Vi spieghiamo cosa è il capitalismo: Coca-Cola e Pepsi guadagnano milioni negli Usa imbottigliando l’acqua di rubinetto. Se un americano non paga la bolletta gli tagliano l’acqua. Loro, invece, pagano quando e come vogliono!

 

capitalismo

 

.

SEGUICI SULLA PAGINA FACEBOOK Banda Bassotti

.

.

Vi spieghiamo cosa è il capitalismo: Coca-Cola e Pepsi guadagnano milioni negli Usa imbottigliando l’acqua di rubinetto. Se un americano non paga la bolletta gli tagliano l’acqua. Loro, invece, pagano quando e come vogliono!

Coca-Cola produce una serie di bevande negli Stati Uniti, tra cui l’acqua in bottiglia di Dasani che ha generato oltre 1 miliardo di dollari di vendite negli Stati Uniti nell’ultimo anno, secondo la società di ricerche di mercato IRI. Peccato, come rivela una lunga inchiesta (in inglese qui l’integrale) di Ryan Felton per Consumer Reports, che la maggior parte dell’acqua in bottiglia venduta negli Stati Uniti provenga dalle stesse fonti municipali che forniscono acqua di rubinetto, un fatto che potrebbe essere sconosciuto alla maggior parte dei consumatori. La Coca-Cola produce Dasani nello stabilimento di Detroit della società acquistando, trattando e imbottigliando l’acqua municipale prima di venderla con un significativo aumento dei costi per i consumatori. Pepsi imbottiglia il suo marchio di acqua Aquafina a Detroit allo stesso modo.

Il modello di business è estremamente redditizio. Il costo per acquistare quell’acqua municipale è estremamente basso e, una volta imbottigliato, il markup può essere circa 133 volte maggiore, secondo un’analisi dei rapporti dei consumatori sulla fatturazione e sui registri di utilizzo dell’azienda.

Da un punto di vista normativo, le aziende che vogliono mettere grandi quantità di acqua pubblica in bottiglie a scopo di lucro affrontano pochi ostacoli e costi accessori minimi, portando alcuni esperti a richiedere più tasse sugli imbottigliatori. E poiché l’approvvigionamento idrico, inclusi i processi e le infrastrutture su cui si basano gli imbottigliatori, è pagato dai contribuenti locali, le attività delle società sono sovvenzionate dal pubblico, sostengono i rappresentanti dei consumatori.

“Questi imbottigliatori ricevono acqua a basso costo sovvenzionata dai contribuenti e poi si voltano e lo vendono al pubblico con un significativo markup”, afferma Brian Ronholm, direttore della politica alimentare di Consumer reports.

Un ricarico enorme a spese del pubblico

Aquafina e Dasani continuano a incrementare le vendite rispettivamente per Pepsi e Coca-Cola. L’anno scorso, secondo i dati del settore, ogni azienda ha totalizzato 1 miliardo di dollari nelle vendite statunitensi dei propri marchi di acqua di rubinetto in bottiglia.

E i due big possono ringraziare la Food and Drug Administration e le autorità di regolamentazione statali, che insieme supervisionano l’acqua in bottiglia della nazione, per aver reso il processo di approvazione normativa un gioco da ragazzi.

Ad esempio, nel Michigan Coca-Cola e Pepsi hanno dovuto fornire la documentazione attestante che il Dipartimento di acqua e fognature di Detroit (DWSD) avesse certificato che la sua fonte di approvvigionamento di rubinetti è sicura. Hanno anche dovuto confermare che le loro strutture erano collegate al sistema di Detroit prima di pagare 25 dollari (avete capito bene) per un permesso di vendere un prodotto nello Stato.

Nulla di più facile, se si pensa che quando un’azienda vuole lanciare un marchio di acqua sorgiva, deve sottoporsi a un processo molto più complicato e costoso che include la ricerca di una fonte idrica sotterranea e la costruzione di macchinari per pompare l’acqua e l’infrastruttura per trasportarla in un impianto di lavorazione, oltre a superare gli ostacoli normativi per testare la sicurezza dell’acqua e approvarla.

