Andrea Camilleri: Salvini ricordi Mussolini, acclamato e poi finito a testa in giù…!

 

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Andrea Camilleri: Salvini ricordi Mussolini, acclamato e poi finito a testa in giù…!

Lo scrittore a Radio Capital avvisa: “Rischiamo di tornare al fascismo”. E sui 5 Stelle: “Subalterni alla Lega”

Il padre del commissario Montalbano, Andrea Camilleri, a 90 anni ha la memoria perfetta. E a Radio Capital, alla ripresa del programma “Circo Massimo” di Massimo Giannini, ricorda nitidamente di aver vissuto a sufficienza da aver sentito “le acclamazioni a Benito Mussolini dalle stesse persone che l’appesero. Attenzione ai grandi consensi: è facile passare dalla grandissima passione amorosa all’odio. Al posto di Salvini avrei paura di tutto questo consenso”. Il rimando alla dittatura del Duce non è casuale. Lo preoccupa molto che il fascismo possa rinascere: “Rischiamo di tornarci. Molto spesso – ha detto alla radio – vengono a trovarmi ragazzi del liceo e mi chiedono di spiegargli il fascismo. Mi atterrisce che la scuola o chi ne fa le veci non spenda una parola, o la spenda male, sul fascismo. E ho paura che l’araba fenice possa rinascere, non dalle sue ceneri ma dall’ignoranza”.
“Quelli del M5S non hanno spinta ideale”
Camilleri non risparmia neanche i pentastellati. Non prova per loro “nessuna simpatia. Sono bastati pochi mesi di governo per dimostrare la loro subalternità alla Lega. All’interno non hanno spinta ideale. Di certo non hanno preso provvedimenti di sinistra… Salvini impera e fa dei diktat, mentre il M5S va a rimorchio: se poteva avere una funzione, non l’ha voluta esplicare. O, peggio ancora, non l’ha potuta esplicare”.
A un governo di destra purtroppo non si contrappone una sinistra con sufficiente vigore e vitalità. “È problematico dire che esiste ancora, ma ha ancora ragion d’essere, e per questo sono certo che resisterà”, risponde lo scrittore. Che intende restituire alcune delle tantissime onorificenze ricevute. “Anni fa il governo ungherese mi mandò un attestato, che conservo appeso al muro del mio studio, in cui mi ringraziavano per l’aiuto ai profughi ungheresi. Visto quello che sta facendo Orban, vorrei restituire anche questo. Alzare muri non significa solo chiudersi in casa con il proprio nemico ma mettersi dentro una cassa da morto. L’avvenire è per forza di cose un rinnovamento di pensiero. Se rifiutiamo questo, ci chiudiamo in una bara”.

 

fonte: https://www.globalist.it/storia/2018/09/10/camilleri-salvini-ricordi-mussolini-acclamato-e-poi-finito-a-testa-in-giu-2030552.html

L’amarezza di Camilleri: “intorno all’estremismo di Salvini vedo il consenso di Mussolini nel 1937 – Sto per lasciare una brutta eredità ai miei nipoti”

 

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L’amarezza di Camilleri: intorno all’estremismo di Salvini vedo il consenso di Mussolini nel 1937

Lo scrittore parla dei giorni giorni bui: questo è davvero un brutto passaggio nella storia italiana. Sto per lasciare una brutta eredità ai miei nipoti.

