La grande truffa della tessera sindacale. Parliamo di Un Miliardo di Euro che ogni anno Cgil, Cisl e Uil prendono dalle tasche di lavoratori e pensionati…

 

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La grande truffa della tessera sindacale. Parliamo di Un Miliardo di Euro che ogni anno Cgil, Cisl e Uil prendono dalle tasche di lavoratori e pensionati…

 

La grande truffa della tessera sindacale

Un miliardo. È la cifra che aziende ed enti previdenziali versano ogni anno a Cgil, Cisl e Uiltrattenendola da stipendi e pensioni degli iscritti. Che spesso, magari senza saperlo, continuano a pagare per molti mesi anche dopo aver ritirato la loro delega al sindacato.

La maggiore risorsa economica dei sindacati nazionali sono i contributi pagati ogni anno dagli iscritti, cui vanno sommate le cosiddette quote di servizio, e cioè i quattrini raccolti con la vendita dei testi dei nuovi accordi contrattuali stampati dalle tre centrali.

I lavoratori versano circa l’l% della paga base (anni fa i metalmeccanici della Cisl con un’alzata di ingegno hanno proposto di tassare anche i non iscritti quando questi beneficiano di accordi stipulati dalle tre confederazioni: non è affatto certo che scherzassero).

I pensionati beneficiano di uno sconto e danno un obolo dell’ordine dei 30-40 euro. Ma la tassa non risparmia neanche i disoccupati, i cassintegrati e i lavoratori socialmente utili: l’Inps trattiene a favore dei sindacati il 3% dell’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti (quella che spetta a chi nei due anni precedenti ha lavorato a singhiozzo) e l’1% della Cig ordinaria e straordinaria e del sussidio per gli Lsu. Un esperto della materia come Giuliano Cazzola, già presidente dei sindaci dell’Inps, parla di un miliardo e forse più all’anno. Una cifra impressionante. A voler fare un calcolo della serva, solo per la Cgil che ha 2,5 milioni di lavoratori iscritti e 3 milioni di pensionati, si tratterebbe di 350-400 milioni di euro l’anno.

Questa montagna di soldi, e qua sta la prima anomalia, il sindacato non deve neanche fare la fatica di raccoglierla. L’articolo 26 dello Statuto dei lavoratori del 1970 ha assegnato il compito di esattori del denaro alle aziende, che lo trattengono dalle buste paga dei dipendenti, e agli istituti di previdenza, che lo sottraggono alla fonte dalle pensioni: solo l’Inps nel 2006 ha girato 110 milioni alla Cgil, 70 alla Cisl e 18 alla Uil.

Nel 1995 Marco Pannella ha tentato di far saltare il meccanismo, proponendo un referendum che abolisse la trattenuta automatica dalle busta paga. Il 12 giugno la maggioranza degli italiani s’è schierata al fianco del vecchio leader radicale. Il 57,1% ha partecipato al referendum. E 56 votanti su 100 si sono espressi per l’abrogazione dell’obbligo alla trattenuta. Un colpo durissimo per il sindacato. “Vogliono ridurci alla colletta” ha commentato acido Sergio Cofferati, all’epoca numero uno dei sindacalisti italiani. Ma il momento di sbandamento è durato poco.

Cgil, Cisl e Uil hanno semplicemente deciso di ignorare l’esito della consultazione popolare.Uscita dalla porta, la trattenuta è rientrata dalla finestra: non più prevista dalla legge, è stata salvata nei contratti collettivi, con la complicità dunque degli imprenditori, che subiscono dei costi ma non hanno alcuna voglia di mettersi a menare le mani con i sindacati.

Con un buco nell’acqua è finita anche, più di recente, l’offensiva di Forza Italia. Gli uomini di Silvio Berlusconi avevano presentato un emendamento al decreto Bersani. In pratica, la delega con cui il pensionato autorizza l’ente previdenziale a effettuare la trattenuta sulla pensione, che oggi è di fatto a vita, avrebbe avuto bisogno di un periodico rinnovo. Non sia mai. I sindacati hanno fatto capire che sarebbero stati pronti a salire sulle barricate. Il governo, già nei guai per conto suo, ha fatto pollice verso. E l’emendamento è saltato.

La delega, dunque, continua a non avere una scadenza. E già questa è una faccenda ben strana. Ma l’argomento assume i contorni di un vero e proprio scandalo se si va a guardare cosa accade quando un dipendente pubblico decide che del sindacato ne ha piene le tasche e dunque non vuole più versargli la sua quota annuale.

È scritto nero su bianco su un librone intitolato Prerogative sindacali e normativa di riferimento, con tanto di stemma della repubblica e intestazione della presidenza del consiglio dei ministri – dipartimento della funzione pubblica. Si legge a pagina 65: “La delega può essere revocata solamente entro il 31 ottobre di ogni anno e gli effetti della revoca decorrono dal  1° gennaio dell’anno successivo”.

Vuol dire che se un travet si sveglia di malumore il 1° gennaio di un certo anno e decide di mandare a quel paese i sindacati continua comunque a pagargli la tessera per un altro anno. Se invece lo storico passo lo compie il 1° novembre allora il contributo lo sborsa addirittura per quattordici mesi, fino al gennaio di due anni dopo. In base a un calcolo matematico un impiegato dello stato che cancella la sua iscrizione al sindacato continua a vedersi effettuare trattenute abusive sulla busta paga, in media, per sette mesi e mezzo. Se il suo versamento annuale fosse intorno ai 100 euro, ecco che se ne vedrebbe sfilare poco meno di 60.

