25 settembre 2005 – Ucciso a botte dalla polizia, Federico Aldrovandi, morto a 18 anni…!

 

Aldrovandi

 

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25 settembre 2005 – Ucciso a botte dalla polizia, Federico Aldrovandi, morto a 18 anni…!

Federico Aldrovandi, studente ferrarese di 18 anni, è morto il 25 settembre 2005. Federico è morto per le percosse ricevute in strada, dove gli agenti avrebbero risposto a una presunta aggressione da parte del giovane.

Il 25 settembre del 2005 il ragazzo di 18 anni morì dopo essere stato fermato dalla polizia. Quattro poliziotti, Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri sono stati condannati a 3 anni e 6 mesi di reclusione, per “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”.

Era l’alba del 25 settembre 2005 quando moriva a 18 anni in seguito ai colpi ricevuti durante un controllo di polizia. Oggi ne avrebbe poco più di una trentina 30, tornava a casa in via dell’Ippodromo a Ferrara, da solo ma prima aveva passato la serata con alcuni amici. Aveva una felpa con un cappuccio, di quelle che usano gli adolescenti un po’ per mimetizzarsi, per essere uguali agli altri e non farsi notare. Ma quel giorno non bastò quella felpa per tornare sano e salvo nella sua cameretta.

Federico incontrò i diavoli. Quattro agenti di polizia, arrivati per la telefonata di una residente che si lamenta per gli schiamazzi. Secondo quanto si legge nella sentenza della Corte d’appello “il ragazzo era in evidente agitazione psicomotoria, calciò a vuoto contro gli agenti che invece del dialogo, delle prime cure sanitarie, dell’eventuale identificazione, seguirono una via violenta. Percosse anche quando lui gridava «Aiuto, basta»”.

Ha smesso di respirare alle 6 e 15. Cinquantaquattro lesioni e un decesso per asfissia da compressione toracica.

Sono passati tanti anni. I responsabili sono Enzo Pontani, Luca Pollastri, Paolo Forlani e Monica Segatto, che hanno invocato la legittima difesa, sono stati tutti condannati per eccesso colposo in omicidio colposo in via definitiva, a 3 anni e 6 mesi di reclusione, pena in parte coperta dall’indulto. La sentenza della Cassazione è del 2012. Per loro non c’è stata l’espulsione dal corpo di polizia.

Restano Patrizia e Lino, i genitori di Federico, il loro dolore si è fatto lotta per la verità, per la giustizia.

Restiamo noi che crediamo nelle divise pulite e nelle forze dell’ordine che proteggono i cittadini.

Resta la sua faccia con quella corona di sangue che ci ricorda che non dovremmo dimenticare finché giustizia non sarà fatta.

Ogni generazione ha il suo Cristo in croce con la sua corona di spine.

 

“Cento minuti in carcere con Lula” – Assolutamente da leggere…!

 

 

Lula

 

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“Cento minuti in carcere con Lula”

di Ignacio Ramonet *

All’ex presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, imprigionato nella città di Curitiba, nel sud del paese, sono consentite solo due visite alla settimana. Un’ora. Il giovedì pomeriggio, dalle quattro alle cinque. Dobbiamo aspettare il nostro turno. E la lista di coloro che desiderano vederlo è lunga… Ma oggi, 12 settembre, è il momento di Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace, e il mio.

Lula è in carcere, scontando una condanna di 12 anni e 1 mese “per corruzione passiva e riciclaggio di denaro”, ma non è stato condannato definitivamente (può ancora appellarsi) e, soprattutto, i suoi accusatori non sono stati in grado di provare la sua colpevolezza. Era tutta una farsa. Come confermano le devastanti rivelazioni di The Intercept, una rivista di ricerca online gestita da Glenn Greenwald. Lula è stato vittima della più assoluta arbitrarietà. Un complotto giudiziario totalmente manipolato, destinato a rovinare la sua popolarità e ad eliminarlo dalla vita politica. Per assassinarlo sui media. Impedendogli di presentarsi e vincere le elezioni presidenziali del 2018. Una sorta di “colpo di stato preventivo” …

Oltre ad essere giudicato in modo assolutamente arbitrario e indecente, Lula è stato costantemente linciato dai grandi gruppi mediatici dominanti – in particolare O Globo – al servizio degli interessi dei maggiori uomini d’affari, con un odio feroce e revanscista contro il miglior presidente della storia del Brasile, che ha tolto quaranta milioni di brasiliani dalla povertà e creato il programma “zero fame” … Imperdonabili… Quando suo fratello maggiore, Genival ‘Vavá’, il più amato, morì, non gli fu permesso di partecipare al funerale, nonostante fosse un diritto garantito dalla legge. E quando morì di meningite il suo pronipote Arthur, 7 anni, il più legato, gli fu permesso di andare solo per un’ora e mezza (!) alla veglia. Umiliazione, soprusi, vendette miserabili…

Prima di dirigerci verso il carcere – situato a circa sette chilometri dal centro di Curitiba – abbiamo incontrato un gruppo di persone vicine all’ex presidente perché ci spiegassero il contesto.

Roberto Baggio, leader locale del Movimiento de los Sin Tierra (MST), ci racconta come è stata organizzata la mobilitazione permanente chiamata “Veglia”. Centinaia di persone del grande movimento “Lula Livre!” si accampano permanentemente davanti all’edificio del carcere, organizzando incontri, dibattiti, conferenze, concerti…. E tre volte al giorno – alle 9:00, 14:30 e 19:00 – lanciano un urlo verso l’alto a pieni polmoni: «Buona giornata», «Buon pomeriggio», «Buona notte, signor Presidente!» … «Affinchè Lula possa sentirci, per dargli coraggio», ci dice Roberto Baggio, «e fargli arrivare la voce della gente. All’inizio, pensavamo che sarebbe durata cinque o sei giorni e che la Corte Suprema avrebbe rilasciato Lula… ma ora siamo organizzati per una Protesta Popolare Prolungata».

Carlos Luiz Rocha è uno degli avvocati di Lula. Va a trovarlo quasi ogni giorno. Ci racconta che il team legale dell’ex presidente mette in discussione l’imparzialità del giudice Sergio Moro, ora premiato da Bolsonaro con il Ministero della Giustizia, e l’imparzialità dei pubblici ministeri. «Deltan Dallagnol, il procuratore capo, me lo ha confermato di persona, mi ha detto che “nel caso di Lula, la questione legale è una pura filigrana”. Il problema è politico».

Rocha è relativamente ottimista perché, secondo lui, a partire dal prossimo 20 settembre, Lula avrà completato la parte di pena sufficiente per poter uscire agli “arresti domiciliari”. «C’è un altro elemento importante» ci dice «mentre la popolarità di Bolsonaro sta diminuendo bruscamente, i sondaggi dimostrano che la popolarità di Lula sta tornando a crescere. Attualmente, più del 53 per cento dei cittadini pensa che Lula sia innocente. La pressione sociale sta diventando sempre più intensa a nostro favore».

