Perché l’Unione Europea potrebbe veramente cancellarci 250 miliardi di debito pubblico…!

 

debito pubblico

 

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Perché l’Unione Europea potrebbe veramente cancellarci 250 miliardi di debito pubblico…!

 

Perché la BCE può cancellare 250 miliardi (e chi lo nega è ignorante o in malafede)

di 

Il motivo lo ha spiegato  – in un articolo del  giugno 2013 –  Paul De Grauwe, attualmente docente alla John Paulson Chair in European Political Economy,   nella London School of Economics, già membro del parlamento belga dal 1991 al 2003, autore di ricerche e libri fondamentali  sulla politica monetaria, di cui è considerato fra le  massime autorità.

De Grauwe ha scritto l’articolo perché  il governatore Weidmann della Bundesbank, la banca centrale tedesca,  s’era appellato alla Corte Costituzionale  tedesca, sostenendo che gli acquisti a palate di titoli di debito pubblico  dei paesi dell’eurozona che sta  operando la BCE, esponevano i contribuenti tedeschi al rischio di dover  pagare con le tasse le “perdite” che avrebbe subito la BCE in caso di insolvenza  dell’Italia, Spagna, Grecia, Portogallo.

De Grauwe mostra che la Bundesbank è ignorante, come quasi tutti gli economisti italiani (e non parliamo dei giornalisti) a ventilare una simile spaventosa ipotesi. Il motivo: applicano alle banche centrali i criteri di solvibilità e insolvenza di una banca privata, o di una qualsiasi impresa privata.

Il livello di confusione è così alto  – scrisse appunto –  che il presidente della Bundesbank si è rivolto alla Corte Costituzionale Tedesca sostenendo che il programma OMT  della BCE esporrebbe i cittadini tedeschi al rischio di dover pagare tasse per coprire potenziali perdite generate dalla BCE”.

“Tale paura è mal posta”  . Anzi: “In realtà, i contribuenti tedeschi sono i principali beneficiari del programma di acquisto di titoli di debito”.

“Le società private si ritengono solvibili quando il valore del loro patrimonio netto è positivo, ossia quando il valore dei loro asset è superiore a quello del debito. La solvibilità di una società privata può anche essere espressa come il massimo ammontare di perdite che una società può assorbire in un dato momento. Pertanto, una società privata si dice solvibile quando le sue perdite non sono superiori al patrimonio netto” .

Ma “questi vincoli di solvibilità non dovrebbero essere applicati alle banche centrali; le banche centrali non possono fallire”.

Oddio, e perché?

Perché  “una banca centrale può emettere tutta la moneta che vuole e chi gli serve per ripagare i suoi “creditori”.

E chi sono i creditori della banca centrale?

Sono “i detentori della sua moneta.   Per la banca centrale, il loro “ripagamento”   consisterebbe semplicemente nel sostituire la moneta vecchia con moneta nuova”.

Non siamo più nel  sistema del tallone aureo, quando una banca centrale prometteva di convertire la moneta che emetteva in oro.

“Al contrario delle società private, i debiti delle banche centrali non rappresentano un diritto sugli asset delle banche centrali. Quindi, il valore degli asset della banca centrale non ha influenza sulla sua solvibilità.

“La sola promessa che una banca centrale fa  […] mercato è che il denaro sarà convertibile in un paniere di beni e servizi a un prezzo più o meno fisso. In altri termini, la banca centrale fa una promessa di stabilità dei prezzi. Tutto qui.

La banca centrale assorbe qualsiasi perdita

(…) . La banca centrale può assorbire qualsiasi perdita, a patto che questa perdita non comprometta la stabilità dei prezzi.

Non è nemmeno corretto affermare che la banca centrale ha bisogno di mantenere un patrimonio netto positivo per “restare solvibile”. Una banca centrale non necessita di un patrimonio netto.  Dunque l’affermazione che una banca centrale con un patrimonio netto negativo necessiti di essere ricapitalizzata dal Tesoro non ha alcun senso”.

Visto che qualcuno ancora non capisce, De Grauwe spiega di nuovo:

 

“Per essere chiari:

  • La banca centrale (che non può fallire) non ha bisogno di alcun sostegno fiscale dal governo (che invece può fallire)
  • L’unico sostegno di cui la banca centrale necessita da parte del governo è che essa possa mantenere il monopolio sull’emissione di moneta in tutto il territorio su cui il sovrano ha giurisdizione. Una volta che abbia  dal sovrano tale potere, la banca centrale è libera da ogni limite di solvibilità”.

Chiarito ciò, De Grauwe  illustra il caso più semplice, di una banca centrale che emetta moneta per  un solo stato.  Lo fa comprando i Buoni del Tesoro  di quello Stato ed emettendo moneta.

“Acquistando i titoli di debito statali, la banca centrale  trasforma  la natura del debito pubblico.

Quando la banca centrale compra il debito del proprio governo, il debito viene trasformato:

  • Il debito governativo, che porta con sé un tasso di interesse e un rischio di default, diventa una passività della banca centrale (base monetaria); che è priva di rischio default,   ma soggetta a rischio di inflazione”.

Per capire    cosa sia questa trasformazione, e  come agisca nel bilancio, supponiamo   che Banca Centrale e Governo siano tutt’uno (come dopotutto sono: due rami separati del settore pubblico, ed erano prima del “divorzio” fra Tesoro e Bankitalia).

Attenzione attenzione, perché nelle righe seguenti troviamo spiegato perché 250 miliardi di debiti possono essere “cancellati”:

dunque seguiamo il ragionamento.

“Dopo la trasformazione, il debito governativo detenuto dalla banca centrale viene cancellato. Esso è un attivo in un ramo dello stato (la banca centrale) e un passivo nell’altro ramo (il governo). Quindi, scompare”.

E attenti, non è ancora finita:

“La banca centrale può ancora tenerlo a bilancio  [come fa la BCE coi nostri  250 miliardi], ma esso non ha più alcun valore economico. Di fatto la banca centrale può sbarazzarsi di questa FINZIONE ed eliminarla dal suo bilancio, e il governo può quindi eliminarlo dall’ammontare del suo debito. Esso non ha più valore in quanto è stato rimpiazzato da una nuova forma di debito, ossia la moneta, che comporta un rischio inflattivo, ma NON  un rischio di default”.

Dunque non ha senso – come voleva far credere la Bundesbank –  che le banche centrali,   quando il prezzo di mercato dei titoli di stato scende, ci perdono. Se ci fosse una perdita per la banca centrale, essa sarebbe compensata alla pari da un guadagno equivalente da parte del governo (perché il valore di mercato del suo debito è sceso in uguale proporzione). Non ci sono perdite per il settore pubblico”.

