L’analisi de Il Sole 24 Ore – Italia? No, è la Francia il Paese più indebitato dell’area euro

Francia

 

 

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L’analisi de Il Sole 24 Ore – Italia? No, è la Francia il Paese più indebitato dell’area euro

Nella classifica del debito pubblico in rapporto al Pil (che in Italia fa 130%, in Francia e Usa 100%, e nella media dell’Eurozona 90%) l’Italia ne esce, da tempo, come tra le economie più “a leva” del pianeta. Ma se si amplia lo sguardo al debito aggregato, ovvero ai livelli di indebitamento di tutti gli attori economici (Stato, imprese, banche e famiglie) l’Italia si rivela d’emblée un Paese nella media, senza grossi problemi di debito.

Sempre seguendo questa classifica – che però al momento non fa parte delle griglie con cui l’Unione europea giudica l’operato dei suoi membri – si scopre che è la Francia il Paese più esposto finanziariamente; il Paese che ricorrendo al debito sta vivendo l’oggi più di tutti con i mezzi del domani. È vero, il debito pubblico in rapporto al Pil è più contenuto rispetto all’Italia ma se si somma l’esposizione delle società (circa 160% del Pil), delle banche (90% ) e delle famiglie (60%) vien fuori che il sistemaFrancia viaggia con una leva enorme, che supera il 400% del Pil, pari a 9mila miliardi di debiti cumulati. L’Italia, sommando tutti gli attori economici, supera di poco il 350% a fronte del 270% della Germania.

IL CONFRONTO
Dati in % del Pil (Fonte: Bloomberg)

Questi numeri devono far riflettere, in particolare i tecnocrati europei che elaborano le soglie che stabiliscono se un Paese è virtuoso o no. Ignorare – o non pesare come probabilmente meriterebbe – il debito privato è un doppio errore. Sia perché c’è una stretta correlazione storica tra debito pubblico e debito privato (è dimostrato che laddove i Paesi sono chiamati a ridurre il debito pubblico con forme di austerità, sono quasi costretti ad andare a “pescare” la crescita attraverso l’aumento della leva privata). E sia perché, se con l’introduzione del bail-in (che stabilisce che i privati partecipano con i propri risparmi ai salvataggi delle banche) passa il principio che il risparmio privato è un “asset istituzionale”, allora forse sarebbe più logico considerare tale anche il debito privato.

 

tratto da: https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-08-30/italia-no-e-francia-paese-piu-indebitato-dell-area-euro-202718.shtml?uuid=AE2nIVKC&fbclid=IwAR0PsaBYEJPQrQWFPDG5uLaIeYh38OiDC-JVONTR-9LJ2WD0iX16YmlZ-ik

Je suis NoTav – Questa Tav non la vuole proprio nessuno, nessuno tranne quelli, i soliti, che ci mangiano sopra…

 

Tav

 

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Je suis NoTav – Questa Tav non la vuole proprio nessuno, nessuno tranne quelli, i soliti, che ci mangiano sopra…

Je suis NoTav, i sindaci francesi a Torino: basta frottole Ue

Fa parte del paesaggio mentale artificiale: è il solito balletto dei numeri esibiti per gonfiare o sgonfiare le manifestazioni di piazza. Le folkloristiche “madamine” Sì-Tav, da Marco Revelli definite “fate ignoranti” perché dichiaratamente all’oscuro delle ipotetiche ragioni a supporto della Torino-Lione, lo scorso 10 novembre erano 20-25.000 per la questura di Torino, ma una volta sbarcate su “Stampa” e “Repubblica” sono diventate 30.000. Tempo un mese, di fronte alla marea NoTav che l’8 dicembre ha invaso la città, sempre le stesse “madamine” sono magicamente diventate 40.000, per la letteratura giornalistica di una metropoli tramortita dal fiume umano non-ignorante, anzi informatissimo, sceso in corteo fino a intasare piazza Castello. Missione: avvertire il governo gialloverde che una vasta avanguardia democratica della popolazione italiana non tollera che si tenga in piedi a tutti i costi, a beneficio di quella che appare un’esigua ciurma di affaristi, il miraggio della grande opera più inutile d’Europa: una ferrovia di cui non è ancora stato costruito neppure un metro. E a proposito di Europa, ha scaldato i torinesi la generosa presenza dei sindaci francesi, benché oscurata dai media mainstream che hanno preferito parlare solo della rappresentanza transalpina di Gilet Gialli, aggiornati alla bisogna (“Je suis NoTav”). La verità vale oro, specie se recitata in francese nel cuore di Torino: la Francia non sa che farsene, della ipotetica Torino-Lione.

Lo hanno scandito dal palco, di fronte alle decine di migliaia di torinesi e valligiani (almeno 70.000, secondo i NoTav), i sindaci delle cittadine francesi al di là del confine, spintisi fino a Torino per contribuire a bonificare i cervelli dalle grossolane menzogne della vecchia élite cementiera subalpina affamata di soldi pubblici: «La Francia ha finora accettato il progetto Torino-Lione solo perché i costi sono per lo più a carico dell’Italia. Ma, anche qualora l’inutile tunnel si scavasse, Parigi non prenderebbe in considerazione la costruzione della nuova linea: documenti alla mano, di quella ferrovia se ne riparlerebbe solo a partire dal 2038». Perché sarebbe inutile, il traforo miliardario? «Perché la linea ferroviaria già esistente è semi-deserta: non ci sono merci da trasportare (né ce ne saranno, secondo tutte le proiezioni). E’ così sotto-utilizzata, la Torino-Modane che collega stabilmente Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il Traforo del Fréjus, che basterebbe già oggi a togliere tutti i Tir dalle strade e dall’autostrada, facendoli viaggiare sui treni».

