3 febbraio 1998 – 22 anni dalla strage del Cermis – Le 19 vittime assassinate prima dagli Americani e poi, per la seconda volta, dai politici italiani che hanno rinunciato a cercare i colpevoli per leccare il sedere dei padroni!

 

Cermis

 

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3 febbraio 1998 – 22 anni dalla strage del Cermis – Le 19 vittime assassinate prima dagli Americani e poi, per la seconda volta, dai politici italiani che hanno rinunciato a cercare i colpevoli per leccare il sedere dei padroni!

 

La ferita del Cermis fa ancora male, vent’anni dopo che un aereo militare Usa tranciò i cavi della funivia di Cavalese volando troppo basso. Fa male il ricordo che sia finito tutto coi risarcimenti, senza colpevoli. Venti i morti.

Era il 3 febbraio 1998 quando un pomeriggio di sci per turisti di varie nazionalità, sette tedeschi, cinque belgi, due polacchi, due austriaci, un olandese e tre italiani finì in un mucchio di lamiere accartocciate sulla neve. La cerimonia ufficiale è una messa in paese in suffragio delle vittime, i cui parenti furono risarciti dagli Usa con un totale di 40 mln di dollari.

La sensazione che non sia stata fatta giustizia non sparisce però nei residenti e negli amministratori locali.

Erano passate da poco le 15 e la cabina gialla della funivia era a 400 metri dall’arrivo, sospesa a 100 metri d’altezza, prima di schiantarsi sulla valle dell’Avisio. Nessuna colpa per la strage è stata attribuita ai quattro marine dell’aereo che era in esercitazione e rientrò ammaccato alla base di Aviano, in un periodo in cui la guerra nei Balcani si stava avvicinando.

William Raney e Chandler Seagraves, vennero giudicati non colpevoli, perchè non erano ai comandi. Il capitano Richard Ashby, venne condannato a sei mesi di carcere per avere distrutto un video del volo e all’espulsione dalla marina, senza pensione. Il copilota Joseph Schweitzer, che ammise di avere bruciato il nastro, se la cavò con la radiazione ed evitò il carcere. Anni dopo però, nel 2011, emersero alle cronache estratti di un rapporto militare Usa, datato 10 marzo 1998. A firma dell’allora comandante dei Marines, generale Peter Pace, si leggeva: «La causa di questa tragedia è che l’equipaggio dei Marine ha volato più basso di quanto non fosse autorizzato, mettendo a rischio se stesso e gli altri. Raccomando che vengano presi i provvedimenti disciplinari e amministrativi appropriati nei confronti dell’equipaggio».

La storia giudiziaria successiva è nota. L’equipaggio venne giudicato negli Usa, nonostante l’allora procuratore capo di Trento, Francantonio Granero, e il sostituto Bruno Giardina avessero aperto un’inchiesta per disastro, omicidio colposo plurimo e attentato colposo alla sicurezza dei trasporti, indagando sette militari: ai quattro dell’equipaggio ne aggiunsero tre della catena di comando. Niente rinvio a giudizio però, perchè la giurisdizione risultò quella del paese d’origine dei marine, come da Convenzione di Londra del 1951 sui militari Nato.

Al territorio di Cavalese andarono un milione di euro per danni non patrimoniali, insieme alla rifusione di circa 200.000 euro spesi per vari studi di riqualificazione del territorio. Quei danni patrimoniali vennero ritenuti una sorta di risarcimento per il danno d’immagine causato dal ripetersi di una tragedia analoga a distanza di 22 anni dalla precedente, tanto da fare parlare di «maledizione del Cermis». Era infatti il 9 marzo del 1976 quando 42 turisti morirono: la fune portante dell’impianto cedette e la cabina fece un volo di trenta metri. La giustizia quella volta individuò il colpevole nel manovratore, per avere disinserito i circuiti automatici di sicurezza per velocizzare il trasporto. Condannato a tre anni per disastro colposo, scontò nove mesi di carcere, tra condoni e amnistie e morì poco dopo il secondo incidente del Cermis, quello di vent’anni fa.

 

Luca Traini il fascio-leghista che ha sparato a sette persone perché erano nere. Ma forse domani Salvini ci dirà che ha fatto anche cose buone.

 

Luca Traini

 

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Luca Traini il fascio-leghista che ha sparato a sette persone perché erano nere. Ma forse domani Salvini ci dirà che ha fatto anche cose buone.

 

Luca Traini, l’uomo bloccato per la sparatoria a Macerata candidato della Lega Nord a Corridonia nel 2017

Nato nel 1989, incensurato, è stato trovato con una pistola: al momento del fermo, avvolto in una bandiera tricolore, ha fatto il saluto fascista. Il titolare della palestra dove si recava: «È razzista ed estremista, lo avevamo cacciato»

Classe 1989, fisico atletico, calvo. E un tatuaggio con la forma stilizzata di una svastica sulla fronte. Si chiama Luca Traini, ha 28 anni ed è incensurato e originario di Tolentino, nelle Marche, l’uomo che a Macerata ha aperto il fuoco contro alcuni stranieri, prima di essere fermato dai carabinieri. Era stato candidato alle elezioni amministrative del 2017 per il consiglio comunale di Corridonia con la Lega Nord. Nel programma, anche il «controllo degli extracomunitari».

La bandiera tricolore e il saluto fascista

Sentendosi braccato, dopo la sparatoria, Traini ha fermato l’auto davanti al Monumento ai Caduti di Macerata, è sceso dall’auto, ha indossato la bandiera italiana, ha fatto il saluto fascista e gridato «Viva l’Italia». A bordo della vettura una pistola, la tuta mimetica, sul cruscotto appunti a penna e bottiglie d’acqua.

«Cacciato dalla palestra»

Francesco Clerico, il titolare della palestra in cui Traini andava ad allenarsi, ha dichiarato di averlo «cacciato a ottobre». I due si conoscevano da «almeno 10 anni», ma recentemente, secondo Clerico, Traini «aveva atteggiamenti sempre più estremisti, faceva il saluto romano e battute razziste. E da tempo so che aveva una pistola. Lo hanno rovinato le amicizie sbagliate, questi ambienti estremisti, ha situazione familiare disastrosa». Prima di candidarsi con la Lega Nord era stato vicino a Forza Nuova e a CasaPound, secondo Clerico: «Direi che da una decina d’anni era diventato così, prima aiutava il prossimo, era un buono – aggiunge -, gli hanno inculcato idee sbagliate, è cambiato. Non ci aveva mai dato problemi in palestra. Aveva anche amici di colore. Ho provato tante volte a farlo ragionare. Chi si aspettava questo?».

«Era andato dalla psichiatra»

Traini «era andato in cura da uno psichiatra, che a quanto diceva lo aveva giudicato “border line”», ha detto ancora Clerico, titolare della palestra Robbys in cui il giovane arrestato si allenava. «Lui quasi era orgoglioso di questa definizione, a dimostrazione di quanto fosse ignorante e scemo. Aveva una situazione familiare disastrosa: il padre se n’era andato quando era piccolo e la madre, anche lei con grossi problemi, lo aveva cacciato più di recente. Luca viveva con la nonna. Ho provato tante volte ad aiutarlo, a riportarlo sulla retta via. Ha fatto dei lavoretti, ma duravano sempre poco — dice Clerico — . Di solito come manovale, ma anche come buttafuori. Ultimamente aveva perso un altro lavoro». Clerico non sa dire se quanto fatto da Traini oggi sia legato alla vicenda di Pamela Mastropietro, la 18enne romana trovata a pezzi nel Maceratese. «L’avevamo cacciato dalla palestra a ottobre, non l’ho più rivisto», spiega.

tratto da Il Corriere della sera

L’applauso del Codacons a Virginia Raggi e alla sua scelta di garantire che i bambini non vaccinati la tutela dei loro diritti fondamentali, lesi dagli errori della Legge Lorenzin

 

Codacons

 

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L’applauso del Codacons a Virginia Raggi e alla sua scelta di garantire che i bambini non vaccinati la tutela dei loro diritti fondamentali, lesi dagli errori della Legge Lorenzin

 

ROMA, VACCINI: PIENO APPOGGIO DEL CODACONS AL SINDACO RAGGI

ORA TUTTI I SINDACI ADOTTINO PROVVEDIMENTI ANALOGHI. DIRITTO AD ISTRUZIONE DEVE ESSERE GARANTITO, LEGGE LORENZIN PRESENTA ERRORI E LACUNE

Pieno appoggio del Codacons all’iniziativa del sindaco di Roma Virginia Raggi, che ha scritto ieri al ministro della Salute Beatrice Lorenzin e al ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli per informarli della mozione approvata all’unanimità dall’Assemblea Capitolina, riguardo alla necessità di rispettare la continuità didattica ed educativa per tutti gli alunni non ancora vaccinati.
Si tratta di una iniziativa lodevole perché tesa a garantire non solo il rispetto delle leggi vigenti, ma anche il diritto all’istruzione dei bambini, che non può essere messo a rischio da norme lacunose – spiega il Codacons – Chiediamo oggi a tutti i sindaci d’Italia di adottare misure analoghe a quelle della Raggi, attivandosi per garantire che i bambini non vaccinati ma regolarmente iscritti a scuole e asili siano pienamente tutelati nei loro diritti fondamentali, lesi dagli errori contenuti nella Legge Lorenzin, e in nessun caso siano allontanati dalle strutture educative e scolastiche.

fonte: https://codacons.it/roma-vaccini-pieno-appoggio-del-codacons-al-sindaco-raggi/

Che bravi quelli del Pd che si indignano per il brevetto del braccialetto della Amazon per controllare i lavoratori. Forse queste carogne dimenticano che il controllo a distanza dei lavoratori è stato introdotto dal decreto attuativo del Jobs Act di Renzi…!

 

Amazon

 

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Che bravi quelli del Pd che si indignano per il brevetto del braccialetto della Amazon per controllare i lavoratori. Forse queste carogne dimenticano che il controllo a distanza dei lavoratori è stato introdotto dal decreto attuativo del Jobs Act di Renzi…!

 

GENTILONI, quasi tutto il PD, contro AMAZON per il brevetto dei braccialetti elettronici, ora i casi sono solo tre:
1. hanno votato senza comprendere o sapere;
2. pensano che gli italiani siano idioti;
3. sono solo bugiadi;

JOBSACT

P.S. i braccialetti se mai saranno usati (è un brevetto) non sono né più e né meno di quello che avviene oggi con il tracciamento dei mezzi dell’azienda tramite GPS, compresi cellulari e tablet dati in dotazione.

Grazie al JobsAct basta solo informate il dipendente ai fini della privacy e usare i dati nel rispetto della stessa.

Lo scopo dichiarato nel brevetto è la raccolta dei dati ai fini dell’ottimizzazione del lavoro, ovvero ai fini dell’aumento dell’efficienza e efficacia dei lavoratori e riduzione degli errori.

I lavoratori con cotratti tutti a termine grazie semrpe al JOBACTS saranno felici di fare i VOLONTARI e accettare.

fonte: https://www.facebook.com/ahnonessereroma/photos/a.1349919588378710.1073741828.1349868245050511/1586585451378788/?type=3&theater

“Il braccialetto elettronico è legale. Dopo il Job Act, anche senza l’accordo dei sindacati”

Il giuslavorista Pavone spiega perché Amazon può introdurre anche in Italia il cosiddetto “braccialetto che controlla i dipendenti”

Amazon ha depositato il brevetto di un “braccialetto” wireless studiato per velocizzare la ricerca dei prodotti stoccati nei magazzini. Il sistema prevede infatti che i dipendenti possano dialogare con una rete di trasduttori a ultrasuoni posizionati nei magazzini, mentre un «modulo di gestione» permette di monitorare i movimenti di chi li indossa e monitorare dove mette le mani, vibrando per guidarlo nella posizione giusta. Il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda ha dichiarato: «Mai in Italia». Ma l’introduzione di un dispositivo del genere sarebbe legale? Ne parliamo con Attilio Pavone, avvocato giuslavorista del foro di Milano.

Avvocato, che cosa dice la legge?

«L’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori vieta esplicitamente l’uso di impianti audiovisivi e altre apparecchiature con la finalità di controllare l’attività dei lavoratori. La tecnologia applicata al controllo deve essere umana, altrimenti è inumana»

Cioè?

«Non si può per esempio piazzare una telecamera davanti a un cassiere per sapere quante volte va in bagno. Se però uno strumento di lavoro consente il controllo indiretto dei lavoratori, il discorso cambia»

Mettiamo che una telecamera installata per la sorveglianza riprenda anche il nostro cassiere.

«Se lo scopo è lecito, allora anche uno strumento tecnologico che comporta un controllo indiretto del lavoratore può essere usato. Prima del Job Act però poteva essere autorizzato solo dopo un accordo sindacale o con l’autorizzazione dell’ispettorato del lavoro».

E dopo il Job Act?

«Con le modifiche del Job Act, se è uno strumento di lavoro allora si può anche evitare l’accordo con i sindacati. Basta informare il lavoratore. Pensiamo al badge per entrare in ufficio. Nessuno penserebbe mai di vietarlo o di indignarsi, ma potrebbe essere usato per controllare i movimenti dei dipendenti»

Ma se poi i dati raccolti dal braccialetto si usano per altro?

«I dati che potrebbero essere usati per controllare il lavoratore andrebbero resi anonimi e distrutti, nell’ottica di un equilibrio tra il rispetto dei diritti del lavoratore e lo scopo lecito perseguito dall’azienda. Se però la tecnologia è usata per rendere più efficiente il lavoro, non c’è nulla di illegale. E, a mio parere, nemmeno di scandaloso».

fonte: http://www.lastampa.it/2018/02/02/italia/cronache/il-braccialetto-elettronico-legale-dopo-il-job-act-anche-senza-laccordo-dei-sindacati-GrjuFkmcC9KNT6GRo4d1WP/pagina.html

Jobs Act e controlli a distanza dei lavoratori

Guida teorico-operativa per gestire correttamente i controlli a distanza mediante tecnologie

Avv. Prof. Stefano Lenghi – Con l’art. 23 del Decreto Legislativo 14 settembre 2015 n.151 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.221 del 23 settembre 2015- Suppl. Ordinario n.53) sul regime giuridico dei controlli a distanza sui lavoratori mediante tecnologie il Governo ha portato a compimento l’attività di revisione, aggiornamento e semplificazione dello Statuto dei Lavoratori (legge 20 maggio 1970 n.300) in relazione ad alcune norme del medesimo.

Con il D.Lgs. 04 marzo 2015 n.23, riguardante il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, è stato, com’è noto, modificato l’art.18 della legge n.300/1970 attraverso una nuova disciplina, in vigore dal 07 marzo 2015 fondamentalmente per i neoassunti.