Chiaro o no? L’esperto sottolinea:

“Arriviamo a una conclusione importante: Quando una banca centrale ha acquisito titoli di stato, un declino nel prezzo di mercato di questi titoli non ha alcuna conseguenza fiscale. La perdita in un ramo (la banca centrale)  è compensata dal profitto nell’altro (lo Stato)”.

Che se poi ancora non fosse chiaro ai vari “economisti” dei miei stivali che strillano, De Grauwe riprende:

“Un altro modo di vedere questo effetto, è guardare ai flussi degli interessi sottostanti ai titoli pubblici. Poniamo ad esempio che la banca centrale abbia comprato un miliardo di euro in titoli di stato. Questi hanno una cedola, diciamo, del 4%. Perciò la banca centrale che ha in portafoglio i titoli riceve 40 milioni di euro all’anno da parte del governo. Nella pratica della contabilità, questo viene contato come un profitto per la banca centrale. Alla fine dell’anno, la stessa banca centrale girerà  i propri profitti al governo. Assumendo che il costo marginale della gestione di questi bond sia pari a zero, la banca centrale girerà al governo i 40 milioni di euro. E’, per così  dire,  la mano sinistra  che  paga la mano destra”.

La classica partita di giro.

“La tecnicalità della tenuta dei libri contabili ha potuto far credere a qualcuno che tali interessi siano signoraggio  (ossia profitto per la banca centrale). Non lo sono. Non c’è alcun profitto nel settore pubblico.  Il profitto della banca centrale è esattamente compensato da una perdita del governo”.

Capito? L’economista vuol essere ancora più chiaro.

“L’uno e l’altra potrebbero eliminare questa convenzione contabile perché in queste perdite e profitti non  c’è alcuna sostanza economica”.

“La BCE può distruggere i titoli di stato, senza nessuna perdita”

Ma, probabilmente temendo che questo sia al disopra delle possibilità intellettuali del governatore Weidmann della Bundesbank, il belga insiste:

“E’ letteralmente  vero che la banca centrale potrebbe distruggere i titoli di Stato nel trituratore della carta: niente sarebbe perduto”.

Vogliamo copiare la frase in inglese:

It is literally true that the central bank could put the government bonds ‘into the shredding machine’; nothing would be lost.

“Nel nostro esempio, la banca centrale non riceverebbe più 40 milioni di euro l’anno,  e non dovrebbe più girarli al governo ogni anno.

Cosa succede se il governo fa default sui suoi bond in scadenza? Il default causa delle perdite ai detentori privati dei titoli.

Ma è irrilevante per i titoli detenuti dalla banca centrale: infatti essi adesso non valgono più nulla, ma erano già privi di valore anche prima del default. Si tratta della mano destra che paga la sinistra.

Per il settore pubblico, non è successo nulla. Perciò la perdita della banca centrale a causa del default non ha alcuna conseguenza fiscale”.

Nel caso dell’eurozona,   una unione monetaria imperfetta (che non è anche una unione di bilancio), le cose sono alquanto più complesse. Ma all’osso,  ci limitiamo a riportare l’esempio di De Grauwe:

“Immaginiamo che la BCE acquisti 1 miliardo di titoli spagnoli a un tasso del 4%. Le conseguenze fiscali sono ora le seguenti.

  • La BCE riceve 40 milioni di euro in interessi annuali dal tesoro spagnolo.
  • La BCE restituisce questi 40 milioni di euro non alla sola Spagna, ma  a tutti gli anni alle banche centrali nazionali dell’eurozona.

La distribuzione avviene proporzionalmente alla quota di capitale nella BCE (vedere BCE 2012).

  • La banca centrale nazionale trasferisce quanto ricevuto al proprio tesoro nazionale.

Per esempio, la BCE trasferirà l’11.9% dei 40 milioni al Banco de España. Il resto andrà alle banche centrali degli altri paesi membri. Chi riceverà di più è la Bundesbank tedesca; che con una quota di capitale del 27.1%, riceverà quindi 10.8 milioni di euro”.

Ecco perché, all’inizio del discorso il nostro monetarista diceva che,  anziché essere danneggiati, “i tedeschi sono i principali beneficiari del programma di acquisti di debiti pubblici  avviato da Draghi.

L’effetto paradossale è questo:

“In un’unione monetaria che non è  anche un’unione fiscale,  un programma di acquisto di titoli di stato porta a trasferimenti all’interno dell’unione – ma non a quelli a cui pensa l’opinione pubblica tedesca

  • “Un programma di acquisto titoli della BCE porta a un trasferimento annuale dai paesi i cui titoli vengono acquistati verso tutti gli altri”

Cioè dai paesi più indebitati e poveri a quelli non indebitati e ricchi. 

“Un trasferimento fiscale dai paesi più deboli (debitori) verso i paesi più forti (creditori)”.

La  Germania lucra anche su questo.

Che cosa serve ancora per realizzarla perversione  del sistema euro?  E di chiamare chi lo sostiene in Italia un traditore? Perché la protesta di Weidmann contro gli acquisti della BCE, anche se non escludo possa essere dovuta ad ignoranza (non sarebbe il primo banchiere a non sapere come si crea il denaro),   servepiuttosto ad uso interno, per rafforzare nei cittadini tedeschi l’impressione che essi stanno pagando per i debtii italiani, spagnoli, greci. Il che pone il problema dei tecnocrati non eletti: non c’è niente di peggio di un tecnocrate incompetente. Anzi di peggio c’è, ed è un tecnocrate che fa’ politica e propaganda contro un paese  alleato, fondatore, e dellas tessa zona monetaria.   Ma che dire dei giornalisti ed economisti italiani che tifano per  la bancarotta  dell’Italia in odio al govenro Salvini-Di MAio?

  • Dal testo qui sopra si vede anche che i tassi d’interesse sul nostro debito non dipendono dai “mercati” e se è aumentato lo spread   a causa del governo Lega-Cinque Stelle, è un avvertimento artificiale delle  banche centrali ostili. Ricordiamo che quando Sarko e Merkel vollero  rovesciare Berlusconi,  aumentarono lo spread vendendo – non loro,  le loro banche centrali per carità, sono indipendenti – a vagonate titoli di Stato italiani. Draghi   dispose poi che li comprassero le banche italiane, che per questo vengono accusate ogni giorno da Weidmann di essersi riempite di Bot e BTP.

Post Scriptum: 

Il testo dell’economista prosegue, per smentire, “come si  sente dire spesso nei paesi creditori che, nel caso di default di un paese i cui titoli di stato sono nel bilancio della BCE, essi (i creditori) sarebbero i primi a rimetterci. Questa è una conclusione sbagliata”.

Al massimo, il contribuente tedesco dovrebbe rinunciare alla rendita annua degli interessi che percepisce dal paese debitore.

Potete constatarlo da voi leggendo l’originale inglese qui:

https://voxeu.org/article/fiscal-implications-ecb-s-bond-buying-programme

L’articolo Perché la BCE può cancellare 250 miliardi (e chi lo nega è ignorante o in malafede) proviene da Blondet & Friends.