Per i passeggeri, va da sé, il problema non esiste: senza contare i voli low-cost, che hanno annullato la concorrenza ferroviaria sulle lunghe tratte, sono comunque quotidiane in valle di Susa le corse del Tgv francese che collega rapidamente Milano a Parigi. La manciata di minuti che si risparmierebbero con il nuovo euro-tunnel da 57 chilometri costerebbero 30-40 miliardi, ma le cifre sono solo teoriche: in Italia la rete Tav è costata quasi il triplo che nel resto d’Europa, con il prezzo degli appalti lievitato anche del 400% rispetto alla stima iniziale. Quello che lascia sgomenti, di fronte al delirio narrativo che ha nutrito la leggenda della Torino-Lione, è la totale assenza di certezze: nonostante la tenacia della protesta della valle di Susa, che ha raccolto la solidarietà di vastissimi strati dell’opinione pubblica italiana, nessuno dei governi degli ultimi vent’anni – Berlusconi, Prodi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni – ha mai voluto o potuto spiegare perché mai l’Italia dovrebbe spendere miliardi per un’infrastruttura dall’impatto sicuramente devastante.

Il territorio alpino sarebbe infatti terremotato da anni di cantieri e irrimediabilmente compromesso, visto che si scaverebbe tra montagne piene di amianto e persino di uranio (negli anni ‘70, al tempo del nucleare italiano, l’Agip realizzò decine di tunnel esplorativi proprio sui monti alle spalle di Susa, dato che il Massiccio dell’Ambin è il più grande giacimento di minerale radioattivo di tutte le Alpi Occidentali). Quanto allo spinoso problema idrogeologico, sono gli stessi geologi – tra i redattori del progetto – ad ammettere di non poter valutare l’impatto dell’euro-tunnel: le viscere di quei monti ospitano un’immensa riserva idrica, una sorta di grande lago sommerso. Perforare il bacino sotterraneo potrebbe voler dire far cambiare corso ai fiumi ed esporre più valli alpine al rischio di inondazioni catastrofiche. Citando tecnici della Regione Piemonte, nel saggio “Binario morto” (Chiarelettere), il compianto Luca Rastello, giornalista di “Repubblica”, spiega che – una volta realizzato il tunnel e poi la nuova ferrovia – il raccordo con la rete Tav italiana potrebbe avvenire solo a 30 metri di profondità, “bucando” la falda idropotabile che alimenta l’area metropolitana di Torino.

Senza contare l’esborso folle, per un’Europa che muove guerra all’Italia per lo 0,1% del deficit 2019, i maggiori trasportisti italiani – come il professor Marco Ponti, del Politecnico di Milano – ricordano che la chiave logistica per le merci (che per motivi di sicurezza devono viaggiare lentamente) non è la rapidità, ma la puntualità. Nel miglior sistema di smistamento del mondo, quello degli Usa, i treni merci viaggiano a 60 miglia; ma dispongono di efficienti piattaforme logistiche, di cui non c’è traccia né in Piemonte né sulle Alpi del Rodano – dove il trend dei trasporti è in calo da anni, le ferrovie esistenti sono semi-abbandonate e tutte le proiezioni per il futuro dicono che la direttrice commerciale su cui il mercato punta non è la Torino-Lione, ma la Genova-Rotterdam. Se i tecnici universitari a cui si sono rivolti i NoTav hanno prodotto chilometri di documentazione a sfavore del maxi-progetto, sul versante opposto non si è mai usciti dal lobbismo vecchia maniera, fino all’imbarazzante gossip meta-politico delle sedicenti “madamine” torinesi, pronte a invocare “sviluppo e progresso” ma – per loro stessa ammissione – senza conoscere una sola virgola del dossier Torino-Lione. Se si possono capire i piccoli circuiti industriali della vecchia Torino tradita dall’esodo della Fiat, traslocata a Detroit grazie a Marchionne, non è comprensibile il silenzio assordante della politica.

Dietro alle “madamine” non è difficile scorgere l’ombra di personaggi multiruolo come Sergio Chiamparino, emblema vivente della sinistra neoliberista, passato senza colpo ferire dalla guida del Comune a quella della Regione, dopo aver presieduto la Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria. Quello che sconcerta, semmai, è la politica nazionale: lungi dal rappresentare, tutelare ed eventualmente rassicurare i 60.000 abitanti della valle di Susa, preoccupati per la loro sicurezza, dopo decenni di proteste i governanti non hanno ancora spiegato, ai cittadini, perché mai dovrebbero sacrificare in modo così devastante il loro territorio. I vari esecutivi, di ogni colore, non hanno mai avuto la cortesia di motivarla, la Torino-Lione: non hanno mai chiarito a cosa servirebbe, in cosa sarebbe strategica per il sistema-Italia o almeno per il Piemonte. Gli unici dati oggettivi vengono, come sempre, dal fronte avverso: il profilo occupazionale della maxi-opera sarebbe così insignificante (qualche centinaio di addetti) che il costo medio di ogni singolo lavoratore supererebbe il milione di euro.

Prima e meglio di altre battaglie politiche italiane, quella contro la Torino-Lione ha precisato i termini reali della questione, cioè il diritto democratico di essere innanzitutto informati. Si può discutere se un’opera serva o meno, ma quello che non è accettabile – di fronte alla prove negative fornite dgli oppositori – è che si continui a imporla senza spiegarla, limitandosi a criminalizzare comodamente la protesta. Prima e meglio di ogni altro evento politico recente, la battaglia democratica della valle di Susa – esplosa nel lontano 8 dicembre 2005 – ha illuminato lo scenario con il quale l’intero paese avrebbe fatto i conti, molti di anni dopo, insieme al resto d’Europa: da una parte un’élite autoritaria, la stessa che oggi spinge la polizia di Macron a trattare gli studenti francesi come prigionieri di Guantanamo, e dall’altra il cosiddetto popolo ex-sovrano, quello dei cittadini declassati al rango di neo-sudditi, in balia di un potere apolide e senza volto, che impone decisioni senza mai fornire adeguate spiegazioni.