Siamo stati raggiunti dalla nostra amica Mônica Valente, segretaria delle relazioni internazionali del Partido de los Trabajadores (PT) e segretario generale del Foro de Sao Paulo.

Insieme a questi amici, ci mettiamo in cammino verso il luogo di prigionia di Lula. L’appuntamento con l’ex presidente è fissato alle 16:00. Ma prima andremo a salutare i gruppi di Veglia, ed è necessario prevedere le formalità di ingresso nell’edificio del carcere. Non è una prigione ordinaria, ma la sede amministrativa della polizia federale, al cui interno è stata improvvisata una stanza che funge da cella.

Entreremo per vedere Lula, solo Adolfo Pérez Esquivel ed io, accompagnati dall’avvocato Carlos L. Rocha e Mônica Valente. Anche se il personale del carcere è amichevole, sono molto severi. I telefoni ci vengono sottratti. La ricerca è elettronica e approfondita. É permesso solo portare i libri e le lettere dell’imputato, e ancora… perché Adolfo gli porta 15.000 lettere di ammiratori in una chiavetta USB ma gliela confiscano per verificarla molto attentamente… poi gliela restituiranno.

Lula è al quarto piano. Non lo vedremo in una sala visite speciale, ma nella sua stessa cella dove è rinchiuso. Saliamo con l’ascensore fino al terzo piano, e raggiungiamo l’ultimo a piedi. Alla fine di un piccolo corridoio, sulla sinistra, si trova la sua porta. C’è una guardia armata seduta di fronte a noi che ci apre la porta. In nessun modo assomiglia a una prigione – tranne che per le guardie – sembra più un ufficio amministrativo e anonimo. Il capo carceriere, Jorge Chastalo (è scritto sulla sua camicia), alto, forte, biondo, con gli occhi azzurro-verdi e gli avambracci tatuati, ci ha accompagnato qui. Un uomo gentile e costruttivo che ha, vedo, rapporti cordiali con il suo prigioniero.

La cella-camera è rettangolare, si entra da uno dei piccoli lati e ci si presenta in tutta la sua profondità. Poiché i nostri telefoni sono stati confiscati, non posso scattare foto e prendo nota mentale di tutto ciò che osservo.

Si tratta di circa sei o sette metri di lunghezza per circa tre metri e mezzo di larghezza, cioè circa 22 metri quadrati di superficie. Appena a destra, entrando, si trova il bagno, con doccia e servizi igienici; si tratta di una stanza separata. Sul retro, di fronte, due grandi finestre quadrate con barre metalliche orizzontali dipinte di bianco. Le tende da sole grigio-argento all’esterno lasciano entrare la luce naturale ma impediscono di vedere l’esterno.

Nell’angolo sinistro della cella c’è il letto singolo ricoperto da un copriletto nero e sul pavimento un piccolo tappeto. Sopra il letto, inchiodato al muro, ci sono cinque grandi fotografie a colori del nipote Arthur recentemente scomparso, e degli altri nipoti di Lula insieme ai loro genitori. Accanto, sulla destra e sotto una delle finestre, c’è un comodino in legno chiaro, stile anni ’50, con due cassetti sovrapposti, rosso quello sopra. Ai piedi del letto, un mobile in legno sostiene anche una piccola TV a schermo piatto nero da 32 pollici. A fianco, sempre contro la parete sinistra, c’è un tavolo basso con una caffettiera e quello che serve per fare il caffè. Attaccato ad essa, un altro mobile quadrato e più alto, serve da supporto per una fontana d’acqua, una bottiglia verde smeraldo come quelle che si vedono negli uffici. La marca dell’acqua è “Prata da Serra”.

Nell’altro angolo del fondo, a destra, si trova la zona palestra, con una panca rivestita di finta pelle nera per gli esercizi, elastici per il bodybuilding e un grande tapis roulant. Sul lato, tra il letto e il deambulatore, c’è un piccolo riscaldatore elettrico nero su ruote. Nella parte superiore della parete posteriore, sopra le finestre, c’è un condizionatore d’aria bianco.

Al centro della stanza, un tavolo quadrato di 1,20 metri di lato, rivestito in gomma bianca e blu, e quattro comode sedie, con braccioli, nere. Una quinta sedia o poltrona è disponibile contro la parete destra. Infine, incollato alla parete divisoria che separa la stanza dal bagno: un grande armadio a tre sezioni, in rovere chiaro e bianco, con un piccolo ripiano sul lato destro che funge da libreria.

Tutta modesta e austera, anche spartana, per un uomo che per otto anni è stato presidente di una delle prime dieci potenze del mondo… ma tutto era molto ordinato, molto pulito, molto organizzato.

Con il suo solito amore, con abbracci caldi e parole di amicizia e affetto, Lula ci accoglie con la sua voce caratteristica, rauca e potente. Indossa una camicia Adidas del Corinthians, la sua squadra di calcio paulista preferita, pantaloni Nike grigio chiaro e infradito bianche in stile Havaian. Sembra molto sano, robusto e forte: «Cammino nove chilometri al giorno», ci dice. E in ottime condizioni psicologiche: «Aspetteremo tempi migliori per essere pessimisti» dice «Non sono mai stato depresso, mai, da quando sono nato; e non lo sarò adesso».

Ci siamo seduti intorno al tavolino, lui davanti alla porta, con la schiena alle finestre, Adolfo alla sua destra, Mônica davanti, l’avvocato Rocha un po’ distante tra Adolfo e Mônica, ed io alla sua sinistra. Sul tavolo ci sono quattro tazze piene di matite e penne colorate.

Gli consegno i due libri che gli ho portato, le edizioni brasiliane di “Cento ore con Fidel” e “Hugo Chavez. La mia prima vita”. Scherza sulla sua stessa biografia che il nostro amico Fernando Morais scrive da anni: «Non so quando la finirà… Tutto è iniziato quando ho lasciato la Presidenza nel gennaio 2011. Pochi giorni dopo, sono andato ad un incontro con i cartoneros di San Paolo… Ero sotto un ponte, e lì una bambina mi ha chiesto se sapevo cosa avevo fatto per i cartoneros. Mi ha sorpreso, e le ho detto che, beh, i nostri programmi sociali, nell’istruzione, nella salute, negli alloggi, ecc. E lei mi disse: “No, quello che ci hai dato è la dignità”. Una bambina! Ne sono rimasto impressionato, ne ho discusso con Fernando. Le ho detto: “Guarda, sarebbe bello fare un libro con quello che la gente pensa di ciò che abbiamo fatto al governo, quello che pensano i funzionari, i commercianti, gli uomini d’affari, i lavoratori, i contadini, gli insegnanti? Chiedere loro, raccogliere le risposte… Fare un libro non con quello su cui posso contare nella mia presidenza, ma con quello che dicono i cittadini stessi… Quello era il progetto, ma Fernando si è gettato in un’opera titanica perché vuole essere esaustivo. Ha scritto solo del periodo 1980-2002, cioè prima che io diventassi presidente… ed è già un volume colossale! Perché in quel periodo di 22 anni sono successe tante cose… abbiamo fondato la CUT (Central Única de Trabajadores), il PT, il MST, abbiamo lanciato le campagne “Direitas ja!” a favore della Costituente… abbiamo trasformato il paese… Il PT è diventato il primo partito del Brasile. E devo chiarire che ancora oggi, in questo paese, c’è un solo partito veramente organizzato: il nostro, il PT».