Juncker: “I governi non devono ascoltare gli elettori” – Queste cose le puoi dire se: a) hai bevuto troppo – b) sei un idiota – c) non hai capito una mazza della “democrazia” …Ma se lo dice Juncker, le tre cose possono coincidere!

Juncker

 

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Juncker: “I governi non devono ascoltare gli elettori” – Queste cose le puoi dire se: a) hai bevuto troppo – b) sei un idiota – c) non hai capito una mazza della “democrazia” …Ma se lo dice Juncker, le tre cose possono coincidere!

 

“I GOVERNI NON DEVONO ASCOLTARE GLI ELETTORI”: IL DELIRIO DI ONNIPOTENZA DI JUNCKER

capi di governo degli Stati dell’Unione Europea non dovrebbero “ascoltare così tanto gli elettori”. Parola di Jean-Claude Juncker. Le improvvide dichiarazioni del presidente della Commissione Europea sono arrivate ieri da Roma, dove il numero uno dell’esecutivo dell’Unione si è recato per presenziare al conferimento del Premio Carlomagno a Papa Francesco. Nella splendida cornice dei Musei Capitolini Juncker ha voluto strigliare quei politici definiti “europei a tempo determinato”, pronti a rivolgersi a Bruxelles solo nel momento di incassare, e mai quando è l’ora di dare.

Troppo spesso i governanti del Vecchio Continente, ha spiegato l’ex primo ministro del Lussemburgo, guardano solamente ai sondaggi e promuovono misure destinate perlopiù a soddisfare le richieste immediate dell’opinione pubblica interna. “Chi ascolta l’opinione pubblica interna – ha spiegato Juncker – non può promuovere la costruzione di un sentimento comune europeo, può non sentire la necessità di mettere in comune gli sforzi. Abbiamo troppi europei part-time.”

Il Presidente della Commissione ha poi ricordato gli anni felici in cui veniva approvato il trattato di Maastricht: “Era un periodo stimolante, stavamo lavorando passo passo per convergere verso una moneta unica: c’era un sentimento condiviso da ministri degli Esteri e primi ministri, ci sentivamo addosso la responsabilità di fare la storia. Ecco, ora tutto questo è finito.” Se c’è però anche una minima possibilità di riportare in auge quel sentimento, non è di certo trascurando di monitorare con costanza il polso dell’opinione pubblica. Gli elettori cercano a gran voce di farsi sentire: spiace che Juncker sembra volerli ascoltare solo nei momenti di consenso.

 

tratto da: StopEuro

Sei incinta? Licenziata! …Ce lo chiede l’Europa…!

 

Europa

 

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Sei incinta? Licenziata! …Ce lo chiede l’Europa…!

 

Per la Ue lecito licenziare le lavoratrici in gravidanza

Una legge nazionale che consente di licenziare la lavoratrice in stato di gravidanza nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo non è contraria al diritto comunitario; ciascuno Stato membro resta, tuttavia, libero di prevedere forme di tutele più forti per le dipendenti madri e gestanti. Con queste motivazioni la sentenza della Corte di giustizia pubblicata ieri (Causa C 103/2016), ha rimosso ogni dubbio sulla legittimità della normativa vigente in Spagna.

La controversia è nata a seguito del licenziamento di una lavoratrice in stato di gravidanza nell’ambito di una procedura di riduzione collettiva del personale avviata da una banca. Tale recesso è stato intimato nel rispetto delle norme spagnole, che vietano il licenziamento delle lavoratrici gestanti salvo il caso in cui il recesso sia dovuto a motivi non riguardanti la gravidanza o l’esercizio del diritto ai permessi e all’aspettativa conseguenti alla maternità.

Il giudice locale ha sollevato la questione del possibile contrasto con le norme della direttiva 92/85, con la quale sono definite misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle donne gestanti, puerpere o in periodo di allattamento.

La Corte di giustizia ritiene infondato questo dubbio, rilevando che il divieto di licenziamento posto dalla direttiva mira a prevenire gli effetti dannosi sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, che può generare un rischio di licenziamento per motivi connessi al loro stato. Per prevenire questo rischio, sono previste pesanti sanzioni per tutti i provvedimenti che abbiano come presupposto lo stato personale della lavoratrice. Al contrario, osserva la Corte, la direttiva non vieta il licenziamento durante il periodo dall’inizio della gravidanza fino al termine del congedo di maternità, qualora l’atto sia fondato su motivi non connessi allo stato di gravidanza della lavoratrice.

Tali motivi possono essere, precisa la Corte, economici, tecnici o relativi all’organizzazione o alla produzione dell’impresa, e devono essere indicati per iscritto dal datore di lavoro, il quale deve comunicare alla lavoratrice gestante i criteri oggettivi adottati per designare il personale da licenziare.

La Corte prende posizione anche sul regime sanzionatorio applicabile alla fattispecie, precisando che la tutela risarcitoria in favore delle donne gestanti puerpere e in allattamento deve essere accompagnata dall’espresso divieto di recesso per motivi fondati sulla condizione personale della lavoratrice.

La sentenza – nella parte relativa alla possibilità di licenziare le lavoratrici madri nell’ambito di una procedura di riduzione del personale – potrebbe (in linea teorica) legittimare un ripensamento sulla materia, ma non avrà alcun impatto immediato sulle norme vigenti in Italia, che impediscono, anche in caso di procedura collettiva, il licenziamento della lavoratrice madre, a meno che non ci sia una chiusura dell’intera azienda.

 

fonte: http://mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/norme-e-tributi/2018-02-23/per-ue-lecito-licenziare-lavoratrici-gravidanza–090646.shtml?uuid=AEwbB74D

Il malessere del modello tedesco – La ricchezza della Germania è solo una fake news

 

Germania

 

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Il malessere del modello tedesco – La ricchezza della Germania è solo una fake news

di Emanuel Pietrobon

Viaggio nella Germania che ha subito gli effetti della globalizzazione, dell’immigrazione selvaggia e della denazificazione.

La propaganda europeista da anni martella le opinioni pubbliche dei 28 veicolando la (falsa) convinzione che la Germania sia il più grande successo dell’Eurozona e che le sue ricette applicate in società ed economia dovrebbero essere assunte a modelli di riferimento per l’intera comunità europea. La realtà non corrisponde esattamente ai racconti del Comitato Ventotene e basterebbe uno sguardo, neanche tanto approfondito, alla situazione interna del paese per capire che si tratta di uno dei più grandi miti costruiti dalla fabbrica di fake news, insieme a quello svedese.

Secondo un’inchiesta del Der Spiegel del 2012, la ricetta economica tedesca basata su un modello neomercantilista fortemente dipendente dalla politica esportatrice verso territori extracomunitari che ha reso possibile al paese di diventare la prima potenza economica d’Europa sarebbe un finto successo perché ha arricchito una piccola parte della popolazione a fronte dell’impoverimento di milioni di tedeschi.