Anche per questo, l’8 dicembre 2018 a Torino, è stata particolarmente istruttiva – oltre che rincuorante – la presenza dei sindaci delle valli francesi interessate dal progetto: nel ribadire la loro piena solidarietà alle migliaia di famiglie del corteo NoTav, hanno sottolineato una vicinanza civile e politica con i “cugini” italiani, alla faccia di Macron e degli altri burattini dell’attuale Disunione Europea. In quel loro “Je suis NoTav”, i francesi rivendicano la loro (e nostra) parte d’Europa, intesa come piattaforma di convivenza democratica popolata di cittadini liberi di pensare, di esprimere la loro voce, di contribuire a un mondo meno ingiusto e meno incomprensibile. Un mondo fatto di “vicini di casa” che si parlano e si capiscono. Quella delle nazioni contrapposte, sembrano dire i francesi accorsi a Torino, è solo una fiaba sinistra, che fa comodo ai sovragestori del potere europeo e magari ai loro oppositori apparenti, arruolati dal neo-sovranismo. La guerra non conviene mai, al popolo: l’antagonismo nazionistico è un imbroglio ridicolo. C’era più Europa, l’8 dicembre a Torino, di quanta non se ne sia vista a Bruxelles negli ultimi vent’anni.

(Giorgio Cattaneo, “Je suis NoTav, i sindaci francesi a Torino: amici italiani, fermiamo insieme il treno di questa Ue che ci deruba e ci divide”, dal blog del Movimento Roosevelt del 9 dicembre 2018).

tratto da: http://www.libreidee.org/2018/12/je-suis-notav-i-sindaci-francesi-a-torino-basta-frottole-ue/

Il mondo è in fiamme, ma i nostri media ci dicono poco o niente… Ed intanto i Gilet Gialli si dichiarano filo-5Stelle…!

 

Gilet Gialli

 

 

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Il mondo è in fiamme, ma i nostri media ci dicono poco o niente… Ed intanto i Gilet Gialli si dichiarano filo-5Stelle…!

 

Il mondo è in fiamme, ma a noi viene nascosto. I Gilet Gialli si dichiarano filo-5Stelle

Non sono parole al vento queste, ma sono parole di verità che squarciano il muro di mascherata e finta informazione quanto di effettivo silenzio che è stato costruito attorno alle manifestazioni di Parigi, Bruxelles, Amsterdam.

Non cercate informazioni accurate nei giornaloni italiani e relativi siti web o nei telegiornali RAI, Mediaset o La7. Troverete informazioni volutamente superficiali che mirano a nascondere la reale portata degli eventi in Francia, Belgio e Olanda.

In Francia le manifestazioni che si ripetono per il quarto sabato consecutivo assumono una rilevanza che sta addirittura portando a ipotizzare le dimissioni del primo ministro Edouard Philippe e a ipotizzare elezioni anticipate.

Ecco il bollettino di guerra.

Parigi :’Per il quarto sabato consecutivo, in Francia hanno protestato i cosiddetti gilet gialli. In strada sono scese 125’000 persone, 10’000 a Parigi. Il bilancio dei disordini e degli scontri con la polizia è di 118 feriti. Sono state identificate 1385 persone e 974 sono in stato di fermo’.

Bordeaux e Tolosa: La protesta si estende sempre di più in tutta la Francia. In particolare ci sono stati degli scontri nel sud-ovest della Francia. E’ successo a Bordeaux e a Tolosa, dove diverse migliaia di persone sono state allontanate dal centro della città con i gas lacrimogeni e hanno eretto e incendiato delle barricate.

Si tratta di una vera e rivolta contro lo stato di povertà di milioni di francesi. Si trovano in situazione di sopravvivenza, vivono di stenti ogni fine mese – i più fortunati tra gli sfortunati, beninteso – aspettando, come Godot, che quanto di triste e insopportabile stanno sopportando abbia a cessare.

Ma finora hanno aspettato invano. Anzi Macron intendeva ancor più aggravare il loro già grave e pesante disagio con l’aumento del carburante. Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E che ha portato a dire a sé stessi e agli altri conoscenti, colleghi di lavoro o compagni di disoccupazione: mo’ basta!

Si sono quindi convocati da sé stessi in tutte le piazze della Francia, fino a culminare nella oceanica manifestazione di 4 settimane fa a Parigi, la prima di quattro manifestazioni.

Ormai la protesta dei francesi emarginati non si ferma più fino a quando non otterranno fatti concreti che rappresentino un reale cambiamento in meglio per loro e per le loro famiglie. È un modo distorto e fuorviante di raccontare quanto sta succedendo quando si mette in evidenza che la protesta riguarda l’aumento dei prezzi del carburante. Ma sin dalle prime manifestazioni quella di impedire l’aumento dei prezzi per l’utilizzo dell’auto, nella Francia profonda l’unico mezzo a disposizione, era solo la parte delle richieste da ottenere immediatamente. Di ben più importanti e decisive richieste reclamano i Gilet Gialli.

Qui potete trovare le otto rivendicazioni da loro portate avanti, un manifesto politico che può rappresentare un programma di governo. Impressionano i punti in comune con il programma politico dei 5 Stelle e con il Contratto di Governo firmato da 5Stelle e Lega.

Che la situazione sia fuori del controllo dei Lor Signori d’oltralpe lo testimonia quanto ha fatto sapere ieri sera Macron tramite Le Maire secondo quanto titola La Stampa: ‘Gilet gialli una “catastrofe”, Macron pronto a cambiare rotta: “Ho fatto cavolate” ‘.

Macron ha capito ieri sera quanto non aveva capito fino ad avantieri sera: le proteste non si fermeranno con parole o contentini per fare fessi e contenti i Gilet Gialli.