Una truffa in piena regolanella quale lo stato si rende complice del sindacato a danno di quelli che normalmente vengono definiti i suoi assistiti. E sulla quale nessuno, a partire dalla corte dei conti, ha mai pensato di dover alzare il velo.

La micidiale trappola non scatta solo per gli impiegati dello stato. Dal 1973 al 1998, per un quarto di secolo, ha funzionato così anche all’Inps: se la revoca veniva presentata all’istituto entro il mese di settembre il prelievo a favore del sindacato andava comunque avanti fino alla fine dell’anno; se arrivava dopo il 1° ottobre il pensionato continuava a subire la decurtazione dell’assegno mensile addirittura fino alla fine dell’anno successivo: un salasso lungo 15 mesi.

Dal 1998 il prelievo forzoso è stato solo ridotto. Oggi la revoca ha effetto dall’inizio del terzo mese successivo alla data della sua presentazione. Un lasso di tempo sufficiente per il sindacato a contattare il pensionato dimissionario e convincerlo a tornare sui suoi passi. Già, perché dal 1998 al 2001 la prassi era che, appena ricevuta la revoca, l’Inps informava tempestivamente del pericolo in vista la confederazione interessata.

Dal 2002, con l’arrivo di Paolo Sassi come commissario, l’Istituto non si presta più al giochino di spifferare in anticipo a Cgil, Cisl e Uil la possibile perdita di un tesserato e dei relativi contributi. Continua però a prelevare abusivamente per due-tre mesi (che possono ancora oggi arrivare fino a nove per i lavoratori autonomi agricoli) la quota sindacale sulla pensione a chi ha dato la disdetta. Eppure la procedura dev’essere piuttosto semplice, almeno a giudicare dell’esiguità del compenso che l’Inps chiede per metterla in moto.

Le cifre sono contenute nella deliberazione n. 39 del consiglio di amministrazione del 5 febbraio 2002: per la cancellazione della delega l’Istituto fattura ai sindacati 2 euro e 1 centesimo. E infatti la scusa dei tempi tecnici non è solo poco credibile, ma totalmente falsa. La sfasatura temporale tra il ritiro della delega e la cessazione del prelievo è oggetto di accordi scritti (e standardizzati) tra l’Inps le diverse confederazioni.

Lo rivela un documento di 5 pagine, datato 23 novembre 2006 e firmato dal direttore generale dell’Istituto, Vittorio Crecco. Si tratta della circolare n. 135, che ha per oggetto la Convenzione tra l’Inps e il Sindacato autonomo pensionati padani (Sapp) per la riscossione dei contributi associativi sulle pensioni.

In allegato c’è il testo della convenzione che, al quarto comma dell’articolo 3, recita: “Nel caso in cui l’Inps riceva comunicazione direttamente dal pensionato della sua volontà di revocare la delega per la trattenuta sindacale sulla pensione, la struttura periferica dell’Inps procederà all’acquisizione della revoca, che avrà efficacia dal primo giorno del terzo mese successivo a quello in cui è pervenuta alla struttura stessa”.

È la tassa da pagare per uscire dal sindacato, la cui figura in questo caso richiama alla mente la banda Bassotti più che i tre porcellini. In barba al referendum, tutto è dunque rimasto come prima.

*Tratto da L’altra casta – Stefano Livadiotti 

Addio Sergio Marchionne – Ma se i media di regime Vi prendono per i fondelli con servizi strappalacrime, noi vogliamo dire la verità sul manager del sistema che, nel silenzio della politica neoliberista, ha brutalmente smantellamento i diritti del lavoro (sulla pelle della Gente) in nome del Dio Profitto!

 

Sergio Marchionne

 

 

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Addio Sergio Marchionne – Ma se i media di regime Vi prendono per i fondelli con servizi strappalacrime, noi vogliamo dire la verità sul manager del sistema che, nel silenzio della politica neoliberista, ha brutalmente smantellamento i diritti del lavoro (sulla pelle della Gente) in nome del Dio Profitto!

 

Le verità di Marchionne, il silenzio della politica neoliberista

 

 

Agganciando il mercato americano con lo sbarco negli Usa attraverso la Chrysler, ha evitato che il tramonto storico della Fiat si trasformasse in una catastrofe. Ha impedito quindi che l’Italia uscisse dal club dei produttori di auto, cioè da quella che nei decenni passati è stata anche un’aristocrazia operaia e sindacale, avanguardia di importanti diritti sociali. Il super-manager improvvisamente scomparso a 66 anni ha saputo guardare oltre l’orizzonte, lo piange Sergio Mattarella, trascurando lo scontro con la Fiom di Landini che a Marchionne contestò il drastico, brutale smantellamento dei diritti del lavoro, il prezzo (salatissimo) per rilanciare un marchio come l’Alfa Romeo da opporre al dominio tedesco, e per paracadutare la Jeep nel mercato cinese. Ma il problema di fondo – ripeteva Marchionne – è il declino della classe media: chi se la compra più, la Panda, se crolla il potere d’acquisto delle famiglie italiane? Interamente neoliberista il credo globale del salvatore provvisorio dell’ex Fiat: al mercato non si comanda, il lavoro sparisce e deve necessariamente emigrare là dove ci sono compratori. L’alternativa sarebbe una sola, la politica: e proprio la scomparsa della politica, fondata sull’investimento pubblico, ha scolpito la grandezza di Marchionne in un Occidente desolatamente solo e impoverito, esposto al ricatto finanziario dello spread – quello che decreta, anche, il tracollo delle vendite di auto in Europa e in Italia.

