Senatori assenteisti in Parlamento? In Francia ecco le multe fino a 4.400 euro! E noi cosa aspettiamo?.

 

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Senatori assenteisti in Parlamento? In Francia ecco le multe fino a 4.400 euro! E noi cosa aspettiamo?

Anche in Francia senatori e deputati hanno la brutta abitudine di assentarsi ripetutamente alla sedute in Parlamento, cosa che negli anni ha aumentato il grado di disaffezione dei cittadini alla categoria.

Adesso però le cose stanno per cambiare: il nuovo regolamento entrato in vigore prevede che i senatori che si assentano troppo devono pagare una multa molto salata, fino a 4.400 euro al mese. In questo modo il Governo francese pone un freno.

Il problema dell’assenteismo non riguarda solo i francesi, anzi i parlamentari italiani non sono da meno. Ecco qualche numero: Giorgia Meloni raggiunge il 75,22% di assenza in aula, Antonio Angelucci (FI) il 91,3%, Paolo Gentiloni (PD) assente al 69.37% delle votazioni, Erasmo Palazzotto (tesoriere di Leu) assente al 61.32%. Insomma, non si salva nessun partito. Non sarebbe forse il caso di copiare l’iniziativa francese?

Senatori assenti: in Francia multe superiori a 4mila euro

Per molti senatori del Parlamento francese, l’assenteismo è quasi un’abitudine quasi come per i colleghi italiani. Ma i Francesi sono meno fessi di noi – Per questo si è deciso di passare alle misure forti: è appena entrata in vigore una regola che impone il pagamento di una multa di 4.400 euro a tutti i senatori che si assentano ripetutamente alle sedute e alle votazioni.

Riuscirà una multa a risolvere il problema? Staremo a vedere… E magari a copiare…

Assenteismo in Parlamento, nessuna multa per senatori e deputati italiani

Non solo in Francia, ma anche in Italia, l’assenteismo di senatori e deputati alle sedute del Parlamento è un fenomeno tutt’altro che trascurabile. Capita spesso di vedere delle immagini di Montecitorio dove è evidente che molte poltrone sono vuote; e che dire del fenomeno dei cosiddetti “pianisti”, parlamentari che con un agile gioco di mani premono i tasti degli altri deputati/senatori facendoli risultare presenti. Insomma, anche il Parlamento italiano conosce i suoi “furbetti del cartellino”.

I numeri non sono affatto incoraggianti: storicamente tra i più assenti alle sedute in Parlamento troviamo – tra gli altri – anche nomi molto importanti come Giorgia Meloni, Daniela Santanchè, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Michela Vittoria Brambilla, Niccolò Ghedini, Tommaso Cerno, ma l’elenco è lunghissimo. Silvio Berlusconi nei molti anni al potere ha totalizzato un record: la sua percentuale di assenze in Parlamento è del 98,5%.

 

La proposta: Perchè non ridurre lo stipendio ai parlamentari assenteisti? Gente che arriva al 90% di assenze a spese nostre! Gente che sfila dalle nostre tasche il denaro dei loro faraonici stipendi come borseggiatori, ma con meno dignità. Sanguisughe, insomma!

 

 

parlamentari assenteisti

 

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La proposta: Perchè non ridurre lo stipendio ai parlamentari assenteisti? Gente che arriva al 90% di assenze a spese nostre! Gente che sfila dalle nostre tasche il denaro dei loro faraonici stipendi come borseggiatori, ma con meno dignità. Sanguisughe, insomma!

Perchè non ridurre (perlomeno) lo stipendio ai parlamentari assenteisti?

In qualsiasi altro lavoro le assenze ingiustificate portano al licenziamento!

Alcuni esempi:

È Michela Vittoria Brambilla di Forza Italia, secondo i dati raccolti da Openpolis, la parlamentare più assente alle votazioni alla Camera. In questo primo anno e mezzo di legislatura, l’attivista per i diritti degli animali non ha partecipato a 4308 votazioni su 4386, con una percentuale di assenze pari al 98,22%.

Dietro Brambilla, con il 91,50% di assenze, c’è un altro deputato di Forza Italia, l’imprenditore Antonio Angelucci, editore di diversi quotidiani come Libero e Il Tempo

Terzo per assenze alla Camera Vittorio Sgarbi (Misto) con il 75,64%. Come ricorda Openpolis, il dato sulle assenze riguarda le votazioni, non le altre attività parlamentari o l’assenza fisica dei deputati in Parlamento

Nella top ten dei deputati più assenti ci sono alcuni nomi ‘pesanti’, come la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, che non ha partecipato al 74,41% delle votazioni

Adattiamo lo stipendio mensile di ogni parlamentare al suo indice di presenza. Tale indice di presenza includerebbe sia le effettive presenze in aula che le missioni riconosciute (e terrebbe conto evidentemente delle assenze giustificate quali le malattie).