Gli abbiamo chiesto del suo umore. «Oggi sono passati 522 giorni da quando sono entrato in questa prigione sabato 7 aprile 2017. Ed è stato esattamente un anno fa quando ieri ho dovuto prendere la decisione più difficile, scrivere la lettera in cui ho rinunciato a candidarmi alle elezioni presidenziali del 2018. Ero in questa cella, da solo… dubitando… perché mi sono reso conto che stavo cedendo a ciò che i miei avversari volevano, impedendomi di essere un candidato. É stato un momento difficile, uno dei più difficili… ed io ero tutto solo qui. Ho pensato: è come partorire con molto dolore e nessuno che ti tiene la mano».

Apre il libro “Cento ore con Fidel” e mi dice: «Ho incontrato Fidel nel 1985, esattamente a metà luglio del 1985… Sono stato all’Avana per la prima volta partecipando alla Conferenza sindacale dei lavoratori latinoamericani e caraibici sul debito estero. Avevo già lasciato la CUT, non ero più sindacalista, ero segretario generale a tempo pieno del PT e l’anno successivo ero candidato alle elezioni legislative. Ma in quella Conferenza non c’erano solo sindacalisti. Fidel aveva invitato anche intellettuali, professori, economisti e leader politici. Ricordo che erano già le cinque del pomeriggio, al Palacio de Congresos, presieduto da Fidel, che si stava annoiando. Poi Fidel, che non conoscevo personalmente, mi ha mandato un messaggio chiedendomi se stavo per parlare. Ho risposto di no, che non era previsto… Poi mi ha quasi dato un ordine: “Devi parlare, e sarà l’ultimo intervento, chiuderemo con te”. Ma la CUT non voleva che prendessi la parola in alcun modo, quindi non sapevo cosa fare. Verso le sette del pomeriggio, dalla presidenza del tavolo, Fidel annuncia, a sorpresa, che ho la parola… Sono stato quasi costretto a parlare, mi sono alzato, sono andato alla tribuna… e ho cominciato a parlare, senza traduzione. Ho fatto un lungo discorso e ho finito col dire: “Compagno Fidel, voglio dire agli amici qui riuniti che gli Stati Uniti stanno cercando in tutti i modi di convincerci che sono invincibili. Ma Cuba li ha sconfitti, il Vietnam li ha sconfitti, il Nicaragua li ha sconfitti e anche El Salvador li sconfiggerà! Non dobbiamo aver paura di loro”. C’è stato un forte applauso. Beh, la giornata finì e io andai nella mia casa assegnata a Laguito. Quando sono arrivato, chi mi stava aspettando nel soggiorno della casa? Fidel e Raùl! Entrambi erano lì seduti ad aspettarmi. Fidel cominciò a chiedermi dove avevo imparato a parlare così… Ho raccontato loro la mia vita… Ed è così che siamo diventati amici per sempre».

«Devo dire» aggiunge Lula «che Fidel è sempre stato molto rispettoso, non mi ha mai dato consigli irrealistici. Non mi ha mai chiesto di fare cose folli. Sempre prudente, moderato, un uomo saggio, un genio».

Lula chiede poi a Pérez Esquivel, che presiede il comitato internazionale a favore dell’assegnazione del Premio Nobel per la pace all’ex presidente brasiliano, come procede il progetto. Adolfo fornisce dettagli sul grande movimento mondiale a sostegno di questa candidatura e dice che il premio è annunciato, in generale, all’inizio di ottobre, cioè in meno di un mese…. E che secondo le sue fonti quest’anno sarà per un latinoamericano. Sembra ottimista.

Lula insiste sul fatto che il sostegno dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, presieduto da Michelle Bachelet, è decisivo. Dice che questa è la «battaglia più importante». Ma che non la vede facile. Ci racconta un aneddoto: «Qualche anno fa, quando ho lasciato la presidenza, ero già stato nominato per il Premio Nobel per la pace. Un giorno, ho incontrato la Regina Consorte di Svezia, Silvia, moglie del re Carlo XVI Gustavo. Lei è la figlia di una brasiliana, Alice Soares de Toledo, quindi abbiamo parlato in confidenza. E mi disse: “Finché sei amico di Chavez, non credo che tu possa fare molti progressi. Stai lontano da Chavez e avrai il Premio Nobel per la pace”. É così che vanno le cose».

Gli chiedo come giudica questi primi otto mesi di regime di Jair Bolsonaro. «Bolsonaro sta svendendo il paese» risponde «E sono convinto che tutto ciò che sta accadendo è pilotato da Petrobras… A causa del super giacimento off-shore Pre-Sal di petrolio, il più grande del mondo, con favolose riserve, di altissima qualità, scoperto nel 2006 nelle nostre acque territoriali. Anche se è a grande profondità – più di seimila metri – la sua ricchezza è di dimensioni tali da giustificare tutto… Posso anche dire che la riattivazione della IV Flotta, da parte di Washington, che pattuglia lungo le coste atlantiche del Sud America, è stata decisa quando è stato scoperto il deposito Pre-Sal. Ecco perché, con Argentina, Venezuela, Uruguay, Ecuador, Ecuador, Bolivia, ecc… abbiamo creato il Consiglio di Sicurezza di UNASUR: è un elemento determinante».

«Il Brasile» continua Lula «è sempre stato un paese dominato da élite che si sono volontariamente presentate agli Stati Uniti. Solo quando siamo arrivati al potere nel 2003, il Brasile ha iniziato a giocare un ruolo di primo piano… Siamo entrati nel G-20, abbiamo fondato i BRICS (con Russia, India, Cina e Sudafrica), organizzato – per la prima volta in un paese emergente – i Giochi Olimpici, la Coppa del Mondo di calcio… Non c’è mai stata così tanta integrazione regionale in America Latina! Per esempio, i nostri scambi all’interno del Mercosur erano di 15 miliardi di dollari; quando ho finito i miei due mandati erano di 50 miliardi di dollari. Anche con l’Argentina, quando sono arrivato c’erano 7 miliardi, quando ho finito 35 miliardi. Gli Stati Uniti non vogliono che noi siamo protagonisti, che abbiamo sovranità economica, finanziaria, politica, industriale e ancor meno militare. Non vogliono, ad esempio, che il Brasile firmi accordi con la Francia sui sottomarini nucleari… Avevamo fatto progressi al riguardo, con il presidente François Hollande, ma con Bolsonaro è crollato. Anche questa miserabile dichiarazione, così spaventosamente antifemminista, contro Monique, moglie del Presidente francese Emmanuel Macron, deve essere collocata in questo contesto».