Coraggioso, spietato, infaticabile. Geniale, nel tornare a scommettere sul made in Italy valorizzando la nostalgia dell’italianità che fu. La morte prematura di Sergio Marchionne, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”, chiude in modo traumatico un pezzo di storianazionale, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima, rileva, non è più solo italiana da anni: Fca, Fiat Chrysler Automobiles, è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit. La scomparsa del manager italo-canadese appare una tappa per molti versi conclusiva di 119 anni di storiadella “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. «Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni», osserva Berti. «L’area “Emea” di Fca – cioè la “vecchia Fiat” – verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa – in questa fase geopolitica – su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari – questa è l’unica certezza – resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli».

Il sistema-Italia, naturalmente – aggiunge Berti – non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori, della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli, o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. «Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici». Il minuto di silenzio osservato in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “fine della Fiat” è un avvenimento civile per il paese. «Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo – scrive sempre Berti – sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’azienda-Italia». Figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo paese, Marchionne «lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea».

Un paese, il nostro, per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”: la ricostruzione postbellica e il boom economico, la nascita della repubblica come democraziadi mercato, la motorizzazione di massa. Relazioni sindacali, dallo Statuto dei Lavoratori alla Marcia dei Quarantamila. In prima linea sempre loro, i metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori, «mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politicae della finanza». Per Berti, il lascito storico di «un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo», appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale: «Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca». Sempre Marchionne, insiste Berti, ha detto all’Italia che la Fiat non era più un potereforte, e che l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più poteri forti: «Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico». Finita l’epoca del posto di lavoro garantito: la crisicome emergenza reale, in un mondo ormai reso irriconoscibile dalla globalizzazione.

«Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti», conclude Berti. «Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui». A rendere assordante il silenzio attorno a Marchionne, il mutismo della politicasottomessa al potereeconomico delle multinazionali finanziarizzate: purtroppo, dichiara Gioele Magaldi a “Colors Radio” in morte del grande manager, non è stato mai possibile condividere nulla, della drastica visione politicadel condottiero della Fiat, tristemente segnata dalla rassegnazione “cosmica” al neoliberismo come sistema senza alternative. Negli anni Ottanta, prima che sull’Europacalasse il grande freddo, la Svezia di Olof Palme salvava aziende traballanti ingaggiando il poterefinanziario dello Stato e coinvolgendo i lavoratori, trasformandoli in azionisti. Morto Palme, assassinato da killer tuttora ignoti (a trent’anni di distanza dall’agguato) non sono soltanto crollate le industrie tradizionali europee, ma anche e soprattutto gli Stati sovrani, dotati di facoltà finanziarie indipendenti dai mercati: così è finita la mitica classe media, che ha smesso di comparare anche le Panda di Marchionne fabbricate da operai messi alla frusta per non perdere il posto di lavoro. Risuonano nel silenzio, oggi, le dure verità che Marchionne ha snocciolato in mezzo alle bugie di una politicaridotta a trascurabile servitrice di poteri economici fortissimi e mercenari, senza più bandiere nazionali.Agganciando il mercato americano con lo sbarco negli Usaattraverso la Chrysler, ha evitato che il tramonto storico della Fiat si trasformasse in una catastrofe. Ha impedito quindi che l’Italia uscisse dal club dei produttori di auto, cioè da quella che nei decenni passati è stata anche un’aristocrazia operaia e sindacale, avanguardia di importanti diritti sociali. Il super-manager improvvisamente scomparso a 66 anni ha saputo guardare oltre l’orizzonte, lo piange Sergio Mattarella, trascurando lo scontro con la Fiom di Landini che a Marchionne contestò il drastico, brutale smantellamento dei diritti del lavoro, il prezzo (salatissimo) per rilanciare un marchio come l’Alfa Romeo da opporre al dominio tedesco, e per paracadutare la Jeep nel mercato cinese. Ma il problema di fondo – ripeteva Marchionne – è il declino della classe media: chi se la compra più, la Panda, se crolla il potered’acquisto delle famiglie italiane? Interamente neoliberista il credo globale del salvatore provvisorio dell’ex Fiat: al mercato non si comanda, il lavoro sparisce e deve necessariamente emigrare là dove ci sono compratori. L’alternativa sarebbe una sola, la politica: e proprio la scomparsa della politica, fondata sull’investimento pubblico, ha scolpito la grandezza di Marchionne in un Occidente desolatamente solo e impoverito, esposto al ricatto finanziario dello spread – quello che decreta, anche, il tracollo delle vendite di auto in Europae in Italia.

Coraggioso, spietato, infaticabile. Geniale, nel tornare a scommettere sul made in Italy valorizzando la nostalgia dell’italianità che fu. La morte prematura di Sergio Marchionne, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”, chiude in modo traumatico un pezzo di storianazionale, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima, rileva, non è più solo italiana da anni: Fca, Fiat Chrysler Automobiles, è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit. La scomparsa del manager italo-canadese appare una tappa per molti versi conclusiva di 119 anni di storiadella “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. «Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni», osserva Berti. «L’area “Emea” di Fca – cioè la “vecchia Fiat” – verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa – in questa fase geopolitica – su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari – questa è l’unica certezza – resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli».