Tale disciplina non ha modificato le condizioni di legittimità del licenziamento, che continuano ad essere quelle della giusta causa e del giustificato motivo, soggettivo od oggettivo, essendo intervenuta soltanto sul regime delle conseguenze del licenziamentoillegittimo, nullo o inefficace, incentrato non più sulla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, bensì, nella ordinarietà dei casi, su una tutela economica, che consente al datore di lavoro di estromettere il lavoratore dall’azienda anche nell’ipotesi di licenziamento privo di una delle richiamate causali, corrispondendogli una somma di denaro commisurata all’anzianità di servizio.

Con l’art.3 del D.Lgs. 15 giugno 2015 n.81 il Jobs Act ha modificato il testo dell’art. 2103 del codice civile, apportando profonde innovazioni alla disciplina statutaria in materia di mansioni e di jus variandi datoriale in senso professionale.

Più specificamente, viene soppressa quella tutela a 360 gradi della professionalità acquisita dal lavoratore, introdotta attraverso il criterio dell’equivalenza, che aveva conferito una portata rivoluzionaria all’art.13 della legge n.300/1970 nella sua precedente formulazione, consentendo la nuova norma al datore un esercizio di jus variandi in senso professionale, che può comportare, in presenza di una modifica degli assetti organizzativi aziendali incidenti sulla posizione del lavoratore, un provvedimento di unilaterale assegnazione del medesimo a mansioni appartenenti a categoria inferiore a quella di ultima appartenenza e, addirittura, per effetto di accordi individuali nell’interesse del lavoratore, la possibilità di assegnare a quest’ultimo mansioni, qualifica e, persino, inquadramento contrattuale inferiori agli ultimi acquisiti.

In ordine a tale argomento invitiamo il lettore alla disamina del nostro articolo, Stefano Lenghi, “Jobs Act e disciplina delle mansioni: quale riforma dall’art.3 del Decreto Legislativo 15 giugno 2015 n.81″, pubblicato il 26 giugno 2015 sul Portale www.studiocataldi.itnel quale abbiamo condotto una approfondita analisi della tematica.

Ora, con il citato art.23 del D.Lgs. n.151/2015, il Governo completa l’opera di revisione statutaria, affrontando il tema, che ci impegna in questo nostro contributo.

Tale norma, più precisamente, sostituisce il testo dell’art.4 della legge n.300/1970, nonchè il testo dell’art. 171 del Decreto Legislativo 30 giugno 2003 n.196 (Codice in materia di protezione dei dati personali).

Rammentiamo al lettore, soltanto per chiarezza di inquadramento della tematica dei controlli dal punto di vista logico-sistematico, che il potere di controllo, espressione del più generale potere direttivo riconosciuto dal codice civile (art.2086 c.c., art.2094 c.c., art.2104 c.c.) al datore di lavoro, può essere da questi esercitato mediante persone(guardie giurate: art.2 S.L.; personale di vigilanza: art.3 S.L.; medici controllori dello stato di malattia e dell’idoneità psico-fisica: art.5 S.L.; personale addetto alle visite personali di controllo: art.6 S.L.; personale, dipendente o estraneo all’azienda, incaricato dell’effettuazione di indagini sul lavoratore: art.8 S.L.; rappresentanze dei lavoratori incaricate del controllo del rispetto delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza del lavoro: art.9 S.L.) o mediante tecnologie, oggetto appunto, quest’ultimo, della presente trattazione.

La tutela del lavoratore nel nuovo regime giuridico dei controlli a distanza mediante tecnologie e nella precedente disciplina statutaria: rilievi di carattere generale e logico-sistematico

Iniziamo pure con il rilevare che il fatto che la materia in questione, per effetto del Jobs Act, continui ad essere disciplinata dall’art.4 dello “Statuto dei Lavoratori” (norma, come sappiamo, collocata, sotto il profilo logico-sistematico, nel Titolo I della legge n.300/1970-Statuto dei Lavoratori), ci dà subito contezza della volontà del legislatore che anche il nuovo regime giuridico dei controlli a distanza sui lavoratori rimanga ancorato all’obiettivo di tutelare il prestatore sul piano della sua dignità, libertà, riservatezza e personalità morale, ciò che, vedremo, viene necessariamente a riflettersi anche sulla lettura interpretativa, che andremo a dare del secondo comma del nuovo art.4 S.L..

E, infatti, già da una prima lettura del nuovo testo normativo, emerge subito l’identicità dell’impianto normativo di fondo rispetto a quello precedente, quanto meno sotto il profilo della identificazione delle condizioni di legittimità dei controlli in questione, nonchè della scelta dei soggetti chiamati ad individuare le condizioni operative perchè i controlli stessi possano considerarsi in concreto conformi al modello legislativo, che li legittima.

L’art.4 S.L., nella formulazione introdotta dalla novella dell’art.23 del D.Lgs.n.151/2015, relativamente alle apparecchiature comportanti il monitoraggio dell’attività lavorativa, conferma, infatti, in buona sostanza, le condizioni di legittimità previste dalla sua precedente formulazione, disponendo, nella prima parte del primo comma, che “gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali”.

Giova subito evidenziare l’intento dell’attuale legislatore di evitare formulazioni della norma in chiave di divieto (al contrario di quanto aveva, invece, fatto il precedente testo, che esordiva affermando che “è vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”), quasi a voler esprimere subito il concetto secondo cui ogni tipo di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori può essere legittimamente attivato, ove reso indispensabile dalla comprovata necessità di soddisfare le esigenze richiamate dall’art.4, primo comma, della legge n.300/1970 e che il grado di compressione della tutela dei lavoratori sul piano della loro dignità, libertà, riservatezza e personalità morale, anche se intensificato al massimo dalla continuità e da determinate modalità di esecuzione dei controlli con caratteri di insistenza ed invasività, può, al limite, considerarsi giustificato, ove le esigenze stesse non possano essere altrimenti soddisfatte da parte datoriale. In altri termini, la legittimità del controllo a distanza dell’attività dei lavoratori è unicamente legata al fatto della indispensabilità delle apparecchiature installate per soddisfare le esigenze aziendali richiamate nell’art.4, primo comma. Da ciò scaturisce, naturalmente ed immediatamente, anche quella condizione di legittimità dei controlli in esame che deve considerarsi implicitamente richiesta dall’art.4 della legge n.300/1970 e che rinveniamo prescritta anche dal Codice della Privacy, secondo cui i controlli devono essere proporzionati.Se, tanto per esemplificare, il soddisfacimento delle esigenze aziendali, in relazione, poniamo, alla tutela della incolumità e sicurezza delle maestranze e della integrità del patrimonio aziendale, non può che essere realizzato se non attraverso controlli continuativi su gruppi di lavoratori, è chiaro che tali controlli continuativi dovranno considerarsi “proporzionati”, per cui deve considerarsi legittima, in tale ipotesi, una pressoché totale compressione della tutela dei lavoratori oggetto dei monitoraggi, in nome, nel caso di specie, della tutela del macro-interesse dell’imprenditore e dell’intera comunità dei lavoratori alla loro incolumità fisica e alla conservazione e funzionalità delle strutture aziendali, degli impianti e degli altri beni aziendali, condizione, quest’ultima, necessaria per la stessa sopravvivenza dei posti di lavoro.

Ci troviamo, infatti, davanti ad una norma che, in perfetta coerenza con le caratteristiche della attuale fase di evoluzione del diritto del lavoro (ben presenti negli sviluppi normativi del Jobs Act), mira ad assicurare il mantenimento degli status di tutela, faticosamente acquisiti dalla parte lavoratori attraverso decenni di lotte sindacali, soltanto ove tale mantenimento sia compatibile e coerente con le necessità di rilancio e di sviluppo dell’impresa, ovverosia con la possibilità, per l’imprenditore, di recupero di quei margini di manovra che gli consentano di tornare a gestire il capitale umano ed i rapporti di lavoro, nonchè l’intero organismo aziendale, secondo criteri di economicità ed efficienza, nonchè all’insegna del ritorno al profitto. E riteniamo sia proprio questa la chiave di interpretazione di quanto disposto dall’art.1, settimo comma, lett.f), della legge-delega 10 dicembre 2014 n.183, che ha conferito al governo il compito di provvedere alla “revisione della disciplina dei controlli a distanza sugli impianti e strumenti di lavoro, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore”.

Le condizioni di legittimità dei controlli a distanza nel nuovo e nel precedente regime normativo

Ciò posto, ed addentrandoci nella disamina del nuovo contesto normativo, si evince che, ai fini della legittimità dei controlli in questione, occorre che:

  1. a)l’uso delle apparecchiaturerichiamate dalla norma sia non solo giustificato, ma, altresì, reso indispensabile dalla necessità di soddisfare esigenze organizzative e produttive, di sicurezza del lavoro e di tutela del patrimonio aziendale, esigenze che, in difetto dell’impiego di tali strumenti, non troverebbero soddisfacimento. In altri termini, è necessario che sussista una sorta di nesso eziologico tra uso delle tecnologie e soddisfacimento delle esigenze aziendali. La necessità della sussistenza di tale nesso di causalità è, a nostro parere, requisito postulato dal fatto che il legislatore ha voluto mantenere il nuovo testo in materia di controlli a distanza nella collocazione logico-sistematica dell’art.4 e, quindi, nel TitoloI, della legge n.300/1970, segno manifesto, questo, che la filosofia, cui si ispira il provvedimento, è rimasta quella di editare una norma che mirasse a confermare le tutele del lavoratore sul piano della sua dignità, libertà, riservatezza e personalità morale, a condizione, però, che ciò fosse compatibile e coerente con le esigenze datoriali che la norma stessa mira a soddisfare. La necessità di tale nesso di causalità opera anche in relazione alle modalità attraverso cui vengono effettuati i controlli. Rispetto al precedente testo normativo, l’art.4 della legge n.300/1970, primo comma, prima parte, si è limitato ad aggiungere, fra le esigenze meritevoli di tutela, anche quella concernente la tutela del patrimonio aziendale,intendendosi ricomprendere nel concetto di “patrimonio aziendale” le risorse materiali (beni immobili e mobili, i prodotti, i semilavorati, le materie prime, gli impianti, gli strumenti di lavoro), le risorse finanziarie (beni identificabili in modo chiaro ed univoco) e le risorse umane (già protette sotto il profilo delle esigenze di sicurezza del lavoro e da tutelarsi, come capitale aziendale, anche sul piano della loro salute psico-fisica);
  2. b) datore di lavoro e rappresentanze sindacali unitarie o aziendali stipulino tra loro un accordo collettivo.

Tale accordo, analogamente a quanto avveniva alla luce della disciplina precedente, in armonia con la lettera e lo spirito della norma, premesso il riconoscimento, da parte dei soggetti stipulanti, della necessità di impiegare tecnologie comportanti controlli a distanza dell’attività dei lavoratori quale unico modo per soddisfare la tipologia di esigenze da tutelare e descritte nell’accordo stesso, dovrà contenere:

b1) l’individuazione analitica delle apparecchiature (e delle loro caratteristiche tecniche) autorizzate dalle rappresentanze sindacali aziendali o concordemente scelte dalle parti contraenti per l’effettuazione dei richiamati controlli;

b2) la descrizione delle modalità di installazione e di utilizzo degli strumenti stessi.

Inutile dire che non ogni accordo collettivo potrà considerarsi, di per sè, lecito, posto che, ai fini della legittimità dell’accordo stesso, è necessario che:

*) l’uso delle apparecchiature, che consentono, comunque, un controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, sia effettivamente, di per sè, giustificato (leggi “reso necessario”, “richiesto”) da una o più delle esigenze richiamate dalla norma;

**) quanto concordato dalle parti contraenti, relativamente alla individuazione del tipo di apparecchiature e alle modalità di uso delle stesse eventualmente volte a rendere meno insistenti o meno continuativi o più casuali o non individuali i controlli o a rendere oggetto di controllo dati possibilmente anonimi o ad autorizzare determinati controlli soltanto dopo l’orario di lavoro, consenta di attuare una tutela dei lavoratori sul piano della loro dignità, libertà, riservatezza e personalità morale compatibile e coerente con il soddisfacimento delle esigenze che hanno indotto all’attivazione dei controlli stessi, essendo l’accordo in questione, in conformità ai punti-luce che caratterizzano l’attuale fase di evoluzione del diritto del lavoro, chiamato ad assicurare una tutela dei lavoratori commisurata e, quindi, proporzionata al grado di soddisfacimento delle esigenze che i controlli sono chiamati a realizzare e, quindi, tutela anche intensamente comprimibile;

  1. c) in difetto di accordo tra datore e rappresentanze sindacali unitarie o aziendali, l’installazione e l’uso delle apparecchiature in questione siano autorizzate previo provvedimento della Direzione Territoriale del Lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più Direzioni Territoriali del Lavoro, previa autorizzazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (nel contesto normativo precedente si prevedeva semplicemente che, in caso di difetto di accordo tra datore e rappresentanze sindacali, provvedesse l’Ispettorato del Lavoro, che, ove necessario, avrebbe dettato, occorrendo, le modalità di uso degli impianti).

Rileviamo subito che, in base ad un pensiero ministeriale e giurisprudenziale consolidato ormai da decenni e decenni, perchè la Direzione Territoriale del Lavoro o il Ministero del Lavoro possano intervenire, è necessario che il datore di lavoro, richiedendo l’intervento di tali organismi, dimostri che, nonostante egli abbia convocato la parte sindacale e l’argomento dei controlli sia stato oggetto di analitica discussione in sede di incontro o incontri sindacali, non si è riusciti a stipulare l’accordo collettivo, per cui gli incontri sindacali si sono conclusi con la redazione e la firma, da parte dei contraenti, di un verbale di mancato accordo.

In difetto della produzione, da parte datoriale, in allegato alla istanza al competente organismo ministeriale, di un analitico verbale di mancato accordo sindacale aziendale, che attesti che le parti si sono effettivamente incontrate e, pur avendo discusso l’argomento, non sono riuscite a raggiungere un accordo, è, pertanto, da ritenere che l’organismo adito, non essendo abilitato ad intervenire in materia, debba respingere il ricorso.

Tale magistero giurisprudenziale, d’altra parte, merita pieno ed incondizionato accoglimento, anche in considerazione del fatto che il legislatore, nell’attuale così come nel precedente regime normativo (e, quindi, sin dal 1970!), ha privilegiato, quale sede normale regolatoria di problematiche che investono una determinata collettività di lavoratori, quella sindacale aziendale. E, d’altra parte, sin dagli anni ’70, tutta la produzione giuslavoristica italiana si è sviluppata nel senso di operare proprio alla contrattazione collettiva aziendale (c.d. contrattazione di secondo livello) una sempre maggiore devoluzione di potestà normativa. Trascurare questo aspetto significherebbe non tener conto di una linea evolutiva del sistema di relazioni industriali, che, affermatasi inizialmente per favorire lo sviluppo della dimensione sindacale aziendale, si appalesa anche oggi pienamente coerente con l’attuale fase di evoluzione giuslavoristica, che mira a fare, in prospettiva, della contrattazione sindacale aziendale (o di secondo livello) una componente, che, meglio di ogni altra, potrà aiutare l’imprenditore ad interpretare le esigenze sul piano economico-produttivo, ambientale, igienico-sanitario, sociale, motivazionale ed umano di un’articolazione organizzativa a livello locale, ciò che senz’altro potrà contribuire ad una più efficiente gestione anche dell’intera organizzazione aziendale nel suo complesso.