Ai cittadini che non pagano le bollette sospendono l’acqua

Ma ciò che è buono per le imprese non è necessariamente buono per i consumatori, secondo Consumer Reports, che attraverso l’esame di centinaia di pagine di fatturazione e altri documenti ottenuti attraverso richieste di registri pubblici e interviste con esperti di diritto ambientale, consulenti del settore, residenti di Detroit e sostenitori dei consumatori, ha scoperto che imbottigliatori e  consumatori non sono sempre trattati come uguali dai servizi idrici. A Detroit, la cui politica prima della crisi del coronavirus prevedeva il distacco del servizio di acqua ai residenti se fossero rimasti indietro di 150 dollari nelle bollette dell’acqua, si stima che 2.800 case fossero senza acqua corrente all’inizio della pandemia.

Ma a Coca-cola e Pepsi no

Ma gli imbottigliatori di Detroit hanno anche accumulato decine di migliaia di dollari di bollette dell’acqua scadute che non sono state pagate per mesi. Non una volta il loro accesso all’acqua è stato chiuso durante il periodo che hanno esaminato i giornalisti della principale organizzazione di consumatori nordamericana. Alla domanda sul perché, la città ha citato la solida storia dei pagamenti delle società e la capacità di pagare le bollette. Tranne poi dichiarare che aveva commesso errori nella raccolta dei saldi scaduti.

Mentre l’amministrazione di Detroit sospendeva l’erogazione ai consumatori rei di  aver fatto passare 60 giorni con una bolletta non pagata da 150 dollari in su (pratica solo sospesa in tempi di lockdown), i registri mostrano che tra aprile e luglio 2017 la Coca-Cola ha avuto una bolletta di 77.600 che è rimasta non pagata per tre mesi. Da agosto a novembre di quell’anno, invece, aveva accumulato un debito di 287.250 prima di ripagarlo. Da dicembre 2017 a marzo 2018, la società è rimasta indietro di cifre che variavano tra $ 1.860 e $ 108.170 prima di ripagarle interamente.

Nel frattempo, da dicembre 2018 a febbraio 2019, Pepsi non era da meno con cifre tra $ 1.410 e $ 29.710 fino al suo pagamento. E la città non ha mai chiuso l’acqua delle aziende e l’imbottigliamento è continuato.

Coca-Cola e Pepsi non hanno risposto alle domande di CR sul perché sono passati mesi senza pagare le bollette.

La saggezza di José Mujica ci indica la strada per battere il Coronavirus e il virus del capitalismo

 

José Mujica

 

 

.

.

SEGUICI SULLA PAGINA FACEBOOK Banda Bassotti

.

 

.

La saggezza di José Mujica ci indica la strada per battere il Coronavirus e il virus del capitalismo

L’ex presidente dell’Uruguay ha detto: “Non sarà il virus a sconfiggere il capitalismo. A quello ci debbono pensare gli uomini che l’hanno creato”.

Chi lo ha detto che i saggi non esistono più? Chi lo ha detto che nel mondo non ci sono politici illuminati, coerenti e morali, con la coscienza limpida quanto l’intelligenza?

Prendi José “Pepe” Mujica, presidente emerito dell’Uruguay. Il suo percorso umano e politico, le prese di posizione, i fatti che ne hanno segnato la vita pubblica e l’impatto che hanno avuto sul suo Paese testimoniano di un uomo straordinario. Un uomo integerrimo e passionale che ad ogni parola suscita emozioni, stimola riflessioni. Il suo libro Una pecora nera arriva al potere è un distillato di insegnamenti, trasuda una saggezza maturata in anni di lotte e di esperienze, un testo da distribuire nelle scuole, da spacciare tra i giovani, gli unici in grado di immaginare e realizzare un futuro migliore.

Bene, Mujica è tornato a parlare. Qualche giorno fa ha rilasciato un’intervista in video chiamata a Jordi Évole, personaggio pubblico e ideatore del programma tv “Lo de Évole”, in questi giorni sul web per le condizioni imposte dal coronavirus.

Seduto davanti al suo pc, una felpa rosa sul corpaccione, il volto pieno da contadino magnificato dalla telecamera, la candida chioma scompigliata e gli iconici baffetti grigi, l’anziano politico ha parlato dell’emergenza in atto, di questo mondo in ginocchio e del sistema che lo governa, delle nuove abitudini, delle nuove priorità, del futuro. E lo ha fatto con la consueta passione, accendendosi di rabbia, sussultando di indignazione, ricorrendo al suo linguaggio colorito ma dalla precisione chirurgica.

