23 settembre 1916 – 23 settembre 2018 – Buon compleanno Aldo Moro, a te ed a tutti i misteri che 40 anni di indagini non sono riusciti e chiarire.

Aldo Moro

 

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23 settembre 1916 – 23 settembre 2018 – Buon compleanno Aldo Moro, a te ed a tutti i misteri che 40 anni di indagini non sono riusciti e chiarire.

 

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Sei commisioni d’inchiesta, cinque processi e un numero infinito di teorie e ricostruzioni aleatorie. Ma non esiste ancora una verità ufficiale sull’omicidio del leader Dc. E tante domande rimangono inevase.

Quarant’anni da via Fani, da via Caetani e ancora non si sa perché sia morto Aldo Moro. Per salvaguardare segreti di Stato usciti per sbaglio? Per accelerare la crisi democratica del consociativismo Dc-Pci? Per aprire la strada a possibili derive autoritarie? Perché così voleva Kissinger, la Cia, il Kgb, gli israeliani, i palestinesi, i libici, la mafia? In quarant’anni se ne sono sentite di ipotesi, di fantapolitiche, di possibilità ragionate, si sono chiariti alcuni dubbi, sono state spazzate via alcune verità di comodo di stampo brigatista, revisionista, ma allo stato dell’arte vale sempre lo sberleffo che chi scrive raccolse dalla terrorista Anna Laura Braghetti, la carceriera di Moro: «Ma sì, indagate, indagate, non avete fatto altro per 25 anni, non farete altro per i prossimi 25». Come a dire che la verità vera la sapevano loro e sapevano come tenerla blindata, ne avevano facoltà perché lo Stato, tutta questa voglia di scoprire gli altarini ultimi, definitivi, non è che l’avesse. Intanto i testimoni spariscono uno dietro l’altro portandosi in tomba i segreti che contano; intanto le Commissioni d’inchiesta si susseguono e, sì, qualcosa fanno, ma un po’ alla maniera di Diogene che col lanternino cercava l’uomo.

Ma sì, indagate, indagate, non avete fatto altro per 25 anni, non farete altro per i prossimi 25 (ANNA LAURA BRAGHETTI, EX BRIGATISTA ROSSA).

Dove sta il memoriale vero, il manoscritto di Moro redatto durante la prigionia che usciva a pezzi, opportunamente emendato, dal covo milanese di via Monte Nevoso? La prima ondata finì nelle mani esperte e smaliziate del generale Dalla Chiesa il primo ottobre del 1978, dopo la retata dei nove brigatisti inchiodati nel covo, la seconda uscì 12 anni dopo, nel 1990, quando casualmente da un tramezzo veniva giù una pioggia d’armi, banconote e documenti. Dove le registrazioni audio dei suoi interrogatori? È vero che vengono conservati nel caveau di una banca svizzera, lingotti di ricatti? Dove stanno le svariate prigioni dell’ostaggio, a parte quella, leggendaria, di via Montalcini? Lungo il litorale di Marina di Palidoro, a Fiumicino? Dalle parti del Ghetto, vicino a dove la R4 col suo cadavere fu ritrovata?

CINQUE PROCESSI E SEI COMMISSIONI D’INCHIESTA. Quanti furono a prender parte al raid di via Fani? Da nove divennero prima 14, poi 20, forse, considerate le sentinelle d’appoggio, anche di più. Alcuni sono stati fatti filare al sicuro, in Nicaragua, anche tramite prelati come il famoso Abbè Pierre. Ancora, il ruolo di Gladio, degli apparati Nato, della falsa scuola di lingue francese Hyperion, centro di raccolta sia di terrorismi che di nuclei di spionaggio internazionali, dei viaggi di Mario Moretti avanti e indietro da Parigi e tante, tante altre stranezze che spingono il presidente della sesta e per ora ultima Commissione parlamentare, Giuseppe Fioroni, a parlare di «storia da riscrivere in molti suoi capitoli». Dopo 40 anni, cinque processi, due dei quali unificati, sei Commissioni parlamentari d’inchiesta, un labirinto infinito di sentenze, di condanne, di ipotesi, di dubbi, di sorprese, di conferme.