Le innovazioni introdotte dal secondo comma dell’art. 4 della l. n. 300/1970, così come novellato dall’art. 23 del D.Lgs. n. 151/2015

– Inapplicabilità della disciplina, di cui all’art.4, primo comma, agli strumenti concessi in dotazione ai lavoratori per rendere la prestazione e a quelli di registrazione degli accessi e delle presenze

Il secondo comma dell’art.4 della legge n.300/1970, così come novellato dall’art.23 del D.Lgs.n.151/2015, statuisce che “la disposizione di cui al primo comma non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”.

La novità dal legislatore introdotta rispetto alla precedente formulazione dell’art.4 si sostanzia, pertanto, nel fatto che l’accordo sindacale aziendale o l’autorizzazione, a seconda dei casi, della Direzione Territoriale del Lavoro o del Ministero del Lavoro, non sono richiesti con riferimento agli strumenti utilizzati dal lavoratore per svolgere la sua attività.

Quando il legislatore parla di strumentazione “per rendere la prestazione lavorativa”, il nostro pensiero deve correre a quelle tecnologie mobili, che oggi i datori sono indotti a concedere in dotazione ai propri collaboratori, consentendo esse un più rapido, efficiente e sollecito svolgimento dell’attività lavorativa. Ognun si avvede come la norma intenda riferirsi ai telefonini, agli smartphone, ai netbook (computer portatili di ridotte dimensioni), ai tablet, ai gps, cui devono aggiungersi, per espressa previsione della norma, quei tesserini magnetici (i cc.dd. badge), preordinati ad effettuare i controlli delle entrate e delle uscite del personale dall’organizzazione aziendale.

Tali strumenti possono, pertanto, essere dalle aziende concessi in dotazione ai propri dipendenti senza che sia necessario il preventivo accordo collettivo tra datore e rappresentanze sindacali o la preventiva autorizzazione ministeriale. Il requisito richiesto dalla legge perchè ciò sia possibile è, comunque, la sussistenza di un rapporto di stretta strumentalità di tali tecnologie allo svolgimento delle mansioni assegnate al lavoratore.

Senonché, come è stato già rilevato da più parti in sede di prima interpretazione della norma e confermato anche dagli stessi consiglieri del Ministro del Lavoro, se ad uno di tali strumenti dovesse essere applicato un congegno idoneo a monitorare, “fotografare”, identificare o, comunque, idoneo a far ricostruire in modo continuativo la sequela delle azioni o delle operazioni poste in essere dal lavoratore in esecuzione della prestazione, registrando orari e sequela dei tempi di esecuzione del lavoro, nonchè i luoghi di permanenza presso cui, in determinati orari, si è intrattenuto il lavoratore, è chiaro che torna a rendersi indispensabile l’osservanza della procedura sindacale o, nella necessità di alternativa, di quella amministrativa, in quanto si attuerebbe un controllo continuativo, insistente o, comunque, sistematico a distanza sulle prestazioni dei lavoratori. Pensiamo, ad es., come d’altronde, già è stato osservato, ai casi in cui il datore dovesse applicare ad uno smartphone o ad un telefonino o ad una autovettura un congegno di geolocalizzazione (gps), che consentisse al datore di lavoro di conoscere in ogni momento dove il lavoratore si trova e, quindi, la permanente tracciabilità dell’itinerario geografico seguito dal lavoratore.

– Utilizzo, da parte datoriale, delle informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art.4 della legge n.300/1970, così come novellato dall’art.23 del D.Lgs.n. 151/2015 (art.4, terzo comma, nella vigente formulazione)

La seconda novità introdotta dal Jobs Act in materia di controlli a distanza si sostanzia nel fatto che, ai sensi del terzo comma dell’art.4 nella formulazione introdotta dall’art.23 del D.Lgs.n.151/2015, tutte le informazioni raccolte dal datore di lavoro in sede di attivazione dei controlli, di cui ai commi 1 e 2 dell’art.4, possono essere dallo stesso utilizzate a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione circa le modalità di uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, e nel rispetto di quanto disposto dal Decreto Legislativo 30 giugno 2003 n.196, avente ad oggetto il “Codice in materia di protezione dei dati personali”.

Il datore di lavoro può, dunque, utilizzare tutte le informazioni raccolte mediante gli strumenti di controllo attivati a qualunque fine comunque connesso al rapporto di lavoro, e così, tanto per addurre un esempio fra i molti possibili, per valutare se riconoscere un aumento di merito ad un lavoratore che, nell’espletamento della sua prestazione, si sia costantemente impegnato ed attivato in modo particolarmente attento e diligente per la tutela di esigenze di sicurezza del lavoro e di protezione del patrimonio aziendale poste frequentemente in pericolo dalle caratteristiche tecniche dello svolgersi del ciclo produttivo. Ma l’utilizzo delle informazioni raccolte, a cui maggiormente è stato rivolto il pensiero da parte di tutti, è ovviamente quello ai fini disciplinari.

Inutile dire, naturalmente, che il datore potrà utilizzare, ad ogni effetto del rapporto di lavoro, soltanto quelle informazioni che siano state raccolte attraverso un uso legittimo degli strumenti di controllo. Dovrebbe, pertanto, ad esempio, ritenersi illecito l’avvio di un procedimento disciplinare (e, conseguentemente, nullo il provvedimento disciplinare eventualmente adottato) in base ad informazioni raccolte attraverso uno smartphone (apparecchiatura senz’altro riconducibile ad uno degli strumenti indicati nel secondo comma dell’art.4), nel caso in cui, pur essendo stato applicato a detto smartphone un congegno che consentisse un controllo dell’attività del lavoratore (ad es., di geolocalizzazione), non si fosse prima proceduto, da parte datoriale, nel rispetto di quanto previsto dal primo comma dell’art.4.

Garanzie a favore dei lavoratori

Il terzo comma dell’art. 4 (su cui ci siamo soffermati nel precedente paragrafo 4.2), dispone, però, che l’utilizzabilità delle informazioni raccolte dal datore attraverso i controlli legittimamente attivati possa avvenire soltanto alla condizione che:

– sia data al lavoratore adeguata, pertinente e preventiva informazione delle caratteristiche delle tecnologie dalle quali può derivare un monitoraggio dell’attività lavorativa, nonchè delle modalità relative sia all’uso degli strumenti elettronici ed informatici concessi in dotazione ai lavoratori per rendere la prestazione che all’effettuazione dei controlli;

– abbia luogo nel rispetto di quanto disposto dal Decreto Legislativo 30 giugno 2003 n.196, avente ad oggetto il “Codice in materia di protezione dei dati personali” e, cioè, siano osservate le prescrizioni del Codice della privacy.

Non ci soffermiamo sugli obblighi che detto “Codice” pone a carico dei datori di lavoro relativamente alla tematica che ci occupa, non potendo rientrare una tale analisi, anche per ragioni di spazio, nell’economia di questo nostro studio. E’ ovvio, però, che la trattazione, che siamo andati a svolgere sull’argomento dei controlli, ha già tenuto conto dei punti-luce contenuti nelle normative italiana ed europea sulla tutela della privacy.

Al fine di acquisire certezza di operare nel rispetto delle surrichiamate garanzie, non possiamo che rappresentare l’opportunità che i datori di lavoro si conformino alle linee operative descritte nel successivo paragrafo 8).

Sanzioni penali per la violazione dell’art. 4, commi 1 e 2, e dell’art. 113 del D. Lgs. n. 196/2003

L’art.171 del D.Lgs. 30 giugno 2003 n.196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella formulazione introdotta dall’art.23 del D.Lgs. 14 settembre 2015 n.151, stabilisce che la violazione delle disposizioni, di cui all’art.113 e di quelle di cui all’art.4, primo e secondo comma, della legge 20 maggio 1970 n.300, è punita con le sanzioni di cui all’art.38 della legge n.300 del 1970.

L’art.113 del D.Lgs.n.196/2003, in materia di annunci di lavoro e dati riguardanti prestatori di lavoro, statuisce che “Resta fermo quanto disposto dall’art.8 della legge 20 maggio 1970 n.300”.

Ne consegue che, nel caso di violazione dell’art.4 e dell’art.8 della legge n.300/1970, continuano ad applicarsi le sanzioni penali previste dall’art.38 della legge n.300/1970 (Statuto dei lavoratori), alla luce del cui primo comma “le violazioni degli articoli 2, 4, 5, 6, 8 e 15, primo comma, lettera a), della legge n.300/1970 sono punite, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, con l’ammenda da euro 154,00 ad euro 1549 o con l’arresto da 15 giorni ad un anno”, tenendo presente che, “nei casi più gravi (secondo comma), le pene dell’arresto e dell’ammenda sono applicate congiuntamente”.

Il terzo comma dell’art.38 della legge n.300/1970 stabilisce, inoltre, che, quando per le condizioni economiche del reo, l’ammenda stabilita nel primo comma può presumersi inefficace anche se applicata nel massimo, il giudice ha facoltà di aumentarla sino al quintuplo e, nei casi più gravi previsti dal secondo comma, ordina la pubblicazione della sentenza penale di condanna nei modi stabiliti dall’art.36 del codice penale.

Jobs Act e controlli a distanza “difensivi”

In relazione ai controlli in argomento si è posta la problematica se i cosiddetti controlli difensivi siano o meno da assoggettarsi alla disciplina, di cui all’art.4 della legge n.300/1970, problematica alla quale si vorrebbe, sia sul piano dottrinale che giurisprudenziale, poter fornire risposta negativa.

Premettiamo che con l’espressione “controlli difensivi” ci si intende riferire a quei monitoraggi che vengono attivati dal datore di lavoro al solo fine di verificare se uno o più dipendenti pongano in essere comportamenti illeciti (ad es., se un lavoratore trafughi della merce o utilizzi, in tutto o in parte, il tempo lavorativo per svolgere attività di carattere personale o per controllare se il lavoratore abbia usato le e-mails per fini personali o illeciti).

Aggiungiamo che, dal punto di vista logico-sistematico, si individua una duplice tipologia di controlli difensivi: i controlli aventi ad oggetto un bene aziendale ed i controlli attivati unicamente allo scopo di accertare eventuali condotte illecite, che comportano, però, di per sè, un monitoraggio dell’attività lavorativa del dipendente.

Diciamo subito con assoluta certezza che non possono ricondursi nell’ambito dell’art.4 della legge n.300/1970 quei controlli che, essendo attivati, anche continuativamente, su un bene materiale aziendale per tutelare l’integrità o la funzionalità del medesimo o di ciò che esso contiene, non consentono di monitorare l’attività di un lavoratore, se non in quegli occasionali e brevi momenti in cui il medesimo transita presso il bene aziendale.

Chi scrive ha avuto occasione, all’inizio dell’anno 2014, di occuparsi, quale legale di un’impresa dell’area milanese, di un caso che è acclarante circa la surriportata affermazione.

Poichè presso la cassaforte posta nell’ufficio del responsabile della Direzione Commerciale e Marketing erano custodite, fra l’altro, somme di denaro per le esigenze della Direzione, detto responsabile, riscontrando periodici e continuativi ammanchi, denunziò la vicenda al vertice aziendale ed al Direttore amministrativo. In considerazione del fatto che le chiavi di detta cassaforte erano state affidate, oltreché al titolare dell’ufficio responsabile della Direzione, anche alla sua segretaria, e ad un funzionario della Direzione Amministrativa, l’azienda mi interpellò sulle azioni da intraprendere. Consigliai all’azienda di contattare un’impresa specializzata, perchè installasse sul soffitto dell’ufficio del Direttore una microspia che fosse in grado di monitorare permanentemente e perpendicolarmente solo la cassaforte e l’area distante un metro da essa, in modo da poter identificare l’autore dell’asportazione di denaro, nel caso in cui l’evento si fosse ripetuto.

Chiarii al responsabile delle Risorse Umane che, nella specie, non sarebbe stato, a mio avviso, necessario rispettare la procedura, di cui all’art.4 della legge n.300/1970, trattandosi di un controllo non sull’attività lavorativa, bensì soltanto di un controllo insistente su un bene aziendale, preordinato a “fotografare” la persona nel solo atto di ingerenza nella cassaforte ed aggiungendo che, nell’ipotesi in questione, veniva in considerazione un controllo in tutto e per tutto “difensivo”, ovverosia unicamente mirato ad accertare il verificarsi di comportamenti illeciti, nella specie oltretutto penalmente rilevanti.

Ribadii al Responsabile Risorse Umane dell’azienda che, nell’ipotesi considerata, si era attivato un controllo difensivo attraverso un monitoraggio, che non aveva ad oggetto alcuna attività lavorativa svolta da dipendenti, per cui, sotto il profilo giuridico, l’azienda poteva ben sentirsi in una botte di ferro. Nella stanza di un albergo attiguo all’azienda stazionava un operatore, che controllava su un monitor le immagini trasmesse dalla microspia, effettuandone la registrazione, e che, dopo dieci giorni di monitoraggi, scoprì che la segretaria del responsabile dell’ufficio, entrando nel medesimo prima dell’inizio dell’orario di lavoro (verso le ore 08,15), apriva la cassaforte e, effettuato un prelievo, la richiudeva.

Mentre, però, la fattispecie del controllo attivato solo su un bene aziendale è sicuramente non riconducibile nell’ambito dei controlli ex art.4 della legge n.300/1970, l’interrogativo non sembra affatto suscettibile di identica soluzione nei casi in cui i datori attivino controlli che, pur avendo esclusivamente lo scopo di accertare il verificarsi di fatti illeciti, finiscano per comportare, per le loro modalità di esecuzione, un monitoraggio dell’attività lavorativa di dipendenti. E, quando da parte dei lavoratori si è preso ad assumere una iniziativa giudiziale intesa a far dichiarare l’illegittimità del comportamento datoriale sul presupposto, quanto meno, del mancato rispetto della procedura, di cui all’art.4 della legge n.30/1970, si è assistito spesso, in ambito giurisprudenziale, all’esprimersi di una linea di pensiero tendenzialmente favorevole alle istanze di parte-lavoratori e, cioè, nel senso di richiedere il rispetto di quanto previsto dall’art.4, primo comma, della legge n.300/1970, tutte le volte in cui i controlli, anche se attivati con l’animus esclusivo di accertare fatti o comportamenti illeciti, comportino, di per sè, un monitoraggio dell’attività lavorativa di dipendenti.