Infatti, da anni gli stipendi di operai generici e dipendenti base sono bloccati, caratterizzati da contratti precari con poche possibilità di regolarizzazione a tempo indeterminato e bonus (di qualsiasi tipo) nulli; inoltre la paga mensile media per diverse mansioni è lentamente diminuita sotto la soglia dei 800 euro e figure professionali come cuochi, camerieri e insegnanti percepiscono stipendi inferiori a quelli del 2003.

Marzahn è uno dei simboli di quella Germania volutamente dimenticata e assassinata dalla globalizzazione: palazzi di recente costruzione e aree giochi nascondono un tasso di disoccupazione doppio rispetto alla media nazionale, la metà della popolazione vive di sussidi statali e criminalità dilagante

La causa di tutto ciò? L’inchiesta accusa le politiche neoliberiste che hanno deregolamentato il mercato del lavoro tedesco nel nome della flessibilità, comportando un generale abbassamento dei salari e una precarizzazione dei rapporti di lavoro: oltre 900mila i cosiddetti “precari” nel 2012 rispetto ai 300mila del 2003. Nel 2015, il Paritätische Gesamtverband, un’associazione attiva nel sociale, denunciava in un rapporto il ritorno della povertà nel paese ai livelli del pre-unificazione: 12 milioni e 500mila degli 80 milioni di cittadini guadagnavano meno di 540 euro al mese, vivendo in stato di povertà. Una situazione, a detta dell’associazione, causata dai tagli alle politiche di tutela del lavoro. Nello stesso anno, secondo il Destatis, l’ufficio di statistica tedesco, erano oltre 3 milioni i poor worker, ossia quei lavoratori in soglia di povertà per via dello stipendio non allineato al costo della vita. E che dire della situazione sociale? Tanto è stato scritto sugli stupri di massa del capodanno di Colonia del 2016 operati da bande di immigrati, specialmente medio-orientali e balcanici – parte di essi richiedenti asilo, rifugiati umanitari e profughi, e da allora la Germania è stata sconvolta da diversi attentati a matrice islamista; eventi che hanno giocato un ruolo fondamentale nell’ascesa di partiti antisistema come Alternativ für deutschland alle recenti elezioni.

Il modello d’integrazione tedesco forse non è mai stato capace di germanizzare i non autoctoni, ed oggi più che mai mostra la vastità delle sue falle tra attentati terroristici, proliferazione di ghetti e no-go zones. Secondo una ricerca del Gatestone Institute, nel 2016 soltanto 34mila rifugiati, su oltre un milione di entrati nel paese tra il 2014 e il 2015, avevano trovato un’occupazione regolare, con contratto e tutele sindacali. Dati confermati, in parte, anche dalla Bundesagentur für Arbeit, l’Agenzia federale del lavoro, che nello stesso anno denunciava che dei 2 milioni e 500mila abitanti del paese senza occupazione, il 43,1% era straniero o tedesco naturalizzato. La stessa agenzia nel rapporto approfondiva le cause della situazione occupazionale tra etnie, sottolineando l’importanza giocata dal diverso background culturale nelle possibilità di trovare un’occupazione, o quantomeno una soddisfacente, ed integrarsi meglio nella società. Un’inchiesta del Wall Street Journal dello stesso anno ha invece portato alla luce il fallimento del progetto di inserimento dei profughi nel mondo della grande imprenditoria tedesca, tanto auspicato dal governo Merkel nel 2015. Tra i casi più clamorosi Deutsche Post, che ha offerto 1000 posti di lavoro a rifugiati ricevendo solo 235 domande di partecipazione, e Continental AG che ha avviato un percorso formativo con finalità d’assunzione per 50 rifugiati, terminato soltanto da 15 degli aspiranti.

In Germania, durante le celebrazioni del capodanno 2016, specialmente a Colonia, hanno avuto luogo delle violenze di massa operate da bande organizzate di profughi, richiedenti asilo e immigrati mediorientali e balcanici, al termine delle quali circa 2mila persone sono state vittime di stupri, aggressioni e rapine

Se la situazione lavorativa dei nuovi tedeschi è drammatica, quella vissuta dai tedeschi è tragica stando al rapporto “Sulla criminalità nel contesto della migrazione” della BKA, la polizia federale tedesca, coprente reati compiuti da stranieri, richiedenti asilo e profughi nel periodo 2013-17. Nel 2016, questa categoria di persone si sarebbe macchiata di 3404 reati sessuali (su un totale di 6100 denunciati) unamedia di 9 al giorno; un aumento vertiginoso considerando i 559 crimini a sfondo sessuale del 2013, per una media di 2 al giorno. Secondo il rapporto le principali nazionalità protagoniste di tali reati sarebbero in ordine: Siria, Afganistan e Pakistan. Alla luce di questi numeri, forse non è un caso che in occasione delle celebrazioni del nuovo anno, le autorità berlinesi abbiano deciso di realizzare zone di sicurezza per le donne a Pariser Platz, suscitando scalpore in Occidente, ma ottenendo consensi nel paese.

Un capitolo a parte andrebbe dedicato alla salute mentale dei tedeschi. Secondo una ricerca dell’OCSE sull’utilizzo e abuso di farmaci nei paesi sviluppati, in Germania il numero di coloro che consumano antidepressivi con assiduità è aumentato del 46% tra il 2007 ed il 2011, facendo del paese uno dei più afflitti dal problema della farmacodipendenza dietro la regione scandinava. Dati sorprendenti anche secondo l’organizzazione che aveva associato l’incremento nell’uso di questi farmaci alla recente crisi economica, salvo poi dover fare marcia indietro leggendo i numeri di Germania e paesi scandinavi, in cui l’abuso è andato crescendo senza sosta, quindi apparentemente slegato ai cicli economici. Il tema dell’utilizzo di antidepressivi in Germania ha attirato l’attenzione di diversi studiosi e centri di ricerca. Secondo un’inchiesta del 2015 di Deutsche Welle, la principale emittente pubblica tedesca, in Germania la media dei consumatori di antidepressivi è aumentata dai 52 ogni 1000 abitanti del 2000 ai 104 del 2012 – la media europea è stabile a 56 ogni 1000 abitanti.