Parliamo di molti dei suoi amici che hanno ancora responsabilità politiche di alto livello in vari paesi o in organizzazioni internazionali. Ci chiede di trasmettere a tutti loro il suo ricordo più affettuoso e li ringrazia per la loro solidarietà. Insiste: «Dite che sto bene, come potete vedere. Sono consapevole del perchè sono in prigione. Lo so benissimo. Non ignoro il numero di cause contro di me. Non credo che mi libereranno. Se la Corte Suprema mi giudica innocente, ci sono già altri processi in corso contro di me, così non me ne andrò mai via da qui. Non vogliono che io sia libero per non correre alcun rischio…. Questo non mi spaventa. Sono pronto ad essere paziente. E per quanto mi riguarda, sono fortunato… Cento anni fa, sarei stato impiccato, o ucciso, o smembrato… per far dimenticare ogni momento di ribellione. Sono consapevole del mio ruolo… non ho intenzione di abdicare. Conosco le mie responsabilità verso il popolo brasiliano. Sono in prigione, ma non mi lamento. Mi sento più libero di milioni di brasiliani che non mangiano, non lavorano, non hanno un alloggio… sembra che siano liberi ma sono prigionieri della loro condizione sociale, da cui non possono uscire».

«Preferirei essere qui innocente piuttosto che colpevole… A tutti coloro che credono nella mia innocenza, dico: “Non difendermi solo con fede cieca. Leggete le rivelazioni di The Intercept”. È tutto lì, discusso, testato, dimostrato. Difendetemi con argomentazioni… preparate una narrazione, una storia… Chi non elabora una narrazione, nel mondo di oggi, perde la guerra. Sono convinto che i giudici e i pubblici ministeri che hanno messo in atto la manipolazione per imprigionarmi non dormono con la tranquillità che ho io. Non hanno la coscienza pulita. Sono innocente. Ma io non mi siedo a braccia incrociate senza fare nulla. Ciò che conta è la lotta».

Curitiba, 12 settembre 2019

Ignacio Ramonet è un accademico, giornalista e scrittore spagnolo che ha vissuto Parigi per gran parte della sua vita. É stato caporedattore di Le Monde Diplomatique dal 1991 al 2008. Tra le sue opere in italiano, segnaliamo i libri “Marcos. La dignità ribelle” (Asterios Editore, 2001), “Il mondo che non vogliamo. Guerra e mercato nell’era globale” (Mondadori, 2003), “Fidel Castro, autobiografia a due voci” (Mondadori, 2007). L’intervista in spagnolo è stata pubblicata da Cubadebate.

*Fonte: Opera Mundi

tratto da:

http://contropiano.org/news/internazionale-news/2019/09/22/cento-minuti-in-carcere-con-lula-0118931?fbclid=IwAR2T8a9TIGdwqwsHfAdJ4SRf3kfmQ3nzfxgIHH17IHhdJYQ321WRqQ-Dtjc

Ai domiciliari Chiricozzi e Licci, i due fascisti di Casapound che, come bestie, violentarono e picchiarono a sangue una donna a Viterbo. Com’è che non si sentono cose tipo “non devono uscire vivi di galera”, “castrazione chimica” e l’immancabile “ruspa”? Forse non sono neri, ma fascisti?

 

fascisti

 

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Ai domiciliari Chiricozzi e Licci, i due fascisti di Casapound che, come bestie, violentarono e picchiarono a sangue una donna a Viterbo. Com’è che non si sentono cose tipo “non devono uscire vivi di galera”, “castrazione chimica” e l’immancabile “ruspa”?  Forse non sono neri, ma fascisti?

Francesco Chiricozzi e Riccardo Licci, i due militanti di Casapound che lo scorso aprile violentarono come bestie – picchiandola a sangue – una donna a Viterbo, sono ai domiciliari.

Ma non sentirete nessuno vomitare le solite cazzate folcloristiche fatte di “castrazione chimica” e dell’immancabile “ruspa”.

Non sentiremo un “non devono uscire vivi di galera” di cui qualcuno qualche mese fa si riempiva la bocca (ma in quel caso non si parlava di feccia fascista)

Questi due non sono negri, ma neri fascisti…

Che schifo.

 

by Eles

Più della metà degli elettori della Lega non va oltre la licenza media. E molti di questi sono fermi alla licenza elementare: ecco i dati… Capirete così da dove viene razzismo, omofobia, misoginia e fascismo…!

 

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Più della metà degli elettori della Lega non va oltre la licenza media. E molti di questi sono fermi alla licenza elementare: ecco i dati… Capirete così da dove viene razzismo, omofobia, misoginia e fascismo…!

Più della metà degli elettori della Lega non va oltre la licenza media: i dati

Chi vota Lega – Sulle pagine di Repubblica, sono stati pubblicati alcuni studi che evidenziano le caratteristiche dell’elettore medio della Lega, sulla base delle indagini di alcuni istituti demoscopici, in particolare Ixé e Emg Acqua.

Il primo dato che risalta è che il Carroccio ha incrementato il suo bacino elettorale nel Sud Italia: “9 elettori su 100 vivono nel Nord Ovest (un anno fa il rapporto era di 36 a 100), 25 su 100 nel Nord Est (con un la conquista di Emilia Romagna e Friuli) mentre l’aumento delle percentuali di leghisti al Centro (da 23 a 27 su 100) e al Sud (dal 12 al 18 su 100) è evidente. Più modesta la crescita nelle Isole (da 8 a 10)”.

In aumento anche l’elettorato femminile. Le Lega, inoltre, raccoglie i voti di molti delusi dal Movimento Cinque Stelle, passati in un anno dal 14 al 23 per cento.

“Non è un caso, in questo quadro, se muta anche il profilo professionale del leghista-tipo: aumenta il numero di coloro che hanno un impiego a tempo indeterminato, e soprattutto dei dipendenti pubblici, categoria ampiamente diffusa al Sud. E se è bassa la fascia di disoccupati, alta è l’età media: gli over 45 salgono dal 60 al 70 per cento del totale”, scrive Repubblica.