Consideriamo, ad es., la fattispecie esaminata dalla sentenza Cass., Sez. Lav., 23 febbraio 2012 n.2722, che ha affrontato la problematica del controllo “a posteriori” della corrispondenza via e-mail da parte dei dipendenti. Più precisamente, tale sentenza ha esaminato il caso di un dipendente di banca licenziato per aver divulgato, a mezzo di messaggi di posta elettronica diretti ad estranei, notizie riservate concernenti un cliente dell’istituto e per aver posto in essere, grazie alle notizie acquisite, operazioni finanziarie da cui aveva tratto vantaggio personale. A seguito della soccombenza in ambedue i giudizi di merito il dipendente propose ricorso per cassazione, lamentando che il licenziamentoera stato fondato su prove raccolte attraverso un controllo delle e-mails e, quindi, della sua attività lavorativa (e proprio per questo illecito), mentre tale controllo avrebbe potuto essere effettuato soltanto nel rispetto dell’art.4 della legge n.300/1970. La Corte Suprema, confermando le decisioni di ambedue i giudici di merito, si è pronunziata per la liceità del comportamento datoriale, sul presupposto che il controllo eseguito sulle apparecchiature informatiche prescindeva dalla pura e semplice sorveglianza del lavoratore nel corso dell’esecuzione della prestazione lavorativa, in quanto attivato a posteriori ed allo scopo di accertare che il dipendente aveva posto in essere comportamenti illeciti (comunque effettivamente riscontrati e che ponevano in pericolo la stessa immagine dell’istituto bancario presso i terzi).

Ciò che ci preme ora rilevare è che le magistrature di tutti e tre i gradi di giudizio hanno lasciato intendere che a diversa pronunzia sarebbero esse pervenute, ove il datore avesse posto in essere, mediante un apposito software, un controllo permanente sulla gestione della posta elettronica del lavoratore mentre egli la utilizzava durante lo svolgimento della sua attività, poichè, in tal caso, il datore avrebbe dovuto operare previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o, in difetto, a seguito di provvedimento autorizzatorio ministeriale.

Vorremmo richiamare sulla questione anche la sentenza Cass., Sez. Lav., 01 ottobre 2012 n.16622, invitando il lettore a rileggere la nota a tale sentenza pubblicata sul Portale www.studiocataldi.it il 04 ottobre 2012. Detta sentenza ha esaminato il caso di un operatore telefonico di centrale di prima assistenza stradale, che era stato licenziato per aver intrattenuto, nell’arco di circa tre mesi, 460 contatti telefonici inferiori a 15 secondi (tempo ritenuto non sufficiente per ascoltare le richieste degli utenti e rispondere) e per aver effettuato 136 telefonate su utenze personali. Tale condotta del lavoratore era stata scoperta dall’azienda mediante l’utilizzo di un software abilitato a filtrare le telefonate, denominato Blue’s 2002.

I giudici di merito avevano ritenuto che l’utilizzo del sistema informatico Blue’s 2002 non comportasse l’applicazione dell’art.4 della legge n.300/1970, avendo il datore posto in essere un controllo difensivo, dal momento che il monitoraggio era preordinato ad evitare comportamenti illeciti o telefonate inappropriate, mentre il Supremo Consesso, riformando le sentenze del Tribunale e della Corte d’Appello, si è pronunziato nel senso dell’illegittimità del licenziamento, sul presupposto che anche i controlli difensivi richiedono l’applicazione della procedura, di cui all’art.4 in questione, quando essi comportano un monitoraggio dell’attività dei lavoratori (anzi, per la verità, i giudici di legittimità, anche se solo in questa sentenza, si sono persino spinti ad asserire che, a ben guardare, in difetto delle esigenze legittimanti i controlli e richiamate dall’art.4, primo comma, della legge n.300/1970, un controllo che comportasse un monitoraggio costante dell’attività dei lavoratori dovrebbe considerarsi illecito pur nel rispetto delle garanzie e della procedura previste dall’art.4 della legge n.300/1970!).

Vorremmo citare, da ultimo, la sentenza Cass., Sez. Lav., 17 febbraio 2015 n.3122, che ha esaminato il caso di tre dipendenti di una raffineria, addetti al carico di carburante nelle autobotti, nei confronti dei quali l’azienda ha adottato il licenziamento per giusta causa, essendo venuta a conoscenza, attraverso un filmato registrato dalla Guardia di Finanza nell’ambito di una indagine investigativa, del fatto che essi avevano sottratto parte del carburante.

Esauriti i giudizi di merito i dipendenti impugnavano il licenziamento mediante ricorso per cassazione sul presupposto, fra l’altro, della illiceità della ripresa video utilizzata dal datore di lavoro, in quanto effettuata, contrariamente a quanto prescrive l’art.4 della legge n.300/1970, senza autorizzazione delle rappresentanze sindacali aziendali o della Direzione Provinciale del Lavoro.

Orbene, la Corte di legittimità, nel caso di specie, nonostante il filmato abbia consentito una videosorveglianza sull’attività dei lavoratori, ha ritenuto legittimo il licenziamento e, conseguentemente, lecito l’utilizzo delle videoriprese, essendo risultato del tutto provato l’animus del datore di lavoro di aver attivato i controlli al solo scopo di tutelare i beni aziendali (in considerazione delle sistematiche asportazioni di carburante che hanno costretto il datore a chiedere l’intervento dell’autorità pubblica e che comprovavano la sussistenza dell’animus datoriale stesso), e non per verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni scaturenti dal rapporto di lavoro.

Norma corportamentale  

Atteso tutto quanto sopra esposto nel presente paragrafo, soppesati i pro ed i contra ed in conformità ad un indirizzo inaugurato dalla Sezione “Lavoro” della Suprema Corte con la sentenza 17 luglio 2007 n.15892, ci sembra opportuno consigliare ai datori di lavoro di operare nel rispetto dei seguenti modelli di comportamento, al fine di evitare l’insorgenza di contenziosi giudiziari, nei quali elevata sarebbe da considerare la probabilità della loro soccombenza:

*) possono non ricondursi nell’ambito dell’art.4 della legge n.300/1970 soltanto quei controlli che, essendo attivati, anche continuativamente, su un singolo bene materiale aziendale per tutelare l’integrità o la funzionalità del medesimo o di ciò che esso contiene, non consentono di monitorare l’attività di un lavoratore, se non in quegli occasionali o, comunque, infrequenti e brevi momenti in cui il medesimo transita presso il bene aziendale;

**) è senz’altro consigliabile che i datori di lavoro procedano nel rispetto delle garanzie e della procedura prevista dall’art.4 della legge n.300/1970 in tutti i casi, invece, in cui i controlli, anche se attivati esclusivamente con il comprovato animus di accertare condotte o fatti illeciti, comportino, di per sè, anche un continuativo monitoraggio dell’attività lavorativa dei dipendenti.

La normativa europea in materia di controlli a distanza sui lavoratori mediante tecnologie

Con Raccomandazione CM/Rec(2015)5 adottata il 1°aprile 2015 dal Comitato dei Ministri degli Stati-membri, il Consiglio d’Europa, con il proposito di adeguare la normativa vigente alle nuove tecnologie, che spesso consentono una completa tracciabilità dell’attività dei lavoratori, ed agli strumenti di comunicazione elettronica concessi in dotazione ai lavoratori, ha adottato disposizioni in materia di elaborazione e trattamento dei dati in ambito lavorativo.

Per ciò che precipuamente qui interessa, diciamo che il Consiglio d’Europa, oltre a regolare le modalità di raccolta e conservazione dei dati personali dei lavoratori, detta una disciplina in materia di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, attuato sia mediante apparecchiature di telecontrollo ed informatiche, sia per il tramite di dispositivi di geolocalizzazione.

La prima parte della Raccomandazione (artt. 1 – 13) ribadisce alcuni principi generali in materia di protezione dei dati personali dei lavoratori, il cui obiettivo è ridurrne al minimo la circolazione e garantire la maggior trasparenza possibile nel loro utilizzo.

I principi a cui deve attenersi il datore di lavoro nel trattamento dei dati personali sono quelli del trattamento minimo – ovvero limitato ai dati necessari all’obiettivo da conseguire nel caso specifico – e dello sviluppo di misure idonee ad assicurare l’applicazione dei principi e delle obbligazioni posti dalla raccomandazione, adeguate al tipo e al volume di dati trattati ed alle attività svolte, tenendo comunque in considerazione le possibili implicazioni che il trattamento può avere per i diritti fondamentali e le libertà dei lavoratori (art. 4).

Il trattamento dei dati personali inizia al momento della loro raccolta, che l’art. 5 prevede sia effettuata al solo diretto interessato. Fanno eccezione i casi in cui la richiesta a terzi sia «necessary and lawful», come – cita la raccomandazione – accade nel caso di verifica delle referenze professionali, per le quali è possibile rivolgersi direttamente al referente, ma solo dopo averne precedentemente informato il soggetto, a cui le informazioni si riferiscono.

L’uso dei dati personali così raccolti deve essere circoscritto alla finalità specifica che ne ha giustificato la richiesta (art. 6) e la comunicazione a terzi è ammessa solo se si tratti di rappresentanze sindacali – e sia comunque necessaria per l’adeguata tutela degli interessi del lavoratore – o sia richiesta da soggetti pubblici, nei limiti previsti dall’art. 8.

Per garantire la trasparenza è previsto il diritto di conoscere, direttamente o tramite le rappresentanze sindacali, quali informazioni possiede l’azienda e chi può accedervi (art. 10), essendo altresì previsto il diritto alla loro rettifica e cancellazione, la cui deroga è possibile solo se prevista dalla legge o richiesta da motivi di ordine pubblico, economico o di sicurezza nazionale (art. 11.6).

La Raccomandazione sottolinea che l’utilizzo delle tecnologie informatiche deve conformarsi a regole volte a minimizzare il rischio di violazione dei diritti e delle libertà fondamentali dei lavoratori anche con riferimento alla privacy, promuove l’adozione di policy aziendali, disciplina la conservazione dei dati e l’archiviazione delle mails professionali e prevede che i lavoratori debbano essere periodicamente informati in merito ai dispositivi tecnici utilizzati dal datore di lavoro, alle modalità di utilizzo degli stessi ed alle finalità del trattamento.

Relativamente al trattamento dei dati personali relativi a pagine internet o intranet accessibili al dipendente, il Consiglio d’Europa raccomanda l’adozione di misure preventive, quali l’uso di filtri, che impediscano operazioni anomale e, in caso di monitoraggio, di attuare controlli casuali, non individuali e mirati su dati anonimi.

Il provvedimento, poi, dopo aver escluso che le mails private possano essere oggetto di controllo, raccomanda che le mails professionali possano essere oggetto di monitoraggio solo ove ciò sia indispensabile per la sicurezza o per altri motivi legittimi e solo, comunque, a seguito di preventiva informativa ai dipendenti e, noi aggiungeremmo, sulla base di quanto anche richiesto dalla nostra Corte di legittimità, normalmente attraverso un controllo a posteriori. La Racccomandazione, ancora, invita gli Stati-membri a mettere a punto procedure allo scopo di consentire ai datori di lavoro l’accesso alle e-mails dei dipendenti assenti, qualora ciò sia richiesto da esigenze professionali e previa informativa ai lavoratori interessati.

In caso di licenziamento o di dimissioni del dipendente, la Raccomandazione prevede che il datore di lavoro debba procedere alla disattivazione automatica dell’account di posta elettronica e che non possa recuperarne il contenuto se non in presenza del lavoratore e sempre che ciò sia necessario per le esigenze aziendali.

Nella seconda parte della Raccomandazione (dall’art.14 all’art.21), il Consiglio d’Europa si occupa delle possibili forme di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori derivanti dall’utilizzo delle nuove tecnologie, riconoscendo a favore dei lavoratori un sistema di principi e garanzie, di cui i giudici degli Stati-membri non potranno non tener conto in sede interpretativa:

  1. a)per quanto concernei sistemi informativi e le tecnologie per la sorveglianza dei dipendenti, compresa la videosorveglianza, in relazione alle quali si afferma il principio della loro non utilizzabilità se aventi come scopo diretto e primario la sorveglianza dell’attività e del comportamento dei dipendenti, si dispone che la legittimità dei controlli in questione sussiste unicamente: se i controlli stessi sono resi indispensabili da esigenze datoriali di tutela dell’attività produttiva, della salute, della sicurezza e dell’efficace gestione dell’azienda o dell’Ente, (art.15.2); se l’installazione è stata, comunque, preceduta dalla consultazione sindacale e, nel caso di sussistenza del rischio di violare il diritto del dipendente al rispetto della vita privata e della dignità umana, addirittura dall’accordo sindacale; se è stata fornita ai dipendenti preventiva informativa; se è stata consultata, conformemente al diritto interno, l’autorità nazionale di controllo con riguardo al trattamento di dati personali.

Giustamente da parte di ogni interprete se ne è evinto che le telecamere non possano – in linea di principio – essere installate in luoghi in cui non viene svolta alcuna attività lavorativa, come, ad esempio, mense, bagni o spogliatoi;

  1. b)per quanto concerne l’introduzione di apparecchiature in grado di rivelare l’ubicazione di dipendenti e dal cui utilizzo possa indirettamente derivare anche un controllo a distanza della prestazione lavorativa, si afferma che essa dovrebbe avvenire solo se si dimostra necessaria al raggiungimento dello scopo legittimo perseguito dal datore di lavoro. In ogni caso, l’utilizzo di tali apparecchiature non dovrebbe dar luogo alla sorveglianza continuata del dipendente. In particolare, la sorveglianza non dovrebbe rappresentare la finalità primaria, bensì solo una conseguenza indiretta di un atto necessario per la tutela delle attività produttive, della salute e della sicurezza o per garantire l’efficace gestione dell’impresa o dell’ente. Il datore di lavoro dovrebbe assicurare tutte le necessarie salvaguardie del diritto dei dipendenti alla vita privata ed alla protezione dei dati personali ed assicurare le ulteriori salvaguardie, di cui al precedente punto a). Insomma, emerge chiaramente la volontà del legislatore europeo di legittimare tali controlli nei soli casi in cui:

b1) essi debbano considerarsi necessari in relazione al tipo di attività svolta dal dipendente o per ragioni di tutela della salute e della sicurezza del lavoro;

b2) sia intervenuto, anche qui, il preventivo accordo con le rappresentanze sindacali, sia per l’adozione della disciplina iniziale che per la modifica della medesima;

b3) si tratti, ove possibile in relazione alle finalità del monitoraggio, di controlli sulla prestazione del lavoratore non attivati continuativamente, ma accidentalmente, occasionalmente;

b4) sia previsto l’obbligo della preventiva informazione dell’interessato e della trasparenza e sia prescritto il rispetto dei principi di pertinenza, proporzionalità e non eccedenza del trattamento;

b5) i controlli, possibilmente, siano ispirati al principio della casualità e non siano individuali (ovverosia effettuati nei confronti di singoli lavoratori, che si vogliano rendere oggetto di specifico monitoraggio).