Le componenti dello stipendio spettante ad ogni parlamentare sono descritte nel link seguente:
http://leg16.camera.it/383?conoscerelacamera=4

E gli indici di presenza e di missione aggiornati sono disponibili qui di seguito per i deputati (attenzione, non esiste un indice cumulativo di presenza, bisogna guardare sia la colonna presenza che quella relative alle missioni per avere una percentuale rappresentativa della presenza del parlamentare):
http://parlamento17.openpolis.it/lista-dei-parlamentari-in-carica/camera/nome/asc

e qui di seguito per i senatori:
http://parlamento17.openpolis.it/lista-dei-parlamentari-in-carica/senato/nome/asc

Per esempio, un deputato che:

  • non ha altri stipendi oltre a quello da parlamentare;
  • vive a piu’ di 100 km da Roma;
  • in un intero mese è presente al 40% delle sedute;
  • nello stesso mese è assente per missione ad un altro 20%, 

avrebbe un indice di presenza cumulativo del 60% e si vedrebbe lo stipendio decurtato del 40% come segue:

  1. l’indennità parlamentare scenderebbe da 5.246,54 euro lordi a “soli” 3148 euro;
  2. le regole sulla diaria rimarrebbero invariate in quanto questa parte é già indicizzata in base alle presenze;
  3. i 1300 eurorimborsati per le spese di viaggio (assegnati senza fornire giustificativi) scenderebbero a 780 euro;
  4. i rimborsi per spese telefoniche (assegnati senza fornire giustificativi) scenderebbero da 258 euromensili a 155 euro;
  5. il rimborso per le spese di esercizio del mandato (nella quota non spettante ai collaboratori) di 1800 euro mensili(assegnati senza fornire giustificativi) scenderebbe a 1080 euro.

Il risparmio mensile totale sarebbe quindi di oltre 3000 euro

Altre ripercussioni dell’indice di presenza effettiva:
– pensione e assegno di fine mandato adattati alla percentuale di presenza del parlamentare lungo tutta la durata del mandato e della carriera parlamentare…

Pensiamoci…!

Vittorio Feltri sempre più ignobile e ripugnante, gongola per il primo caso di contagio in Africa: “Se il Coronavirus dilaga in Africa finalmente potremo chiudere i porti”

 

Vittorio Feltri

 

 

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Vittorio Feltri sempre più ignobile e ripugnante, gongola per il primo caso di contagio in Africa: “Se il Coronavirus dilaga in Africa finalmente potremo chiudere i porti”

Non tutti i mali vengono per nuocere. Il Coronavirus se dilaga in Africa finalmente sarà possibili in Italia chiudere i porti per motivi sanitari senza scomodare il razzismo.

V. Feltri

Ora, se noi ci augurassimo che il Coronavirus faccia strage nella redazione di Libero, come minimo ci verrebbero a chiudere il blog, come minimo … Ma noi non lo facciamo perché siamo uomini e non viscidi insetti… Però a questo essere immondo lasciano dire qualunque infamia…

Quando si parla di Vittorio Feltri ormai si è abituati ad aspettarci il pezzo.

La sua cattiveria mascherata da provocazione è ormai diventata un fenomeno di costume, e se fosse un singolo account intriso di crudele razzismo come tanti ce ne sono su Twitter la cosa non sarebbe più di tanto rilevante.

Ma il punto è che Feltri, inspiegabilmente, continua ad avere un seguito. E quando scrive una cosa atroce come questa, inevitabilmente i nazi-fascisti sono attirati come mosche (e ben sapete da cosa sono attirate le mosche).

Quel che ha avuto il coraggio di scrivere è un commento al fatto che c’è stato un primo caso di Coronavirus in Africa: “Non tutti i mali vengono per nuocere. Il Coronavirus se dilaga in Africa finalmente sarà possibili in Italia chiudere i porti per motivi sanitari senza scomodare il razzismo”.

Siamo oltre il razzismo, oltre la stupidità.

Qui parliamo di malvagità, perché stanno morendo delle persone. E anziché mostrare un briciolo di umana compassione, ci sono persone – come Feltri – che si divertono dal loro angolino oscuro di Internet, a spargere odio sulle macerie.

Che schifo!

 

By Eles

Il 19 febbraio 1937 – Il massacro di Addis Abeba, una vergognosa pagina della nostra storia che abbiamo cercato di dimenticare – Ma è proprio dimenticando certe cose che qualche idiota se ne esce con “…ma ha fatto anche cose buone”

 

massacro di Addis Abeba

 

 

 

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Il 19 febbraio 1937 – Il massacro di Addis Abeba, una vergognosa pagina della nostra storia che abbiamo cercato di dimenticare – Ma è proprio dimenticando certe cose che qualche idiota se ne esce con “…ma ha fatto anche cose buone”

Tra i tanti massacri perpetrati dagli Italiani in Etiopia durante il fascismo, di particolare efferatezza sono quelli eseguiti nel 1937 dopo il fallito attentato al Vicerè Rodolfo Graziani ad Addis Abeba.

Il 19 febbraio, in occasione della nascita di Vittorio Emanuele, primogenito di Umberto II di Savoia, il Vicerè dà ordine di preparare una cerimonia pubblica nel giorno della festa della Purificazione della Vergine secondo il calendario copto.

Graziani, volendo imitare un’usanza etiope, decide di distribuire a ciascuno dei poveri di Addis Abeba due talleri d’argento, uno in più rispetto a quanto ha sempre distribuito Hailè Selassiè. Insieme agli invitati una folla di derelitti confluisce, così, nel cortile del palazzo imperiale (“ghebbì”).

Improvvisamente due intellettuali eritrei (Abraham Debotch e Mogus Asghedom) lanciano contro il palco 7 o 8 bombe a mano uccidendo quattro italiani, tre indigeni e ferendo una cinquantina di presenti, tra cui lo stesso Graziani, colpito da diverse schegge.

Dopo i primi momenti di panico e indecisione vengono chiuse le uscite del vasto cortile per evitare la fuga degli attentatori. Subito si scatena il fuoco di fucileria dei militari italiani e degli ascari libici sulla folla che cerca di fuggire. Si spara per tre ore. Molte persone vengono uccise anche a colpi di scudiscio nei saloni del palazzo.

