…E per la Festa della Repubblica in piazza ci vanno i nemici della Repubblica

 

Festa della Repubblica

 

 

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Per la Festa della Repubblica in piazza ci vanno i nemici della Repubblica

Strana Festa della Repubblica questa, con i nemici della Repubblica in piazza (a festeggiare? Protestare? Provare a dimostrare di esistere?) a Roma, mentre il Presidente della Repubblica, dopo il tradizionale omaggio all’Altare della Patria, sarà giustamente, doverosamente, a Codogno nel ricordo delle tante, troppe, vittime della pandemia. E i cittadini beneducati rimasti spontaneamente alla larga da assembramenti e occasioni di contagio come detta una sobria etica repubblicana di rispetto di sé e degli altri. Vedere Salvini e Meloni in Piazza del Popolo è un’immagine distonica, non c’è dubbio. Un po’ come se il 14 luglio in Francia gli unici in piazza fossero i vandeani. O negli Stati Uniti, il 4 luglio, per l’Independence day, si ritrovassero i nostalgici di King George…

Il 2 giugno – è bene ricordarlo – non è una generica “festa della patria”. La data è stata scelta perché in quel giorno, nel 1946, si tenne il cosiddetto “referendum istituzionale”, il più politicamente “divisivo” di tutti i referendum, in cui il popolo italiano si trovò a scegliere tra Monarchia e Repubblica – tra una monarchia responsabile della dittatura fascista e della rovina del paese e una nuova forma di stato finalmente democratica – e lo fece con un risultato di misura: 10.718.502 voti per il Re contro 12.718.641 voti per la nuova Italia. Il 46 per cento degli italiani schierato per la continuità della dinastia responsabile della vergogna delle leggi razziali e della infame alleanza con la Germania nazista, contro il 56 per cento desideroso di una diversa patria. Il 2 giugno, dunque, si celebra quella vittoria, di un’idea di patria (quella che si sostanzia in leggi giuste e principii universalistici, quali quelli scritti nella nostra Costituzione) su un’altra idea di patria (quella della retorica nazionalistica, da “Dio, Patria e Famiglia, del culto della forza e del militarismo, il cui esito è stato, lo si è visto, la “morte della patria”).

La stessa cerimonia all’Altare della Patria, non ha certo il carattere di un “onore alle armi” ma al contrario del pietoso riconoscimento alle tante, troppe vittime, delle “inutili stragi” che costellano il nostro passato “nazionale”. Ai “militi ignoti” disseminati da governanti dissennati su fronti insanguinati, a cominciare da quelli delle ignobili guerre fasciste, mandati a crepare a migliaia di chilometri da casa, male armati, male equipaggiati e peggio comandati, in nome di una patria che alle loro spalle ingrassava gli speculatori. Per questo, quella cerimonia non vuol essere affatto – non deve essere! – un colpo di spugna su una memoria dolorosa. E quel “tutti i morti” delle guerre non può significare una notte della memoria in cui tutte le camicie siano nere, ma al contrario un monito, a che quel sacrificio non debba mai più ripetersi. Mai più giovani mandati a morire in nome di una patria contrapposta in armi ad altre patrie.

Per queste ragioni, non ha alcun senso contrapporre il 2 giugno al 25 aprile. La Festa della Repubblica a quella della Liberazione. Eppure è stato fatto. C’è chi ha detto che mentre la festa d’aprile è “divisiva”, quella di giungo “è di tutti”, ignorando il nesso stretto di sequenzialità tra le due. Che la Festa della Repubblica è, per sua natura, la Festa della Costituzione che sancisce il suo essere “democratica”. E che senza Liberazione niente Costituzione, niente Repubblica. E’ un’idiozia, che tuttavia una radice ce l’ha. Ed è nella coreografia militare che spesso (ma non sempre) il 2 giugno ha messo in scena. L’immagine della “nazione in armi” che ha presentato, con la sfilata nel cuore di Roma, i reparti inquadrati in marcia lungo i Fori imperiali, bombe missili e cannoni, tute mimetiche e truppe speciali. So bene che c’è chi prova un brivido d’eccitazione al brillare di una canna di fucile. Alla vista di un carro armato sferragliante. Al rombo delle frecce tricolori “nei cieli di Roma”. Il “fascismo eterno”, come l’ha chiamato Umberto Eco, che sonnecchia nel bassofondo dell’autobiografia della nazione risponde preciso a quell’appello. E non sono pochi quelli che non resistono all’immagine di potenza offerta dalla Patria come surrogato alle sue assenti virtù.