Il giornalista spara subito la sua domanda: “Il coronavirus metterà fine alla globalizzazione capitalista?” Mujica non fa attendere la sua risposta: “Non sarà il virus a decretare la fine del capitalismo. Questa deve venire dalla volontà organizzata degli uomini, che sono stati quelli che lo hanno creato: è l’uomo che deve distruggerlo. Il dio mercato è la religione fanatica del nostro tempo, governa tutto”. Caro, vecchio Mujica, lucido come sempre.
E come sempre battagliero: “Non so se sia una situazione reversibile, ma dobbiamo lottare affinché lo diventi. Questo virus ci spaventa e prendiamo un certo grado di misure quasi eroiche. Sul piano del mercato, della globalizzazione bisognerebbe rispettare determinati parametri”.

Évole insiste: “Pensa che da questa pandemia possa uscire qualcosa di buono?”

“Grazie a questo spavento generale potrebbe emergere un po’ più di generosità e meno egoismo” concede l’anziano presidente. “Ma mi domando perché i vecchietti continuino ad accumulare denaro. Parlo di miliardari, di gente che concentra la ricchezza”. Già, i cronici, irrisolti problemi dell’umanità: la sperequazione delle risorse, l’ingiustizia sociale e lo sfruttamento: mali che risalgono alla notte dei tempi e che dei farabutti mascherati da politici e da intellettuali hanno cercato di darci a bere che fossero stati debellati.

“Non siamo in guerra” prosegue Mujica nella sua analisi di questo triste tempo, “questa è una sfida che la biologia ci pone per ricordarci che non siamo i proprietari assoluti del mondo come ci sembra. Questa crisi così grave può servire per ricordarci che i problemi globali sono anche i nostri problemi. Dobbiamo combattere l’egoismo che ci portiamo dentro al fine di superare il coronavirus, dobbiamo diventare socialmente uniti gli uni agli altri”. La voce del saggio: senza la solidarietà, la fratellanza, l’uguaglianza, l’uomo è condannato a perire. Dai mali bisogna trarre degli insegnamenti, per non ripetere gli errori commessi: dov’è altrimenti la tanto sbandierata intelligenza umana?

Ma al miele di queste parole, Mujica aggiunge il vetriolo, scagliandosi contro i leader mondiali sordi al pericolo del riscaldamento globale: “Non è un problema ecologico ma politico. Mai l’uomo ha avuto così tante risorse, capacità o capitale per fermarlo. Stiamo andando verso un ‘olocausto ecologico’ e stanno preparando una padella gigantesca per friggerci”. Più chiaro di così.

Poi il vecchio saggio zoomma su noi tutti, che come lui stiamo vivendo questa nuova e inquietante esperienza della quarantena forzata, prova a darci coraggio e ad indicarci la via: “La peggiore solitudine è quella che abbiamo dentro, è tempo di meditare. Parla con te stesso e cerca di immaginare una finestra sul cielo. Finché avrai una ragione per vivere e combattere, non avrai tempo per la tristezza”.

Grazie, maestro. Che le tue parole siano accolte e interiorizzate da noi tutti, e che ci diano la forza di cambiare questo mondo folle che abbiamo edificato.

fonte: https://www.globalist.it/world/2020/04/03/la-saggezza-di-mujica-ci-indica-la-strada-per-battere-il-coronavirus-e-il-virus-del-capitalismo-2055511.html

Come il capitalismo sta sfruttando il cambiamento climatico per fare soldi

 

 

capitalismo

 

.

.

SEGUICI SULLA PAGINA FACEBOOK Banda Bassotti

.

.

 

Come il capitalismo sta sfruttando il cambiamento climatico per fare soldi

Il 2019 è stato il secondo anno più caldo mai registrato nella storia. Più ci si avvicina ai Poli e più gli effetti sono drammatici: al Circolo Polare Artico il livello di surriscaldamento può essere anche doppio rispetto alle nostre latitudini, perché senza neve solo il 5% dell’energia solare viene riflessa, contro il normale 85-95%. Le immagini satellitari della Groenlandia raccolte tra il 1992 e il 2018 hanno evidenziato un ritmo di scioglimento dei ghiacci nella regione di molto superiore alle previsioni. Nella finestra temporale considerata la Groenlandia ha perso circa 3.800 miliardi di tonnellate di ghiacciai – riporta uno studio pubblicato su Nature – con un conseguente innalzamento globale del livello dei mari di circa 10 millimetri. Entro il 2100 le acque potrebbero ancora salire tra i 50 e i 120 millimetri: per tante specie animali questo significa la scomparsa del loro habitat e la condanna a morte per fame, mentre per il Pianeta conoscerà un meteo imprevedibile. Per 400 milioni di persone ogni anno il rischio di essere vittime di alluvioni e allagamenti diventerà sempre più concreto. Ma davanti a questo scenario molti preferiscono pensare ai vantaggi e ai guadagni nello sfruttare la regione Artica, dove si trova il 40% delle risorse globali di idrocarburi rimaste.