Fuori partono fulminee le rappresaglie, che proseguiranno per parecchi giorni.

Così descrive il massacro il prof. Harold J. Marcus: «Poco dopo l’incidente, il comando italiano ordinò la chiusura di tutti i negozi, ai cittadini di tornare a casa e sospese le comunicazioni postali e telegrafiche. In un’ora, la capitale fu isolata dal mondo e le strade erano vuote. Nel pomeriggio il partito fascista di Addis Abeba votò un pogrom contro la popolazione cittadina. Il massacro iniziò quella notte e continuò il giorno dopo. Gli etiopi furono uccisi indiscriminatamente, bruciati vivi nelle capanne o abbattuti dai fucili mentre cercavano di uscire. Gli autisti italiani rincorrevano le persone per investirle col camion o le legarono coi piedi al rimorchio trascinandole a morte. Donne vennero frustate e uomini evirati e bambini schiacciati sotto i piedi; gole vennero tagliate, alcuni vennero squartati e lasciati morire o appesi o bastonati a morte».

Il fallito attentato diventa, dunque, l’occasione per quello che Mussolini definisce, in un telegramma a Graziani del 20 febbraio, «inizio di quel radicale repulisti assolutamente (…) necessario nello Scioà». E il giorno dopo, sempre il Duce, telegrafa: «Nessuno dei fermi già effettuati e di quelli che si faranno deve essere rilasciato senza mio ordine. Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi».

Le violenze, come già detto, continuano per molti giorni, andando ben al di là dei tre giorni successivi nei quali si scatena la rappresaglia immediata. Circa 700 indigeni, rifugiatisi nell’ambasciata inglese, vengono fucilati appena usciti da questa.

Non si conosce il numero esatto delle vittime nei primi giorni successivi all’attentato. Fonti etiopi parlano di 30.000 vittime, fra 3.000 e 6.000 secondo la stampa straniera del tempo.

Gli attentatori, intanto, nonostante la taglia di 10.000 talleri messa sulle loro teste non si trovano. Su ordine di Graziani alla fine di febbraio vengono fucilate decine di notabili e ufficiali etiopi. Tutti muoiono con grande dignità e maledendo l’Italia.

Tra marzo e novembre ben 400 abissini, tra cui importanti persero la vita

vengono imprigionati e deportati in Italia con cinque piroscafi. Intere famiglie con donne e bambini sono confinate nel campo di concentramento di Danane, sulla costa somala, dopo aver sostenuto un lungo viaggio di 15 giorni con morti per stenti e malattie (vaiolo e dissenteria).

Il primo convoglio per Danane parte da Addis Abeba il 22 marzo, arrivando a destinazione solo il 7 aprile. Comprende 545 uomini, 273 donne e 155 bambini, ma moltissimi muoiono sulle strade battute continuamente dalla pioggia. Seguiranno altri cinque convogli per un totale, secondo fonti italiane, di 1.800 unità. Per gli etiopi tale cifra va moltiplicata per quattro. Secondo la testimonianza di Micael Tesemma (riportata da Angelo Del Boca), il quale trascorre nel campo tre anni e mezzo, su 6.500 internati ben 3.175 perdono la vita per scarsa alimentazione, acqua inquinata e malattie. Lo stesso direttore sanitario del campo – riferisce il testimone – avrebbe accelerato la fine di alcuni internati con iniezioni di arsenico e stricnina.

Il 28 febbraio Graziani arriva addirittura a proporre di «radere al suolo» la parte vecchia della città di Addis Abeba «e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento» ma Mussolini si oppone per paura di più decisive reazioni internazionali, pur confermando l’ordine di passare per le armi tutti i sospetti, ordine poi esteso a tutti i governatori dell’Impero.
Le esecuzioni proseguono anche a marzo e Graziani ordina anche la fucilazione di tutti i cantastorie, gli indovini e gli stregoni di Addis Abeba e dintorni, in quanto responsabili di annunciare nei vari mercati la fine prossima del dominio italiano. L’iniziativa è approvata da Mussolini.
Dalle carte di Graziani risulta una costante corrispondenza con Lessona nonché l’elenco dettagliato delle fucilazioni eseguite ad Addis Abeba e nella regione circostante dal 27 marzo al 25 luglio 1937 per un totale di 1.877 esecuzioni. Il 7 aprile il Vicerè telegrafa al generale Maletti che il territorio deve «essere assolutamente domato e messo a ferro e fuoco», precisando: «Più Vostra Signoria distruggerà nello Scioà e più acquisterà benemerenze».

Da una statistica dell’attività dell’Arma dei carabinieri, firmata dal colonnello Hazon e datata 2 giugno, si ricava che i soli carabinieri hanno passato per le armi 2.509 indigeni.

Sempre Ciro Poggiali racconta l’episodio di un capitano italiano che, dopo aver fatto razzia di bestiame a danno di una famiglia indigena, di fronte alle proteste del capofamiglia «uccide tutta la famiglia compresi i bambini». E ancora, sui metodi dei carabinieri: «Sul piazzale del tribunale assisto al trasporto, dopo la condanna per furto, di un giovinetto moribondo per denutrizione. Un altro non si regge in piedi per le botte. I carabinieri che hanno in custodia i prevenuti da presentare alla così detta giustizia, hanno importato dall’Italia, moltiplicandoli per mille, i sistemi polizieschi più nefandi».