Concordiamo pienamente, in proposito, con quanto egregiamente affermato da Vittoria de Regibus e Gaetano Machì nell’articolo “Privacy e lavoro: cosa dice l’Europa e cosa prevede il Jobs Act”, pubblicato sul Bollettino ADAPT del 06 maggio 2015 e la cui parte finale ci piace riportare qui di seguito:

Si prende atto che, nell’era digitale, la prestazione lavorativa si esprime attraverso un flusso di dati, il cui trattamento deve essere normativamente regolato, poichè suscettibile di realizzare un controllo sui dipendenti o comunque un’intrusione nella loro sfera privata.

Estrarre dati relativi al traffico Internet, accedere ad uno scambio di comunicazioni elettroniche, analizzare le informazioni di localizzazione fornite dai dispositivi assegnati ai dipendenti – oltre ad essere trattamento di un dato personale – può realizzare un controllo della prestazione lavorativa, che deve avvenire sempre in maniera trasparente ed essere giustificato da necessità inerenti all’attività produttiva, richiedendo nei casi in cui i diritti fondamentali siano più a rischio, tutele ulteriori.

La modernità della dimensione normativa europea è proprio nella distinzione tra strumenti di lavoro come Internet e le comunicazioni elettroniche – che pur avendo un’astratta funzionalità di registrazione degli eventi sono concepiti per finalità diverse da quelle del controllo – e strumenti di controllo, come la videosorveglianza, che hanno come scopo diretto e funzionale quello di realizzare operazioni di verifica e riscontro.

Se la trasparenza, l’accessibilità ed il trattamento minimo restano principi comuni, nel caso degli strumenti di lavoro, la disciplina è caratterizzata dalla maggiore flessibilità tipica della protezione dei dati personali e dalla rilevanza centrale del consenso individuale, mentre nel caso degli strumenti di controllo la logica resta quella dell’accordo sindacale autorizzatorio.

Sembra aver proceduto in questa direzione anche la legge delega del Jobs Act, che prescrive al legislatore delegato di riscrivere la disciplina dei controlli “sugli strumenti di lavoro” e non sull’attività, tenendo «conto dell’evoluzione tecnologica [..] contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore.

Si auspica, pertanto, che il Governo, in sede di attuazione della delega, si lasci guidare dalla strada tracciata dalla raccomandazione, che consentirebbe di superare le tensioni interpretative sorte intorno all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, circoscrivendone la rigidità del meccanismo di tutela a quegli strumenti che siano per loro natura destinati al controllo a distanza della produzione e abbiano un’intrinseca potenzialità lesiva dei diritti e delle libertà fondamentali dei lavoratori. Lasciando invece che l’uso di strumenti lavorativi digitali privi di tale finalità sia regolato dai principi di trasparenza, accessibilità e ragionevolezza, nonché da apposite procedure preventive dirette a regolarne l’uso legittimo, piuttosto che a verificarne successivamente l’abuso”.

Il frammento di articolo riportato è datato 06 maggio 2015 ed esprime un auspicio che non si può dire non sia stato, pur se soltanto in minima parte, realizzato dal Governo in sede di attuazione della delega, anche se, a nostro parere, deve, purtroppo, riconoscersi che un riferimento, nell’art.23 del D.Lgs.n.151/2015, alla necessità che l’utilizzo, da parte datoriale, delle strumentazioni di controllo e di quelle per lo svolgimento della prestazione avvenga nel rispetto delle linee operative e dei principi affermati, oltreché dalla normativa nazionale, anche dalla normativa europea, avrebbe indotto i datori ad adottare accordi collettivi aziendali, procedure e regolamenti aziendali, che avrebbero favorito modelli di comportamento più rispettosi dei principi stessi, tenuto anche conto, che, nel caso di insorgenza di contenziosi giudiziari, tali principi saranno dai giudici utilizzati quali criteri interpretativi per orientare le loro decisioni.

Quanto all’efficacia delle Raccomandazioni nella legislazione del singolo Stato-membro, giova rammentare che esse sono atti normalmente diretti agli Stati membri e contengono l’invito a conformarsi ai modelli di comportamento previsti dalle stesse. Non sono, certo, le Raccomandazioni, atti con efficacia immediatamente vincolante ed obbligatoria nella legislazione dei singoli Stati-membri, nel senso che non costituiscono legge per il singolo Stato-membro, ma rappresentano, comunque, importanti punti-luce, cui le legislazioni nazionali sono chiamate ad allinearsi, avendo valore di indirizzo nell’ottica dell’adozione di una politica comune. Ciò significa che non sussiste un obbligo di adeguamento per gli Stati membri e che la raccomandazione non può essere invocata innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea come parametro di legittimità delle legislazioni nazionali.

Concordiamo, però, con gli autori dell’articolo più sopra da noi segnalato, secondo cui quanto or ora argomentato non significa “che la mancata applicazione dei principi stabiliti dalla Raccomandazione resti a priori priva di conseguenze.

Considerato, infatti, che l’atto di indirizzo costituisce attuazione dell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) – che tutela il diritto alla vita privata ed è più volte richiamato nel preambolo e nel corpo dell’atto – la legislazione nazionale che fosse manifestamente contrastante con i suoi principi potrebbe ugualmente essere passibile di sanzione innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in quanto violazione diretta di quel “right to private life” tutelato dalla Convenzione e la cui interpretazione estensiva di “diritto a stabilire relazioni con altri esseri umani”, include le relazioni di lavoro o di affari (Corte europea diritti dell’uomo, sez. III, 25 ottobre 2007, V.V. C. Paesi Bassi)”.

In ogni caso, giova, però, ribadire che i principi contenuti nelle Raccomandazioni costituiscono criteri ermeneutici che la magistratura del singolo Stato-membro è senz’altro autorizzata ad applicare nelle controversie sottoposte a sua disaminae ciò deve costituire senz’altro un lampeggio di costante richiamo ai datori di lavoro sui modelli di comportamento e sul modus procedendi da adottare nelle varie situazioni.

Il controllo a distanza sull’attività dei dipendenti nella recentissima sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: una conferma del Jobs Act

Con sentenza 12 gennaio 2016 n.61496/08 la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo è stata chiamata a pronunciarsi in un caso in cui, avendo un’azienda rumena attribuito ai propri dipendenti un account Yahoo Messanger, affinchè rispondessero ed assistessero i clienti, a seguito di un monitoraggio sulle comunicazioni che transitavano dalle postazioni di lavoro, tale azienda accertò che un dipendente effettuò un utilizzo dell’account per scopi personali, sebbene specifiche policy vietassero un tale uso, e, sulla base dei dati raccolti, procedette al licenziamento del lavoratore. Il dipendente dapprima impugnò il licenziamento avanti alla magistratura rumena (il processo, nei due gradi svolti in Romania, aveva dimostrato tanto il monitoraggio delle comunicazioni quanto l’utilizzo per scopi privati), e poi prese ad adire la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, assumendo che il datore non aveva il diritto di monitorare le conversazioni, il cui carattere personale aveva costituito forte lesione dei propri diritti sul piano costituzionale, penale, nonché, appunto, dell’art.8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a termini del quale “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza”. Tale diritto può subire compressioni soltanto ad opera di una specifica previsione legislativa che tuteli interessi di sicurezza nazionale, benessere economico, prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale, protezione dei diritti e delle libertà altrui. Tuttavia, il dipendente non chiariva le ragioni per cui aveva utilizzato lo strumento per scopi personali, sebbene avesse dimostrato che l’account in questione era quello personale e non quello aziendale.

La Corte di Strasburgo, nel rigettare il ricorso del lavoratore, richiamando anche i principi e i provvedimenti espressi dalle Autorità competenti e, in particolare, il “Working document on the surveillance and the monitoring of electronic communications in the workplace” deliberato dal Gruppo di lavoro Articolo 29, ha stabilito che:

  • il dipendente era stato messo efficacemente a conoscenza delle policy aziendali;
  • il controllo dei messaggi era l’unico modo per verificare che il dipendente adempisse alle proprie mansioni;
  • il controllo dei messaggi era l’unico modo per prevenire un utilizzo improprio di Internet tale da produrre danni all’azienda e al suo sistema IT, indirettamente o scientemente.

In tale contesto, è importante sottolineare come la Corte abbia tenuto conto che, l’accesso all’account personale (e non quello aziendale) del dipendente era giustificato dalla convinzione che questi stesse utilizzando lo strumento per svolgere proprie mansioni. Su tali presupposti i giudici di Strasburgo hanno ritenuto ragionevole e giustificato che l’azienda ponesse in essere un’attività di controllo volta a verificare il corretto svolgimento, da parte dei dipendenti, del proprio lavoro. Anche perchè il monitoraggio attivato da parte datoriale riguardava il solo strumento di lavoro, ossia le comunicazioni sul Yahoo Messenger. I Giudici, quindi, hanno concluso che il controllo del datore di lavoro è stato svolto all’interno di determinati limiti ed è stato proporzionato.

In un commento di RedazionePMI.it (a cura dell’avv.Emiliano Vitelli) del 26 gennaio 2016 leggiamo che “la sentenza sarebbe forse potuta essere diversa se il dipendente avesse provato in giudizio che:

  • la propria condotta non aveva comportato danni (sotto molteplici profili) all’azienda;
  • il comportamento assunto trovava giustificazione in termini personali ed economici (es.: un cellulare costava troppo);
  • l’attività di controllo dell’azienda era stata svolta senza garanzie e i dati personali erano stati diffusi in maniera non giustificata”.

D’altra parte, a favore dell’impresa può senz’altro assumersi che

  • L’azienda aveva policy scritte, chiare e comunicate a tutti i dipendenti;
  • L’azienda ha il diritto di controllare il corretto svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti se tale verifica è circoscritta e proporzionata;
  • L’attività di controllo, quando i dipendenti hanno accesso a Internet (come anche le relative policy) deve prevedere le minacce al sistema IT aziendale”.

Concordiamo, comunque, con il pensiero sostanzialmente espresso dall’autore del surriportato commento, secondo cui la sentenza della Corte di Strasburgo possa considerarsi in linea con quanto previsto sia dalla normativa europea che da quella contenuta nel Jobs Act in tema di controlli sui dipendenti, avendo disposto che il maggior grado di discrezionalità da esse riconosciuto ai datori di lavoro può essere esercitato soltanto nell’ambito di un controllo che dovrà essere giustificato da obiettive esigenze aziendali non altrimenti tutelabili, dovrà essere circoscritto all’indispensabile e, soprattutto, essere proporzionato alle esigenze aziendali da soddisfare.

Modelli di comportamento ed indicazioni operative per i datori di lavoro

Riteniamo che, alla luce dell’assetto normativo introdotto dal Jobs Act (che va ad integrarsi con quanto previsto dalle disposizioni sulla tutela della privacy), nonchè degli interventi normativi a livello europeo e del pensiero espresso sul piano giurisprudenziale dalla CEDU, in considerazione della delicatezza della materia in discussione e dei vincoli operativi, cui è sottoposta l’impresa dai plessi normativi coinvolti in subiecta materia, sia assolutamente consigliabile che il datore di lavoro, una volta approntate le regole in materia di controlli in relazione a quanto previsto dall’art.4 della legge n.300/1970 nel testo novellato dal Jobs Act e dalla normativa sulla tutela della privacy, operi nel rispetto dei principi, dei punti-luce e delle linee, che, sul piano procedurale e sostanziale, possono così schematizzarsi:

Indicazioni operative sotto il profilo procedurale

predisporre una sorta di codice, di libello, di opuscolo, di “Regolamento aziendale in materia di controlli a distanza sui lavoratori mediante tecnologie”, che:

  1. a) descriva analiticamente le apparecchiature installate dall’impresa per soddisfare le esigenze aziendali richiamate dal primo comma dell’art.4 e dalle quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, nonchè le modalità di uso delle apparecchiature stesse, dimostrando come l’attivazione dei controlli mediante le descritte apparecchiature sia indispensabile per soddisfare le esigenze stesse;
  2. b) descriva analiticamente le tecnologie, di cui al secondo comma dell’art.4, che l’azienda ha concesso in dotazione ai lavoratori per lo svolgimento della prestazione, nonchè le modalità di uso delle stesse da parte aziendale e degli stessi collaboratori, specificando l’eventuale applicazione a dette tecnologie di congegni, dai quali possa eventualmente derivare la possibilità di controllo a distanza dell’attività lavorativa (ad es., congegni di geolocalizzazione);
  3. c) affermi che l’utilizzo, da parte aziendale, delle apparecchiature e degli strumenti, di cui all’art.4, primo e secondo comma, della legge n.300/1970, avverrà in piena conformità alle disposizioni, di cui allo stesso art.4, nonchè alle disposizioni delDecreto Legislativo30 giugno 2003 n.196 relativo al “Codice in materia di protezione dei dati personali” ed alla normativa dell’Unione Europea;
  4. d) riproduca il testo dell’accordo collettivo sindacale o, in alternativa, del provvedimento della Direzione Provinciale del Lavoro o del Ministero del Lavoro, relativi alla descrizione dei tipi di apparecchiature e strumenti che il datore è stato autorizzato ad installare, nonchè alle modalità di esecuzione dei controlli e di utilizzo degli strumenti concessi in dotazione ai lavoratori per rendere la prestazione;
  5. e) riproduca anche quanto contenuto nel successivo paragrafo 8.2), sottolineando che i monitoraggi a distanza di qualunque tipo sui lavoratori mediante tecnologie verranno eseguiti in piena conformità a quanto specificato nel paragrafo stesso.

Un triplice invito, poi, riteniamo doveroso rivolgere ai datori di lavoro, ai quali, onde acquisire la certezza di aver adottato modelli di comportamento del tutto coerenti con le prescrizioni normative, rappresentiamo la necessità di procedere in conformità alle seguenti indicazioni operative:

1) consegnare, brevi manu, ad ogni singolo collaboratore subordinato copia del Regolamento in questione, richiamando l’attenzione del lavoratore, nell’apposita lettera accompagnatoria, su quanto esposto nei surrichiamati punti a), b), c), d), e) e facendo firmare al lavoratore, per ricevuta e presa visione, una dichiarazione con cui il lavoratore attesta l’avvenuta ricezione e presa visione del Regolamento stesso e della lettera accompagnatoria;

2) in considerazione della delicatezza delle questioni in discussione, convocare incontri con i lavoratori, al fine di illustrare loro la materia dei controlli a distanza così come schematizzata nel Regolamento, avendo cura di far firmare ai partecipanti, al termine dell’incontro, una dichiarazione, con cui i medesimi danno atto ed attestano, ai sensi di quanto previsto dal terzo comma dell’art.4, di aver ricevuto integrale e preventiva informativa in relazione ad ogni punto del Regolamento stesso;

3) in relazione alla possibilità di utilizzo, anche ai fini disciplinari, delle informazioni raccolte dal datore attraverso i controlli, rendere anche il Regolamento oggetto di “affissione in luogo accessibile a tutti” ai sensi e per gli effetti, di cui all’art.7 della legge 20 maggio 1970 n.300 relativo alle sanzioni disciplinari.