Chi vota Lega | Istruzione – “L’istruzione media dei fan salviniani non è elevata: il 55 per cento si è fermato alla licenza elementare o media. La fede, sulla carta, è solida (quasi la metà dichiara di partecipare almeno a una funzione religiosa ogni mese) e le posizioni sono conservatrici: ne è simbolo, in Sardegna, l’ultrà cattolico Alberto Agus, esponente del movimento Nova Civilitas che sostiene cinque candidati-top della Lega alle Europee”.

Altro dato interessante è che tra gli elettori di Salvini aumenta la percentuale di chi vuole restare in Europa (dal 59 al 67,7 per cento).

“E pensare che la Lega, cinque anni fa, aveva messo accanto al simbolo elettorale lo slogan ‘Basta Euro’. Ma l’armata verde ha cambiato fisionomia. E sono mutati anche gli obiettivi”, conclude Emanuele Lauria.

 

fonte: https://www.tpi.it/politica/chi-vota-lega-e-salvini-dati/

Per non dimenticare – 21 settembre 1943, l’Insurrezione di Matera contro i nazisti e la “Strage della milizia”

 

Insurrezione di Matera

 

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Per non dimenticare – 21 settembre 1943, l’Insurrezione di Matera contro i nazisti e la “Strage della milizia”

Il 21 settembre non è una data qualsiasi per la città di Matera.

Il 21 settembre del 1943, infatti, ci fu quella che comunemente viene ricordata come “l’Insurrezione di Matera”, nel corso della quale ci fu la “Strage della milizia”.

Un episodio accaduto durante la seconda guerra mondiale in Italia, quando proprio 21 settembre, nel corso degli scontri con i militari tedeschi, persero la vita 26 persone di cui 18 civili.

Matera fu così considerata la prima città del Mezzogiorno a insorgere contro il nazifascismo.

Subito dopo l’armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943, i fascisti abbandonarono il Palazzo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale che fu temporaneamente occupato dai soldati tedeschi appartenenti al Primo Battaglione della Prima Divisione Paracadutisti e capeggiati dal maggiore Wolf Werner Graf von der Schulenburg, che in un rapporto redatto dal capitano inglese R.L. Stayer per conto del War Crime Group di Padova, verrà inserito in un elenco di nazisti da “rintracciare e catturare” in quanto responsabile della strage di Matera e dell’eccidio di Pietransieri, un’altra strage compiuta dall’esercito tedesco il 21 novembre 1943 nel comune di Roccaraso. Durante gli ultimi giorni di permanenza dei tedeschi in città, la popolazione materana divenne sempre più esasperata dai saccheggi e dai soprusi compiuti dagli invasori che si preparavano alla ritirata.

Con il passare dei giorni la situazione si fece sempre più tesa e cominciarono i rastrellamenti e gli arresti di civili e militari rinchiusi dai tedeschi nel Palazzo della Milizia, tra cui Natale Farina e Pietro Tataranni, due soldati materani di ritorno dal fronte arrestati nel primo pomeriggio del 21 settembre.

La scintilla che fece precipitare una situazione di già grave tensione avvenne subito dopo, quando ci fu un conflitto a fuoco tra due militari italiani e due soldati tedeschi che stavano rapinando una gioielleria, in cui ebbero la peggio questi ultimi due. I testimoni dell’episodio, sapendo di rischiare una dura rappresaglia, cercarono di nascondere i due cadaveri ma non servì perché i nazisti insospettiti da strani movimenti si accorsero di quanto accaduto. Subito dopo un militare austriaco che si trovava in una sala da barba fu accoltellato da un altro cittadino materano, Emanuele Manicone, che appena compiuto il gesto corse per le strade per chiamare a raccolta i suoi concittadini affinché corressero alle armi.

Seguirono oltre tre ore di violenta guerriglia; il sottotenente Francesco Paolo Nitti per proteggere la cittadinanza decise di armare sia i militari che i civili dislocandoli in varie zone strategiche della città, tra cui la Prefettura; ne seguirono diversi conflitti a fuoco in cui persero la vita i civili Eustachio Guida, Francesco Paolo Loperfido ed Eustachio Paradiso, oltre ad Antonio Lamacchia, un pastore ucciso già la mattina del 21 nelle campagne a sud della città. Dal campanile della chiesetta della Mater Domini un cittadino materano, Nicola Di Cuia, fece fuoco sui nemici impedendo loro di avvicinarsi alla Prefettura, e numerosi furono i casi di cittadini intervenuti spontaneamente contro il nemico. Nei pressi della caserma della Guardia di Finanza vi furono altri lunghi momenti di guerriglia, con i finanzieri accorsi in aiuto dei cittadini materani; rimasero uccisi il finanziere Vincenzo Rutigliano (insignito della medaglia di bronzo al Valore Militare e a cui è dedicata l’attuale Caserma cittadina della Guardia di Finanza), il civile Emanuele Manicone, che nel frattempo era stato incaricato dai finanzieri di guardia al magazzino centrale di chiamare i rinforzi presso il Comando, ed il dottor Raffaele Beneventi, farmacista, che si trovava dietro la finestra della sua abitazione posta nei pressi della caserma della Guardia di Finanza e fu colpito dalle raffiche di mitragliatrice dei tedeschi.

Gli invasori assediarono anche il palazzo dell’elettricità per lasciare la città al buio e nelle operazioni di occupazione uccisero i civili Raoul Papini, Pasquale Zigarelli, Michele e Salvatore Frangione e ferirono Mirko Cairola.

Tuttavia il peggio doveva ancora accadere, infatti immediatamente prima di abbandonare la città i nazisti fecero saltare in aria il Palazzo della Milizia, ormai divenuto una prigione, con al suo interno sedici persone tra civili e militari.

L’insurrezione del popolo materano impedì ai tedeschi in ritirata di radere al suolo molti palazzi della città, ed evitò inoltre il bombardamento sulla città da parte degli alleati, che giunsero a Matera provenienti da sud immediatamente dopo quella tragica giornata.

In virtù dei sacrifici della popolazione, la città di Matera è stata insignita della Medaglia d’argento al Valor Militare. Tale onorificenza venne conferita il 21 settembre 1966 dal Ministro della Difesa Roberto Tremelloni e consegnata tre anni dopo dal suo successore Luigi Gui, il quale decorò della medaglia il gonfalone della città e scoprì una lapide con l’iscrizione: « Matera prima città del Mezzogiorno insorta in armi contro il nazifascismo addita l’epico sacrificio del 21 settembre 1943 alle generazioni presenti e future perché ricordino e sappiano con pari dignità e fermezza difendere la libertà e la dignità della coscienza contro tutte le prevaricazioni e le offese. »

Medaglia d’argento al Valor Militare – nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d’argento al Valor Militare «Indignati dai molteplici soprusi perpetrati dal nemico, gruppi di cittadini insorsero contro l’oppressore e combatterono con accanimento, pur con poche armi e munizioni, per più ore, senza smarrimenti e noncuranti delle perdite. Sorretti da ardente amor di Patria, con coraggio ed ardimento, costrinsero l’avversario, con aiuto di elementi militari, ad abbandonare la Città prima dell’arrivo delle truppe alleate. Città di Matera, 21 settembre 1943.»