Anche ai reparti militari che operano sul territorio etiope viene dato ordine di passare per le armi gli Amhara trovati, quali presunti responsabili dell’attentato. Così il capitano degli alpini Sartori è incaricato di eliminare 200 Amhara catturati nei dintorni di Soddu. L’ufficiale li ammassa in una grande fossa scoperta tra i dirupi e ordina ai suoi ascari di sparare. Il ricordo della carneficina turberà il resto della vita del capitano che morirà smemorato, qualche anno dopo, in una prigione del Kenya.

Da maggio in poi avviene la distruzione della chiesa copta sulla base anche di un rapporto dell’avvocato militare Oliveri. La tesi è quella di un complotto cui non è estraneo l’aiuto degli inglesi e della comunità ecclesiale copta. Il battaglione eritreo, composto in gran parte da copti, viene sostituito con uno somalo mussulmano, più adatto alla repressione dei cristiani.

Le truppe (un battaglione di ascari mussulmani e la banda galla “Mohamed Sultan”), dunque, comandate dal generale Pietro Maletti, partono per la cieca rappresaglia. Lungo i 150 km che da Addis Abeba portano alla città-convento di Debrà Libanòs vengono incendiati 115.422 tucul, tre chiese e un convento, mentre ben 2.523 sono i “ribelli” giustiziati.

Fino al 27 maggio vengono passati per le armi 449 tra monaci e diaconi. Secondo ricerche portate avanti da studiosi dell’Università di Nairobi e di Addis Abeba e comunicate ad Angelo Del Boca il numero delle vittime del massacro si aggirerebbe, invece, addirittura tra 1.423 e 2.033 uomini.

Le vittime, trasportate sul luogo dell’eccidio da una quarantina di camion, vengono incappucciate e fatte accucciare sul bordo di un crepaccio, uno a fianco all’altro. Le mitragliatrici sparano in continuazione per cinque ore. Interrotte solo per buttare i cadaveri nel crepaccio.

Coperto dall’approvazione di Mussolini, Graziani rivendicò «la completa responsabilità» di quella che definì con orgoglio la «tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia», soddisfatto di «aver avuto la forza d’animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall’abuna all’ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti».

Nel dopoguerra, nonostante le richieste etiopiche, nessun italiano venne mai punito per questi e per altri massacri, favorendo la rimozione dalla memoria collettiva dei crimini compiuti dagli italiani durante le guerre fasciste.

Nel 1946, il Governo Etiopico presentò alla Conferenza di Pace di Parigi un memorandum che segnalava le seguenti sconcertanti perdite:

Uccisi in azione: 275,000
Patrioti uccisi in battaglia: 76,000
Donne, bambini ed infermi uccisi dalle bombe: 17,800
Massacro del 19 febbraio 1937: 30,000
Patrioti uccisi dalle corti marziali: 24,000
Patrioti morti nei campi di lavoro a causa di privazioni e maltrattamenti: 35,000
Persone morte a causa di privazioni dovute alla distruzione dei loro villaggi: 300,000

TOTALE: 760, 300 esseri umani assassinati

 

Rita Pavone: “Io sovranista? Sì, se significa amare Italia” …A destra gongolano. Libero titola “sfida alla sinistra” …Ma solo loro se la possono bere: la Pavone vive in Svizzera da ben oltre 50 anni, ha lì la sua azienda e lì paga le tasse. In Italia viene solo per rompere le palle a Sanremo!

 

Rita Pavone

 

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Rita Pavone: “Io sovranista? Sì, se significa amare Italia” …A destra gongolano. Libero titola “sfida alla sinistra” …Ma solo loro se la possono bere: la Pavone vive in Svizzera da ben oltre 50 anni, ha lì la sua azienda e lì paga le tasse. In Italia viene solo per rompere le palle a Sanremo!

Partiamo dal titolo di Libero:

Verissimo, Rita Pavone a Silvia Toffanin: “Cosa significa essere sovranisti?”, la sfida alla sinistra

Nel testo dell’articolo si ritorta alle dichiarazioni della Pavone sul “sovranismo” a Verissimo: “Non so cosa voglia dire essere sovranista, ma se significa amore per il mio Paese, allora sì. Io amo l’Italia e le mie radici”.

Quindi è stata solo un’ingiustizia averla costretta all’esilio ed a pagare le tasse in Svizzera?

Per la cronaca ricordiamo che la cantante vive lì da ben oltre 50 anni, da quando si è sposata con Teddy Reno. “Questa terra mi ha dato la possibilità di realizzare il mio sogno di donna; di vivere, al di fuori della mia attività artistica una vita normale, tranquilla, non spiata, non seguita, con grande affetto da parte di chi mi frequenta, ma sempre con una certa discrezione”, ha dichiarato lei.

Tra l’altro, in Svizzera ha trasferito anche tutti i suoi interessi economici. “Nel mio piccolo” è la società che si occupa della sua immagine e dei suoi impegni professionali, intestata a “Rita Ori Filomena Merk-Pavone, da Breggia, in Morbio Superiore”.

La sede della società è proprio in Svizzera. A Breggia, per la precisione, un comune del Canton Ticino, poco più in là del lago di Como.

Insomma, in Italia viene solo per rompere le palle a Sanremo!