Parole amare, con la delusione nel vedere un paese incattivito e pieno di razzisti: “Non ho rimpianti per il passato. Però questo è davvero un brutto passaggio nella storia italiana che temo non abbia paragoni con altri periodi”. Lo ha dettolo scrittore Andrea Camilleri in un’intervista a ‘la Repubblica’, dove definisce l’Italia di oggi “un paese che torna indietro, come i gamberi. È come se avesse cominciato a procedere in senso inverso, smarrendo le importanti conquiste sociali che aveva realizzato in passato. Se devo essere sincero, io non riconosco più gli italiani”, dice.
E a proposito delle posizioni del ministro dell’Interno e leader della Lega, Matteo Salvini: “Non voglio fare paragoni – osserva Camilleri – ma intorno alle posizioni estremiste di Salvini avverto lo stesso consenso che a dodici anni, nel 1937, sentivo intorno a Mussolini. Ed è un brutto consenso perché fa venire alla luce il lato peggiore degli italiani, quello che abbiamo sempre nascosto”. Quale? “Prima di tutto il razzismo. Noi ci siamo riparati dietro l’immagine stereotipata di ‘italiani brava gente’, ma non è sempre stato così, specie nell’Africa Orientale. Su questo preferisco sorvolare. Però ricordo ancora le scritte che mi accoglievano a Torino negli anni Sessanta quando andavo a lavorare nella sede Rai: ‘Non si affittano case ai meridionali'”.
“Una delle mie più grosse pene è proprio questa: a novantatré anni, a un passo dalla morte, mi trovo a lasciare a nipoti e pronipoti un’Italia che non mi aspettavo di lasciare in eredità. I miei uomini politici si chiamavano De Gasperi, Togliatti, Nenni, Sforza. Avevano un preciso concetto dello Stato e di quello che si poteva fare del paese. Abbiamo ricostruito l’Italia, ora la stiamo risfasciando. Per questa ragione sento di aver fallito come cittadino italiano. E mi pesa molto”, conclude Camilleri.

tratto da: https://www.globalist.it/politics/2018/07/08/l-amarezza-di-camilleri-intorno-all-estremismo-di-salvini-vedo-il-consenso-di-mussolini-nel-1937-2027538.html

Camilleri compie 92 anni – Vogliamo ricordare una sua presa di posizione: “Sono diventato quasi cieco, desidero l’eutanasia, ma al Referendum ci sarò. E voterò NO”

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Camilleri compie 92 anni – Vogliamo ricordare una sua presa di posizione: “Sono diventato quasi cieco, desidero l’eutanasia, ma al Referendum ci sarò. E voterò NO”

 

Intervista a Andrea Camilleri di Aldo Cazzullo, da il Corriere della Sera, 19 novembre 2016

Novantantun anni, 102 libri, 26 milioni di copie solo in Italia: Andrea Camilleri è lo scrittore più importante che abbiamo. «Vorrei l’ eutanasia, quando sarà il momento. La morte non mi fa paura. Ma dopo non c’ è niente. E niente di me resterà: sarò dimenticato, come sono stati dimenticati scrittori molto più grandi. E quindi mi viene voglia di prendere il viagra, di ringiovanire, pur di vivere ancora qualche anno, e vedere come va a finire. Vedere che presidente sarà Trump: uno tsunami mondiale, un Berlusconi moltiplicato per diecimila. E vedere cosa sarà del mio Paese».

«A guardare l’ Italia ridotta così, mi sento in colpa. Avrei voluto fare di più, impegnarmi di più. Nel Dopoguerra ci siamo combattuti duramente, ma avevamo lo stesso scopo: rimettere in piedi il Paese. Oggi quello spirito è scomparso».

Renzi non è un buon presidente del Consiglio?

«No. È un giocatore avventato e supponente. Mi fa paura quando racconta balle: ad esempio che il futuro dei nostri figli dipende dal referendum. Mi pare un gigantesco diversivo per realizzare un altro disegno».

Quale?

«Mi sfugge, ma c’ è».

Al referendum andrà a votare?

«Pur di votare No mi sottoporrò a due visite oculistiche, obbligatorie per entrare nella cabina elettorale accompagnato. Io le riforme le voglio: il Senato deve controllare la Camera, non esserne il doppione. Ma questa riforma è pasticciata. E non ci consente di scegliere i nostri rappresentanti».

Spera nei Cinque Stelle?

«Non mi interessano. Non ci credo. Mi ricordano l’ Uomo Qualunque: Grillo è Guglielmo Giannini con Internet. Nascono dal discredito della politica, ma non hanno retto alla prova dei fatti: Pizzarotti è stato espulso dal movimento; la Raggi non mi pare stia facendo grandi cose».

Se vince il No cosa succede?