Gino Strada: “Non vedo più la sinistra, ma solo comitati d’affari”

 

Gino Strada

 

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Gino Strada: “Non vedo più la sinistra, ma solo comitati d’affari”

A inizio anno ha vinto il premio “Sunhak Peace 2017”, assegnato a personalità e organizzazioni che si distinguano per il loro contributo alla pace e allo sviluppo umano. Il 10 febbraio, invece, ha posato con Renzo Piano la prima pietra per la costruzione di un centro di chirurgia pediatrica d’eccellenza in Uganda. Gino Strada è il fondatore di Emergency: “Oggi”, dice, “parlare di pace è considerato irreale e utopistico. Noi siamo contro la guerra in un mondo in cui non esiste più un partito, un’organizzazione internazionale che la ripudi davvero”.
Qual è l’ultima scommessa di Emergency?Stiamo lavorando per riprendere a operare nel nostro ospedale di Erbil, nel Kurdistan iracheno, che avevamo lasciato qualche anno fa alle autorità locali. Su richiesta del governo curdo e dell’Unione europea, riprenderemo a curare lì i feriti che arrivano da Mosul, dove si combattono l’esercito iracheno e gli uomini di Daesh, con attacchi indiscriminati alle aree abitate dai civili e i residenti in fuga usati come scudi umani.
Quali sono le attività di Emergency oggi nel mondo?Dalla sua fondazione, nel 1994, Emergency ha curato gratuitamente 8 milioni di persone. Le nostre attività sono soprattutto chirurgia di guerra, pediatria e maternità: in Afghanistan, per fare un esempio, abbiamo tre ospedali chirurgici, un centro maternità – che abbiamo dovuto raddoppiare perché non ci stavamo più dentro – e una quindicina di cliniche. In Sudan, abbiamo un centro di cardiochirurgia, un ospedale pediatrico per il trattamento del colera e una clinica pediatrica in un grosso campo di rifugiati che raccoglie dalle 600 alle 800 mila persone. E siamo anche in Sierra Leone e nella Repubblica Centrafricana.
Avete attività anche in Italia. A Milano si vedono i camion rossi di Emergency per l’assistenza agli stranieri.Siamo a Milano, a Marghera, a Palermo e in diversi posti della Sicilia. A Polistena, in Calabria, abbiamo un ambulatorio fisso. Poi ci sono gli ambulatori mobili che seguono i migranti che si spostano per i raccolti. Ce n’è uno a Ponticelli, Napoli, e uno sportello di assistenza a Sassari. Faccio fatica a star dietro a tutte le cose che apriamo.
In Italia non assistete più solo gli stranieri.Quando abbiamo cominciato, nel 2006, pensavamo di occuparci solo di migranti. Ora invece ci occupiamo anche di italiani poveri che non riescono più a curarsi come si deve perché la sanità, che dovrebbe essere gratuita, non lo è più. Il sistema sanitario sta diventando privato. Il paziente deve pagare. Magari non molto, ma quel non molto per tanti è troppo.
In Europa e nel mondo intanto si innalzano muri.Negare asilo ai rifugiati è vergognoso. Ma è anche la fine dell’Europa, che non era nata sull’idea dell’esclusione, della fortezza assediata. Ci riempiamo la bocca di parole come “globalizzazione”, diciamo che il mondo non ha più confini, quando in realtà i confini non ci sono solo per le merci. Soltanto gli imbecilli possono pensare di fermare migrazioni che nella storia non è mai stato possibile fermare. Ogni sera, una persona su nove va a dormire affamata. Come possiamo essere sorpresi che milioni di esseri umani lascino la loro casa e si mettano in viaggio per sfuggire alla povertà e alla guerra?
Anche la sinistra pensa a come “governare” i flussi migratori.Io non so che cosa sia la sinistra. Capisco cos’è destra e sinistra se si parla del codice stradale, se si parla di politica non lo capisco più. Del resto, anche in Italia, la miglior politica di destra l’ha fatta la sinistra. Bisognerebbe tornare a discutere di valori e di principi fondamentali, invece ormai i governi sono in modo spudorato semplicemente dei comitati d’affari delle multinazionali. Il primo problema che dovrebbero affrontare è quello della guerra, da rifiutare sempre e comunque, non “questa no”, “quella sì”. Questo atteggiamento ha fatto fallire anche le istituzioni internazionali: l’Onu fu creata per impedire la guerra, invece da allora nel mondo ci sono stati 160 conflitti. È finito: il suo Consiglio di sicurezza è diventato il consiglio degli armaioli del mondo, che producono e vendono armi per i conflitti. Se vogliamo sperare che l’umanità sopravviva, dobbiamo smettere di ammazzarci.
da: Il Fatto quotidiano, 19 febbraio 2017
fonte QUI

Riccardo Licci e Francesco Chiricozzi gli stupratori di Viterbo ai domiciliari – Egidio, 82 anni, arrestato per il “gravissimo” reato di aver salvato un migrante, lasciato crepare in carcere… È questa la giustizia in Italia?

stupratori

 

 

 

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Riccardo Licci e Francesco Chiricozzi gli stupratori di Viterbo ai domiciliari – Egidio, 82 anni, arrestato per il “gravissimo” reato di aver salvato un migrante, lasciato crepare in carcere… È questa la giustizia in Italia?

Disposta la scarcerazione per i due ex militanti Casapound che violentarono una donna di 36 anni in un pub. Applicato il braccialetto elettronico e chiesto il giudizio immediato

Francesco Chiricozzi e Riccardo Licci, ai domiciliari con braccialetto elettronico. Tornano a casa i due viterbesi ex militanti di CasaPound arrestati per lo stupro di donna di 36 anni , in un pub che, fino a primavera, risultava tra le sedi ufficiali del movimento di estrema destra. Entro venerdì lasceranno il carcere Mammagialla, dov’erano rinchiusi dal 29 aprile…

Insomma per i due fascisti stupratori niente carcere (per il momento, speriamo…)

E solo qualche giorno fa Vi avevamo parlato di Egidio:

Egidio – Morire in carcere a 82 anni, per un reato “gravissimo”: aveva salvato un migrante! Lo hanno ucciso quei politici che si possono permettere di rubare, mentire, ingannare, corrompere… ma a cui non succede mai niente! …E i Tg MUTI…!!

…E’ questa la giustizia in Italia?

I sozzoni salvano Sozzani, il deputato di Forza Italia accusato di illecito finanziamento e corruzione!