Anche la Francia si avvia a un radicale cambiamento che sta travolgendo l’Ancien Regime di Sarkozy, Hollande, Macron, i quali sono stati messi a custodia degli interessi delle grandi multinazionali francesi. Qui sta il vero potere, di cui Macron è un semplice servo, pure inetto.

Nella storia francese è già successo che i cittadini inferociti abbiano fatto un repulisti anche truculento. Speriamo che questa volta ci sia il cambiamento senza arrivare a quegli eccessi.

La storia ai capataz francesi, cioè ai veri detentori del potere che detengono anche immense ricchezze, lancia un pesantissimo ammonimento cui è bene che prestino la massima attenzione.

Senza trascurare l’ammonimento a quelli italiani: anche loro hanno da stare attenti.

Ostacolare in ogni modo il cammino del Governo Conte è una scelta suicida.

Cercare di creare divisione all’interno dei 5 Stelle promettendo a singoli deputati o senatori chissà cosa, non porta da nessuna parte. Anzi aggrava l’esasperazione di coloro la cui unica speranza che è rimasta è che il Movimento possa realizzare quanto ha promesso dalla sua nascita e poi confermato nel programma presentato prima delle elezioni e che fa parte del Contratto Di Governo.

Cercare di generare contrapposizione tra Movimento 5 Stelle e Lega, oltre che essere improduttivo, rivela un modo di fare politica indisponente in quanto punta a ribaltare con manovre di palazzo il risultato elettorale.

Non riescono a immaginare i Lor Signori italiani come reagirà il nostro popolo di fronte a questi tentativi? Lo stanno già vedendo: il Consenso al Governo Conte si rafforza giorno dopo giorno!

tratto da: https://www.silenziefalsita.it/2018/12/10/il-mondo-e-in-fiamme-ma-a-noi-viene-nascosto-i-gilet-gialli-si-dichiarano-filo-5stelle/

Ricapitoliamo… FRANCIA: migliaia di persone in piazza per protestare contro il Governo. ITALIA: il partito che ha fregato 49 milioni al suo popolo continua a salire nei sondaggi…

 

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Ricapitoliamo… FRANCIA: migliaia di persone in piazza per protestare contro il Governo. ITALIA: il partito che ha fregato 49 milioni al suo popolo continua a salire nei sondaggi…

 

Il movimento dei gilet gialli, che ha spinto per le strade francesi milioni di manifestanti,  adesso dilaga anche oltre i confini della Francia.

In Belgio , i giubbotti gialli hanno bloccato rotatorie e depositi di carburante, soprattutto in Vallonia , bloccando il traffico.

In Bulgaria, migliaia di gilet gialli hanno bloccato le principali strade e le frontiere per protestare contro l’impennata dei prezzi del carburante in un contesto di malcontento generale causato dal basso tenore di vita nel paese, il più povero dell’Unione europea.

In Germania, il simbolo del giubbotto giallo è stato “adottato” dai tedeschi arrabbiati e delusi dalla politica fiscale e di immigrazione di Angela Merkel.

Comunque, in Francia migliaia di persone in piazza per protestare contro il Governo per qualche centesimo in più sulla benzina, mentre in Italia il partito che ha fregato 49 milioni al suo popolo continua a salire nei sondaggi…

C’è altro da dire?

Vergognoso – La Francia si fa finanziare il debito dai paesi Africani! Ecco lo scandalo CFA (Franco Centrafricano) – Mandi qualche Euro per una scuola o un ospedale in Senegal? Stai sostenendo le finanze francesi…

 

Francia

 

 

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Vergognoso – La Francia si fa finanziare il debito dai paesi Africani! Ecco lo scandalo CFA (Franco Centrafricano) – Mandi qualche Euro per una scuola o un ospedale in Senegal? Stai sostenendo le finanze francesi…

 

LA FRANCIA SI FA FINANZIARE IL DEBITO DAI PAESI AFRICANI! Svelato lo scandalo del CFA

Un video, in Italiano (ma speriamo presto di tradurlo in francese) rivela lo scandalo del CFA, il Franco Centrafricano, in una profondità che non era mai stata spiegata sinora. In questo caso funzionari bancari africani e  professori universitari ci rivelano lo scandaloso traffico che finanzia il debito francese.

Quando mandate un euro in Africa, per un aiuto umanitario , voi pensate di aiutare i poveri nei paesi francofoni, ma , in realtà, state finanziando le finanze di Parigi. Spieghiamo i passaggi:

  • Mandate l’euro per la scuola in Senegal;
  • l’Euro va a Parigi;
  • Parigi  trattiene l’euro, lo cambia in franco CFA, ma SOLO LA META’ viene mandata in Africa.
  • Questi  euro depositati in Francia sono investiti in Titoli di Stato francesi.

Attualmente il professore afferma che siano solo 10 miliardi, ma siamo sicuri? Non è che la cifra è molto più alta se poi l’Italia a avesse una decina o ventina di miliardi di riserve libere da giostrarsi sul mercato vedreste come lo spread sarebbe più controllato….

Comunque vi lasciamo all’ascolto di TABLOID:

 

Fonti:

https://scenarieconomici.it/la-franci…

https://www.facebook.com/NightTabloid…

La rivincita Italiana sulla Francia – I Francesi hanno provocato una guerra e assassinato Gheddafi per strapparci il petrolio Libico. Ma uno strategico accordo commerciale tra Eni e British Petroleum fa fuori la francese Total… ITALIA 1 FRANCIA 0…!

 

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La rivincita Italiana sulla Francia – I Francesi hanno provocato una guerra e assassinato Gheddafi per strapparci il petrolio Libico. Ma uno strategico accordo commerciale tra Eni e British Petroleum fa fuori la francese Total… ITALIA 1 FRANCIA 0…!