Ma i risvolti parziali, le tessere mancanti del mosaico, le incongruenze, i presupposti storici e politici, sono tutta roba in certo senso secondaria; prima di tutto il resto, oltre tutto il resto, perdura la madre di tutte le domande: perché proprio Moro? Per dire perché lo tolsero di mezzo, in quel modo contorto, all’apparenza inaspettato «improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l’ordine di esecuzione», per usare le parole del prigioniero, quasi incredulo, nell’ultima lettera alla moglie. Cinquantacinque giorni di stallo, con decine di migliaia di poliziotti, di carabinieri, di militari della finanza, dell’esercito, della marina, dell’aeronautica, con l’intromissione dei servizi segreti, non cavavano il classico ragno dal buco.

QUELLE RIVELAZIONI SU GLADIO. Cinquantacinque giorni nei quali succedeva di tutto, falsi comunicati, falsi annunci della morte dell’ostaggio «mediante suicidio», maneggi della massoneria piduista e della banda della Magliana, covi platealmente scoperchiati, messaggi clamorosi, contraddizioni dei brigatisti che passano con disinvoltura da un comunicato in cui si ribadisce che «nulla verrà tenuto nascosto al popolo» alla affermazione impune secondo cui «il prigioniero non ha rivelato cose di cui il popolo non fosse già al corrente». E invece ha appena parlato di Gladio, del ruolo di Cossiga e di Andreotti, di retroscena democristiani potenzialmente esplosivi, censurati dai carcerieri e poi fatti sparire anche dai reperti.

C’è un ex senatore comunista, Sergio Flamigni, oggi 93enne, che in trent’anni ha scritto una sequela di libri in cui demolisce le false verità concordate fra Stato ed eversione: sul numero dei partecipanti all’operazione di via Fani, su quello dei carcerieri di Moro, sulle circostanze della prigionia, sulle omissioni e le compromissioni di Stato, sui memoriali di comodo come quello di Valerio Morucci che a suo modo è emblematico di una storia che a tutti i costi non si vuole risolvere. Documento dalla gestazione torbida, scritto insieme al giornalista della destra Dc Remigio Cavedon, veicolato da una religiosa carceraria, suor Teresilla Barillà, con funzioni di raccordo tra brigatisti detenuti e settori della Democrazia cristiana, fino al presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

FLAMIGNI E LA «RICOSTRUZIONE ADDOMESTICATA». Secondo Flamigni, il memoriale (architrave della sentenza-ordinanza del giudice Rosario Priore in esito del processo Moro-quater) s’incarica di offrire una ricostruzione addomesticata sull’intero affaire Moro, tale da soddisfare tutti e utile ad accelerare il corso dell’amnistia di fatto per i brigatisti coinvolti, che infatti otterranno i rispettivi vantaggi, non solo in termini di liberazione precoce, ma anche di reinserimento sociale e addirittura di notorietà mediatica remunerata. O, come diceva il giornalista-spione Mino Pecorelli prima d’essere a sua volta eliminato: «Verrà un’amnistia a tutto lavare, tutto obliare». E che sia «una versione che fa acqua da tutte le parti», quella ufficiale o meglio ufficializzata, non lo dice solo Flamigni, lo dice uno di loro, il brigatista Raimondo Etro, forse l’unico ad essersi totalmente staccato, ad aver ripensato integralmente la propria parabola, senza se e senza ma. È lo stesso che, quando parla di Moretti, lo indica così: «Il cosiddetto capo Mario Moretti».

Tanti perché all’interno di un perché più grande, che tutti li lega e tutti li copre. L’ex parlamentare del Pd Gero Grassi, intervistato dalla Rai, si dice convinto che via Montalcini non fu la prigione di Moro, almeno non l’unica, e che la prima, probabilmente, stava in via Massimi, lungo l’astruso tragitto dei terroristi che lo avevano sequestrato in via Fani: e un’azione così, di altissima tecnica militare, non la fa un pugno di pistoleri improvvisati, non la mettono insieme i rivoluzionari della domenica Morucci, Gallinari, Bonisoli e Fiore, con la regia di Moretti e la copertura di Loiacono e Casimirri, entrambi fatti filare via dall’Italia ad opera dei Servizi.