 

Sozzani

 

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I sozzoni salvano Sozzani, il deputato di Forza Italia accusato di illecito finanziamento e corruzione!

La Camera ha negato l’autorizzazione all’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti del deputato di Forza Italia Diego Sozzani. La votazione è avvenuta per scrutinio segreto. L’esito del voto è stato accolto da un applauso di parte dell’emiciclo, in particolare dei deputati azzurri. I voti a favore sono stati 235, 309 i contrari, un astenuto. Partito Democratico e Movimento 5 Stelle avevano annunciato voto favorevole agli arresti domiciliari. Precedentemente, l’aula aveva votato contro anche all’uso delle intercettazioni per il deputato accusato di finanziamento illecito: in quel caso, solo i grillini avevano dichiarato voto favorevole, mentre tutti gli altri partiti, incluso il Pd, avevano annunciato voto contro. Nella votazione precedente, 352 deputati hanno quindi bocciato la richiesta del gip di Milano, contro i 187 (presumibilmente grillini) e due astenuti.

E solo ieri Vi avevamo parlato di Egidio:

Egidio – Morire in carcere a 82 anni, per un reato “gravissimo”: aveva salvato un migrante! Lo hanno ucciso quei politici che si possono permettere di rubare, mentire, ingannare, corrompere… ma a cui non succede mai niente! …E i Tg MUTI…!!

…Ma Egidio non faceva parte di questa casta di m….!

Per non dimenticare – 19 settembre 1943, Boves: la prima strage nazista in Italia

 

Boves

 

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Per non dimenticare – 19 settembre 1943, Boves: la prima strage nazista in Italia

«Quel settembre “era buono per i funghi”. Il padrone del caffè Cernaia imbottigliava il dolcetto arrivato da Dogliani; nella calzoleria Borello si preparavano gli zoccoli, per i giorni di fango e di neve. Le cose di sempre in un villaggio piemontese che non aveva capito la guerra e neppure la confusione, dopo la disfatta; vissuto per secoli nel suo quieto sogno di alberi, di fontane, di vicende e di commerci minimi; costretto ora a esprimere in poche ore, in una luce rossastra, tutta la capacità umana di soffrire». Quel villaggio, descritto così sul sito dell’Associazione partigiani (Anpi) di Lissone, è Boves nel settembre del 1943: un piccolo paese dell’Italia profonda, diecimila anime comprese le frazioni montane, conosciuto solo dai suoi abitanti, poco distante da Cuneo, che si ritrovò di colpo nella Storia con la esse maiuscola, la Storia cattiva, quella che uccide e brucia e distrugge. Boves fu il teatro della prima strage compiuta in Italia dai nazisti, 24 civili trucidati, 350 case date alle fiamme, eseguita il 19 settembre del 1943 per punire gli italiani traditori dell’8 settembre e terrorizzare chi aveva in animo di unirsi o comunque sostenere le prime bande partigiane che già si erano costituite sulle montagne.

Boves era sconosciuta ma Cuneo non era una città qualsiasi, almeno per la nascente Resistenza italiana. Era il luogo di nascita e lavoro di Tancredi Achille Giuseppe Olimpio Galimberti, un avvocato che nel 1943 aveva 37 anni e che tutti conoscevano come «Duccio», il soprannome con cui sarebbe passato alla storia d’Italia. Il 26 luglio 1943, il giorno dopo la caduta di Mussolini, Galimberti, da tempo militante clandestino del Partito d’Azione, si era affacciato al balcone del suo studio nella centralissima piazza Vittorio (oggi piazza Galimberti) e aveva tenuto un comizio improvvisato per celebrare la fine del regime fascista: «La guerra continua – disse – fino alla cacciata dell’ultimo tedesco e alla scomparsa delle ultime vestigia del fascismo». La riunione fu dispersa a colpi di manganello dalla polizia e lo stesso Galimberti fu denunciato e poi colpito da un mandato d’arresto, revocato dopo tre settimane. Insomma, «la camicia non era più nera/ma il fascismo restava padron», come avrebbero poi cantato i partigiani giellisti nella Badoglieide, la canzone satirica contro il nuovo capo del Governo, Pietro Badoglio, composta da Nuto Revelli e Dante Livio Bianco di cui vi abbiamo parlato qui. Lo studio di Galimberti divenne il principale centro di reclutamento e organizzazione delle brigate partigiane di Giustizia e Libertà, il braccio armato dell’omonimo movimento politico fondato a Parigi dai fratelli Carlo e Nello Rosselli e confluito poi nel Partito d’Azione, di cui «Duccio» fu capo e ideologo fino alla cattura da parte dei fascisti e alla morte nel dicembre 1944.

Il terreno di coltura dell’antifascismo, dunque, nelle valli cuneesi non era scarso nè infertile. Così sulle pendici della Bisalta, il monte che sovrasta Boves, si costituiscono da subito le prime bande. Una delle più importanti è quella guidata da Ignazio Vian, un ex sottotenente della Gaf (la Guardia alla frontiera, la polizia di confine del regime) di 26 anni che nemmeno un anno dopo, nel luglio 1944, sarà catturato, torturato e impiccato dai fascisti a Torino. Le prime azioni provocano una reazione dei tedeschi, che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e il voltafaccia dell’Italia stanno procedendo in fretta alla cattura e all’internamento del  Regio esercito allo sbando e all’occupazione dell’Italia centro-settentrionale. Il 16 settembre compare a Boves un proclama del “generale” Joachim Peiper, comandante delle truppe tedesche operanti in zona, in cui si minacciano rappresaglie contro chi aiuta le formazioni composte dai militari italiani, ai quali non viene riconosciuto lo status di combattenti regolari. In realtà Peiper, 29 anni, non è un generale ma uno Sturbannfuehrer, ossia un maggiore, delle SS appartenenti alla divisione corazzata Leibstandarte Adolf Hitler, nata dall’espansione della guardia del corpo del dittatore tedesco. Insomma, i più nazisti dei nazisti, veterani del Fronte orientale, combattenti irriducibili e feroci.

