Forze armate? Si è sempre informato allo spirito democratico della Repubblica, come vorrebbe l’articolo 52?

Come tenebra oscura
E tutto questo rimane in parte attuale, poiché la cinica stagione dello stragismo, con lutti e complicità e mandanti istituzionali, pesa tuttora come tenebra oscura sulla nostra Nazione e sulla nostra Costituzione. Costituzione che va difesa applicandola, e non solo con letture alla moda sulle pubbliche piazze, in opposizione a chi la vorrebbe riscrivere con intenti autoritari e con accenti reazionari, come già era nelle intenzioni della P2.

La penna che verga il Piano di Rinascita democratica di questa loggia massonica segreta anticomunista e stragista è forse da cercare nelle tasche di Francesco Cosentino, giovane segretario particolare del presidente della Repubblica Enrico De Nicola dal 1946 al 1947, poi nominato segretario generale della Camera dei deputati. Per il banchiere e finanziere piduista Roberto Calvi, questo alto funzionario dello Stato era il numero due della loggia P2: subito dopo Giulio Andreotti, prima di Umberto Ortolani e Licio Gelli.

Cosentino lo si riconosce nelle fotografie scattate a Palazzo Giustiniani il 27 dicembre 1947: è quel giovane tra Alcide De Gasperi, Enrico De Nicola, Giuseppe Grassi e Umberto Terracini alla solenne firma di quella Costituzione che il piduista Piano di Rinascita avrebbe voluto riscrivere. Quasi a dire, ha scritto Sandra Bonsanti, «che la Repubblica italiana nacque già insidiata dall’interno, da subito».

Stragismo di Stato
La bomba che deflagra alla banca nazionale dell’Agricoltura di Milano il 12 dicembre 1969 – subito attribuita agli anarchici – nella realtà è di ambiente atlantico. All’ex agente dei Servizi italiani Gian Adelio Maletti (condannato per i depistaggi su questa e altre bombe, vive tuttora in Sudafrica) pare improbabile che di queste bombe nulla sapessero i vari Servizi d’intelligence americani e forse anche più in alto; il gioco, dirà Maletti, non avrebbe dovuto superare certi limiti, ma sfuggì di mano un po’ a tutti.

A Maletti farà eco niente meno che il compianto Francesco Cossiga: «non mi meraviglierei» dirà l’ex presidente della Repubblica a Lucio Caracciolo «se un giorno si scoprisse che anche spezzoni di Servizi di Paesi alleati o neutrali, non solo nemici, avessero potuto avere interesse a mantenere alta la tensione in Italia tra il fronte comunista e quello anticomunista».
E pur in mancanza di prove dirette, che della bomba di piazza Fontana a Milano fosse al corrente l’US Army Intelligence Agency (il servizio segreto militare statunitense, una emanazione del Pentagono) sta scritto nell’istruttoria del giudice Guido Salvini.

Fra l’altro, il magistrato milanese ha raccolto la testimonianza dell’ex ordinovista mestrino Martino Siciliano – che riferisce a Salvini le confidenze avute da Delfo Zorzi sulla matrice fascista della strage – e di Carlo Digilio detto “Otto”, un agente informatore infiltrato negli ambienti ordinovisti veneti dal capitano David Carrett, Marina statunitense, accasato al comando Ftase di Verona (nel 1974 a Carrett subentrerà il capitano Theodore Richards). Attraverso alcuni infiltrati – Lino Franco, Marcello Soffiati, Digilio e il suo diretto superiore Sergio Minetto, tutti ex combattenti repubblichini – l’intelligence americana ha così potuto monitorare in tempo reale le attività eversive del gruppo neonazista di Ordine nuovo, manovrato da «una mente organizzativa al di sopra della nostra», come dice a Digilio il terrorista nero Carlo Maria Maggi (è stato recentemente condannato all’ergastolo quale mandante della strage di piazza della Loggia a Brescia). E si tratta delle bombe tra la strage di piazza Fontana e quella di piazza della Loggia a Brescia.

E tuttavia gli americani lasciano fare. Anzi, alcuni tra questi loro infiltrati avranno parte attiva nel preparare ordigni o nell’indottrinare bombaroli ritenendo, scrive Gianni Cipriani ne Lo Stato invisibile, «che in quel modo si applicassero correttamente le direttive degli Usa in materia di sicurezza e di anticomunismo». Secondo Cipriani, trova così credito l’ipotesi «di una diretta responsabilità americana, o di settori non marginali della sua amministrazione, nella copertura degli stragisti di Milano e di Brescia».
A questa conclusione portano infatti le prove e i riscontri accertati dal giudice Salvini nel corso della sua indagine su piazza Fontana: «da parte di strutture di sicurezza alleate», ha detto il magistrato il 12 febbraio 1997 di fronte alla Commissione stragi, «c’è stato un contributo tecnico alla capacità e alla possibilità della struttura occulta di Ordine nuovo a compiere attentati».

Quindi, per taluni militanti di Ordine nuovo inquisiti per banda armata (art. 306 del Codice penale) ma fedeli a due bandiere, il giudice milanese prefigurava quell’articolo 257 del codice penale, spionaggio politico-militare, fino ad allora mai applicato a carico di cittadini italiani.

Distensione?
Sin dagli anni Sessanta lo scenario internazionale vede profilarsi l’orizzonte della distensione tra i due blocchi, atlantico e sovietico; questa prospettiva è tuttavia invisa alla destra eversiva italiana e a settori del mondo politico e militare più reazionario di Roma e di Washington, che lo leggono come fosse un abbassamento della guardia nella lotta al comunismo, un nemico col quale non si dialoga né si scende a patti.

Il primo governo Moro di centrosinistra era nato nel dicembre 1963 con i buoni auspici dell’amministrazione Kennedy. Un orientamento aspramente avversato dalla destra politica americana. L’Italia figurava infatti «nei programmi della Casa bianca, del dipartimento di Stato e del Pentagono come “regime instabile” da sorvegliare ed eventualmente “puntellare”, dopo le illusioni del centrosinistra compiacentemente autorizzate dalle “teste d’uovo” americane con Kennedy alla presidenza», come dirà Gian Adelio Maletti alla Commissione parlamentare sulla P2.

La bomba di piazza Fontana, secondo Maletti non avrebbe dovuto provocare vittime: solo un gran botto da attribuire agli “anarchici” (per Digilio il depistaggio sugli anarchici fu «una mossa strategica studiata dai Servizi segreti italiani al momento in cui era stata concepita l’intera operazione») per giustificare presso l’opinione pubblica la sospensione di alcune garanzie costituzionali così da favorire il passaggio alla Repubblica presidenziale. Invece arrivarono i morti, e con le bare arrivò anche la stringente necessità di coprire i veri mandanti ed altri correi anelanti golpe: in Italia come in Grecia, nel 1967; e come in Cile, nel 1973.