P.S. ricordiamo anche due chicche social della Pavone: quando ha ritwittato un tizio che si domandava come mai non ci fossero vu’ cumpra’ sulla Rambla di Barcellona nel giorno dell’attentato. ed ha scritto che Greta Thunberg sembra un personaggio da film horror…

 

By Eles

 

 

Come il capitalismo sta sfruttando il cambiamento climatico per fare soldi

 

 

capitalismo

 

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Come il capitalismo sta sfruttando il cambiamento climatico per fare soldi

Il 2019 è stato il secondo anno più caldo mai registrato nella storia. Più ci si avvicina ai Poli e più gli effetti sono drammatici: al Circolo Polare Artico il livello di surriscaldamento può essere anche doppio rispetto alle nostre latitudini, perché senza neve solo il 5% dell’energia solare viene riflessa, contro il normale 85-95%. Le immagini satellitari della Groenlandia raccolte tra il 1992 e il 2018 hanno evidenziato un ritmo di scioglimento dei ghiacci nella regione di molto superiore alle previsioni. Nella finestra temporale considerata la Groenlandia ha perso circa 3.800 miliardi di tonnellate di ghiacciai – riporta uno studio pubblicato su Nature – con un conseguente innalzamento globale del livello dei mari di circa 10 millimetri. Entro il 2100 le acque potrebbero ancora salire tra i 50 e i 120 millimetri: per tante specie animali questo significa la scomparsa del loro habitat e la condanna a morte per fame, mentre per il Pianeta conoscerà un meteo imprevedibile. Per 400 milioni di persone ogni anno il rischio di essere vittime di alluvioni e allagamenti diventerà sempre più concreto. Ma davanti a questo scenario molti preferiscono pensare ai vantaggi e ai guadagni nello sfruttare la regione Artica, dove si trova il 40% delle risorse globali di idrocarburi rimaste.

La Groenlandia – fino a ora dipendente dai fondi provenienti dalla Danimarca, da cui è solo parzialmente autonoma – è oggi, per armatori e compagnie di estrazione, il nuovo Eldorado. Il disgelo in questa terra inospitale consente un più facile accesso a terre rare e giacimenti di gas. La Groenlandia sarà sempre di più un punto nevralgico nei commerci mondiali tra Europa e Asia lungo le rotte del Polo Nord. Quella che è stata battezzata Northern sea route è un’alternativa sempre più allettante al passaggio per il Canale di Suez: fino al 30-40% più corta di quest’ultimo – dove ogni anno transitano 18mila imbarcazioni – dura solo una decina di giorni. Se il ritmo di scioglimento dei ghiacci continuerà a quello attuale, a breve sentiremo anche parlare della rotta transpolare, di ben due terzi più breve rispetto a quella di Suez.

La Russia, grazie alla sua posizione, è già pronta ad approfittarne: fornirà le infrastrutture e le navi rompighiaccio con la prospettiva di imporre tariffe per il passaggio. Nel 2014 l’ambasciatore russo per gli affari artici Anton Vasiliev, al convegno Arctic Frontiers – che riunisce politici, ricercatori, società civile e rappresentanti delle popolazioni indigene del Nord – ha promesso la costruzione di tre navi rompighiaccio a propulsione atomica e cinque a diesel, oltre a dieci centri di ricerca e soccorso e alla ristrutturazione di altrettanti porti che si affacciano sull’Oceano Artico. Anche gli altri Paesi che vi si affacciano vogliono la loro parte di profitto, approfittando della Convenzione Onu sul diritto del mare. Secondo la carta, gli Stati costieri possono rivendicare porzioni di crosta continentale sommersa secondo criteri scientifici. La Norvegia ha così ottenuto vasti territori nel mare di Barents, nel mar di Norvegia e nel bacino occidentale di Nansen, concedendo varie licenze di esplorazione, anche all’Eni. Nel frattempo, i cavi sottomarini per la fibra ottica vengono tirati dalla Finlandia al Giappone, per connettere anche l’estremo nord alla rete globale.

Se la Northern sea route riduce il consumo di energia per il trasporto, provoca però un aumento dell’inquinamento nel fragile ecosistema artico, contribuendo a sua volta ad accelerare lo scioglimento dei ghiacci, senza contare il rischio di perdite di carburante e il problema dello smaltimento delle scorie. Nonostante le preoccupazioni delle popolazioni indigene coinvolte, tra cui gli Inuit della Groenlandia e i Sami della Lapponia, sono in troppi a concordare con l’opinione dell’ex premier groenlandese Aleqa Hammond, che riconosce come “In Groenlandia i vantaggi dell’effetto serra sono maggiori degli svantaggi”. Tradotto, meglio guadagnare ora che preoccuparsi dei disastri ambientali – e, quindi, sociali, economici e sanitari – di domani.

Nel caso della Groenlandia, lo sfruttamento delle risorse può essere la chiave economica per permettersi l’indipendenza dalla Danimarca. Una ghiotta prospettiva di arricchimento per un Paese funestato da disoccupazione, alcolismo, violenza domestica e suicidi giovanili. Aqqaluk Lynge, tra i fondatori del partito Ataqatigiit al governo fino al 2013, ha riassunto: “Se vuoi diventare ricco devi pagare un prezzo”. E se al suo partito questa opzione non piaceva, le cose sono cambiate nel 2013 con il nuovo governo del partito Siumut, che ha revocato i precedenti divieti di attività mineraria sull’isola. “La decisione che abbiamo preso […] avrà enormi conseguenze sullo stile di vita e la cultura indigena. Ma alla fine supereremo tutto. Siamo vulnerabili, ma sappiamo adattarci”, sono state le parole di Hammond. In questo modo la Groenlandia si è aperta alle speculazioni di investitori stranieri, compagnie asiatiche e multinazionali: nel sud del Paese, a Kvanefjeld, esiste già una miniera di terre rare e uranio gestita da un consorzio sino-australiano, mentre altri progetti da miliardi di dollari sono in fase di discussione e costruzione.