Sotto il profilo sostanziale:

tenuto conto che, anche nella prospettiva europea, ci si muove nel senso di richiedere che i controlli a distanza sull’attività dei lavoratori siano disciplinati sul piano della dimensione normativa collettiva aziendale ed applicando gli stessi limiti vigenti in materia di trattamento dei dati personali, il datore di lavoro, nell’adozione delle regole che andrà a concordare con le rappresentanze sindacali aziendali e nelle modalità di attivazione dei controlli, dovrà tener conto che:

i destinatari dei controlli devono essere informati, preventivamente e nel rispetto del principio della trasparenza, in merito ai tipi ed alle caratteristiche delle apparecchiature che comportino controlli a distanza della loro attività e degli strumenti informatico-elettronici loro concessi in dotazionenonchè in ordine alle modalità di uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli. Tale esigenza potrà considerarsi soddisfatta se il datore avrà operato in conformità a quanto previsto dal precedente punto 7.1);

i controlli in questione potranno essere attivati soltanto se necessari, indispensabili per poter soddisfare le esigenze datoriali organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, tenendo presente che i controlli potranno considerarsi necessari soltanto nel caso in cui non vi sia altro modo, per il datore di lavoro, di tutelare le esigenze stesse con investimenti compatibili con il bilancio aziendale. Ne consegue, quale corollario di detto punto-luce, che i controlli dovranno rispettare il principio della pertinenza, nel senso che dovranno essere strettamente correlati ed adeguati al soddisfacimento delle specifiche esigenze aziendali, cui sono preordinati;

il controllo continuativo sull’attività di un dipendente è certo, di per sè, idoneo ad incidere gravemente sulla tutela della libertà, della dignità, della riservatezza e della personalità morale dei lavoratori, per cui esso potrà essere consentito nel solo caso in cui si riveli veramente indispensabile per salvaguardare l’incolumità delle maestranze o proteggere i beni aziendali (impianti, attrezzature, tecnologie, prodotti, semilavorati, strutture immobiliari) contro eventi che potrebbero porne in pericolo l’esistenza o la funzionalità (come incendi, deflagrazioni, anomalie nel funzionamento di impianti suscettibili di arrecare danni strutturali a persone e cose, ecc) o per verificare il corretto svolgersi nel tempo del processo produttivo. Ove possibile, pertanto, il controllo a distanza sulla prestazione del lavoratore dovrà essere attivato non continuativamente, ma accidentalmente, occasionalmente, sempreché, ovviamente, un tale controllo sia efficace sul piano della sua idoneità a soddisfare le esigenze datoriali. Inoltre, i controlli non dovranno mai essere individuali e, se effettuati non continuativamente, dovrebbero rispettare il principio della casualità.

I controlli in esame devono, comunque, essere proporzionati, sul piano del loro grado di continuità ed incisività o invasività, alle effettive esigenze aziendali da soddisfare, poichè il grado di compromissione della tutela del lavoratore consentito dall’art.4 della legge n.300/1970 è quello strettamente connesso con la necessità di soddisfacimento delle esigenze aziendali tutelate dalla norma stessa. Controlli proporzionati, dunque, e, in questo senso, rispettosi del principio della non eccedenza, in quanto mai eccedenti rispetto alle esigenze aziendali da soddisfare.

Si pensi, ad es., all’ipotesi (attualmente oggetto di disamina, da parte di chi scrive, quale consulente ed avvocato di parte datoriale) di un’impresa che ha installato in un reparto di un’unità produttiva (nella specie, uno stabilimento), una tecnologia d’avanguardia, particolarmente sofisticata, di assai consistente valore, al cui funzionamento, assai delicato e complesso, è previsto sia dedicato un tecnico specializzato appositamente formato. Poichè da taluni eventuali errori procedurali dell’incaricato nell’azionare, secondo la complessa scheda tecnica prevista, i molteplici comandi potrebbe derivare un blocco della macchina, con conseguenze di danni assai consistenti sia alla macchina stessa sia all’intero processo produttivo (che potrebbe subire un arresto) e, in alcuni casi, con pericolo per l’incolumità delle persone per effetto di possibili deflagrazioni, l’azienda ha deciso di installare una telecamera a circuito chiuso presso un ufficio della Direzione di Stabilimento, affinchè un responsabile, a sua volta, controlli in permanenza il corretto rispetto, da parte del preposto alla macchina, delle operazioni di gestione della tecnologia, nonché la corretta indicazione e trasmissione all’Ufficio centrale dei dati di produzione e di sfasamento. Nel caso di specie ci sembra sia sin troppo evidente che, se l’azienda non attiva mediante la telecamera a circuito chiuso un controllo di carattere continuativo sull’attività dell’addetto alla macchina, non si pone nelle condizioni di soddisfare quelle che, nel caso di specie, sarebbero esigenze sia produttive che di tutela del patrimonio che di sicurezza del lavoro. E questa è la ragione per cui mi sto orientando nel ritenere legittimo anche un controllo continuativo sul dipendente mediante la telecamera e mi sto determinando nel condurre l’azienda a stipulare con le rappresentanze sindacali unitarie un accordo che stigmatizzi le ragioni per cui, nel caso considerato, si rende indispensabile il controllo stesso.

Ma si pensi anche all’ipotesi dell’impresa, che, dovendo trasportare, mediante propri automezzi tecnicamente attrezzati allo scopo, prodotti farmaceutici o alimentari, che richiedono particolari condizioni di conservazione durante il trasporto, necessita della possibilità di monitorare continuativamente l’operato dei conduttori in ogni istante del viaggio, controllando permanentemente dalla sede dell’azienda, mediante appositi dispositivi, sia la geolocalizzazione dell’automezzo, sia le condizioni di efficienza psico-fisica del conduttore dell’automezzo e di rispetto, da parte del conduttore, della tabella di marcia, dell’itinerario e dei riposi, sia l’efficienza meccanica del mezzo, sia lo stato di conservazione della merce, al fine di poter disporre adeguati interventi ad opera di squadre tecniche strategicamente dislocate dall’azienda in aree territoriali dalle quali sia possibile raggiungere, in tempi ragionevolmente brevi, gli automezzi, nell’evenienza di qualsiasi necessità di prestare aiuto ad una unità mobile ed al suo conduttore.

Direi che questi siano proprio tipici esempi di casi nei quali quel controllo mirato, continuativo ed insistente, che, nella normalità dei casi, si considera, di per sè lesivo della dignità e della personalità morale del lavoratore, per il fatto di essere giustificato e reso, anzi, indispensabile dalla necessità di soddisfare le tre summenzionate esigenze, debba essere senz’altro ritenuto legittimo, anche se certo la protezione del lavoratore sotto il profilo del Titolo I dello “Statuto” potrebbe risultare in gran parte compromessa, a tutela, però, diciamolo pure, sia dell’incolumità delle stesse maestranze, sia dell’interesse dell’azienda a non esporsi a conseguenze dannose talmente pesanti da incidere negativamente sulla produttività aziendale, conseguenze che l’intera comunità dei lavoratori, compresi i singoli prestatori oggetto del controllo, ha senz’altro interesse ad evitare in funzione della tutela della produttività aziendale e, conseguentemente, della salvaguardia dei loro posti di lavoro.

Ove possibile, i controlli dovranno essere eseguiti nel rispetto del principio di casualità, nel senso che i controlli stessi dovranno dal datore di lavoro essere attivati nei confronti della generalità dei lavoratori o di gruppi di essi e non soltanto nei confronti di quei lavoratori che, per le più svariate ragioni, il datore desidera assoggettare a monitoraggio (ove possibile, quindi, non dovrà trattarsi di monitoraggi mirati).

Un richiamo, insomma, al datore di lavoro, perché operi secondo quella filosofia dell'”imparziale”, cui si ispira l’art.6 dello Statuto dei Lavoratori in materia di visite personali controllo, e che vieta al datore di effettuare perquisizioni personali nei confronti di lavoratori sospettati e, comunque, non individuati dal sistema di selezione automatica.

Tirando le fila del discorso e concludendo… 

Nell’adozione della nuova disciplina sui controlli a distanza il legislatore del Jobs Act si è trovato a dover mediare fra due tipi di modelli, ispirati a due opposte filosofie:

– il modello statunitense, in base al quale è ammessa la possibilità di monitorare l’attività dei lavoratori continuativamente mediante qualsivoglia strumento e senza alcun obbligo di preavvertire il dipendente che è o sarà oggetto di tracciamento (ad eccezione di quanto avviene negli States del Connecticut e del Delaware).

Leggendo sull’argomento un articolo del 27 aprile 2015 (su espresso.repubblica.it/attualità,, “Telecontrollo, una mina sul jobs Act”) abbiamo, ad es., appreso che, nello Stato di New York, un supervisore di carpenteria era stato licenziato, nel 2009, perchè, in sede di monitoraggio continuativo, dal gps del cellulare era emerso che lasciava troppo presto il lavoro. Ma lo stesso articolo enfatizza come “le nuove frontiere del monitoraggio made in USA utilizzino badges sofisticatissimi, dotati di antenne e sensori, che consentono di conoscere esattamente gli spostamenti del lavoratore….. Osa ancora di più un badge inventato da Hitachi nel 2014, che non solo traccia spostamenti ed interazioni personali del lavoratore (chi ha incontrato e per quanto tempo), ma anche può capire il suo livello di entusiasmo durante le riunioni (in base ai movimenti del corpo rilevati dai sensori). Risale già al 2008 un brevetto Microsoft per un software che, tra l’altro, può tracciare pressione del sangue ed espressioni facciali dei lavoratori, grazie ad un collegamento alle videocamere internet. Quelle più evolute già ora sono dotate di software di riconoscimento facciale”;

– il modello previsto dal testo dell’art.4 della legge n.300/1970 antecedente alla novella introdotta dal Jobs Act. Un modello che si era occupato dei controlli a distanza, gravandoli di consistenti limiti soltanto sul piano delle apparecchiature di videosorveglianza, quasi, come è stato giustamente osservato nell’articolo menzionato nel suesposto punto a), “pensando ad un mondo in cui il pericolo maggiore poteva venire da una telecamera puntata sulla postazione dell’operaio o dell’impiegato”. Un modello da adeguare all’evoluzione tecnologica intervenuta in questi ultimi decenni, in quanto non ha potuto tener conto che ormai i lavoratori operano in un sistema in cui iniziano ad essere controllati già dal momento in cui usano il badge quando fanno ingresso in azienda, in cui sono monitorati nel momento in cui effettuano il “log in” al computer aziendale o al netbook o al tablet concesso loro in dotazione o quando il datore di lavoro applica su tali strumenti informatici (tablet, notebook) o sulle autovetture dei dipendenti, spiate passo passo dal satellite, il gps, che consente di geolocalizzare in ogni momento il lavoratore. Bisogna riconoscere che ormai la tecnologia può tutto. “In passato”, come osserva l’autore dell’articolo surrichiamato, “l’azienda poteva effettivamente non essere in grado di associare certi dati con un singolo dipendente (chi ha fatto cosa, quando e dove). Adesso la tecnologia permette di saperlo con facilità: primo, perché gli strumenti (smartphone in primis) sono sempre personali; secondo, perchè sono gestiti in una rete aziendale, dove potenti software macinano tutti i dati e possono aiutare i responsabili a trarre dettagliate conclusioni sui comportamenti di ciascuno”.

Ci sembra che il Governo, ben consapevole che la normativa europea ha fissato dei principi che, se anche non aventi valore di legge nell’ordinamento italiano, i giudici italiani non mancheranno, comunque, di utilizzare come criteri interpretativi, e richiamandosi alla necessità del rispetto di quanto affermato dalle disposizioni sulla privacy, attraverso il regime giuridico introdotto con l’art.23 del D.Lgs.n.151/2015 abbia assunto un modello normativo, che, ponendosi come una terza via fra le due tratteggiate nei suesposti punti a) e b), consenta di contemperare in modo sufficientemente illuminato le esigenze aziendali con quelle di tutela dei lavoratori. Ciò anche se dobbiamo riconoscere che ci saremmo attesi un testo legislativo, che, entrando più in dettaglio nel cuore della disciplina dei controlli mediante tecnologie, formulasse i criteri per risolvere quei casi su cui il pensiero giurisprudenziale manifesta ancor oggi disparità di vedute, nonchè quei casi di contenzioso che senz’altro insorgeranno a fronte dell’applicazione, da parte imprenditoriale, delle tecnologie più spinte e d’avanguardia, che raggiungeranno o hanno già raggiunto il mercato italiano e ad alcune delle quali abbiamo già pur accennato.. E poi avremmo preferito anche un testo attento a recepire espressamente i punti-luce affermati dalla normativa europea e dalla nostra giurisprudenza di legittimità. Un testo, comunque, che possiamo considerare, in questa sua prima fattura, sufficientemente accettabile.

I datori di lavoro, infatti, sono stati investiti di ogni legittimazione all’esercizio dei controlli in argomento, ove dimostrino l’indispensabilità degli stessi per il soddisfacimento delle loro esigenze organizzative e produttive, di sicurezza del lavoro e di tutela del patrimonio aziendale. I lavoratori, d’altro canto, hanno visto confermato il diritto a che la materia continui ad essere regolata dalla contrattazione collettiva aziendale, quando venga azionata una tecnologia che consenta di monitorare a distanza la loro attività lavorativa ed hanno, altresì, visto riconosciuto loro il diritto alla preventiva informativa, nonché il diritto a controlli proporzionati sul piano della loro pertinenza, continuità, invasività e casualità, nonchè rispettosi delle tutele riconosciute dalla normazione sulla tutela della privacy.

Lo stesso Garante della privacy, del resto, ancor prima dell’entrata in vigore del D.Lgs.n.151/2015, aveva ammesso di essere consapevole che “le vecchie procedure di garanzia” avrebbero dovuto essere “ripensate per essere meno farraginose, più agili, ma comunque efficaci nel tutelare i vari interessi in gioco e che “l’importante è che la tecnologia, nel suo costante progresso, sia resa funzionale ai diritti coinvolti nel processo lavorativo: i diritti alla proprietà e all’iniziativa economica, da un lato; il diritto alla protezione dei dati personali dei lavoratori, dall’altro”, specificando, però, che, “secondo la Corte di giustizia europea, il diritto alla privacy prevale sugli interessi economici”.

Un testo, insomma, quello governativo attualmente in vigore, che ha saputo rendersi sufficientemente interprete degli adeguamenti da apportare al precedente regime normativo, anche se, certo, come si detto, suscettibile di essere ulteriormente integrato e/o modificato, anche a fronte dei riflessi che l’evoluzione tecnologica potrà spiegare sulle nuove forme e sui nuovi modelli di organizzazione del lavoro.