«Entra in campo Mattarella. Che si comporterà bene; perché è un gran galantuomo».

Il padre fascista e Montalbano

«Galantuomo era mio padre Giuseppe, anche se avevamo idee politiche opposte. Lui aveva fatto tutta la Grande guerra nella brigata Sassari. Adorava il suo comandante: Emilio Lussu. Vide morire Filippo Corridoni. Poi divenne fascista e fece la marcia su Roma. Però quando il mio compagno Filippo Pera mi disse che non sarebbe più venuto a scuola perché era ebreo, mio padre si indignò: “È una sciocchezza che il Duce fa per il suo amico Hitler”.

Lealtà, fedeltà alla parola data, ironia, arte di guardare oltre le cose: sotto molti aspetti Montalbano è il ritratto di papà. Fu mia moglie Rosetta a farmelo notare. I padri si innamorano sempre un po’ delle mogli dei figli; e Rosetta a lui ha voluto molto bene».

«Il matrimonio dei miei genitori era stato combinato. Nozze di zolfo, toccate anche a Pirandello: gli zolfatari facevano sposare i loro eredi per concentrare la proprietà, e ritardare il fallimento cui erano condannati. Però il matrimonio dei miei era riuscito. Quando mio padre morì, Turiddu Hamel, il sarto, si inchinò al passaggio della bara. Hamel era l’ antifascista del paese. Mi raccontò che, quando stava morendo di fame perché entrava e usciva dal carcere, papà gli aveva commissionato una divisa nera: “E sia chiaro che non lo faccio per sfregio…”. “To patri sapiva campari” mi disse il vecchio sarto: Giuseppe Camilleri sapeva vivere».

La guerra di casa

«Anche io sono stato fascista. Avevo sedici anni quando il Duce annunciò la guerra: ascoltai il discorso dagli altoparlanti in piazza. Tornai a casa entusiasta, e trovai nonna Elvira e nonna Carolina in lacrime. Tutte e due avevano perso un figlio nelle trincee: “A guerra sempre tinta è”, la guerra è sempre cattiva. Anche mio padre la conosceva. E conosceva gli inglesi».

«Il primo a dirmi che in realtà ero comunista fu il vescovo di Agrigento, Giovanbattista Peruzzo, piemontese di Alessandria. Leggevo le firme delle riviste del Guf, Mario Alicata, Pietro Ingrao, e mi riconoscevo. Ma la vera svolta fu un libro, che mi fece venire la febbre e mi aprì gli occhi: La condizione umana di Malraux».

«Nell’ estate del ’42 andai a Firenze al raduno della gioventù fascista. C’ era il capo della Hitler Jugend, Baldur von Schirach, venuto ad annunciare l’ Europa di domani: un’ enorme caserma, con un unico vangelo, il Mein Kampf. C’ erano ragazzi e ragazze di tutta l’ Europa occupata: Francia, Spagna, Polonia, Ungheria; le ungheresi erano bellissime, facemmo amicizia parlando latino. Sul fondale c’ era un’ enorme bandiera tedesca. Protestai: “Siamo in Italia!”. Così issarono anche un tricolore. Ma Pavolini mi individuò tra la folla, mi chiamò, e mi rifilò un terribile càvucio nei cabasisi: insomma, un calcio nelle palle. Finii in ospedale. Il prefetto, che era amico di mio padre, mi fece trasferire in una clinica privata, nel caso che Pavolini mi avesse cercato».

«Fui richiamato il primo luglio 1943. Mi presentai alla base navale di Augusta e chiesi la divisa. “Quale divisa?”. Mi mandarono a spalare macerie in pantaloncini, maglietta, sandali e fascia con la scritta Crem: Corpo reale equipaggi marittimi. La mia guerra durò nove giorni. Nella notte dell’ 8 luglio il compagno che dormiva nel letto a castello accanto al mio sussurrò: “Stanno sbarcando”. Uscii sotto le bombe, buttai la fascia, tentai l’ autostop: incredibilmente un camion si fermò. Arrivai così a Serradifalco, nella villa con la grande pistacchiera dove erano sfollate le donne di famiglia. Zia Giovannina fece chiudere i cancelli e mettere i catenacci: “Qui la guerra non deve entrare!”. Arrivarono gli americani e abbatterono tutto con i carri armati».