Nonostante il trend economico positivo, in Germania l’uso di psicofarmaci è andato aumentando vertiginosamente negli ultimi 17 anni, come denunciato dall’Ocse, posizionandosi ai primi posti tra i paesi sviluppati, dietro solo alle nazioni scandinave

L’emittente, riprendo i dati forniti dall’Ocse e dalla Techniker Krankenkasse, un’importante compagnia tedesca di assicurazione sanitaria, ha portato alla luce diversi dati: tra il 2000 e il 2013 sono aumentati del 2% i lavoratori assicurati a cui sono stati prescritti antidepressivi, gli antidepressivi sono prescritti ad un tasso due volte maggiore alle donne rispetto che agli uomini, i lavoratori in età matura prendono più antidepressivi rispetto a quelli più giovani e l’uso di antidepressivi è più frequente tra operatori dei servizi sociali, precari ed operai. L’indagine si conclude con l’opinione del dottor Malek Bajbouj, professore di neuropsichiatria all’ospedale universitario di Berlino, secondo il quale nel paese non è in corso alcuna epidemia di abuso da psicofarmaci, ma si tratterebbe piuttosto di un aumento legato alla maggiore accettazione sociale dei trattamenti farmacologici e alla minore stigmatizzazione di coloro che ne fanno uso.

La Germania è, quindi, anche questo: un palazzo in rovina che viene costantemente riverniciato e ammodernato superficialmente in modo tale da nasconderne le crepe e renderne gradevole l’aspetto, ma destinato a soccombere sul proprio peso, un gigante d’argilla che ha deciso di rimediare alla crisi demografica dando luogo ad una politica migratoria che ha fatto entrare nel paese oltre un milione di persone nel solo 2015 salvo poi ricorrere a ripari impacciati e miopi ai primi segnali di instabilità sociale. Un paese che ha perso la bussola ma che continua a guidare il resto della squadra, l’Ue, verso la stessa, tragica sorte.

Fonte: L’INTELLETTUALE DISSIDENTE

Un altro grande successo dell’Euro: da quando è entrato in vigore nel 2000, la crescita del Paese è rimasta ferma a ZERO.

 

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Un altro grande successo dell’Euro: da quando è entrato in vigore nel 2000, la crescita del Paese è rimasta ferma a ZERO.

Mettiamo le mani avanti.

Sicuramente qualcuno contesterà l’idea che il nostro sistema-Paese si sia prima inceppato e poi definitivamente imploso a causa dell’introduzione dell’euro; e la contesterà dicendo che un ciclo economico non si apre né si chiude in un anno preciso, ma che i processi si sviluppano in fasi successive e nel giro di molti anni: nel caso italiano, negli anni allegri delle politiche a debito attuate durante la Prima Repubblica. E in parte è vero, ma non bisogna assolutamente mettere in secondo piano il prezzo che venne fatto pagare agli italiani per entrare nel Club Euro, cioè l’Eurotassa.

Fu un’imposizione che rallentò la crescita economica, mentre il colpo di grazia cominciò ad abbattersi con la crisi finanziaria del 2007, e anche col rincaro del costo della vita che non venne arginato quasi per nulla mediante un controllo statale sugli aumenti indiscriminati dei prezzi ai quali si assistette, nel silenzio assordante dell’Istat il cui paniere fu più volte aggiornato senza successo (poco importa oggi se in malafede o no).

Quel che è certo è l’Ufficio Studi della Cgia di Mestre con una ricostruzione statistica ancora fresca di pubblicazione ha smascherato le bugie rifilate agli italiani nel nuovo millennio: dal 2000, con l’entrata in vigore dell’euro, la crescita del Paese è rimasta pressoché ferma a zero. Pura coincidenza?

Si leggano intanto alcuni dati che l’osservatorio delle piccole e medie imprese artigiane veneziane ci mostra per capire quanto sia grave la situazione. La ricchezza italiana misurata in PIL è cresciuta negli ultimi 17 anni mediamente dello 0,15% annuo. Rispetto ai tempi pre-2007, dobbiamo ancora recuperare 5,4 punti percentuali. Tra le componenti di quest’ultimo indicatore economico, nel 2017 la spesa della Pubblica amministrazione presenta una dimensione inferiore a quella di 10 anni fa dell’1,7%, la spesa delle famiglie del 2,8% e gli investimenti addirittura del 24,3% in meno. La crescita registrata dai nostri principali competitor dell’area euro è stata invece molto superiore: 21,7% di incremento in Francia, 23,7% in Germania e addirittura 31,3% in Spagna.

Infine, l’Europa senza Italia ha riportato una variazione positiva del 25,9%. Tra i 19 Stati che hanno adottato la moneta unica soltanto Portogallo (-1,2%) e Grecia (-25,2%) devono ancora recuperare, in termini di PIL, la situazione ante crisi. Se, tuttavia, in questo arco temporale analizziamo l’andamento dei nostri conti pubblici, il rigore non è mai venuto meno, quindi ci sono stati meno investimenti per infrastrutture essenziali quali trasporti, logistica, edilizia scolastica e sportiva, mentre è continuata la vecchia abitudine di largheggiare nella spesa corrente a pioggia. Questi dati, come sottolineato dal coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia Paolo Zabeo, si possono leggere con una sola chiave di lettura:

Come sostengono molti esperti, siamo in una fase di stagnazione secolare e sebbene la ripresa si stia consolidando in tutta Europa, anche a seguito di una congiuntura internazionale favorevole, gli effetti positivi non stanno interessando tutte le aree territoriali e le classi sociali del nostro Paese. Il popolo delle partite Iva, ad esempio, continua ad arrancare; schiacciato da un carico fiscale eccessivo, da una burocrazia oppressiva e da una domanda interna che stenta a decollare.

Anche sul fronte della produzione industriale, dove il Governo racconta di aver fatto grandi passi in avanti grazie a qualche buon risultato ottenuto solo negli ultimi mesi, lo score dell’Italia registrato negli ultimi 17 anni è stato invece deludente. Rispetto al 2000 si registra un differenziale negativo di 19,1 punti percentuali, con punte del —35,3% nel tessile/abbigliamento e calzature, del —39,8% nell’informatica e del —53,5% nelle apparecchiature elettriche, cioè dei settori a maggiore produttività e con salari maggiori. Di segno positivo sono per fortuna almeno alimentari/bevande (+11,2%) e farmaceutica (+28,3%). Tra 2000 e 2017 nessun altro tra i principali Paesi avanzati dell’UE è riuscito a fare peggio di noi, anzi addirittura l’industria tedesca è aumentata quasi del 30%.

Oltre a non crescere quanto gli altri, soprattutto per colpa del carico fiscale eccessivo, l’Italia non riduce neppure il costo del suo debito pubblico, nonostante la riduzione del costo degli interessi di cui ha potuto beneficiare grazie alla stabilità dell’euro. Siamo tra i primi cinque Paesi più indebitati al mondo, col 132,6% del PIL, in compagnia di Capo Verde, Libano, Grecia e Giappone. E allora è evidente che l’ottimismo sfoderato da certi politici è ben lontano dall’avere solide basi su cui fondarsi: è solo fuffa da imbonitori. Il Paese continua pericolosamente a traballare e stiamo ancora aspettando un uomo o un gruppo dirigente capace di riportarci sul binario giusto, perché l’Italia avrebbe tutte le carte in tavole per essere traino in Europa, mentre ora è schiava e subalterna delle politiche di altri.