Il 19 settembre, una domenica, una Fiat 1100 con due SS arriva a Boves alle 10 del mattino e incrocia un gruppo di partigiani venuti in paese per rifornirsi di pane. I tedeschi si lasciano catturare senza opporre resistenza e vengono portati via insieme alla loro auto. Verso mezzogiorno un reparto di SS attacca le posizioni della formazione di Vian e viene respinto. Uno scontro piccolo e breve, dove cadono un partigiano, l’ex marinaio Domenico Burlando di Genova, e un soldato tedesco, il cui cadavere viene abbandonato dai commilitoni in ritirata. Alle 13 arriva a Boves il grosso del reparto tedesco, comandato dallo stesso Peiper. Si cerca il commissario prefettizio, ma è introvabile. Allora i tedeschi convocano il parroco Don Giuseppe Bernardi (46 anni) e un industriale della zona, l’ingegnere Antonio Vassallo. Li incaricano di andare dai partigiani e farsi restituire i due soldati prigionieri, l’auto e anche il cadavere del caduto. Solo così si potrà evitare la rappresaglia nei confronti del paese. I due accettano e chiedono a Peiper un impegno scritto. La risposta è sprezzante: la parola di un ufficiale tedesco vale gli scritti di tutti gli italiani, dice più o meno Peiper (sulle parole esatte i testimoni sono discordi). I due partono dopo le 14 con un’auto pubblica, una Lancia Augusta, guidata da Vittorio Luigi Dalmasso (qui, al minuto 6:08, citato come testimone in un filmato della cineteca Rai) e assolvono la loro missione: i due soldati, cui non è stato torto un capello, vengono riconsegnati e così l’auto e la salma del tedesco morto. La Fiat e la Lancia rientrano a Boves alle 15 e 15 circa.

Sembra finita ma non è così. Don Bernardi e Vassallo vengono trattenuti e guardati a vista vicino al monumento ai caduti, in piazza Italia. Parte la rappresaglia: piccoli gruppi di SS percorrono la città bruciando e uccidendo. Per fortuna molti abitanti sono già fuggiti. Ma non sono pochi i vecchi e i malati che non hanno potuto scappare e cadono sotto il piombo: alla fine le vittime saranno 24, compreso un sacerdote, il viceparroco Antonio Ghibaudo. Il suo parroco subisce la stessa sorte: don Bernardi e Vassallo vengono portati in giro a vedere la distruzione del loro paese, poi vengono fucilati. I loro cadaveri saranno ritrovati carbonizzati. Secondo alcune fonti erano ancora vivi quando le fiamme li avvolsero, ma in proposito non c’è certezza. Intanto Peiper bombarda con l’artiglieria le posizioni partigiane. Le bande rimarranno attive in zona e nelle altre valli del Cuneese fino alla fine della guerra. Tanto che Boves sarà di nuovo attaccata durante un rastrellamento tra il dicembre 1943 e il gennaio 1944: altri 59 morti tra partigiani e civili.

Dopo la guerra due avvocati italiani tentarono di portare in giudizio a Stoccarda gli autori della strage, a cominciare da Peiper, ma il processo non fu mai celebrato. L’ufficiale venne condannato a morte per la strage di decine di prigionieri americani (circa 80) a Malmedy, in Belgio, durante l’offensiva delle Ardenne di fine 1944. La sentenza fu commutata nel carcere a vita ma Peiper fu poi rilasciato nel 1956. Morì nel luglio del 1976 in un incendio scoppiato nella sua casa francese di Travers, in Borgogna, dove viveva sotto falso nome. Secondo alcune ricostruzioni, il rogo sarebbe stato doloso, appiccato da ex partigiani francesi comunisti che avevano scoperto la vera identità della vittima. La figlia di Antonio Vassallo, Liliana, che a 18 anni dovette riconoscere la salma carbonizzata del padre, è stata per tutta la vita professoressa di lettere nelle scuole medie della zona tra Boves e Mondovì ed è morta nel giugno del 2012. Per Don Bernardi e Don Ghibaudo è stato avviato nel 2013 il processo di beatificazione.

fonte: http://pochestorie.corriere.it/2018/09/21/boves-1991943-la-prima-strage-nazista-in-italia/

Libero, titolo indecente sul Papa che “prega per salvare il governo” – Che poi, quando il cuore immacolato della Madonna faceva crepare i migranti in mare andava tutto bene…

 

Libero

 

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Libero, titolo indecente sul Papa che “prega per salvare il governo” – Che poi, quando il cuore immacolato della Madonna faceva crepare i migranti in mare andava tutto bene…

 

Ma si rendono conto che è un giornale che sprizza razzismo e intolleranza in quasi tutti i titoli?

Dalla “patata bollente” della Raggi, “cala il fatturato ma aumentano i gay” e poi i ‘terroni’, i migranti che portano le malattie, il governo rosso che ci fa invadere dai neri.

E che altro?

“Non ricordiamo se l’Ordine dei Giornalisti avesse preso provvedimenti nei confronti del Manifesto quando titolò “Pastore tedesco” la prima pagina dell’edizione in cui dava notizia dell’elezione di Papa Benedetto XVI al soglio pontificio. Né tantomeno siamo in grado di ricostruire se all’epoca Carlo Verna si fosse indignato al punto da trasformarsi in hater di giornalisti, purché non appartenenti alle correnti di sinistra che lo hanno votato”.

Lo afferma il Comitato di Redazione del quotidiano Libero in risposta alla dichiarazioni del presidente dell’Odg.

“La tolleranza a senso unico proprio non coincide con le parole pronunciate da Papa Francesco durante l’omelia a Santa Marta ieri 16 settembre 2019: ‘si deve pregare per l’altro, per quello che ha un’opinione diversa dalla mia’. Speriamo che l’OdG non intenda darsi alla caccia alle streghe con il pretesto di punire il vilipendio alla religione cattolica attraverso l’offesa al Papa. Anche perché nell’articolo e nel titolo finiti sotto la lente del Sant’Uffizio dei giornalisti non ve n’era traccia”.

Per carità. Il Cdr di Libero deve difendere i posti di lavoro dei giornalisti che ricevono lo stipendio da quel giornale.

Tuttavia ci vuole un bel coraggio nel difendere una testata che è andata oltre ogni limiti per più volte e usa questo metodo per solleticare la pancia dei lettori reazionari.

Nessuna caccia alle streghe. Ci vorrebbe serietà. Non difendere gli indifendibili Feltri e Senaldi.

Le parole che hanno così tanto fatto infuriare Libero sono state quelle di Carlo Verna, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, che ha detto: “Perdona loro perché non sanno quello che dicono. Di fronte alla mancanza di un minimo senso di rispetto del quotidiano Libero nei confronti di Papa Francesco e sulla base del titolo del giornale di cui e’ direttore responsabile Pietro Senaldi e direttore editoriale Vittorio Feltri (‘Non ha di meglio da fare, adesso il Papa prega per il governo’) non posso far altro che chiedere scusa al Pontefice a nome della categoria.

Aggiungendo, parafrasando dalle scritture: “noi non li conosciamo”. A prescindere da qualunque Consiglio di Disciplina abbiamo il diritto di ritenerli estranei alla comunità dei giornalisti. Aggiungo solo che da sempre la Chiesa prega per i governanti”.

 

tratto da: https://www.globalist.it/news/2019/09/17/libero-titolo-indecente-sul-papa-e-il-cdr-si-difende-caccia-alle-streghe-2046490.html