Anche il settore agricolo rischia di essere stravolto dal surriscaldamento globale, e a guadagnarci saranno le nazioni più fredde (Russia e Canada in primis, oltre alla Scandinavia), dove aumento delle temperature e prolungamento della stagione di crescita garantiscono raccolti più ricchi e la sopravvivenza di specie animali un tempo inadatte ai climi più rigidi. In Canada, per esempio, sempre più coltivatori piantano granturco: se oggi la “fascia del mais” è negli Stati Uniti, tra Iowa, Illinois e Indiana, in 50 anni potrebbe spostarsi nella Baia di Hudson, in Canada, che nel frattempo investe sulla coltivazione della soia. Cambia anche la geografia del vino: mentre in Italia, Spagna e Francia meridionale i raccolti sono già minacciati da siccità prolungate ed eventi atmosferici estremi – e secondo uno studio le aree vitivinicole più note entro il 2050 potrebbero ridurre le aree di produzione tra il 20 e il 70% – nell’Europa centro-settentrionale si iniziano a piantare vigneti dove fino a qualche anno fa sarebbe stato impossibile. Se l’irregolarità del meteo deve preoccupare tutti, per il momento del climate change beneficiano i viticoltori tedeschi, sulle cui terre il clima garantisce la crescita di uve gustose e zuccherine. Il periodo della vendemmia cade sempre prima e qualcuno ha già provato a piantare uve Riesling in Norvegia. E le raccoglie mature, tanto che l’ipotesi di una bottiglia di vino scandinavo non è più fantascienza. Da noi, invece, presto le estati saranno troppo secche perché l’uva cresca senza irrigazione artificiale, rendendola in molti casi insostenibile sui piani economico e ambientale. Ovviamente gli eventi atmosferici estremi possono vanificare da un momento all’altro i vantaggi ottenuti, ma ancora una volta vince la filosofia di approfittare dei guadagni a breve termine piuttosto che preoccuparsi delle prospettive future.

Nemmeno il terziario si lascia scappare l’occasione fornita dal climate change a un’altra delle grande industrie del XXI secolo: il turismo. È in espansione il last chance tourism, l’ultima occasione di visitare luoghi incontaminati, una delle ghiotte opportunità derivate dallo scioglimento dei ghiacci artici. L’Islanda è da qualche anno presa d’assalto da un turismo spinto dal fenomeno Game of Thrones, con gruppi di sprovveduti che chiedono a che ora viene accesa l’aurora boreale, come racconta lo scrittore Hallgrímur Helgason. Ma se il boom del turismo islandese mostra già segni di declino e il Paese si preoccupa di come sostituire la fonte di reddito che l’ha aiutato a risollevarsi dalla bancarotta, i tour operato guardano a nord. Le navi da crociera progettate per l’Egeo, il Mediterraneo o i mari tropicali si avventurano lungo le coste della Groenlandia e delle isole Svalbard. Questa ricerca delle emozioni forti per compiacere i turisti, arrivando a sfiorare gli iceberg, aumenta però il rischio di incidenti gravi in un’area dove i soccorsi possono impiegare anche tre ore a raggiungere una nave in avaria, sempre che le comunicazioni funzionino.

Chi ha solo da perdere per l’emergenza climatica sono come sempre i più poveri. Il climate change infatti allarga il gap tra gli Stati ricchi e in via di sviluppo del mondo, che è maggiore del 25% di quanto sarebbe senza il surriscaldamento globale. La fascia tropicale africana e la più colpita, con un Pil pro capite fino al 40% più basso di come sarebbe stato senza l’aumento delle temperature. Tra il 1961 e il 2010, tutti i Paesi responsabili di meno di 10 tonnellate di anidride carbonica pro capite di emissioni storiche globali hanno sofferto gli effetti del cambiamento climatico con una riduzione del Pil pro capite del 27%. Negli stessi anni, quattro dei 19 Paesi colpevoli di oltre 300 tonnellate di anidride pro capite hanno conosciuto un aumento del Pil pro capite del 13%. Sul lungo periodo il climate change non può che danneggiare tutti, ma le sue disastrose conseguenze per ora non sembrano preoccupare gli investitori, mossi solo dalle possibilità di guadagno a breve termine. Ancora una volta, l’avidità di un ristretto gruppo di persone, sta condannando il futuro di tutto il Pianeta e dei suoi sette miliardi di abitanti.

di Silvia su The Vision
fonte: https://thevision.com/habitat/capitalismo-cambiamento-climatico/

Feltri dice che stuprare una donna fa schifo e “comporta una fatica bestiale” – Suvvia donne, lasciatevi stuprare senza fare tante storie, non fate stare in pena ‘sto misero rincoglionito tormentato per quei poveri disgraziati di stupratori che devono fare “una fatica bestiale”…

 

Feltri

 

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Feltri dice che stuprare una donna fa schifo e “comporta una fatica bestiale” – Suvvia donne, lasciatevi stuprare senza fare tante storie, non fate stare in pena ‘sto misero rincoglionito tormentato  per quei poveri disgraziati di stupratori che devono fare “una fatica bestiale”…

Si poteva fermare a un giudizio legittimo, dovuto e sacrosanto: lo stupro fa schifo.