TRATTO DA: http://www.stopeuro.news/dal-2000-con-lentrata-in-vigore-delleuro-la-crescita-del-paese-e-rimasta-ferma-a-zero/

Italia da Record, 15 anni di tagli delle tasse, ormai non paghiamo quasi niente …ma proprio non Vi sentite presi per il c…?

 

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Italia da Record, 15 anni di tagli delle tasse, ormai non paghiamo quasi niente …ma proprio non Vi sentite presi per il c…?

 

Parte la campagna elettorale… E partono le promesse di Renzi e Berlusconi di tagliare (ancora) le tasse!
Ma non Vi sentite fortunati?
Sono 15 anni di continui tagli. Ormai non paghiamo più un cazzo!
Vero?
No?
…E allora…
Non Vi viene il sospetto di essere presi un tantino per il culo??
Pressione fiscale in Europa: Italia al primo posto
Le imprese italiane, al netto dei contributi previdenziali, pagano 98 miliardi di tasse all’anno. Tra i principali paesi Ue, denuncia l’Ufficio studi della Cgia, solo le aziende tedesche e quelle francesi versano in termini assoluti più delle nostre, rispettivamente 131 e 103,6 miliardi di euro, ma va ricordato che la Germania conta una popolazione di 80 milioni di abitanti, la Francia 66 e l’Italia 60. Il peso della tassazione sulle imprese italiane è tuttavia massimo in Ue e ciò si evince calcolando la percentuale delle tasse pagate dalle imprese sul gettito fiscale totale: l’Italia si piazza al primo posto (14%), sul secondo gradino del podio si posiziona l’Olanda (13,1%) e sul terzo il Belgio (12,2%). Tra i nostri principali avversari segnaliamo che la Germania registra l’11,8%, la Spagna il 10,8%, la Francia e il Regno Unito il 10,6 per cento. La media Ue, invece, è dell’11,4%.
La stessa Cgia ha chiarito che l’incidenza percentuale delle tasse pagate dalle imprese sul totale del gettito fiscale è un indicatore che aiuta a comprendere l’elevato livello di tassazione a cui sono sottoposte le aziende. Si tenga presente che le imposte italiane considerate in questa analisi su dati Eurostat sono: l’Irap, l’Ires, la quota dell’Irpef in capo ai lavoratori autonomi, le ritenute sui dividendi e sugli interessi e le imposte da capital gain. L’istituto di statistica europeo, però, non considera altre forme di prelievo per le quali non è possibile effettuare un confronto omogeneo con gli altri paesi presi in esame in questa comparazione.
“Ci riferiamo ai contributi previdenziali, all’Imu/Tasi, al tributo sulla pubblicità, alle tasse sulle auto pagate dalle imprese, alle accise, ai diritti camerali. Possiamo quindi affermare con buona approssimazione che in questa elaborazione l’ammontare complessivo del carico fiscale sulle imprese italiane è certamente sottostimato. Con troppe tasse e pochi servizi – ha spiegato il segretario dell’associazione metrina, Renato Mason – è difficile fare impresa, creare lavoro e redistribuire ricchezza. Soprattutto per le piccole e piccolissime imprese che per loro natura non possono contare su strutture amministrative interne in grado di gestire le incombenze burocratiche, normative e fiscali che quotidianamente sono costrette a fronteggiare”.
La riprova che in Italia il peso dei tributi sulle imprese è troppo elevato emerge anche dai dati messi a disposizione dalla Banca Mondiale (Doing Business). Pur riconoscendo che da un punto di vista metodologico questa comparazione presenta una serie di limiti, l’Ufficio studi della Cgia sottolinea che in Italia il totale delle imposte pagate in percentuale sui profitti commerciali di un’impresa media è pari al 64,8 per cento. Nessun altro paese dell’euro zona subisce un’incidenza così elevata. La Francia, che si posiziona al secondo posto, si attesta al 62,7% e il Belgio, che presidia la terza posizione, è al 58,4%. Rispetto alla media dell’area dell’euro (43,6%) le imprese italiane scontano un differenziale di oltre 21 punti percentuali.
“Pur riconoscendo l’impegno profuso dal Governo Renzi – ha aggiunto Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi dell’associazione – le imprese italiane continuano ad avere un total tax rate che non ha eguali nel resto d’Europa. Pertanto, è necessario che l’esecutivo, in attesa delle riduzioni dell’Ires e dell’Irpef, attui da subito una moratoria fiscale che sterilizzi qualsiasi aumento di tassazione a livello nazionale e locale ed eviti, come purtroppo è successo negli ultimi 2 anni per i trasporti, la diminuzione delle deduzioni/detrazioni fiscali che si sono tradotte nell’ennesimo aumento di imposta per moltissimi imprenditori”.
La situazione migliora, anche si di poco, se analizziamo la pressione fiscale generale in percentuale del Pil che grava su ogni paese. Ad eccezione della Francia e dei paesi del nord Europa, il confronto con i principali partner economici ci vede notevolmente penalizzati. Se il peso delle tasse e dei contributi previdenziali che ricadono sui contribuenti italiani si è attestato nel 2015 al 43,5% del Pil, in Germania (39,6%) è inferiore di quasi 4 punti, nei Paesi Bassi (37,8%) di 5,7 punti, nel Regno Unito (34,8%) di 8,7 punti e in Spagna (34,6%) di quasi quasi 9.
tratto da: http://siamolagente2016.blogspot.it/2017/03/italia-da-record-15-anni-di-tagli-delle.html

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Italia da Record, 15 anni di tagli delle tasse, ormai non paghiamo quasi niente …ma proprio non Vi sentite presi per il c…?

 