Il sistema-Italia, naturalmente – aggiunge Berti – non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori, della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli, o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. «Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici». Il minuto di silenzio osservato in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “fine della Fiat” è un avvenimento civile per il paese. «Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo – scrive sempre Berti – sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’azienda-Italia». Figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo paese, Marchionne «lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea».

Un paese, il nostro, per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”: la ricostruzione postbellica e il boom economico, la nascita della repubblica come democraziadi mercato, la motorizzazione di massa. Relazioni sindacali, dallo Statuto dei Lavoratori alla Marcia dei Quarantamila. In prima linea sempre loro, i metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori, «mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politicae della finanza». Per Berti, il lascito storico di «un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo», appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale: «Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca». Sempre Marchionne, insiste Berti, ha detto all’Italia che la Fiat non era più un potereforte, e che l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più poteri forti: «Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico». Finita l’epoca del posto di lavoro garantito: la crisicome emergenza reale, in un mondo ormai reso irriconoscibile dalla globalizzazione.

«Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti», conclude Berti. «Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui». A rendere assordante il silenzio attorno a Marchionne, il mutismo della politicasottomessa al potereeconomico delle multinazionali finanziarizzate: purtroppo, dichiara Gioele Magaldi a “Colors Radio” in morte del grande manager, non è stato mai possibile condividere nulla, della drastica visione politicadel condottiero della Fiat, tristemente segnata dalla rassegnazione “cosmica” al neoliberismo come sistema senza alternative. Negli anni Ottanta, prima che sull’Europacalasse il grande freddo, la Svezia di Olof Palme salvava aziende traballanti ingaggiando il poterefinanziario dello Stato e coinvolgendo i lavoratori, trasformandoli in azionisti. Morto Palme, assassinato da killer tuttora ignoti (a trent’anni di distanza dall’agguato) non sono soltanto crollate le industrie tradizionali europee, ma anche e soprattutto gli Stati sovrani, dotati di facoltà finanziarie indipendenti dai mercati: così è finita la mitica classe media, che ha smesso di comparare anche le Panda di Marchionne fabbricate da operai messi alla frusta per non perdere il posto di lavoro. Risuonano nel silenzio, oggi, le dure verità che Marchionne ha snocciolato in mezzo alle bugie di una politicaridotta a trascurabile servitrice di poteri economici fortissimi e mercenari, senza più bandiere nazionali.

Coraggioso, spietato, infaticabile. Geniale, nel tornare a scommettere sul made in Italy valorizzando la nostalgia dell’italianità che fu. La morte prematura di Sergio Marchionne, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”, chiude in modo traumatico un pezzo di storia nazionale, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima, rileva, non è più solo italiana da anni: Fca, Fiat Chrysler Automobiles, è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit. La scomparsa del manager italo-canadese appare una tappa per molti versi conclusiva di 119 anni di storia della “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. «Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni», osserva Berti. «L’area “Emea” di Fca – cioè la “vecchia Fiat” – verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa – in questa fase geopolitica – su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata

al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari – questa è l’unica certezza – resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli».

Il sistema-Italia, naturalmente – aggiunge Berti – non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori, della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli, o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. «Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici». Il minuto di silenzio osservato in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “fine della Fiat” è un avvenimento civile per il paese. «Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo – scrive sempre Berti – sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’azienda-Italia». Figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo paese, Marchionne «lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea».

Un paese, il nostro, per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”: la ricostruzione postbellica e il boom economico, la nascita della repubblica come democrazia di mercato, la motorizzazione di massa. Relazioni sindacali, dallo Statuto dei Lavoratori alla Marcia dei Quarantamila. In prima linea sempre loro, i metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori, «mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politica e della finanza». Per Berti, il lascito storico di «un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo», appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale: «Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca». Sempre Marchionne, insiste Berti, ha detto all’Italia che la Fiat non era più un potere forte, e che l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più poteri forti: «Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico». Finita l’epoca del posto di lavoro garantito: la crisi come emergenza reale, in un mondo ormai reso irriconoscibile dalla globalizzazione.

«Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti», conclude Berti. «Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui». A rendere assordante il silenzio attorno a Marchionne, il mutismo della politicasottomessa al potere economico delle multinazionali finanziarizzate: purtroppo, dichiara Gioele Magaldi a “Colors Radio” in morte del grande manager, non è stato mai possibile condividere nulla, della drastica visione politica del condottiero della Fiat, tristemente segnata dalla rassegnazione “cosmica” al neoliberismo come sistema senza alternative. Negli anni Ottanta, prima che sull’Europa calasse il grande freddo, la Svezia di Olof Palme salvava aziende traballanti ingaggiando il potere finanziario dello Stato e coinvolgendo i lavoratori, trasformandoli in azionisti. Morto Palme, assassinato da killer tuttora ignoti (a trent’anni di distanza dall’agguato) non sono soltanto crollate le industrie tradizionali europee, ma anche e soprattutto gli Stati sovrani, dotati di facoltà finanziarie indipendenti dai mercati: così è finita la mitica classe media, che ha smesso di comparare anche le Panda di Marchionne fabbricate da operai messi alla frusta per non perdere il posto di lavoro. Risuonano nel silenzio, oggi, le dure verità che Marchionne ha snocciolato in mezzo alle bugie di una politica ridotta a trascurabile servitrice di poteri economici fortissimi e mercenari, senza più bandiere nazionali.