 

Eni si allea con British Petroleum. E la Francia è la prima vittima in Libia

 

Eni e British Petroleum si alleano in Libia. E l’azienda italiana strappa alla BP il 42,5% deigiacimenti di idrocarburi libici detenuti dalla controparte britannica. La notizia, già di per sé, è importantissima. Ma lo è ancora di più se si ragiona su quanto possa essere utile analizzarla nel quadro del conflitto che interessa la Libia. Una guerra (e una transizione politica) in cui l’Italia è protagonista. E in cui Eni rappresenta inevitabilmente una delle armi migliori possedute dal governo.

L’accordo

L’accordo fra le due aziende è stato formalizzato in una lettera di intenti firmata dall’amministratore delegato del gruppo Eni, Claudio Descalzi, l’a.d. di British Petroleum, Bob Dudley, e il presidente della National Oil Corporation Mustafa Sanalla.

Come spiegato da Repubblica, nell’intesa è previsto che la società italiana rilevi il 42,5% dei giacimenti del gruppo inglese in Libia. L’altro 42,5% rimarrà a Bp, mentre il 15% sarà trattenuto dalla libica Noc. Una cifra molto importante ,in quanto in pratica sarà la società del “cane a sei zampe” a riattivare le attività estrattive nei giacimenti sulla terraferma e off-shore posseduti dal gigante britannico ma bloccate da quasi quattro anni. Giacimenti che non solo saranno riattivati da Eni, ma in cui la stessa azienda diventerà l’operatore principale. Obiettivo: la ripresa dell’esplorazione e del resto delle attività nel 2019.

Nell’oggetto dell’accordo non c’è solo questo. L’impegno infatti riguarda chiaramente in maniera principale il gas e il petrolio dei giacimenti detenuti dai britannici. Ma c’è anche un altro intento, molto politico, e che riguarda l’impegno “a contribuire allo sviluppo sociale del Paese attraverso l’attuazione di iniziative sociali, compresi programmi specifici di istruzione e formazione tecnica”. Un modo anche per penetrare a livello politico nel territorio libico e aprire la strada a una diversa percezione delle imprese internazionali che investono nel Paese.

L’importanza strategica dell’accordo

Il patto fra i due giganti degli idrocarburi rappresenta una svolta non indifferente per la Libia, ma anche per i rapporti fra Italia e Regno Unito nel settore petrolifero e in particolare per il contesto libico.

Non è un mistero che le grandi aziende che operano nel settore di gas e petrolio siano “armi” dei governi, o comunque parte integrante delle diplomazie dei singoli Stati. E il fatto che la Bp ceda all’Eni quasi la metà dei propri giacimenti e che si appoggi ad essa per tornare a produrre , sono segnali chiari che fra Londra e Roma ci sono delle sinergie nell’affaire-Libia.

Questa sinergia chiaramente aiuta per primi entrambi i produttori. La British Petroleum avrà modo di riattivare i propri giacimenti tornando a produrre in Libia. Dall’altra parte, Eni ha tutto l’interesse ad aumentare la propria leadership negli idrocarburi del Paese con un accordo che fa sì che intensifichi la produzione ma anche il suo peso nelle gerarchie dei produttori internazionali.

Aiuta anche la Noc libica, che, attraverso questo patto rende operativi di nuovo gli impianti Bp ottenendo il controllo del loro 15% e trovando utili per la società ma anche per la stessa libia, in cui la Noc rappresenta fondamentalmente l’unica istituzione che realmente unisce tutto il Paese, essendo la referente sia del governo riconosciuto di Tripoli, sia della parte orientale della Libia sia delle milizie più importanti.

L’esclusione della Francia

Il fatto che Italia e Regno Unito si uniscano per fare asse in Libia attraverso Eni e Bp, di fatto ha anche uno sconfitto: la francese Total. Ed è evidente che a Parigi non abbiano appreso con gioia della notizia dell’accordo fra le due aziende.

Total si è autoesclusa dall’Iran per via delle sanzioni americane e ha deciso di abbandonare lo sviluppo del giacimento South Pars perdendo potenziali incassi per miliardi di dollari. E adesso, con questo accordo, si vede anche ridurre le possibilità di crescita in Libia. Da una parte con l’esclusione dallo sfruttamento dei giacimenti dei britannici, ma dall’altro lato con l’aumento del peso degli italiani, vero obiettivo della politica libica di Emmanuel Macron.

E questa esclusione ha un peso anche per quanto riguarda non solo gli idrocarburi, ma anche la politica. Il fatto che la Gran Bretagna scelga l’Italia per il petrolio e il gas in Libia, di fatto è un segnale che a Londra considerino Roma l’interlocutore per l’energia del Paese nordafricano. Un segnale che fa seguito anche alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza redatta proprio dalla delegazione britannica e che evitava di inserire la data del dicembre come traguardo per le elezioni. Una decisione che ha avuto il pieno appoggio degli Stati Uniti e che di fatto è stata una sconfitta politica per Macron, che si ostina a volere il voto in Libia prima di Natale.

 

 

fonte: http://www.occhidellaguerra.it/libia-eni-british-petroleum/

Il TAV in Francia costa 90 milioni al km, in Spagna 10, in Giappone, zona altamente sismica, 9 milioni al km, in Italia invece arriva a costare fino a 450 milioni al km… Capirete perché, utile o no, a qualcuno sicuramente conviene farlo!

 

TAV

 

 

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Il TAV in Francia costa 90 milioni al km, in Spagna 10, in Giappone, zona altamente sismica, 9 milioni al km, in Italia invece arriva a costare fino a 450 milioni al km… Capirete perché, utile o no, a qualcuno sicuramente conviene farlo!