«In testa c’ era un generale su una jeep guidata da un negro. Passando vide una croce, là dove i tedeschi avevano sepolto un camerata fatto a pezzi da una scheggia. Il generale battè con le nocche sull’ elmetto del negro, e la jeep si fermò. Prese la croce, la spezzò, la gettò via. Poi diede altri due colpi sull’ elmetto, e la jeep ripartì. Sfilarono altri sedici uomini. Io ero annichilito dalla paura. L’ ultimo mi sorrise e mi parlò: “Ce l’ hai tanticchia d’ olio, paisà? Agghio cogliuto l’ insalatedda…”. Erano tutti siciliani. Mi sciolsi in un pianto dirotto, e andai a prendere l’ olio per l’ insalata. Poi chiesi chi fosse l’ uomo sulla jeep. Mi risposero: “Chisto è o mejo generale che avemo; ma como omo è fitusu. S’ acchiama Patton”».

I litigi con Sciascia

«Noi comunisti siciliani le elezioni le avevamo vinte. Alle Regionali dell’ aprile 1947 il Blocco del popolo prese 200 mila voti più della Dc.

Il Primo maggio mi ritrovai con gli amici a festeggiare, e mi ubriacai. Arrivò la notizia di Portella della Ginestra: gli agrari avevano fatto sparare sui compagni. Vomitai tutto. Da allora non ho più toccato un goccio di vino».

«Leonardo Sciascia era di un anticomunismo viscerale. Eravamo molto amici, ma abbiamo litigato come pazzi. Nei giorni del sequestro Moro lui e Guttuso andarono da Berlinguer e lo trovarono distrutto: Kgb e Cia, disse, erano d’ accordo nel volere la morte del prigioniero. Sciascia lo scrisse. Berlinguer smentì, e Guttuso diede ragione a Berlinguer. Io mi schierai con Renato: era nella direzione del Pci, cos’ altro poteva fare? Leonardo la prese malissimo: “Tutti uguali voiauti comunisti, il partito viene prima della verità e dell’ amicizia!”».

«Un’ altra cosa non mi convinceva di Sciascia. Nei suoi libri a volte rendeva la mafia simpatica. A teatro gli spettatori applaudivano, quando nel Giorno della civetta don Mariano distingue tra “uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quaquaraquà”. Leonardo mi chiedeva: ma perché applaudono? “Perché hai sbagliato” gli rispondevo. Altre volte rendeva la mafia affascinante. “Lei è un uomo” fa dire a don Mariano. Ma la mafia non ti elogia, la mafia ti uccide; per questo di mafia ho scritto pochissimo, perché non voglio darle nobiltà. Eppure a Leonardo ho voluto un bene dell’ anima. Andavo di continuo a rileggere i suoi libri. Per me erano come un elettrauto: mi ricaricavano».

La cecità

«Da quando sono diventato cieco, i pensieri tinti mi visitano più spesso. Cerco di scartarli; però tornano. A volte mi viene la paura del buio, come da bambino. Una paura fisica, irrazionale. Allora mi alzo e a tentoni corro di là, da mia moglie. Per fortuna ho Valentina, cui detto i libri: è l’ unica che sa scrivere nella lingua di Montalbano, anche se è abruzzese.

Fino a poco fa vedevo ancora le ombre. Sono felice di aver fatto in tempo a indovinare il viso della mia pronipote, Matilde. Ora ha tre anni, è cresciuta, mi dicono che è bellissima, ma io non la vedo più. Di notte però riesco a ricostruire le immagini. L’ altra sera mi sono ricordato la Flagellazione di Piero della Francesca. Ho pensato all’ ultima volta che l’ ho vista, a Urbino – aprirono il Castello apposta per me -, e l’ ho rimessa insieme pezzo a pezzo. È stato meraviglioso».

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