 

 

 

fonte:http://www.libreidee.org/2018/07/le-verita-di-marchionne-e-il-silenzio-della-politica-neoliberista/

Fiat, la storia incredibile dei 5 operai pagati per stare a casa: tanta è la paura di Marchionne di trovarseli di nuovo tra i piedi, dopo aver provato a cacciarli per la loro attività sindacale in difesa dei diritti degli operai.

 

Fiat

 

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Fiat, la storia incredibile dei 5 operai pagati per stare a casa: tanta è la paura di Marchionne di trovarseli di nuovo tra i piedi, dopo aver provato a cacciarli per la loro attività sindacale in difesa dei diritti degli operai.

Fiat, la storia incredibile dei 5 operai pagati per stare a casa
Appello – Reintegrati dal giudice (non dall’azienda), consegneranno una lettera a Mattarella.

Questa è l’incredibile storia di cinque metalmeccanici retribuiti a stipendio pieno, senza l’obbligo di avvitare un bullone. Pagati per starsene a casa dalla Fiat, oggi Fca, tanta è la paura che ha l’azienda di trovarseli di nuovo tra i piedi. Incredibile perché i cinque non accettano di esser pagati per far niente: «Siamo operai, vogliamo tornare in fabbrica».

Lo scrivono a Marchionne da mesi, ogni mese. Da quando il Tribunale, a settembre 2016, ha dichiarato illegittimo il loro licenziamento. Marchionne non risponde e continua a pagare, ma i soldi non bastano a comprare il silenzio e l’obbedienza di Domenico MignanoMarco CusanoAntonio MontellaMassimo Napolitano e Roberto Fabbricatore.

Per questo il 6 gennaio andranno al Quirinale e consegneranno una lettera a Sergio Mattarella: “Caro Presidente, siamo cinque operai della Fca di Pomigliano. Abbiamo subito licenziamenti per la nostra attività sindacale sempre in difesa dei diritti degli operai. Siamo stati ufficialmente reintegrati nel posto di lavoro con la sentenza del tribunale d’Appello di Napoli del 20/09/2016. La Fca ha continuato, però, a tenerci fuori. Noi, caro Presidente, ci rivolgiamo a Voi per denunciare l’ennesimo sopruso che la Fca sta compiendo nei nostri confronti, ma anche nei confronti di tutti i nostri compagni che, per paura delle conseguenze che noi abbiamo patito, hanno timore di far valere le loro ragioni”.

Cosa hanno fatto di così imperdonabile le cinque tute blu da meritare l’allontanamento coatto? Due cose. La prima, è che si sono ribellati con ironia, invece che con la violenza, che avrebbe fornito all’azienda il pretesto per licenziarli. La seconda è che hanno vinto, perché in Italia vige la libertà di pensiero, di critica e di satira.

Alla satira da impugnare come arma per la lotta sindacale hanno pensato dopo che tre di loro si sono tolti la vita, piegati dalle condizioni di lavoro in quello che chiamano “Il reparto-confino” di Nola. L’ultima è stata Maria Barbato, cassintegrata a zero ore. Si è uccisa piantandosi tre volte il coltello nel petto. E lasciando scritto: “Non si può vivere sul ciglio del burrone dei licenziamenti”. Per denunciare quel vivere sul ciglio del baratro non bastavano gli scioperi che nessun telegiornale racconta più, o “i cortei dove le prendiamo e basta”, o i picchetti che l’azienda aggira con gli elicotteri. Serviva una cosa che spaccava, serviva la satira. Hanno inscenato il suicidio di un quarto lavoratore Fiat: l’Ad Sergio Marchionne, sventolando un manichino penzolante davanti alla sede della Rai. Hanno letto la lettera d’addio che il fantoccio-Marchionne, in preda al rimorso, lasciava ai suoi operai, chiedendo che i 316 deportati a Nola tornassero a Pomigliano, dove c’erano interi reparti vuoti. “È un’istigazione al suicidio!”, ha tuonato l’azienda.

I cinque sono stati licenziati, trascinati in tribunale, condannati dal giudice unico. Hanno fatto appello, chiedendo a tanti autori satirici di schierarsi al loro fianco: Moni Ovadia, Ascanio Celestini. Hanno srotolato uno striscione con scritto “Libera Satira” davanti alla Rai di Viale Mazzini, quando avevo scelto di abbandonare Radio2, dopo che la rete mi aveva chiesto di non fare più battute su Renzi e non far più satira politica a “Mamma Non mamma”, il programma che conducevo: “A noi operai ci avete tolto la vita, non toglieteci pure la satira”.

Il giudice gli ha dato ragione: “Il monito rivolto ai successori dell’attuale amministratore delegato Sergio Marchionne, di non pensare solo al profitto ma anche al benessere dei lavoratori rappresenta a parere della corte una legittima manifestazione del diritto di critica”, è scritto nella sentenza d’appello: “La rappresentazione scenica realizzata, per quanto macabra, forte aspra e sarcastica, non ha travalicato i limiti di continenza del diritto di svolgere valutazioni critiche dell’operato altrui, quindi anche del datore di lavoro”. Il diritto di critica e di satira, a partire da quella sentenza, è garantito allo scrittore come all’operaio.