In particolare, ci sentiamo in linea con il pensiero espresso dal prof. Michele Tiraboschi, secondo cui bisogna prendere atto che le tecnologie, ormai così avanzate, consentono di tracciare il lavoro ed il lavoratore con riferimento a tutte le loro modalità di svolgimento e di porsi, ciò che, non dubitiamo, potrà anche contribuire ad aumentare la produttività e l’efficienza aziendale.

E’ ovvio, però, che controlli attivati mediante tecnologie così sofisticate finiranno per essere necessariamente invasivi, per cui, posto che lasciare i dati raccolti nella sola disponibilità dell’azienda sarebbe stato certo pericoloso, non si può che accogliere favorevolmente la soluzione di compromesso adottata dal Jobs Act, di ri-demandare alla potestà normativa della contrattazione collettiva aziendale l’organizzazione e la gestione dei monitoraggi in questione.

Ci auguriamo soltanto che la controparte sindacale si ponga con un atteggiamento intelligente ed aperto nei confronti dell’impresa e non eserciti azioni di opposizione preconcetta, di fronte alla obiettiva necessità di conoscere e raccogliere dati, come si conviene ad un sindacato illuminato ed all’altezza dei tempi e delle sue responsabilità, che è chiamato, proprio in nome di quella tutela dei lavoratori che passa, oggi più che mai, necessariamente attraverso la crescita e lo sviluppo dell’impresa, ad un ruolo, diremmo addirittura, di cogestore dell’azienda, di protagonista, con l’imprenditore, della gestione aziendale.

fonte: https://www.studiocataldi.it/articoli/21210-jobs-act-e-controlli-a-distanza-dei-lavoratori.asp

Venezia, scrive scuola con la «q»: maestra licenziata! Però puoi scrivere “traccie” invece di “tracce”, sbagliare il congiuntivo, dire “più migliori”, confondere Vittorio Emanuele III con Vittorio Amedeo III e allora il posto da Ministro dell’Istruzione nessuno te lo leva!

 

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Venezia, scrive scuola con la «q»: maestra licenziata! Però puoi scrivere “traccie” invece di “tracce”, sbagliare il congiuntivo, dire “più migliori”, confondere Vittorio Emanuele III con Vittorio Amedeo III e allora il posto da Ministro dell’Istruzione nessuno te lo leva!

 

Leggiamo da Il Messaggero (ma la notizia la trovate su tutti i quotidiani):

Venezia, scrive “scuola” con la “q”: maestra licenziata

Sono stati alcuni gravi errori ortografici fatti da una maestra, come scrivere “scuola” con la “q” o sbagliare le doppie, a spingere i genitori di una scuola elementare di Santa Maria di Sala (Venezia) a non mandare i figli a lezione per protesta. “Rischiano di restare ignoranti”, temono le famiglie.

Il licenziamento della donna, a seguito delle numerose segnalazioni alla preside, è stato confermato dal tribunale, che ha respinto la richiesta di trasferimento della docente.

La maestra, che tra il 2015 ed il 2016 aveva insegnato ad un totale di 39 alunni, ha fatto ricorso al tribunale del lavoro, con la speranza di poter essere integrata, ma senza successo: è stata infatti rimossa dall’incarico per “asserita incapacità didattica” e licenziata dal Ministero dell’Istruzione.

Ora, vorremmo ricordare chi è il nostro “Ministro dell’istruzione” che ha licenziato la maestra ignorante:

è quella che ha millantato una laurea per poi essere sputtanata dal web

è quella che ha scritto “traccie” invece che tracce per la maturità 2017

è quella che ha scritto “battere” al posto di batterio

è quella del congiuntivo sbagliato nella lettera spedita al Corriere della Sera

è quella che ha detto “più migliori” durante un discorso agli insegnanti

è quella che ha confuso Vittorio Emanuele III con Vittorio Amedeo III

…e tutto questo ed altro ancora in meno di un anno…

Sig.ra Fedeli forse, invece di andare a caccia di maestre ignoranti, è molto più meglio che te ne vai a cagare…

By Eles

Indagato per voto di scambio? E’ perfetto: Luigi Cesaro candidato per il Senato da Forza Italia

Forza Italia

 

 

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Indagato per voto di scambio? E’ perfetto: Luigi Cesaro candidato per il Senato da Forza Italia

 

Elezioni, tra i candidati per il Senato di Forza Italia spunta Luigi Cesaro

L’ex Presidente della Provincia di Napoli e deputato uscente è il candidato, capolista nel listino plurinominale per il collegio di Salerno, di Forza Italia per il Senato. Per Palazzo Madama FI propone anche Sandra Lonardo Mastella (collegio Avellino-Benevento-Caserta) moglie del sindaco sannita Clemente Mastella. Per la Camera, a Napoli e Napoli Nord, Forza Italia punta sul consigliere comunale Mara Carfagna.

Novità importanti, in casa Forza Italia, in vista delle elezioni parlamentari previste per il prossimo 4 marzo. Il partito di centrodestra ha annunciato le candidature per le due Camere: al Senato spunta il nome di Luigi Cesaro, capolista nel listino plurinominale del collegio di Salerno. Cesaro la spunta sul figlio Armando, consigliere regionale in Campania, che fino a poco tempo fa era dato quasi per certo. Proprio nei giorni scorsi, su Luigi Cesaro e sulla famiglia si era abbattuta una nuova scure giudiziaria: l’ex presidente della Provincia di Napoli (carica ricoperta dal 2009 al 2012) e deputato uscente, insieme proprio al figlio e ai fratelli Aniello e Raffaele – già in carcere con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa – è indagato per voto di scambio; avrebbe promesso posti di lavoro in cambio di voti proprio per l’elezione di Armando.

Per un seggio a Palazzo Madama, tra gli altri nomi di spicco figurano quello di Sandra Lonardo Mastella, moglie del sindaco di Benevento Clemente Mastella, capolista nel listino plurinominale del collegio di Avellino, Caserta e Benevento. Nel collegio di Napoli, invece, il capolista è il coordinatore regionale di FI Domenico De Siano. Per quanto riguarda la Camera dei Deputati, invece, per Napoli e Napoli Nord il partito di centrodestra schiera il consigliere comunale Mara Carfagna. Paolo Russo sarà capolista in Campania 1 e Campania 3, mentre per i collegi di Caserta, Salerno e Avellino-Benevento, i capigruppo sono rispettivamente Carlo Sarro, Enzo Fasano e Cosimo Sibilia

fonte: https://napoli.fanpage.it/elezioni-tra-i-candidati-per-il-senato-di-forza-italia-spunta-luigi-cesaro/

Roberto Formigoni è candidato al Senato per il centrodestra: capolista in tre collegi lombardi …perché a questa gente candidare uno onesto fa un po’ schifo

Roberto Formigoni

 

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Roberto Formigoni è candidato al Senato per il centrodestra: capolista in tre collegi lombardi …perché a questa gente candidare uno onesto fa un po’ schifo

 

Roberto Formigoni è candidato al Senato per il centrodestra: capolista in tre collegi lombardi

L’ex governatore Roberto Formigoni è candidato al Senato per Noi con l’Italia come capolista di tre collegi plurinominali della Lombardia: Milano, Monza-Brianza e Bergamo-Brescia. Formigoni è stato condannato a sei anni in primo grado per il caso Maugeri e attualmente è rinviato a giudizio nell’ambito di un procedimento per corruzione e turbativa d’asta.

Roberto Formigoni tornerà in Parlamento anche nella prossima legislatura. L’ex governatore della Lombardia, che ha presieduto la regione dal 1995 al 2013, è candidato al Senato per Noi con l’Italia, il partito che forma la cosiddetta “quarta gamba” della coalizione di centrodestra. Per “Noi con l’Italia”, Formigoni sarà candidato capolista in tre collegi plurinominali lombardi su cinque totali: l’ex governatore correrà nei collegi di Milano, Monza-Brianza e Bergamo-Brescia. Finita l’esperienza da governatore della Regione Lombardia, Roberto Formigoni venne eletto senatore nel 2013 nelle file dell’allora Popolo della Libertà, secondo in lista dopo il presidente Silvio Berlusconi. Nel novembre del 2013 passò però al Nuovo Centrodestra, la formazione politica fondata dall’ex delfino di Berlusconi, Angelino Alfano.

Formigoni dunque si trovò in Ncd a sostegno del governo di centrosinistra di Matteo Renzi insieme, tra gli altri, al ministro della Salute Beatrice Lorenzin e allo stesso Alfano. Nuovo Centrodestra si è recentemente scisso in due pezzi: da una parte Noi con l’Italia guidato da Maurizio Lupi e alleato della coalizione di centrodestra, dall’altro Civica Popolare, lista fondata dal ministro Lorenzin e alleata della coalizione di centrosinistra. Formigoni è stato condannato in primo grado a sei anni per il caso Maugeri ed è attualmente rinviato a giudizio per corruzione e turbativa d’asta.

“Il Tribunale di Milano ritiene che le utilità corrisposte a Formigoni in esecuzione dell’accordo corruttivo, tra il 2006 ed il 2011, siano stimabili nell’ordine di almeno sei milioni di euro, a fronte di circa 120 milioni di euro e di circa 180 milioni di euro che, nello stesso periodo, vengono erogati dalla Regione rispettivamente a Fondazione Salvatore Maugeri e Ospedale San Raffaele […] Non possono riconoscersi le circostanze attenuanti generiche, non essendo emerso, all’esito del dibattimento, alcun elemento di positiva valutazione dai gravi fatti posti in essere dalla più alta carica politica della Regione Lombardia per un lungo periodo di tempo, con particolare pervicacia sotto il profilo del dolo, con palese abuso delle sue funzioni, con l’ausilio di intermediari, in modo particolarmente callido e spregiudicato, per fini marcatamente di lucro e con grave danno per la Regione e per il buon andamento della pubblica amministrazione”, scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza di condanna per il caso Maugeri.

fonte:https://www.fanpage.it/roberto-formigoni-e-candidato-al-senato-per-il-centrodestra-capolista-in-tre-collegi-lombardi/

Per ricordare chi è Vittorio Feltri – Donne, se fate figli è un problema vostro ed è giusto che vi sottopaghino! …Capito femmine? Subite e state zitte! Lo dice Vittorio!

 

Donne

 

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Per ricordare chi è Vittorio Feltri – Donne, se fate figli è un problema vostro ed è giusto che vi sottopaghino! …Capito femmine? Subite e state zitte! Lo dice Vittorio!

Da Il Fatto Quotidiano di 2 anni fa

Nella comunicazione vige una regola aurea: se un commento, un articolo o un’esternazione sono troppo stupidi, patetici e soprattutto in malafede per essere commentati, la scelta migliore è lasciarli senza risposta, affinché cadano nel dimenticatoio il più presto possibile. L’articolo di Vittorio Feltri sui compensi delle donne e delle madri, pubblicato sul quotidiano Libero, rientrava senz’altro in questa casistica, con l’aggravante di una scrittura da bambino delle medie. Tuttavia, siccome il signore in questione, le cui argomentazioni sul rapporto tra i sessi e le donne hanno purtroppo grande seguito tra gli uomini, è il direttore di un giornale, nonché giornalista assai presente nelle trasmissioni tv, vale il caso di spendere qualche parola sulla sua complessa, sofisticata e brillante argomentazione. Che è la seguente: le donne guadagnano meno, ma il motivo è che fanno figli, e facendo figli si devono assentare dal lavoro e siccome quando si assentano dal lavoro non prendono soldi allora è normale che guadagnino di meno. In più, scrive l’acuta penna, fare figli non è un obbligo ma un hobby come coltivare le patate, per questo le donne – “matrone che sfornano figli” – non possono pretendere, se fanno bambini, di essere retribuite come gli uomini che fanno lavori “veri”, né tantomeno chiedere uno stipendio se vogliono fare le casalinghe. Fine del profondo ragionamento. Che imbarazzerebbe, quanto a connessioni logiche, e soprattutto informazioni sulla realtà, anche un’insegnante di una classe di adolescenti. Ah, dimenticavo, la base finemente filosofica del pezzo di Feltri è che “la natura non è democratica” e quindi le donne devono accettare le asimmetrie senza fiatare.

La prima riflessione da fare su questa non-riflessione è che ovviamente è in totale malafede. Com’è noto Feltri ha figli, maschi e femmine, e nipoti, e non crediamo, ma le interessate ci scrivano se sbagliano, che Feltri consideri le proprie figlie e nuore “matrone sforna figli” e che protesti vivamente, ad esempio telefonando ai loro datori di lavoro, affinché le sottopaghino rispetto agli uomini. Né crediamo consideri i propri nipoti meno che nulla, come invece sembra valutare i figli delle donne comuni, anzi probabilmente sarà un nonno che stravede per i suoi bambini, mentre sembra invece considerare ininfluente che esistano o non esistano i bambini di altri. È la solita miopia dei potenti, nella storia ce ne sono stati a milioni così. Affettuosi e amorevoli con i propri amati, sprezzanti verso il popolo senza nome né volto.

Ma veniamo all’ “argomentazione”. Non essendo ancora possibile per le donne autofecondarsi è del tutto evidente che un figlio si faccia in due. Ora non è chiaro perché la donna che deve portare avanti la gravidanza dovrebbe essere penalizzata a scapito dell’altro genitore che ci ha messo solo il seme. Il “ragionamento” di Feltri è che la natura è antidemocratica e che quindi bisogna accettare che chi porta la pancia sia penalizzato. Ma si tratta di una tesi che è eufemistico definire rischiosa. Se infatti vogliamo azzerare la scienza e la cultura, che servono appunto a compensare le iniquità della natura, proteggendo i più deboli e portando eguaglianza di diritti e di opportunità, dobbiamo immaginare un mondo selvaggio dove non esista alcuna legge né diritto, e il più forte prevalga sul più debole. Non credo che questo convenga al direttore di Libero, il quale, essendo anziano e dunque debole, sarebbe prontamente spazzato via dalla prima belva, ma che dico, belvetta. Viceversa si tratta del solito vecchio vizio di giocarsi le carte, in questo caso quella della natura, solo quando fanno comodo e sono a proprio favore, salvo riporle dentro la tasca quando invece potrebbero risultare scomode o a sfavore. Il meno che si possa dire è che si tratti o di ipocrisia o di ignoranza.

Ma parlando di ignoranza. A Feltri manca qualche elementare nozione di diritto del lavoro. Perché dovrebbe sapere che quando una donna va in maternità esiste un istituto di previdenza che paga il suo stipendio al datore di lavoro, mentre la donna riceve uno stipendio, sempre pagato anche con suoi contributi. Tutto questo serve proprio a garantire una continuità sia al datore di lavoro che alla donna, che quando ritorna dovrebbe trovare lo stesso posto e lo stesso stipendio di prima. Non è chiaro dunque perché la paga della donna che fa figli dovrebbe essere inferiore a quella di un uomo di identica mansione che i figli li fa, ma senza andare in maternità. O forse la carriera si gioca tutta in quei pochi mesi – trovatemi una donna che oggi va in maternità per anni – in cui una madre è assente? Invece Feltri ci dovrebbe spiegare, ma ovviamente non è in grado, perché a parità di mansione le donne, tranne che nei settori pubblici o molto protetti, guadagnino meno degli uomini, perché inoltre abbiano stipendi molto più precari, perché prendano pensioni ridicole in confronto a quelle degli uomini. E tutto questo,  anche senza figli (oggi una su due donne resta senza) o facendo uno – uno! – solo. L’unica spiegazione possibile è che le donne italiane sono penalizzate sui luoghi di lavoro esattamente in quanto donne, e non a caso tutti gli indicatori internazionali ci mettono agli ultimi posti quanto a gender gap (che per Feltri non esiste), retribuzioni femminili, povertà femminile e insieme, paradossalmente, numero di figli.