Invece no, Vittorio Feltri non si limita a questa valutazione sulle violenze sessuali nei confronti delle donne e ha dovuto scrivere un’aggiunta che non ha nulla a che fare con il dolore che provoca una molestia fisica (ma anche psicologica). Anzi, è la solita misogina presa di posizione contro le donne. Un modo colorito per camuffare il classico “se l’è cercata”. Lo stupratore da carnefice diventa vittima che, poverino, è costretto a fare una “fatica bestiale”

Con un tweet, per fare polemica con David Parenzo, Feltri ha deciso di portare avanti il tema della “fatica bestiale”.

Il riferimento è a una dichiarazione fatta da David Parenzo che è stata decontestualizzata: il giornalista, infatti, ha detto che stuprare una donna è molto facile. Non solo in Italia, ma in tutto il mondo. E non si parla del concetto fisico dell’atto, ma di tutto quel che accade a una donna indifesa nelle mani di un uomo senza scrupoli che compie su di lei una violenza sessuale. Non si tratta di un’invenzione, ma di storie che, purtroppo, ritroviamo quotidianamente sulle pagine di cronaca. Ma Vittorio Feltri ha fatto polemica anche su questo.

D’altra parte, Parenzo è un giornalista, mentre Feltri se la gioca con quelli che scrivono sui muri dei cessi degli autogrill…

E poi la colpa non è di Feltri, poverino, ormai sconfitto dalla demenza senile… La colpa è di chi lo prende sul serio e dell’ordine dei giornalisti che ancora non l’ha cacciato a calci nel sedere…

Per non dimenticare, 16 febbraio 1943 – “Vi bruceremo tutti”. Quando l’esercito fascista uccise a sangue freddo 175 uomini e ragazzi del villaggio greco di Domenikon: una storia che la Rai, nel 2008, rifiutò di raccontare

Domenikon

 

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Per non dimenticare – “Vi bruceremo tutti”. Quando nel 1943 l’esercito fascista uccise a sangue freddo 175 uomini e ragazzi del villaggio greco di Domenikon: una storia che la Rai, nel 2008, rifiutò di raccontare

La Grecia resistette caparbiamente all’invasione italiana che, senza l’intervento tedesco, non avrebbe avuto successo. Roma dopo la capitolazione di Atene controllava circa due terzi del territorio greco e affidò al generale Geloso il comando delle operazioni. Costui emanò una circolare in cui affermava con decisione che i villaggi andavano distrutti, i beni materiali requisiti e le comunità sottoposte ad un ferreo controllo militare; il tutto per bloccare il nascente movimento partigiano.

All’ordine seguirono, in particolare in Tessaglia, incendi, requisizioni, rastrellamenti e violenze sui civili.

In questo quadro si consumò la terribile strage di Domenikon del 16 febbraio 1943.

Nel corso della mattina alcuni partigiani greci della zona avevano attaccato una pattuglia italiana provocando alcune vittime. Nel pomeriggio gli italiani della divisione Pinerolo comandati dal generale Cesare Benelli circondarono Domenikon e costrinsero gli abitanti ad ammassarsi al centro del villaggio. “Vi bruceremo tutti” dissero alcuni soldati, mettendo in allarme un maestro che conosceva la lingua.

Subito dopo arrivò l’aviazione che scaricò sul paese bombe incendiarie distruggendo numerose case, fienili e stalle. I greci vennero tenuti in ostaggio fino al tramonto quando gli uomini sopra i 14 anni vennero separati dalle donne. Poi nel cuore della notte cominciarono le fucilazioni. Almeno 150 civili vennero uccisi sul posto, forse duecento, se si considerano i morti del giorno seguente, quando i soldati della Pinerolo andarono alla ricerca di pastori e contadini,.Perché questo erano gli abitanti di Domenikon che si erano nascosti prima del rastrellamento.

La strage fu la prima di altri eccidi consumati nella Primavera del ’43, tra cui ricordiamo quelli di Tsaritsani, Neapoli, Domokos, Farsala e Oxinia.

E nel 2008, quando venne pubblicato il documentario ‘La guerra sporca di Mussolini’ che raccontava le stragi italiane durante la guerra (incluso il massacro di Domenikon), la RAI si dichiarò ‘non interessata’ al progetto. In piena coerenza, a dire il vero, con un paese che ha sempre evitato di affrontare in maniera diretta le proprie responsabilità nel conflitto più orrendo che la storia ricordi.

I generali Benelli e Geloso la fecero franca. Il nostro governo infatti, seguendo la logica del “baratto delle colpe”, si premurò più di salvare i criminali nostrani che chiedere giustizia per le stragi nazifasciste in Italia.
E così Domenikon venne cancellata per lungo tempo dalla memoria, al pari di Sant’Anna di Stazzema o Marzabotto.

 

Articolo di:

Cannibali e Re
Cronache Ribelli

 

Rotondi a Salvini e Meloni: “Eleggiamo Berlusconi al Colle” …niente male come idea, proprio niente male: dopo il fratello della vittima, l’amico dei mandanti…!

 

Berlusconi

 

 

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Rotondi a Salvini e Meloni: “Eleggiamo Berlusconi al Colle” …niente male come idea, proprio niente male: dopo il fratello della vittima, l’amico dei mandanti…!