 

Lo sottolinea il rapporto sulla corruzione della Commissione europea: il prezzo “potrebbe essere una spia di cattiva gestione o irregolarità”

Tav: in Italia costa 61 milioni al chilometro, in Spagna 10, e in Giappone 9

Lo sottolinea il rapporto sulla corruzione della Commissione europea: il prezzo “potrebbe essere una spia di cattiva gestione o irregolarità”

Lo sottolinea il rapporto sulla corruzione della Commissione europea: il prezzo “potrebbe essere una spia di cattiva gestione o irregolarità”

Ci spiegheranno che è per via degli Appennini (famosi quelli tra Roma e Napoli) o per ragioni sismiche (quelle purtroppo ci sono sempre, mentre in Giappone il fenomeno è sconosciuto). Ci saranno ragioni tutte italiane mentre in Francia, in Spagna, o in Giappone si costruisce su vie ferroviarie naturali, tutte piatte e senza alcuna difficoltà. Ma il risultato da spiegare è come mai in Italia le ferrovie ad Alta velocità costano 61 (sessantuno) milioni al chilometro e in Giappone costa solo 9,8 milioni, in Spagna 9, 3 e in Francia 10,2.

Lo rileva un paragrafo del primo Rapporto della Commissione europea sulla corruzione nell’Unione, che vale la pena riportare integralmente: “L’alta velocità è tra le opere infrastrutturali più costose e criticate per gli elevati costi unitari rispetto a opere simili. Secondo gli studi, l’alta velocità in Italia è costata 47,3 milioni di euro al chilometro nel tratto Roma-Napoli, 74 milioni di euro tra Torino e Novara, 79,5 milioni di euro tra Novara e Milano e 96,4 milioni di euro tra Bologna e Firenze, contro gli appena 10,2 milioni di euro al chilometro della Parigi-Lione, i 9,8 milioni di euro della Madrid-Siviglia e i 9,3 milioni di euro della Tokyo-Osaka. In totale il costo medio dell’alta velocità in Italia è stimato a 61 milioni di euro al chilometro. Queste differenze di costo, di per sé poco probanti, possono rivelarsi però una spia, da verificare alla luce di altri indicatori, di un’eventuale cattiva gestione o di irregolarità delle gare per gli appalti pubblici”.

Da Eunews del 03.02.2014

 

Ma ecco la tabella aggiornata dei costo:

zzz 1

 

L’ing. Ivan Cicconi nel 2012 aveva già fatto molto bene i conti e scriveva, tra l’altro: Torino-Lione: il primato del costo al chilometro”

“Non è inoltre da sottovalutare il fatto che il prevedibile aumento complessivo dei costi, stante la ripartizione percentuale pattuita, la diversa lunghezza delle tratte ed il contributo del 40% europeo necessariamente fisso, si rifletterebbe in modo decisamente negativo per l’Italia.

Ipotizzando un aumento del solo 100% dei costi della intera galleria di base, cinque volte inferiore a quello registrato per la Torino-Milano, il costo a chilometro per l’Italia salirebbe da 235 a 628 milioni di euro al km, circa il 200% in più.”

Una profezia che si sta avverando: per l’Italia il costo al chilometro del tunnel è già di 450,3 milioni. La Francia, sempre a corto di soldi, dovrà pagare solo 91,9  milioni di km.  (Importi escluso il contributo UE).

fonte dati: http://www.presidioeuropa.net/blog/torino-lione-costi-aggiornati-al-2017-%E2%80%93-l%E2%80%99italia-pagherebbe-il-tunnel-2935-milioni-di-euro-%E2%80%93-mappa-progetto/

Chi è Kemi Seba: l’attivista che vuole liberare l’Africa ed è perseguitato dalla Francia

 

Kemi Seba

 

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Chi è Kemi Seba: l’attivista che vuole liberare l’Africa ed è perseguitato dalla Francia

 

Kemi Seba, un nome che in Italia dice poco o nulla ma che sta facendo, al tempo stesso, sperare gli africani e passare notti complicate alla Francia, ancora determinata a difendere con tutti i mezzi le sovrastrutture neo-coloniali con le quali continua a dominare le ex colonie dell’Africa nera. Un attivista giovane, di appena 35 anni, che vanta già quasi vent’anni di militanza, prima nella Nation of Islam, l’organizzazione che fu di Malcom X, e poi nel New Black Panthers Party.

Nato a Strasburgo, oggi vive in Senegal, dove nonostante gli ostacoli posti alla sua attività da parte del governo, continua a guadagnare consensi tra le masse, ispirate dalle sue teorie sul panafricanismo (ovvero l’unità che tutti i popoli africani devono avere nella ricerca della giustizia, del progresso e dell’indipendenza dalle potenze mondiali), l’autodeterminazione dei popoli e la necessità di una re-immigrazione, ovvero di convincere i tanti giovani neri emigrati nel mondo a rientrare in Africa per portare avanti la lotta.

Un leader carismatico che pone le sue basi teoriche nel nazionalismo africano e nell’antimperialismo, colpito da parte dei media da critiche di antisemitismo e razzismo verso i bianchi. Accuse pretestuose mosse verso un intellettuale d’azione, capace di vedere, soffrire e denunciare le violenze fisiche ed economiche prodotte da secoli nei confronti dell’Africa, degli africani e dei loro figli sfruttati nei sobborghi delle grandi città occidentali.

Ma non sono le sue idee in senso teorico a preoccupare tanto le élite, quanto una sua battaglia molto concreta, portata avanti da alcuni anni. Kemi Seba lotta infatti per l’abolizione del Franco CFA, ovvero la moneta imposta tutt’oggi dalla Francia a 14 ex colonie africane: Mali, Benin, Camerun, Costa d’Avorio, Ciad, Niger, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Congo, Gabon, Guinea-Bissau, Guinea Equatoriale, Senegal e Togo. Secondo Kemi Seba questa moneta, in vigore dalla fine della II guerra mondiale, è il mezzo principale attraverso il quale la potenza francese continua a soggiogare l’economia delle ex colonie.