Una vita che faccio satira e a cosa serve non l’ho mai saputo spiegare meglio di Domenico Mignano detto Mimmo. A fare in modo che tutti si accorgano di quello che ci sta succedendo. “Se ne accorgerà anche Mattarella, quando andremo da lui vestiti da Befana”. Da befana, perché i lavoratori sono diventati invisibili, ma di befane saranno pieni i Tg: “Caro Presidente, noi vi chiediamo di far sentire la Vostra autorevole parola affinché finalmente noi cinque si possa rientrare in fabbrica accanto ai nostri compagni operai”. Gli avvocati dicono che non si può, che non ci sono precedenti di un operaio che voglia tornare alla catena di montaggiopiuttosto che starsene a casa, pagato: “Ma che c’è di strano, se un lavoratore chiede di lavorare?”.

 

fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/la-storia-incredibile-dei-5-operai-pagati-da-fiat-per-stare-a-casa/

La più grande vittoria dei sindacati Italiani: SALVATE LE PENSIONI – Le loro pensioni d’oro non si toccano…!

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La più grande vittoria dei sindacati Italiani: SALVATE LE PENSIONI – Le loro pensioni d’oro non si toccano…!

La più grande vittoria dei sindacati: la pensione d’oro non si tocca

Non solo l’ormai celeberrima questione del taglio dei vitalizi sulla quale la montagna, alias Camera e Senato, ha partorito un topolino. Ce n’è anche un’altra, stavolta relativa alle pensioni dei dipendenti di partiti politici, organizzazioni sindacali e associazioni di tutela e rappresentanza della cooperazione, sulla quale qualcuno in questa legislatura avrebbe voluto rimettere pesantemente mano. Questo qualcuno risponde al nome di Walter Rizzetto, deputato ex M5S oggi in Fratelli d’Italia (FdI), che il 24 ottobre 2014 ha depositato alla Camera una proposta per abrogare la legge Mosca. Ovverosia la norma, approvata l’11 gennaio 1974, che ha concesso il riconoscimento di un regime contributivo agevolato a persone che hanno prestato attività lavorativa alle dipendenze di partiti, sindacati, istituti di patronato e associazioni del mondo cooperativo. E che, per Rizzetto, “è l’emblema delle storture del sistema-Italia” visto che “ha rappresentato un palese caso di conflitto di interessi” perché “è stata proposta dall’onorevole Giovanni Mosca, sindacalista della Cgil, per favorire partiti e sindacati”.

Doppia mandata – Che fine ha fatto la pdl? Qui viene il bello: in tre anni e passa è infatti rimasta saldamente chiusa a chiave nei cassetti della commissione Lavoro di Montecitorio, della quale Rizzetto è vicepresidente. A nulla sono serviti i successivi tentativi dell’interessato di riportarla all’attenzione del dibattito parlamentare. “Anche con l’ultima legge di bilancio ho presentato un emendamento per l’abolizione definitiva della legge Mosca”, ricorda a questo proposito il deputato, ma “ancora una volta è stato respinto da una certa parte politica che teme delle ripercussioni nei confronti dei beneficiari. Queste stesse persone, a questo punto, devono prendersi le loro responsabilità e andare a dire agli esodati, esuberati, licenziati e giovani che non avranno mai una pensione congrua, perché vengono invece pagate pensioni a dei ‘miracolati’ che non hanno versato contributi”. Nel tempo prorogata, ricorda ancora l’esponente del partito di Giorgia Meloni, da sempre in lotta contro pensioni d’oro e simili, “fino al marzo del 1980, la legge ha consentito a 35.564 persone di beneficiare di pensioni agevolate e di godere del riscatto a basso costo degli anni trascorsi nel partito politico o nel sindacato, prevedendo, irragionevolmente, quale requisito sufficiente per l’attribuzione dei contributi, la mera dichiarazione del rappresentante del partito o del sindacato per attestare l’avvenuta prestazione lavorativa”.

Piatto ricco – Circostanza che ha determinato una moltitudine di procedimenti giudiziari, come quello contro 111 lavoratori fittizi di Pci, Dc, Cisl e Lega Coop, accusati di aver usufruito della pensione garantita dalla legge Mosca senza aver mai prestato attività lavorativa. Proprio così. Nonché un salasso per le casse dell’Inps, il nostro istituto di previdenza, mica da ridere: 25mila miliardi di vecchie lire, cioè 12 miliardi e mezzo di euro. “Addirittura – conclude Rizzetto – sembra che anche l’ex presidente Napolitano usufruisca dell’assegno previdenziale previsto dalla legge Mosca. In merito ho presentato un’interrogazione (al ministro Poletti, ndr), ma siamo arrivati alla fine della legislatura e nessuna risposta è arrivata dal Governo, né l’interessato ha mai smentito di percepire questo beneficio”.

Qualcuno Vi ha mai detto che i sindacati guadagnano sulle spalle dei precari delle agenzie interinali?

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Qualcuno Vi ha mai detto che i sindacati guadagnano sulle spalle dei precari delle agenzie interinali?

 

Come riferisce l’ Il fatto quotidiano.it :

Leggendo tra le pieghe del “Contratto collettivo delle agenzie di somministrazione di lavoro”, le vecchie agenzie interinali, si scopre che viene previsto un trasferimento di denaro ai sindacati come “sostegno al sistema di rappresentanza sindacale unitaria”. Stiamo parlando di circa 2 milioni di euro l’anno corrisposti, ormai, dal 2002.