L’ultimo democristiano apre uno scenario che Lega e Fratelli d’Italia dovrebbero tenere presente nell’ottica del futuro del centrodestra. Ma la presa di posizione viene letta con attenzione anche in alcuni settori del centrosinistra

Gianfranco Rotondi è uno che si fa anche la barba in maniera democristiana. Non interviene spesso, ma quando lo fa individua un percorso possibile. Sempre legato a quelle che sono le strategie di Silvio Berlusconi. Perciò il messaggio inviato attraverso l’AdnKronos va preso seriamente in considerazione.

Gianfranco Rotondi ha detto: “Salvini e Meloni chiedono le elezioni perché questo Parlamento è minoritario nel Paese, e non può eleggere il Capo dello Stato. I leaders della destra se ne facciano una ragione: questo parlamento durerà ancora tre anni, come vuole la Costituzione, ed eleggerà il nuovo Capo dello Stato. Il centrodestra è maggioritario nel Paese? Faccia valere in Parlamento questa condizione. Eserciti una pressione sul Parlamento per eleggere, per la prima volta, un presidente di centrodestra: il fondatore del centrodestra, Silvio Berlusconi“.

“Sono certo che questa idea susciterebbe una raccolta di firme di Micromega, un paio di editoriali di Travaglio, due o tre inchieste a Milano e Palermo, e una elezione plebiscitaria in parlamento dell’uomo politico con cui tutti i parlamentari, donne e uomini,vorrebbero andare a pranzo. Magari, tra qualche anno, al Quirinale” ha concluso Rotondi.

A chi è rivolto il messaggio? Intanto al centrodestra e, in particolare a Matteo Salvini e Giorgia Meloni, leader della Lega e di Fratelli d’Italia. Come dire: attenzione, che la maggioranza giallorossa dura tre anni. E può eleggersi il Capo dello Stato che vuole. Magari Romano Prodi, avversario irriducibile di Silvio Berlusconi e nume tutelare delle Sardine.

Ma non solo: siccome alle elezioni la Destra da sola non vince, l’unico modo per tenere Forza Italia legata alla coalizione in un sistema proporzionale è quello di dare una sponda importante a Berlusconi.

Ma tra i destinatari del messaggio ci sono pure alcuni “pezzi” dell’attuale maggioranza che sostiene Giuseppe Conte. Nessuno può escludere crisi e scissioni nei Cinque Stelle, nessuno può controllare Matteo Renzi. E quindi la maggioranza può rischiare, sia nei numeri che sul piano politico. E se proprio nel centrodestra le porte a Silvio Berlusconi continueranno ad essere chiuse, allora altre se ne potrebbero aprire.

La firma è di Gianfranco Rotondi. Ma si legge Silvio Berlusconi.

 

 

Roberto Benigni dal palco di Sanremo provoca Matteo Salvini: “Quest’anno a Sanremo si può votare anche al citofono”

 

Roberto Benigni

 

 

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Roberto Benigni dal palco di Sanremo provoca Matteo Salvini: “Quest’anno a Sanremo si può votare anche al citofono”

Roberto Benigni, ospite d’eccezione della terza serata del Festival di Sanremo 2020, non si è risparmiato sulle battute prima di esibirsi nel Cantico dei cantici e ha lanciato una stoccata anche a Matteo Salvini: “Non solo televoto, giuria demoscopica, giuria sala stampa, giuria dell’orchestra, quest’anno al festival di Sanremo si può votare anche via citofono…In via Matteotti c’è uno che canta”.

Roberto Benigni ospite d’eccezione della terza serata del Festival di Sanremo 2020. Nove anni fa arrivò in sella a un cavallo bianco e stavolta ha sfilato fuori il teatro Ariston, scortato dalla banda musicale di Sanremo “Canta e sciuscia”. All’ingresso del teatro è stato accolto dal conduttore e direttore artistico Amadeus e quindi accompagnato in platea, dove ad aspettarlo c’era un’intera platea in piedi, presi dal desiderio irrefrenabile di dedicargli una standing ovation in pieno stile sanremese.

La sua presenza al Festival avrebbe dovuto prevedere solo un’iniziale scambio di battute con Amadeus e una lectio magistralis sull’amore, una delle sue tante analisi incentrate sul sentimento che pervade le grandi opere della letteratura italiana, come la Divina Commedia, che ormai è diventata una parte fondamentale del suo curriculum televisivo. La scelta stavolta è ricaduta sulla ‘canzone più bella di sempre’, Il cantico dei cantici contenuto nella Bibbia. Un’esibizione valorizzata a tratti dalla sua cifra comica e dalla tendenza ad attualizzare alcuni passaggi per renderli fruibili a un pubblico più vasto possibile.

Prima di esibirsi in questa lettura, Roberto Benigni ha però lanciato un’ironica stoccata a Matteo Salvini: “Non solo televoto, giuria demoscopica, giuria sala stampa, giuria dell’orchestra, quest’anno al festival di Sanremo si può votare anche via citofono…In via Matteotti c’è uno che canta”. Il riferimento era chiaramente legato allo spiacevole episodio che ha visto protagonista Matteo Salvini che, sotto campagna elettorale, era andato a citofonare a casa di una famiglia tunisina, in diretta Facebook, dopo la segnalazione della presenza di un presunto spacciatore all’interno del nucleo. Il 17enne, intervistato a seguito della visita improvvisa, si è detto costernato perché da quel momento tutti hanno iniziato a chiamarlo “Yaya lo spacciatore”.

fonte: https://tv.fanpage.it/roberto-benigni-provoca-matteo-salvini-questanno-a-sanremo-si-puo-votare-anche-al-citofono/
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