In base agli accordi stipulati infatti, il valore del Franco CFA è ancorato a quello dell’euro, e quindi impedisce agli stati africani di svalutare la propria moneta per rilanciare l’economia e la produzione attraverso le esportazioni. Inoltre, tra i vicoli di adesione è prevista anche “la partecipazione delle autorità francesi nella definizione della politica monetaria della zona CFA”. Una pratica coloniale pura, ancora in vita a ormai mezzo secolo dalla fine formale del colonialismo.

Kemi Seba nelle sue denunce pubbliche contro il neocolonialismo si è spinto fino ad un atto simbolico, apparentemente di poco conto, ma prontamente utilizzato per fermarlo: ha bruciato una banconota da 5000 franchi CFA. La Francia ne ha chiesto l’arresto e il governo senegalese ha prontamente eseguito. Per questo Seba è stato rinchiuso e detenuto per diverse settimane, prima di essere rilasciato. La banconota bruciata è evidentemente solo un pretesto: il mezzo usato per fermare un uomo che lotta per cambiare il sistema che opprime il proprio continente. Come avvenne a Thomas Sankara, e tanti altri leader africani del passato diventati scomodi, le potenze mondiali cercheranno ancora di fermarlo. Di certo non si darà per vinto.

 

tratto da: http://www.dolcevitaonline.it/chi-e-kemi-seba-lattivista-che-vuole-liberare-lafrica-ed-e-perseguitato-dalla-francia/

 

Francia e Italia litigano sui migranti, ma di nascosto ne approfittano per negoziare sugli armamenti

 

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Francia e Italia litigano sui migranti, ma di nascosto ne approfittano per negoziare sugli armamenti

 

Francia e Italia litigano sui migranti e negoziano sugli armamenti

L’emergenza migranti e il caso della nave Aquarius respinta dall’Italia sono un’occasione per l’Europa per stanziare più fondi e per rilanciare l’industria degli armamenti

Di Roberto Ferrigno

L’episodio della nave Aquarius non poteva provocare una vera crisi tra Italia e Francia. Troppi, e troppo importanti, i temi del tavolo negoziale tra Roma e Parigi. Il vertice Macron-Conte dei giorni scorsi ha, infatti, restituito l’immagine di due governi allineati sull’argomento più mediatico ed utile alle necessità di politica interna di entrambi i leader: elaborare una nuova strategia UE di gestione dei migranti.

Non a caso, in coincidenza col vertice franco-italiano, la Commissione ha rilanciato la proposta di stanziare, per il periodo 2021-2027, 4,8 miliardi di euro per la sicurezza interna e 34,9 miliardi per la sicurezza dei confini esterni e la gestione dei migranti: il triplo dei fondi disponibili nel precedente settennato.

Inoltre, Frontex, l’Agenzia Europea per la Guardia Costiera e di Frontiera, dovrebbe ricevere 12 miliardi per arrivare a costituire, tra l’altro, una forza di 10mila uomini da dislocare lungo i confini marittimi e terrestri dell’UE. Rimane da vedere se questo aumento spettacolare dei fondi proposto per il prossimo budget UE servirà a sbloccare la paralisi sulla questione migranti che sta minando anche gli equilibri politici interni della Germania.

Un assist per l’industria bellica

La scelta italiana di respingere la nave Aquarius ha reso evidente quanto ipocrisia, sotterfugi e passività abbiano minato la solidità e credibilità dell’UE. Ma la risposta sarà un giro di vite securitario e repressivo a cui si accompagna il rilancio dell’industria degli armamenti. Infatti, insieme al pacchetto su sicurezza e migranti, la Commissione ha ufficializzato il lancio dello European Defense Fund (EDF), con un finanziamento di 13 miliardi – che arriverebbe a 40 miliardi con le contribuzioni nazionali – teso a favorire lo sviluppo di tecnologie e sistemi di punta nel campo della difesa, quali droni e strumenti di cyberwarfare.

Il fondo finanzierà esclusivamente “progetti collaborativi” presentati da almeno tre Stati membri. La Commissione ha anche lanciato l’iniziativa “European Peace Facility” con l’obbiettivo di organizzare e coordinare missioni militari all’estero e, soprattutto, di costituire il punto di vendita a Paesi extra-UE per i sistemi di armamento e tecnologie militari sviluppati dall’EDF.

Ue: nuovo polo di vendita armamenti

La Commissione punta a fare dell’UE un polo di sviluppo e vendita di armamenti che, pur coordinato con la NATO, sia in grado di rivaleggiare con USA, Russia e Cina. Francia, Germania e Italia sono già a ridosso dei tre maggiori produttori mondiali degli armamenti. L’EDF rappresenta, dunque, un’ottima opportunità per Parigi e Roma di porsi come leader europei.

Con l’attenzione dei media rivolta al caso Aquarius, le delicate trattative per un apparentamento dell’industria degli armamenti franco-italiana nell’ambito della svolta securitario-militare dell’UE, possono procedere indisturbate.

Una tappa importante è rappresentata dalla partnership franco-italiana nel campo delle costruzioni navali. Fincantieri, dopo un lungo e tortuoso negoziato, si è già assicurata la proprietà del 50% dei cantieri STX di Saint-Nazaire, specializzati nella costruzione di grandi unità militari. Le parti ora stanno discutendo un’accresciuta integrazione delle capacità militari marittime che si dovrebbe realizzare attraverso un percorso di partecipazioni incrociate tra Fincantieri ed un’altra azienda, Naval Group, il cui 62,9% è detenuto dallo Stato, che dovrebbero aumentare in base all’elaborazione di programmi comuni.

La collaborazione tra questi due gruppi si è recentemente concretizzata in un ricco contratto comune per la marina militare del Canada, la quale per 47 miliardi comprerà fino a 15 fregate, le cui dotazioni di sistemi elettronici verranno fornite dal tandem Thales-Leonardo. Thales è proprietaria del 35% di Naval Group ed ha la quota maggioritaria nel gruppo Thales Alenia Space, con Leonardo in possesso del 33%.