Potenza di un settore complicato come il lavoro super-precario, quello della somministrazione, dove non c’è un rapporto a due, dipendente-datore di lavoro, ma a tre: lavoratore, agenzia di somministrazione, impresa utilizzatrice. L’agenzia svolge una funzione di mediazione assumendo direttamente il dipendente e poi “prestandolo” all’impresa che ne fa richiesta generalmente per un contratto a tempo determinato.

Il sistema è stato introdotto nel 1997 dall’ allora ministro Treu e riformato dal centrodestra con la “leggeBiagi” nel 2003. Anche questo comparto viene regolato da un Contratto collettivo nazionale siglato, per le agenzie, da Assolavoro e, per il sindacato, dal Nidil-Cgil, Felsa-Cisl, Uil-Temp. Trattandosi di un comparto fortemente spezzettato, con lavoratori che non prestano servizio presso il proprio specifico datore di lavoro (le agenzie) ma presso imprese disseminate sul territorio, non ci sono delegati sindacali di azienda o di fabbrica, ma direttamente nominati dal sindacato.

Per questo tipo di attività sindacale, già nel contratto del 2002, si stabilì che le organizzazioni firmatarie beneficiavano di un contributo pari a un’ora ogni 1700 lavorate, dal valore di 7,75 euro l’ora. Nel 2008 quel valore è stato innalzato a 10 euro l’ora.

Cosa fanno i sindacati con quei soldi?

La differenza di salario per il lavoratore è minima, pochi centesimi.Nessun lavoratore intenterebbe una vertenza per pochi spiccioli con la prospettiva di perdere il lavoro. Quei pochi centesimi moltiplicati per le decine di milioni di ore lavorate, però, possono portare a risparmi per le Agenzie nell’ordine di 10 o 20 milioni di euro l’anno. Nulla di illegale. Solo una delle tante contraddizioni che agitano il sindacato.

Fonte : ilfattoquotidiano.it

Bari, si laurea a 37 anni e diventa subito dirigente dell’azienda di trasporti. Ma non ci pensate, non è una merdaccia come voi, è la figlia del sindacalista…!

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Bari, si laurea a 37 anni e diventa subito dirigente dell’azienda di trasporti. Ma non ci pensate, non è una merdaccia come voi, è la figlia del sindacalista…!

L’azienda di trasporto ha una nuova dirigente: appena laureata, a 37 anni, e figlia di un sindacalista di spicco nella stessa azienda. È diventata presto un caso, come spiega Leggo, la vicenda di Barbara Santeramo, nominata direttore amministrativo della Stp, azienda di trasporto pubblico locale partecipata dal Comune di Trani e dalla Città Metropolitana di Bari, solo 9 giorni dopo il conseguimento del prestigioso titolo di studio, con tanto di 110 e lode. La Santeramo lavora in azienda da oltre 10 anni e per la promozione non era necessario alcun concorso, tranne che la laurea magistrale. A far chiacchierare è il fatto che la neo-dirigente sia la figlia di Michele Santeramo, segretario provinciale Ugl e capo delle relazioni industriali dell’azienda. Il sindacalista però si difende: “Io non ne sapevo nulla, non tutti i sindacati erano stati avvertiti, ma in ogni caso non c’entro niente con questa nomina”. Anche l’Ugl difende la signora: “Solo strumentalizzazioni, Barbara è una ragazza brillantissima che ha già ricoperto il ruolo di responsabile delle risorse umane. Si è liberata una posizione organizzativa a tempo determinato e l’azienda ha fatto la nuova nomina. La competenza è stata premiata da una società che, è bene ricordarlo, non è tenuta a fare concorsi pubblici”.

fonte: http://www.liberoquotidiano.it/news/italia/12425641/bari-stp-azienda-trasporti-barbara-santeramo-figlia-sindacalista-ugl-nomina-direttore-dopo-laurea-senza-concorso-.html

Sindacati, stipendi d’oro (300mila euro annui, più di quanto guadagna Obama) e pensioni da nababbi. Gli operai, con i loro 1200 Euro al mese, mantengono nel lusso chi dovrebbe tutelarli!

 

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Sindacati, stipendi d’oro (300mila euro annui, più di quanto guadagna Obama) e pensioni da nababbi. Gli operai, con i loro 1200 Euro al mese, mantengono nel lusso chi dovrebbe tutelarli!

 