Ma, bisogna dirlo, la sfilata militare è più un optional della Festa della repubblica che non un elemento costitutivo. Più un pezzo di coreografia ma non certo la sceneggiatura. Anzi, ne è la parte più caduca ancorché costosa. Non sempre vi fu: non vi fu il 2 giugno del 1947, la prima volta che, ancora in modo informale, si celebrò la Festa. E neppure nel 1962, per rispetto dell’agonia di Papa Giovanni XXIII, e nel 1976 per il terremoto del Friuli. Dal 1977, la festa fu spostata alla prima domenica di giugno senza esibizioni militaresche, per risparmiare sui costi. Ritornò nell’84 ma sparì di nuovo nell’89. E anche dopo che nel 2000, per iniziativa del Presidente Carlo Azeglio Ciampi, la festa fu restaurata il 2 giugno con tutti gli onori, l’esibizione militare subì costanti amputazioni (a volte senza mezzi, a volte senza cavalli, con i corazzieri appiedati, a volte in forma solo simbolica) finché nel 2013 il Presidente Napolitano ne ridusse notevolmente il cerimoniale “per motivi di austerità e di solidarietà verso i poveri e i meno abbienti”.

E’ così che si è giunti a oggi, in una Roma dalle strade e piazze svuotate dal Coronavirus, in cui probabilmente l’unico generale schierato sarà un ex carabiniere col fascino del torbido e dell’eversione (ancora un ossimoro!), mentre un’opposizione sgangherata e senza proposte reali proverà a mostrare di esistere nascondendo il proprio vuoto sotto un tricolore di 500 metri quadri. Il resto del Paese, la stragrande maggioranza, la parte migliore, quella che in questi mesi ha resistito e si è regolata secondo il principio della reciprocità nella responsabilità, si unisce nel ricordo delle vittime del virus e nel bisogno di un nuovo inizio. Niente, meglio del concerto dedicato a “chi è morto solo” può sostituire, restituendoci la dignità del momento, sfilate e cerimonie fuori luogo, nello spirito originario del 2 giugno.

Di Marco Revelli per Tpi.it

fonte: https://www.tpi.it/opinioni/festa-repubblica-manifestazione-centrodestra-nemici-commento-20200602613005/?fbclid=IwAR2lfuTarxYWPQ9v_br-vDVcWSoSv0jlStCy1yK7-572FsnkjR7uE6AMeg4

 

“2 giugno non c’è un ca**o da festeggiare” – Indovinate un po’ chi è il grande patriota che lo ha detto…

 

2 giugno

 

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“2 giugno non c’è un ca**o da festeggiare” – Indovinate un po’ chi è il grande patriota che lo ha detto…

Matteo Salvini di patriottico non ha nulla. Il suo ‘Prima gli italiani’ va trattato esclusivamente per quello che è, uno slogan elettorale.

2 giugno, Festa della Repubblica nata dall’antifascismo. Matteo Salvini, dopo averlo annunciato a lungo, domani sarà in Piazza insieme a Fratelli d’Italia per una manifestazione “virtuale” e “patriottica”

Ma Salvini di patriottico non ha nulla. Il suo ‘Prima gli italiani’ va trattato esclusivamente per quello che è, uno slogan elettorale, e per capire chi è davvero Salvini e cosa è davvero la Lega basta fare un salto al 2 giugno del 2013.

“Notte serena amici. Oggi non c’è un cazzo da festeggiare” twittava il futuro Capitano degli italiani.

Questo è Matteo Salvini, e una cosa è rimasta identica, oltre la sua immancabile volgarità: l’incoerenza e l’ipocrisia sono ancora tutte lì.

E non dimenticate che Salvini, il Capitano Patriota, era quello che durante i mondiali organizzava dirette per gufare contro l’Italia…

138 anni fa, il 2 giugno del 1882 moriva Giuseppe Garibaldi. Nei libri di storia ci propinano la favoletta dell’Eroe dei Due Mondi… In realtà era solo uno squallido mercenario, massone, affamato di sangue e denaro… Una vergogna tutta Italiana…!