La Groenlandia – fino a ora dipendente dai fondi provenienti dalla Danimarca, da cui è solo parzialmente autonoma – è oggi, per armatori e compagnie di estrazione, il nuovo Eldorado. Il disgelo in questa terra inospitale consente un più facile accesso a terre rare e giacimenti di gas. La Groenlandia sarà sempre di più un punto nevralgico nei commerci mondiali tra Europa e Asia lungo le rotte del Polo Nord. Quella che è stata battezzata Northern sea route è un’alternativa sempre più allettante al passaggio per il Canale di Suez: fino al 30-40% più corta di quest’ultimo – dove ogni anno transitano 18mila imbarcazioni – dura solo una decina di giorni. Se il ritmo di scioglimento dei ghiacci continuerà a quello attuale, a breve sentiremo anche parlare della rotta transpolare, di ben due terzi più breve rispetto a quella di Suez.

La Russia, grazie alla sua posizione, è già pronta ad approfittarne: fornirà le infrastrutture e le navi rompighiaccio con la prospettiva di imporre tariffe per il passaggio. Nel 2014 l’ambasciatore russo per gli affari artici Anton Vasiliev, al convegno Arctic Frontiers – che riunisce politici, ricercatori, società civile e rappresentanti delle popolazioni indigene del Nord – ha promesso la costruzione di tre navi rompighiaccio a propulsione atomica e cinque a diesel, oltre a dieci centri di ricerca e soccorso e alla ristrutturazione di altrettanti porti che si affacciano sull’Oceano Artico. Anche gli altri Paesi che vi si affacciano vogliono la loro parte di profitto, approfittando della Convenzione Onu sul diritto del mare. Secondo la carta, gli Stati costieri possono rivendicare porzioni di crosta continentale sommersa secondo criteri scientifici. La Norvegia ha così ottenuto vasti territori nel mare di Barents, nel mar di Norvegia e nel bacino occidentale di Nansen, concedendo varie licenze di esplorazione, anche all’Eni. Nel frattempo, i cavi sottomarini per la fibra ottica vengono tirati dalla Finlandia al Giappone, per connettere anche l’estremo nord alla rete globale.

Se la Northern sea route riduce il consumo di energia per il trasporto, provoca però un aumento dell’inquinamento nel fragile ecosistema artico, contribuendo a sua volta ad accelerare lo scioglimento dei ghiacci, senza contare il rischio di perdite di carburante e il problema dello smaltimento delle scorie. Nonostante le preoccupazioni delle popolazioni indigene coinvolte, tra cui gli Inuit della Groenlandia e i Sami della Lapponia, sono in troppi a concordare con l’opinione dell’ex premier groenlandese Aleqa Hammond, che riconosce come “In Groenlandia i vantaggi dell’effetto serra sono maggiori degli svantaggi”. Tradotto, meglio guadagnare ora che preoccuparsi dei disastri ambientali – e, quindi, sociali, economici e sanitari – di domani.

Nel caso della Groenlandia, lo sfruttamento delle risorse può essere la chiave economica per permettersi l’indipendenza dalla Danimarca. Una ghiotta prospettiva di arricchimento per un Paese funestato da disoccupazione, alcolismo, violenza domestica e suicidi giovanili. Aqqaluk Lynge, tra i fondatori del partito Ataqatigiit al governo fino al 2013, ha riassunto: “Se vuoi diventare ricco devi pagare un prezzo”. E se al suo partito questa opzione non piaceva, le cose sono cambiate nel 2013 con il nuovo governo del partito Siumut, che ha revocato i precedenti divieti di attività mineraria sull’isola. “La decisione che abbiamo preso […] avrà enormi conseguenze sullo stile di vita e la cultura indigena. Ma alla fine supereremo tutto. Siamo vulnerabili, ma sappiamo adattarci”, sono state le parole di Hammond. In questo modo la Groenlandia si è aperta alle speculazioni di investitori stranieri, compagnie asiatiche e multinazionali: nel sud del Paese, a Kvanefjeld, esiste già una miniera di terre rare e uranio gestita da un consorzio sino-australiano, mentre altri progetti da miliardi di dollari sono in fase di discussione e costruzione.