CISL: DIRIGENTI CON STIPENDI DI 300 MILA EURO ANNUI, PIU’ DI OBAMA E MERKEL, GLI OPERAI CON I LORO 12OO EURO MESE MANTENGONO NEL LUSSO CHI DOVREBBE TUTELARLI
Cisl, scoppia il caso dei mega-stipendi. Dirigente li denuncia ma verrà espulso. Nel dossier firmato da Fausto Scandola un atto d’accusa corredato di nomi e cifre: retribuzioni che sfiorano i 300mila euro l’anno.
È un lungo sfogo di un dirigente sindacale inviato via mail a troppe persone e questo, probabilmente, gli costerà l’espulsione dalla Cisl: la raccomandata infatti gli è già arrivata a casa. Un atto d’accusa corredato di nomi e cifre che fanno una certa impressione, vista la crisi generale del sindacato e quella ancor più complessiva del mondo del lavoro: ci sono sindacalisti dell’organizzazione guidata da Annamaria Furlan che si portano a casa stipendi che neanche Barack Obama, superando di slancio pure il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Sfiorando i 300mila euro annui.
Il mini-dossier firmato dal veneto Fausto Scandola sta creando più di un imbarazzo al sindacato cattolico, anche perché a seguito di una vicenda simile, di fatto, dovette lasciare il suo posto l’ex numero uno Raffaele Bonanni; il quale, giusto poco prima della pensione, si era ritoccato all’insù il compenso, mossa utile per aumentare il successivo assegno a carico dei contribuenti. “I nostri rappresentanti e dirigenti ai massimi livelli nazionali della Cisl – scrive Scandola – si possono ancora considerare rappresentanti sindacali dei soci finanziatori, lavoratori dipendenti e pensionati? I loro comportamenti, lo svolgere dei loro ruoli, come gestiscono il potere, si possono ancora considerare da esempio e guida della nostra associazione che punta a curare gli interessi dei lavoratori? “.
Ecco qualche nome e cifra in lista: Antonino Sorgi, presidente nazionale dell’Inas Cisl, nel 2014 si è portato a casa 256mila euro lordi: 77.969,71 euro di pensione, 100.123,00 euro di compenso Inas e 77.957,00 euro come compenso Inas immobiliare. Valeriano Canepari, ex presidente Caf Cisl Nazionale, nel 2013 ha messo insieme 97.170,00 euro di pensione, più 192.071,00 euro a capo della Usr Cisl Emilia Romagna: totale annuo, 289.241,00 euro. Ermenegildo Bonfanti, segretario generale nazionale Fnp Cisl, 225mila euro in un anno, di cui 143mila di pensione. Pierangelo Raineri, gran capo della Fisascat Cisl, 237 mila euro grazie anche ai gettoni di presenza in Enasarco, più moglie e figlio assunti in enti collegati alla stessa Cisl.
Di mezzo, nella denuncia, ci va anche la stessa Furlan. Il 9 luglio scorso – è sempre la denuncia di Scandola, che racconta – il comitato esecutivo nazionale confederale della Cisl approva all’unanimità un nuovo regolamento presentato dalla segretaria generale. Dove si parla di trasparenza, fissando finalmente delle regole precise sugli stipendi. Confrontando tutti i livelli della Cisl cosa ne esce fuori? Che l’aumento tabellare tra il 2008 (anno di inizio di una crisi non ancora conclusa) e il 2015 è pari al 12,93 per cento. A conti fatti, va detto, sarebbe l’inflazione. Se Furlan nel 2008 portava a casa un totale lordo di 99mila euro, ora potrebbe arrivare a 114mila. Sarà questo lo stipendio massimo consentito. Al mese fanno 3.326 euro netti più un altro 30 per cento di indennità.

Uno scandalo di cui i Tg non ci parlano: le pensioni d’oro dei sindacalisti gonfiate con un trucchetto. Boeri vorrebbe bloccarle ma Poletti non fa partire la circolare…!

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Uno scandalo di cui i Tg non ci parlano: le pensioni d’oro dei sindacalisti gonfiate con un trucchetto. Boeri vorrebbe bloccarle ma Poletti non fa partire la circolare…!

 

Più la poltrona dal presidente dell’Inps traballa e più Tito Boeri rincara la dose dei suoi attacchi. L’ultimo bersaglio colpito è stato il mondo blindato dei sindacati e quella grande vergogna delle pensioni d’oro riservate ai lavoratori in aspettativa sindacale. Da tempo Boeri avrebbe redatto il testo di una circolare – che dovrebbe diffondere il ministero del Lavoro – con la quale bloccare per sempre i privilegi che gonfiano gli assegni dei sindacalisti diretti alla pensione. Con non poca stizza, il ministro Giuliano Poletti gli ha risposto che quella circolare è al vaglio dell’ufficio legislativo.

Per Boeri l’attacco ai sindacati potrebbe diventare letale. Già sulla sua testa da tempo pende la riforma della governance dell’istituto di previdenza, dopo la quale i suoi detrattori sono sicuri che sarà costretto a fare i bagagli. Il problema delle pensioni d’oro tra quelli che una volta difendevano i lavoratori è ben noto a tutti. Per prassi, riporta il Giorno, le organizzazioni sindacali versano contributi aggiuntivi, rispetto a quelli figurativi, a favore di chi è in aspettativa o sono in distacco sindacale e hanno finito la loro carriera. In questo modo l’importo della pensione si gonfia più o meno del 27% in più rispetto a qualsiasi altro normale lavoratore.

Boeri nello stesso giorno si è preso anche la briga di attaccare il presidente della Commissione Lavoro alla Camera, Cesare Damiano, e la deputata del Pd maria LuisaGnecchi, colpevoli di aver preteso trasparenza nei dati, per esempio sulle stime che non corrispondono alla realtà per la salvaguardia degli esodati. Secondo Boeri però è tutta una macchinazione per “volta sistematicamente a gettare discredito sull’Istituto che gestisce la protezione sociale in Italia e sulle statistiche che produce. Se così fgosse sarebbe un gioco pericoloso”. Vero, ma nell’immediato chi sembra più a rischio di perdere il posto sembra proprio Boerl.

Con fonte Libero Quotidiano