Sta per partire la campagna elettorale. E partono da parte di Renzi e Berlusconi le promesse di tagliare (ancora) le tasse!
Ma non Vi sentite fortunati?
Sono 15 anni di continui tagli. Ormai non paghiamo più un cazzo!
Vero?
No?
…E allora…
Non Vi viene il sospetto di essere presi un tantino per il culo??
Pressione fiscale in Europa: Italia al primo posto!
Le imprese italiane, al netto dei contributi previdenziali, pagano 98 miliardi di tasse all’anno. Tra i principali paesi Ue, denuncia l’Ufficio studi della Cgia, solo le aziende tedesche e quelle francesi versano in termini assoluti più delle nostre, rispettivamente 131 e 103,6 miliardi di euro, ma va ricordato che la Germania conta una popolazione di 80 milioni di abitanti, la Francia 66 e l’Italia 60. Il peso della tassazione sulle imprese italiane è tuttavia massimo in Ue e ciò si evince calcolando la percentuale delle tasse pagate dalle imprese sul gettito fiscale totale: l’Italia si piazza al primo posto (14%), sul secondo gradino del podio si posiziona l’Olanda (13,1%) e sul terzo il Belgio (12,2%). Tra i nostri principali avversari segnaliamo che la Germania registra l’11,8%, la Spagna il 10,8%, la Francia e il Regno Unito il 10,6 per cento. La media Ue, invece, è dell’11,4%.
La stessa Cgia ha chiarito che l’incidenza percentuale delle tasse pagate dalle imprese sul totale del gettito fiscale è un indicatore che aiuta a comprendere l’elevato livello di tassazione a cui sono sottoposte le aziende. Si tenga presente che le imposte italiane considerate in questa analisi su dati Eurostat sono: l’Irap, l’Ires, la quota dell’Irpef in capo ai lavoratori autonomi, le ritenute sui dividendi e sugli interessi e le imposte da capital gain. L’istituto di statistica europeo, però, non considera altre forme di prelievo per le quali non è possibile effettuare un confronto omogeneo con gli altri paesi presi in esame in questa comparazione.
“Ci riferiamo ai contributi previdenziali, all’Imu/Tasi, al tributo sulla pubblicità, alle tasse sulle auto pagate dalle imprese, alle accise, ai diritti camerali. Possiamo quindi affermare con buona approssimazione che in questa elaborazione l’ammontare complessivo del carico fiscale sulle imprese italiane è certamente sottostimato. Con troppe tasse e pochi servizi – ha spiegato il segretario dell’associazione metrina, Renato Mason – è difficile fare impresa, creare lavoro e redistribuire ricchezza. Soprattutto per le piccole e piccolissime imprese che per loro natura non possono contare su strutture amministrative interne in grado di gestire le incombenze burocratiche, normative e fiscali che quotidianamente sono costrette a fronteggiare”.
La riprova che in Italia il peso dei tributi sulle imprese è troppo elevato emerge anche dai dati messi a disposizione dalla Banca Mondiale (Doing Business). Pur riconoscendo che da un punto di vista metodologico questa comparazione presenta una serie di limiti, l’Ufficio studi della Cgia sottolinea che in Italia il totale delle imposte pagate in percentuale sui profitti commerciali di un’impresa media è pari al 64,8 per cento. Nessun altro paese dell’euro zona subisce un’incidenza così elevata. La Francia, che si posiziona al secondo posto, si attesta al 62,7% e il Belgio, che presidia la terza posizione, è al 58,4%. Rispetto alla media dell’area dell’euro (43,6%) le imprese italiane scontano un differenziale di oltre 21 punti percentuali.
“Pur riconoscendo l’impegno profuso dal Governo Renzi – ha aggiunto Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi dell’associazione – le imprese italiane continuano ad avere un total tax rate che non ha eguali nel resto d’Europa. Pertanto, è necessario che l’esecutivo, in attesa delle riduzioni dell’Ires e dell’Irpef, attui da subito una moratoria fiscale che sterilizzi qualsiasi aumento di tassazione a livello nazionale e locale ed eviti, come purtroppo è successo negli ultimi 2 anni per i trasporti, la diminuzione delle deduzioni/detrazioni fiscali che si sono tradotte nell’ennesimo aumento di imposta per moltissimi imprenditori”.
La situazione migliora, anche si di poco, se analizziamo la pressione fiscale generale in percentuale del Pil che grava su ogni paese. Ad eccezione della Francia e dei paesi del nord Europa, il confronto con i principali partner economici ci vede notevolmente penalizzati. Se il peso delle tasse e dei contributi previdenziali che ricadono sui contribuenti italiani si è attestato nel 2015 al 43,5% del Pil, in Germania (39,6%) è inferiore di quasi 4 punti, nei Paesi Bassi (37,8%) di 5,7 punti, nel Regno Unito (34,8%) di 8,7 punti e in Spagna (34,6%) di quasi quasi 9.
tratto da: http://siamolagente2016.blogspot.it/2017/03/italia-da-record-15-anni-di-tagli-delle.html

Afghanistan, Gino Strada: Siamo in guerra da anni e non se ne parla più. Non ci dicono che il nostro paese è in guerra. Non ci dicono cosa ci fanno in nostri militari in Afghanistan. Non ci dicono che i feriti sono aumentati del 160%. Qual è l’obiettivo?

 

Gino Strada

 

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Afghanistan, Gino Strada: Siamo in guerra da anni e non se ne parla più. Non ci dicono che il nostro paese è in guerra. Non ci dicono cosa ci fanno in nostri militari in Afghanistan. Non ci dicono che i feriti sono aumentati del 160%. Qual è l’obiettivo?

 

 

Gino Strada intervistato da Diego Bianchi a #propagandalive (La7): ‘Noi siamo in guerra in Afghanistan da anni e anni e non se ne parla più. Non si dice che il nostro paese è in guerra. Cosa ci fanno militari italiani a combattere e sparare in Afghanistan?’ Qual è l’obiettivo? 

Ma non è l’unico tema che tocca Gino strada:

Liberi e Uguali, Gino Strada: “Usino più persone quelle due parole. Europa? Meschina e gretta, non le importa destino migranti”

Liberi e Uguali? Queste due parole fanno parte della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Non c’è nessun copyright da parte di nessuno. Anzi, le usassero più persone, più organizzazioni, più istituzioni: se la ricordassero questa cosa di liberi e uguali in dignità e in diritti“. Sono le parole del fondatore di Emergency, Gino Strada, ospite di Propaganda Live, su La7. Il medico risponde a una domanda del conduttore Diego Bianchi circa la somiglianza del simbolo della coalizione di sinistra capeggiata da Pietro Grasso e la campagna di Emergency del 2012: “Non c’è nessun plagio. La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo è uno dei più alti punti del pensiero nella storia dell’umanità”. Sulla legge sul biotestamento, osserva: “Era ora. In Italia purtroppo siamo abituati a far passare per delle conquiste epocali delle cose che sono veramente il minimo indispensabile“. Inevitabile il tema dei migranti e delle Ong: “Ho trovato una uniformità di pensiero deprimente da parte di tutte le forze politiche. Riguardo alla politica del ministero dell’Interno, noi di Emergency l’abbiamo definita ‘un atto di guerra contro i migranti’, perché è davvero un atto di guerra. Poi ovviamente si costruiscono ulteriori bugie, come l’esprimere soddisfazione per i risultati straordinari raggiunti. E quale sarebbe il risultato straordinario? Il fatto che siano arrivati meno migranti”. E rincara: “Sarebbe questo il grande risultato? A prescindere dal fatto che queste persone stiano bene o siano state massacrate o stuprate o imprigionate? L’interesse di questa Europa gretta e meschina è che non arrivino più i migranti. L’interesse non è che muoiano o che soffrano, ma che non ci rompano più le palle. Noi, nella nostra grandissima intelligenza politica alla Minniti, pensiamo di poter fermare l’immigrazione. Ecco, direi di alzare il tiro: facciamo in modo che il sole non sorga più per due mesi. Questi sono pazzi”. Strada chiosa: “C’è stata una campagna diffamatoria contro le Ong, campagna in cui si vuole criminalizzare le organizzazioni semplicemente perché vogliono salvare qualcuno. Ma il criminale è chi non vuole salvare qualcuno”

Da Il Fatto Quotidiano

Cosa potrebbe accadere se usciamo dall’Euro? Ce lo spiega l’Islanda che senza Euro si è liberata della crisi ed ora ha un PIL che cresce del 3% l’anno !!