L’AFFOLLAMENTO INSPIEGABILE DI VIA FANI. Poi si saprà che in via Fani c’era una folla, in parte incomprensibile agli stessi brigatisti. C’erano mezzi, una moto con un autista e un passeggero che scarica una raffica di mitra contro uno che non c’entra niente, mancandolo per poco. C’era un benzinaio esperto di armi da fuoco, un fotografo i cui rullini subito spariscono, ci sono tecnici della Sip controllata dalla P2, c’è un colonnello dei Servizi, Camillo Guglielmi, che è lì perché doveva «andare a pranzo da un amico» alle 9 di mattina. Ci sono macchine che ostruiscono le manovre e consentono l’agguato, veicoli che spariscono e si ritrovano poche ore dopo, in via Licino Calvo, lungo la strada di fuga dei terroristi. Ci sono un sacco di circostanze che non ci sono, non tornano, non si spiegano. Dopodiché, l’insurrezione popolare sulla quale contano le Br, e forse non solo loro, non arriva: nelle fabbriche si brinda, nelle scuole e nelle università si viene colti «da una insana e febbrile eccitazione», come ricorda Nando Dalla Chiesa: ma sono, tutto sommato, minoranze, la base è incredula, non capisce e non vuole capire. Ma perché, qualcuno sano di mente poteva davvero aspettarsi un esito del genere, la guerra di popolo con Moro prigioniero?

La gestione del sequestro è complicata, inquinata, gli scenari mutano, obbligano a sacrificare l’ostaggio. E allora perché non dirlo chiaro, perché continuare a mentire anche su questo, perfino sulle circostanze dell’uccisione, i racconti di Maccari e Moretti completamente divergenti, sulla responsabilità dell’esecuzione, perfino sui fazzolettini infilati nel corpo agonizzante della vittima per tamponare il sangue? Moro come il primo Dc che capitava, il più facile da colpire? O capro espiatorio, agnello sacrificale per caso, imposto dagli eventi, dalle manovre di Stato, anti-Stato, forze esterne che confondono gli stessi brigatisti, li chiudono all’angolo? Perché lui quella mattina stava andando a riscuotere la fiducia del primo governo “di solidarietà nazionale” col sostegno del Pci, cosa che a quei leninisti delle Br pareva intollerabile come lo è sempre il riformismo nelle sfuriate rivoluzionarie da Terza Internazionale? Perché Moro era un progressista, uno che diceva «io temo la crisi» e in Italia una crisi c’è sempre ed è buona da soffiarci sopra, buona per eccitare gli animi, chiamarli a insurrezione mentre lui seguiva la strada dei tempi lunghi, delle riforme prudenti ma costanti, di concerto all’altro partito di massa, i comunisti ai quali non voleva lasciare il monopolio rappresentativo delle masse popolari? Perché era uno stratega mite e insidioso, deciso a inglobare la sinistra nella tradizione cattolica, ma anche capace di ribadire di fronte alle pretese clericali il ruolo laico del suo partito?

DOPO L’OMICIDIO LA SINISTRA SI CALCIFICA. Sì, tutto è possibile, tutto si può dire, ma messe così, lasciate così, sono tutte ricostruzioni aleatorie, suggestive. Che non risolvono la doppia questione, perché lui e perché ucciderlo anziché rilasciarlo, diffondere le sue memorie, i segreti anche traumatici che andava rivelando, che minacciava di rendere pubblici una volta rivelato. Dopo via Fani la politica italiana si calcifica, i comunisti perdono il treno governativo per quasi un ventennio, dovrà cadere il Muro, sorgere Tangentopoli, il biennio infuocato 1992-94, con Berlusconi a rimescolare tutto, per riaprire alla sinistra, nel frattempo post comunista, le porte del Palazzo. Oggi via Fani è una commemorazione, cappottini primaverili impettiti, corone di fiori lasciate sul posto dove mani stupide, probabilmente acerbe, hanno tracciato svastiche. Mentre un’altra commissione mette insieme nuovi tasselli, nuove incongruenze, nuove omertà e conclude nel segno del fatalismo: «Quella di Moro è una storia ancora da riscrivere in diversi capitoli». Dopo 40 anni. Alla domanda sul perché sia stato ucciso, su chi aveva interesse a levarlo di mezzo, si vanno opponendo risposte pleonastiche, che chiudono i conti senza spiegarli: «Moro è stato fatto fuori perché lo volevano morto, perché c’era una guerra, perché è toccato a lui». Perché sì.

 

tratto da: https://www.lettera43.it/it/articoli/politica/2018/03/16/aldo-moro-brigate-rosse-rapimento-via-fani-via-caetani-dubbi-misteri/218664/

23 settembre 1916 – 23 settembre 2018 – Buon compleanno Aldo Moro, a te ed a tutti i misteri che 40 anni di indagini non sono riusciti e chiarire.ultima modifica: 2018-09-22T17:13:36+02:00da eles-1966
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