E veniamo all’ultima argomentazione. Da quanto dice Feltri, i figli in sé non sono un valore. Che ci siano o meno non cambia nulla. Che le donne li facciano o meno non cambia nulla. Sono un hobby come il suo, quello dell’orto, solo una questione privata. Evidentemente, il direttore di Libero ignora l’esistenza di una disciplina che si chiama demografia. E che misura la salute di una società proprio in base alla questione del ricambio tra generazioni. L’Italia è in una situazione gravissima, perché si trova in una sorta di piramide rovesciata, dove a pochi giovani corrispondono tantissimi anziani. Detto in soldoni, questo significa che tra poco per dieci anziani che prendono pensione e hanno bisogno di qualcuno che li curi ci saranno molti meno giovani di quelli che sarebbero necessari. Vorrebbe Feltri essere uno di quelli a cui non capita l’assistenza, e quindi rimanere sia senza pensione sia senza qualcuno che gli pulisca la bava quando non potrà farlo da solo? Non credo. Dovrebbe essere grato a quella donna che ha partorito quel figlio che presto lo imboccherà? Credo di sì. E credo, anzi sono sicura, che fare quel figlio non sia una questione privata, appunto, ma pubblica. Ma se è pubblica lo Stato deve mettere le donne in condizioni di fare figli, oltre che favorirle il più possibile quando intendano farlo, come d’altronde in tutti i paesi civili del mondo. E tutto questo solo da un punto di vista utilitaristico, al netto cioè della felicità che un figlio porta a livello individuale e collettivo.

L’ultima battuta è sul “lavoro vero”, l’unico che secondo Feltri dovrebbe essere pagato. C’è da chiedersi se sia più vero il lavoro di un giornalista che se ne sta comodo sulla sua sedia a scrivere commenti come questo, peraltro riccamente finanziato da fondi pubblici, o quello di una madre precaria che oltre a lavorare, magari andando alle sei del mattino a pulire le scale del Feltri-condominio, tira su due figli che presto saranno utili alla società. Ma su questo spero che i commentatori di questo blog non abbiano dubbi. Possiamo avere parere diversi sui ruoli dell’uomo e della donna e sulle istanze delle femministe. Ma dovremmo invece avere opinioni identiche sui deliri di un giornalista al quale bisognerebbe obiettare una cosa sola: mi scusi, ma lei che cazzo sta dicendo?

www.elisabettaambrosi.com
Per contattarmi: elisabetta.ambrosi@gmail.com
Guarda il mio video: 1 minuto per raccontarvi chi sono

 

tratto da: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/01/28/donne-se-fate-figli-e-un-problema-vostro-ed-e-giusto-che-vi-sottopaghino/4118468/

Cristina Bertuletti, Sindaco della lega: “Visto che è il giorno della memoria, ricordatevi di andare a pijarlo n culo” …la stessa che sosteneva che la segretaria della Cisl “meritava l’esecuzione capitale” e che auspicava la reincarnazione del duce… Questa è la cultura della lega. Ed è per questo che a me fa schifo la lega e soprattutto chi la vota!

 

giorno della memoria

 

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“Visto che è il giorno della memoria, ricordatevi di andare a pijarlo n culo” …Questa è la cultura della lega. Ed è per questo che a me fa schifo la lega e soprattutto chi la vota!

Giornata della memoria, post shock del sindaco leghista. Chieste le dimissioni

Cristina Bertuletti, prima cittadina di Gazzada Schianno (Varese), ha scritto su Facebook: “È il giorno della memoria, ricordatevi di andare a pijarlo…”.

Condannda dellʼAnpi. Salvini: “Ha scritto una sciocchezza”

“E’ il giorno della memoria, ricordatevi di andare a pijarlo…”. A scrivere la frase shock su Facebook, proprio sabato in occasione della Giornata della memoria, è stato il sindaco leghista di Gazzada Schianno (Varese), Cristina Bertuletti. Le sue parole sono state commentate con durezza dall’Anpi e dall’Arcigay di Varese che ne hanno chiesto le dimissioni. Il leader della Lega, Matteo Salvini, ha stigmatizzato: “Ha scritto una sciocchezza”.

“Le persone che hanno sofferto e perso la vita nei lager – scrive Ester De Tomasi, presidente dell’Anpi della provincia di Varese – sono morte anche per fare in modo che tutti abbiano diritto di parola. Una libertà usata nella maniera peggiore da chi scrive queste dichiarazioni vergognose”.

Non è la prima volta che Cristina Bertuletti lascia sul proprio profilo post provocatori. Nel marzo del 2016 aveva scritto che la segretaria generale della Cisl Annamaria Furlan “meritava l’esecuzione capitale”. Nel marzo dello stesso anno aveva auspicato la reincarnazione del duce.

Il post relativo al giorno della memoria, per chi non è “amico” del sindaco su Facebook, non è visibile, mentre sono pubblici i post su iniziative contro lo Ius Soli o un post del novembre 2017: “Tutti a far colazione al bar dell’ospedale di Legnano! Dux lux” con una mano che ricorda il saluto fascista.

E’ infine dell’ottobre 2016 una sua invettiva contro chi salva i migranti, sempre su Fb: “Ma tutti i bravi cristiani, cattolici, uomini di Caritas e donne dalla profonda Fede… ma dove (…) siete???? Uscite dai vostri confessionali e pigliatevi un paio di extracomunitari clandestini. Così. Per amore della diversità che è arricchimento. Per compiere la parola di Dio. Per dimostrare che non siete solo capaci a strapparvi le vesti come farisei quando noi razzisti parliamo di lanciafiamme”.

Salvini: “Ha scritto una sciocchezza” – Secondo il leader della Lega, Matteo Salvini il sindaco di Gazzada Schianno “ha scritto una sciocchezza. Quando ci sono di mezzo milioni di morti, bisogna pregare”. Intervistato a Rtl 102.5, Salvini ha precisato: “Secondo me, il problema dell’Italia intera è il fondamentalismo islamico, non il fascismo o il comunismo”, ha concluso ribadendo la sua posizione di chiusura “a nuovi centri islamici in Italia”.

 

tratto da: http://www.tgcom24.mediaset.it/politica/giornata-della-memoria-post-shock-del-sindaco-leghista-chieste-le-dimissioni_3120153-201802a.shtml

Risarcimenti alluvione, la Regione Liguria perde 15 milioni perché non Toti (Forza Italia) legge le mail, neanche quelle della Protezione Civile… Però gli incompetenti sono i Cinquestelle…!

 

Toti

 

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Risarcimenti alluvione, la Regione Liguria perde 15 milioni perché non Toti (Forza Italia) legge le mail, neanche quelle della Protezione Civile… Però gli incompetenti sono i Cinquestelle…!

Risarcimenti alluvione, la Regione Liguria perde 15 milioni perché non legge le mail

Il Dipartimento Nazionale di Protezione civile ha segnalato ben tre volte la disponibilità alla pec del presidente Giovanni Toti: invano. Il Governatore risponde: “Abbiamo già rimediato”, ma è investito dalle polemiche

Quindici milioni di euro pubblici per risarcire le imprese liguri che hanno subìto le alluvioni 2013- 2015 erano già stanziati dal governo: alle imprese, però, non sono mai arrivati. La Regione Liguria li ha « di fatto, persi » per sempre. Perché? Perché la presidenza della Regione Liguria non legge le mail. Neppure quelle che il Dipartimento nazionale di Protezione civile, l’estate scorsa, ha inviato per offrire proprio alla Regione quei quindici milioni di euro e in cui spiegava come fare per ottenerli. Inviate all’indirizzo presidente@ pec. regione. liguria. it e dunque indirizzate direttamente a Giovanni Toti l’opportunità di ricevere questi finanziamenti straordinari per aiutare le imprese colpite dai disastri. Tre mail: cui nessuno, però, ha mai risposto.

A denunciare la vicenda è una lettera ufficiale, protocollata l’ 11 gennaio scorso, con cui il direttore generale del Dipartimento Infrastrutture Ambiente e Trasporti, Adriano Musitelli, porta il fatto all’evidenza del segretario generale della Regione, Pier Paolo Giampellegrini, al direttore generale della Direzione Centrale e Organizzazione, Paolo Sottili, e al dirigente del Settore presidenza, Jacopo Avegno.
Il Dipartimento di Protezione civile scrive al presidente della Regione. Ma Toti ( o chi per lui deve farlo) non legge la posta. A scrivergli è l’ufficio del consigliere giuridico del Dipartimento nazionale di Protezione civile. Gli scrive il 5 giugno 2017, il 26 giugno 2017 e, infine, il 7 luglio 2017 per informarlo del finanziamento pubblico a sostegno delle imprese alluvionate. Per sollecitare una risposta. Per informarlo che se le domande non arriveranno in tempo perderà i fondi già stanziati. Nessun cenno. «Tale disguido ha determinato gravissime conseguenze giuridiche » usa parole pesantissime, Musitelli che prosegue « in particolare non ha permesso alla scrivente amministrazione di avviare le procedure contributive previste da una norma statale a favore delle imprese danneggiate dagli eventi alluvionali 2013/2015, per il cui riscontro erano state stanziate risorse a valere sull’annualità 2017, pari a circa 15 milioni di euro per la Liguria ».
Una vicenda che il consigliere regionale Gianni Pastorino, Rete a Sinistra – Liberamente, ha deciso di portare all’evidenza del consiglio regionale per cui sta preparando un’interrogazione al presidente Toti. «Prendiamo atto di questa denuncia che illustra conseguenze gravissime: non poter attingere a quei fondi, stanziati con un decreto del consiglio dei ministri del luglio scorso, significa aver escluso le imprese della Liguria da una chance di risarcimento che per molte imprese rappresenta un’ultima occasione di sopravvivenza attacca Gianni Pastorino – perdere una mole così ingente di risorse a causa di questioni procedurali, per quella che appare come una sorta di negligenza, è un fatto di una gravità inaudita». E aggiunge: « Erano in molte le imprese a non aver potuto attingere alle precedenti tranche di risarcimenti, questa occasione era cruciale anche perché quindici milioni per il nostro territorio, dove le imprese sono medio-piccole, significava risolvere molti problemi. Ancor più grave è che quei denari siano perduti per sempre».
La delibera del consiglio dei ministri del 28 luglio 2017 che prevedeva lo stanziamento straordinario per le imprese liguri colpite dalle alluvioni 2013-2015 aveva una scadenza: il 31 dicembre 2017. « Le risorse avrebbero dovuto essere assegnate alle imprese a seguito di una domanda di accesso, della necessaria istruttoria e dell’invio alla Presidenza del Consiglio dell’elenco delle imprese ammesse a partecipare al bando » , spiega ancora Musitelli. I tempi però non ci sono più, per compiere l’iter procedurale, quando il dirigente e gli uffici si accorgono del “ buco” di comunicazione. « La notizia dello stanziamento è pervenuta in modo casuale solo in data 17 novembre 2017 » , riporta, meticolosamente, Musitelli, che a quel punto si è attivato, con tutti i mezzi possibili, per informare il Dipartimento nazionale di Protezione civile che le mail, così preziose, fondamentali, non erano state lette.
«Il 21 dicembre 2017 il capo Dipartimento della Protezione civile ha comunicato, sentito il Mef, l’impossibilità di utilizzare i fondi 2017 nell’anno 2018 » , risorse che sono state «di fatto perse», sigilla Musitelli.
« Che una pec, ovvero una casella di posta elettronica certificata, intestata al presidente della Regione non venga letta è assurdo – scandisce Pastorino – che per questo le aziende liguri perdano 15 milioni di risarcimenti pubblici già stanziati è ancora più assurdo. E esige risposte pubbliche » . Oltre al fronte della politica, si potrebbe aprire quello dei potenziali beneficiari dello stanziamento che, in gruppo, potrebbero andare a chiedere i danni direttamente alla Regione Liguria per uno stanziamento destinato a loro e cui non hanno potuto attingere.

La risposta della Regione è arrivata oggi:  “I risarcimenti destinati alle imprese liguri danneggiate dalle alluvioni nel periodo 2013-2015 ci sono e sono stati confermati dal Capo della Protezione civile Angelo Borrelli” hanno detto il presidente di Regione Liguria Giovanni Toti e l’assessore regionale alla Protezione Civile Giacomo Giampedrone che hanno aggiutno: “Si è trattato di un problema tecnico-burocratico, che è stato immediatamente risolto come dimostra la nota ufficiale che ci ha inviato Borrelli del 18 gennaio scorso in cui viene esplicitato chiaramente che i fondi per coprire i danni dal maltempo alle imprese nel periodo 2013-2015 saranno assegnati alla Liguria nel plafond disponibile per la Liguria nel 2018”.

Una spiegazione che non convince le opposizioni. “La loro risposta non risolve la questione da me denunciata, anzi dimostra inequivocabilmente che nel migliore dei casi le aziende liguri siano state danneggiate da quello che l’assessore Giampedrone definisce con leggerezza un ‘problema tecnico-burocratico’” dice Gianni Pastorino , secondo il quale “è evidente che le aziende subiranno un considerevole ritardo nell’erogazione dei fondi a loro spettanti. Da rilevare, inoltre, che ‘casualmente’ il 4 marzo 2018 si vota. Ed è risaputo che, con le elezioni alle porte, si determinano incertezze in tutti i processi amministrativi”.
Anche il gruppo del M5S attacca duramente la giunta chiedendo spiegazioni.”Siamo abituati alla totale disorganizzazione che alberga nella giunta Toti, ma questa volta si sfiora il fantozziano” dice Fabio Tosi, portavoce in consiglio.
Il gruppo del Pd chiede a Toti di “Riferire in consiglio il comportamento di questa Giunta, che evitiamo di qualificare, e in particolare del suo presidente, perché è a lui che la comunicazione è stata inviata per ben tre volte fra giugno e luglio 2017, le imprese liguri hanno perso ben 15 milioni di euro, una cifra ragguardevole che avrebbe permesso a molte di loro di ripartire o di ripagare quegli investimenti fatti dopo i danni subiti”.

tratto da: http://genova.repubblica.it/cronaca/2018/01/26/news/risarcimenti_alluvione_la_regione_liguria_perde_15_milioni_perche_non_legge_le_mail-187287520/