 

Euro

 

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Cosa potrebbe accadere se usciamo dall’Euro? Ce lo spiega l’Islanda che senza Euro si è liberata della crisi ed ora ha un PIL che cresce del 3% l’anno !!

C’era un paese che aveva nei confronti delle potenti banche estere un debito di diversi miliardi, pari a decine di migliaia di euro di debito a carico di ciascun cittadino! Le banche creditrici, appoggiate dal governo, hanno proposto misure drastiche a carico dei cittadini, che ciascun cittadino avrebbe dovuto pagare con tasse e/o minori servizi, qualcosa come 100 euro al mese per 15 anni! I cittadini sfiduciarono il governo, si fece strada l’idea che non era giusto che tutti dovessero pagare per errori e ruberie commessi da un manipolo di banchieri e politici, decisero poi di fare un referendum che con oltre il 90% dei consensi stabilì che non si dovesse pagare il debito.
Nazionalizzarono quindi le banche (prima private) che avevano portato a questo disastro economico e, tramite Internet, decisero di riscrivere la Costituzione (prevedendo anche che l’economia fosse al servizio del cittadino e non viceversa). Per riscrivere la nuova costituzione vennero scelti dei cittadini che dovevano essere maggiorenni, avere l’appoggio di almeno 30 persone e NON AVERE LA TESSERA di ALCUN PARTITO!Chiunque poteva seguire i progressi della Costituzione davanti ai propri occhi. Le riunioni del Consiglio erano trasmesse in streaming online e chiunque poteva commentare le bozze e lanciare da casa le proprie proposte. Veniva così ribaltato il concetto per cui le basi di una nazione vanno poste in stanze buie e segrete, per mano di pochi saggi. Sembra una favola vero? Ma non lo è affatto!
Nonostante tutto, a sentire i parassiti di Bruxelles la decisione dell’Islanda di rimanere fuori dall’Unione Europea sarebbe un errore colossale visto che tale rifiuto condannerebbe i cittadini islandesi a decenni di povertà, declino e bassissima crescita economica, ma per loro sfortuna la matematica non è un’opinione e i dati recentemente rilasciati dall’istituto di statistica islandese danno un quadro completamente diverso.
E così mentre i paesi dell’area euro sono ancora impantanati in una recessione senza fine, per quest’anno l’economia islandese è destinata a crescere del 2.7%, nel 2015 del 3.3% e tra il 2016 e 2018 la crescita annua dovrebbe oscillare tra il 2.5 e il 2.9%.
A trascinare tale crescita è l’aumento dei consumi privati che quest’anno dovrebbe salire del 3.9% e del 4% nel 2015 per poi mantenersi al 3% annuo fino al 2018.
Quindi, mentre gli italiani sono costretti a rinunciare anche all’acquisto di beni essenziali come pasta e pane, i cittadini islandesi possono permettersi di spendere qualcosina in più – si fa per dire, vero? – visto che non devono sottostare ai diktat della BCE e della Merkel.
Però c’è anche un altro motivo dietro alla crescita dei consumi, ed è legato alla decisione del governo islandese di condonare parte dei mutui detenuti dalle famiglie islandesi.
Infatti, come sopra citato,subito dopo la bancarotta delle tre principali banche islandesi il governo decise nazionalizzare queste banche e ridurre parte dei mutui ad esse dovute – tagliando di molto gli interessi sui prestiti concessi – così da dare un pò di ossigeno alle famiglie islandesi colpite dalla crisi.
Tale decisione all’epoca fu fortemente criticata dalle agenzie di rating – e dalle banche straniere che perdevano lauti “guadagni” usurai – ma i politici islandesi se ne sono altamente fregati e adesso gli effetti benefici di tale decisione cominciano a farsi sentire.
Quello che sta succedendo in Islanda è un esempio da manuale su come vada gestito un paese per farlo uscire dalla crisi finanziaria, ma ovviamente la stampa di regime italiana ha censurato questa storia perché la verità dà fastidio ai parassiti di Bruxelles e ai loro burattini del governo Renzi, ad iniziare dal ministro dell’Economia Padoan.
by Eles
fonte: http://siamolagente2016.blogspot.it/2017/03/cosa-potrebbe-accadere-se-usciamo.html

 

In pensione a 67 anni: siamo i più sfigati d’Europa

 

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In pensione a 67 anni: siamo i più sfigati d’Europa

 

In Italia il requisito per l’accesso alla pensione è il più alto d’Europa. E nel 2019 si andrà in pensione ancora più tardi. L’innalzamento a 67 anni di età ci colloca all’ultimo posto fra i 28 Paesi europei, sia per quanto riguarda gli uomini che le donne. In Francia si va in pensione a 62 anni, in Svezia a 61, in Spagna e Austria a 65, in Germania a 65 e 6 mesi. Solo la Grecia ci eguaglia. La fonte è il “Sistema di informazione reciproca sulla protezione sociale nell’Unione europea, che offre informazioni dettagliate e aggiornate sui sistemi previdenziali dei Paesi europei.

TABELLA. L’età pensionabile nei Paesi membri dell’Unione europea. L’Italia è ultima.

Con l’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni, il governo italiano piega ancora un volta la testa ai diktat dei falchi dell’austerity. Ne è la prova la lettera indirizzata alle autorità italiane del vicepresidente della Commissione europea Dombrovskis in cui chiede di “attenersi alle importanti riforme di bilancio strutturali” concordate e cioè proprio l’ennesima mazzata ai cittadini italiani sulle pensioni.

Da questa (contro) riforma le donne sono le più penalizzate, perché dal 2019 andranno in pensione a 67 anni come per gli uomini, mentre in molti altri Paesi le donne sono più tutelate. Noi siamo contro l’automatismo che lega l’aumento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita. Al Parlamento europeo, durante il dibattito sulla risoluzione su “Necessità di una strategia dell’UE per eliminare e prevenire i divari pensionistici di genere“, Laura Agea ha presentato un emendamento in cui “deplora la Commissione e la sua tendenza comune a sollecitare negli Stati membri un progressivo innalzamento dell’età pensionabile che non consente il ricambio generazionale né permette un equilibrio tra la vita privata e lavorativa, tanto più in relazione ai lavori più usuranti che molto spesso sono svolti proprio dalle donne”.

da: http://www.efdd-m5seuropa.com/2017/11/in-pensione-a-67-ann.html