 

Garibaldi

 

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138 anni fa, il 2 giugno del 1882 moriva Giuseppe Garibaldi. Nei libri di storia ci propinano la favoletta dell’Eroe dei Due Mondi… In realtà era solo uno squallido mercenario, massone, affamato di sangue e denaro… Una vergogna tutta Italiana…!

Garibaldi, terrorista mercenario. Tutt’altro che eroe!

GIUSEPPE GARIBALDI

Padre della patria
Giuseppe Garibaldi ci è stato presentato come l’eroe dagli occhi azzurri, biondo, alto, coraggioso, romantico, idealista; colui il quale metteva a repentaglio la propria vita per la libertà altrui. Non esiste città d’Italia che non gli abbia dedicato una piazza o una strada.

Garibaldi non era alto, era biondiccio e pieno di reumatismi, camminava quasi curvo e dovevano alzarlo in due sul suo cavallo.

Portava i capelli lunghi, si dice nel sud, perché violentando una ragazza questa gli staccò un orecchio.

Questo signore non era un eroe; oggi lo si chiamerebbe delinquente, terrorista, mercenario.

Era alto 1,65, aveva le gambe arcuate e curava molto la sua persona.

Fra il 1825 ed il 1832 fu quasi sempre imbarcato intraprendendo viaggi nel Mediterraneo. Nel 1833, durante un viaggio a Taganrog ebbe modo di conoscere dei rivoluzionari che lo affascinarono all’idea della fratellanza umana ed universale e all’abolizione delle classi, idee che si rifacevano al Saint Simon. Cominciò, pertanto, a pensare all’idea dell’unificazione italiana da realizzare con l’abbattimento di tutte le monarchie allora dominanti e la fondazione di una repubblica. Accrebbe codesta convinzione quando incontrò Mazzini nei sobborghi di Marsiglia e, affascinato dalle idee del genovese, si iscrisse alla setta segreta “Giovine Italia”. Nel dicembre del 1833 si arruolò nella marina piemontese per sobillare e per praticare la propaganda della setta tra i marinai savoiardi.

Nel 1834 tentò un’insurrezione a Genova contro il Piemonte; scoperto riuscì a fuggire in Francia. Processato in contumacia a Genova, fu condannato a morte per alto tradimento dal governo piemontese.

Nel 1835 fuggì in Brasile, considerato una specie d’Eldorado dagli emigranti piemontesi che in patria non trovavano lavoro, ed erano tantissimi; da lì e dalle altre province del nord, ogni anno un milione di emigranti raggiungevano le terre Sudamericane.

Fra i 28 e 40 anni Garibaldi visse come un corsaro ed imitò i grandi pirati del passato assaltando navi, saccheggiando e, come dice Denis Mack Smith, si abituò a vedere nei grandi proprietari delle pampas un tipo ideale di persona delle pampas”. Al diavolo la lotta di classe! il danaro era più importante – diciamo noi.

A Rio de Janeiro si iscrisse alla sezione locale della Giovine Italia. Nel 1836 chiese a Mazzini se poteva cominciare la lotta di liberazione affondando navi piemontesi ed austriache che stazionavano a Rio. Il rappresentante piemontese nella capitale brasiliana rapportò al governo sabaudo che nelle case di quei rivoluzionari sventolava la bandiera tricolore, simbolo di rivoluzione e sovversivismo.

Nel maggio del 1837, con i soldi della carboneria, Garibaldi mise in mare una barca di 20 tonnellate per predare navi brasiliane; non a caso fu battezzata Mazzini. Quest’uomo, condannato a morte per alto tradimento e poi pirata e corsaro nel fiume Rio Grande, è il nostro eroe nazionale; anzi, non lo è più! Ora è eroe della nazione Nord.

In Uruguay si batteva per assicurare il monopolio commerciale all’Impero Britannico contrastando l’egemonia cattolico-ispanica.

Nel 1844, a Montevideo iniziò la sua vera carriera di massone dopo l’iniziazione avuta con l’iscrizione alla Giovine Italia del Mazzini.