La progressiva integrazione di Fincantieri, di cui lo Stato italiano possiede il 71,64%, con il settore navale francese potrebbe preludere ad un ulteriore “avvicinamento” tra Leonardo e Thales, due tra le maggiori aziende europee di armamenti e sistemi di difesa.

Il mercato degli armamenti dell’UE vale, per ora, circa 100 miliardi. Ma quello mondiale supera il 1.700 miliardi.

Il negoziato franco-italiano sulla creazione di un possibile polo tricolore degli armamenti, gestito direttamente dai massimi vertici governativi, prosegue dunque in grande discrezione, con la prospettiva di poter arrivare a qualche annuncio importante entro il 2018.

In una situazione dove l’enfasi della difesa degli interessi e delle frontiere nazionali domina il dibattito politico in seno all’UE, sembra proprio che le migliori prospettive di integrazione e solidarietà europea siano quelle dell’industria degli armamenti.

fonte: https://valori.it/francia-e-italia-litigano-sui-migranti-e-negoziano-sugli-armamenti/

 

 

La faccia di bronzo di Macron: “La Francia non deve prendere lezioni da nessuno” – “cooperazione significa responsabilità di ciascuno a partecipare e a condividere il carico”. Ma al fondo Ue per l’Africa la Francia versa 9 milioni, noi 102…!

 

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La faccia di bronzo di Macron:  “La Francia non deve prendere lezioni da nessuno” – “cooperazione significa responsabilità di ciascuno a partecipare e a condividere il carico”. Ma al fondo Ue per l’Africa la Francia versa 9 milioni, noi 102…!

 

La solidarietà di Macron: al fondo Ue per l’Africa versa 9 milioni (noi 102)

Lezione di umanità: «Non scordiamo chi siamo» Ma dalla Francia contributo minimo all’Unione

«La Francia non deve prendere lezioni da nessuno». Il presidente francese ieri è salito di nuovo in cattedra, spiegando che «cooperazione significa responsabilità di ciascuno a partecipare e a condividere il carico».

Le cose sono due: o Macron non conosce i numeri oppure sta ciurlando nel manico a spese non solo dell’Italia, ma di tutta Europa. Perché, come sottolineava sei mesi fa il sito Open Migration la Francia ha scelto di versare solo la cifra minima per finanziare i programmi legati al controllo delle frontiere e alla gestione delle migrazioni. All’opposto di Italia e Germania, primo e secondo contribuente.

Si tratta del cosiddetto Trust Fund per l’Africa presentato al vertice sulle migrazioni della Valletta nel novembre 2015 dai capi di Stato e di governo dell’Ue con i principali Paesi africani coinvolti nei flussi. Nato per contrastare «le cause profonde dell’immigrazione irregolare e dello sfollamento di persone in Africa, promuovendo opportunità economiche e rafforzando la sicurezza», il Fondo è diventato in due anni e mezzo uno strumento chiave, almeno potenzialmente, della politica europea in Africa. I 24 Paesi africani beneficiari sono: 13 nel Sahel (Burkina Faso, Camerun, Ciad, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria e Senegal), 9 nel Corno d’Africa (Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Tanzania e Uganda), e 5 in Nordafrica (Algeria, Egitto, Libia, Marocco e Tunisia).

L’Italia, con 102 milioni di euro, è il primo contribuente a livello europeo, ricorda Open Migration, seguita da Germania (54 milioni) e Olanda (26 milioni). Slovenia, Bulgaria, Lettonia e Lituania avrebbero versato poco più di 50 mila euro, mentre «la maggior parte dei governi, come quello francese, ha scelto di corrispondere 3 milioni di euro, la cifra minima per sedere nel Trust Fund Board che definisce le linee generali per l’assegnazione dei contributi» Idem Spagna e Svezia.

«Dobbiamo proteggere le frontiere lavorando sulla procedura di asilo e fare accordi per rendere più efficace il sistema», ripete Macron. Ma a due anni e mezzo dal lancio del Fondo fiduciario per l’Africa, c’è chi ha fatto la sua parte e chi invece fa finta che questo strumento quasi non esista. Al presidente francese farebbe bene esserne informato. Almeno al pari dei sondaggi che lo vedono in piena crisi di popolarità in Francia, costringendo l’Eliseo ad alzare i toni contro l’Italia giallo-verde per recuperare consensi in patria.

Nella rilevazione mensile Ifop-JDD, Macron è sceso di un ulteriore punto: dal 41% dei «soddisfatti» di maggio al 40% di giugno, toccando il suo minimo storico. Anche il premier Edouard Philippe (che nei giorni scorsi ha dato manforte alle dichiarazioni di Macron contro l’Italia) è calato dal 45% al 42%. Entrambi perdono le simpatie della sinistra che aveva sostenuto il movimento En Marche!.

L’ultimo comunicato europeo del 29 maggio spiega invece che la cifra investita dal Trust Fund per il Nordafrica è salita a 335 milioni. Ma non per merito della Francia. Oltre il 95% delle risorse provengono infatti dal Fondo Europeo per lo sviluppo (80%) e da altre voci del bilancio comunitario, tra cui Cooperazione (Devco), politiche di vicinato (DG Near) e affari interni (DG Home). Ciò ha permesso l’evacuazione di 1.287 rifugiati dalla Libia in Niger e «l’aiuto a 22 mila migranti bloccati lungo le rotte a tornare nel proprio Paese, dove riceveranno un sostegno al reinserimento». Anziché dar lezioni, i francesi potrebbero far la loro parte.

fonte: http://www.ilgiornale.it/news/politica/solidariet-macron-fondo-ue-lafrica-versa-9-milioni-noi-102-1544606.html