Anche il settore agricolo rischia di essere stravolto dal surriscaldamento globale, e a guadagnarci saranno le nazioni più fredde (Russia e Canada in primis, oltre alla Scandinavia), dove aumento delle temperature e prolungamento della stagione di crescita garantiscono raccolti più ricchi e la sopravvivenza di specie animali un tempo inadatte ai climi più rigidi. In Canada, per esempio, sempre più coltivatori piantano granturco: se oggi la “fascia del mais” è negli Stati Uniti, tra Iowa, Illinois e Indiana, in 50 anni potrebbe spostarsi nella Baia di Hudson, in Canada, che nel frattempo investe sulla coltivazione della soia. Cambia anche la geografia del vino: mentre in Italia, Spagna e Francia meridionale i raccolti sono già minacciati da siccità prolungate ed eventi atmosferici estremi – e secondo uno studio le aree vitivinicole più note entro il 2050 potrebbero ridurre le aree di produzione tra il 20 e il 70% – nell’Europa centro-settentrionale si iniziano a piantare vigneti dove fino a qualche anno fa sarebbe stato impossibile. Se l’irregolarità del meteo deve preoccupare tutti, per il momento del climate change beneficiano i viticoltori tedeschi, sulle cui terre il clima garantisce la crescita di uve gustose e zuccherine. Il periodo della vendemmia cade sempre prima e qualcuno ha già provato a piantare uve Riesling in Norvegia. E le raccoglie mature, tanto che l’ipotesi di una bottiglia di vino scandinavo non è più fantascienza. Da noi, invece, presto le estati saranno troppo secche perché l’uva cresca senza irrigazione artificiale, rendendola in molti casi insostenibile sui piani economico e ambientale. Ovviamente gli eventi atmosferici estremi possono vanificare da un momento all’altro i vantaggi ottenuti, ma ancora una volta vince la filosofia di approfittare dei guadagni a breve termine piuttosto che preoccuparsi delle prospettive future.

Nemmeno il terziario si lascia scappare l’occasione fornita dal climate change a un’altra delle grande industrie del XXI secolo: il turismo. È in espansione il last chance tourism, l’ultima occasione di visitare luoghi incontaminati, una delle ghiotte opportunità derivate dallo scioglimento dei ghiacci artici. L’Islanda è da qualche anno presa d’assalto da un turismo spinto dal fenomeno Game of Thrones, con gruppi di sprovveduti che chiedono a che ora viene accesa l’aurora boreale, come racconta lo scrittore Hallgrímur Helgason. Ma se il boom del turismo islandese mostra già segni di declino e il Paese si preoccupa di come sostituire la fonte di reddito che l’ha aiutato a risollevarsi dalla bancarotta, i tour operato guardano a nord. Le navi da crociera progettate per l’Egeo, il Mediterraneo o i mari tropicali si avventurano lungo le coste della Groenlandia e delle isole Svalbard. Questa ricerca delle emozioni forti per compiacere i turisti, arrivando a sfiorare gli iceberg, aumenta però il rischio di incidenti gravi in un’area dove i soccorsi possono impiegare anche tre ore a raggiungere una nave in avaria, sempre che le comunicazioni funzionino.

Chi ha solo da perdere per l’emergenza climatica sono come sempre i più poveri. Il climate change infatti allarga il gap tra gli Stati ricchi e in via di sviluppo del mondo, che è maggiore del 25% di quanto sarebbe senza il surriscaldamento globale. La fascia tropicale africana e la più colpita, con un Pil pro capite fino al 40% più basso di come sarebbe stato senza l’aumento delle temperature. Tra il 1961 e il 2010, tutti i Paesi responsabili di meno di 10 tonnellate di anidride carbonica pro capite di emissioni storiche globali hanno sofferto gli effetti del cambiamento climatico con una riduzione del Pil pro capite del 27%. Negli stessi anni, quattro dei 19 Paesi colpevoli di oltre 300 tonnellate di anidride pro capite hanno conosciuto un aumento del Pil pro capite del 13%. Sul lungo periodo il climate change non può che danneggiare tutti, ma le sue disastrose conseguenze per ora non sembrano preoccupare gli investitori, mossi solo dalle possibilità di guadagno a breve termine. Ancora una volta, l’avidità di un ristretto gruppo di persone, sta condannando il futuro di tutto il Pianeta e dei suoi sette miliardi di abitanti.

di Silvia su The Vision
fonte: https://thevision.com/habitat/capitalismo-cambiamento-climatico/