In Italia i pennivendoli di regime continuano ad osannare le imprese banditesche del pirata nizzardo offendendo la storia e la dignità delle nazioni Sudamericane. L’indignazione della gente è racchiusa in un articolo di un giornale, il Pais che vende 300.000 copie giornaliere e che così si è espresso il 27-7-1995 a pag. 6: “… Garibaldi. Il presidente d’Italia è stato nostro illustre visitante…… Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota (ndr, Giuseppe Garibaldi) non ha lottato per la libertà di queste nazioni come (Scalfaro) afferma. Piuttosto il contrario”.

La carriera massonica di Garibaldi culminò col 33°gr. ricevuto a Torino nel 1862, la suprema carica di Gran Hierofante del Rito Egiziano del Menphis-Misraim nel 1881.

Il Grande Oriente di Palermo gli conferì tutti i gradi dal 4° al 33° e a condurre il rito fu mandato Francesco Crispi accompagnato da altri cinque fra massoni.

Il mito di Garibaldi finisce quando si apprende che la spedizione dei Mille fu finanziata dalla massoneria inglese con una somma spaventosa di piastre turche equivalenti a milioni di dollari in moneta attuale.

Con tale montagna di denaro poté corrompere generali, alti funzionari e ministri borbonici, tra i quali non pochi erano massoni.

Come poteva vincere FrancescoII, se il suo primo ministro, Don Liborio Romano, era massone d’alto grado?

Appena arrivato a Palermo, Garibaldi saccheggiò il Banco di Sicilia di ben cinque milioni di ducati come fece saccheggiare tutte le chiese e tutto ciò che trovava sulla sua strada.

In una lettera Emanuele II ebbe a lamentarsi con Cavour circa le ruberie del pirata nizzardo “.. Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene – siatene certo – questo personaggio non è affatto così docile né così onesto come lo si dipinge, e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il denaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui, che s’è circondato di canaglie, ne ha seguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa”.

Ma erano mille i garibaldini? Certamente. Ma ogni giorno sbarcavano sulla costa siciliana migliaia di soldati piemontesi congedati dall’esercito sabaudo per l’occasione dall’altro massone Cavour ed arruolati in quello del generale nizzardo. Una spedizione ben congegnata, raffinata, scientifica, appoggiata dalla flotta inglese ed assistita da valenti esperti internazionali.

La massoneria siciliana, da anni, stava preparando la sollevazione e mise a disposizione di Garibaldi tutto l’apparato mafioso della Trinacria.

A Bronte fece fucilare per mano di Bixio i contadini che avevano osato “usurpare” le terre concesse agli inglesi dai Borbone. Ecco chi era il vero Garibaldi! Amico e servo dei figli d’Albione, assassino e criminale di guerra per aver fatto fucilare cittadini italiani a Bronte.

Il socialismo, l’uguaglianza, la libertà potevano anche andare a farsi benedire di fronte allo sporco danaro e al suo servilismo massonico. Suo fine non era dare libertà alle genti del Sud ma togliere loro anche la vita.

Scopo della sua missione fu quello di distruggere la chiesa cattolica e sostituirla con quella massonica guidata da Londra.

Garibaldi, questo avventuriero, definiva Pio IX “…un metro cubo di letame” in quanto lo riteneva – acerrimo nemico dell’Italia e dell’unità”. Considerava il papa “…la più nociva di tutte le creature, perché egli, più di nessun altro, è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli”, inoltre affermò che: “…Se sorgesse una società del demonio, che combattesse dispotismo e preti, mi arruolerei nelle sue file”.

Era chiaro l’obiettivo della massoneria: colpire il potere della chiesa e con esso scardinare le monarchie cattoliche per asservirle ad uno stato laico per potere finalmente mettere le mani sui nuovi mercati, sulle loro immense ricchezze umane, sulle loro ricche industrie, sui loro demani pubblici, sui beni ecclesiastici, sulle riserve auree del Regno delle Due Sicilie, sulle banche. Con la breccia di Porta Pia finì il potere temporale dei papi con grande esultanza dei fra massoni. Roma divenne così capitale d’Italia e della massoneria, come aveva stabilito Albert Pike, designando come suo successore Adriano Lemmi, massimo esponente del Rito Palladico.

Tratto da web.infinito.it/utenti/s/s.martino.sannita/ Brigantaggio/Personaggi/Garibaldi01.htm