“Reddito di cittadinanza? Rischio di aumentare i cittadini parassiti nei confronti dello Stato” Lo hanno detto i Vescovi della Chiesa. Sì, quelli che vivono nel lusso più sfrenato, non pagano l’Ici, intascano l’8 per mille e che una volta in pensione li paghiamo noi…!

 

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“Reddito di cittadinanza? Rischio di aumentare i cittadini parassiti nei confronti dello Stato” Lo hanno detto i Vescovi della Chiesa. Sì, quelli che vivono nel lusso più sfrenato, non pagano l’Ici, intascano l’8 per mille e che una volta in pensione li paghiamo noi…!

I vescovi scettici sul reddito di cittadinanza, evitare la cittadinanza “parassitaria”

Tra i rischi riguardanti il reddito di cittadinanza spicca “quello di attenuare la spinta a cercare lavoro o a convincere a rinunciare a offerte di lavoro che prevedano una retribuzione non distante da quanto previsto”. E’ quanto afferma la Cei (Conferenza Episcopale Italiana) in audizione alla Camera sul decretone. “E’ enorme il rischio di aumentare queste forme di cittadinanza non solo passiva ma anche parassitaria nei confronti dello Stato”, aggiunge.

Da huffingtonpost:

I vescovi scettici sul reddito di cittadinanza,evitare la cittadinanza “parassitaria”

Per conquistarsi la “cittadinanza”, ben prima del reddito, serve il lavoro. E il lavoro lo creano le imprese, non una norma e soprattutto non solo un sussidio. No, a parlare non è Confindustria e nemmeno un’altra associazione di imprenditori o commercianti. Sono i vescovi italiani che – davanti ai deputati che lavorano sul reddito di cittadinanza – hanno ricordato quanto sia importante riportare il lavoro, quello “degno”, al centro di tutto. Solo così si possono evitare i rischi “enormi” di una cittadinanza “parassitaria” nei confronti dello Stato. Per spiegarsi ancora meglio, i rappresentanti della Cei hanno preso in prestito un discorso fatto da Papa Francesco nel 2017, in cui il Pontefice usava esattamente queste parole: “Un assegno statale, mensile che ti faccia portare avanti una famiglia non risolve il problema. Il problema va risolto con il lavoro per tutti”. Il messaggio a Governo e al Parlamento non poteva arrivare più forte e chiaro di così. La misura, secondo la Cei, rischia di attenuare la spinta degli italiani a cercare lavoro, o ad accettare delle offerte che prevedano una retribuzione non troppo distante da quella prevista dal Reddito. Si tratta di un vero e proprio effetto “spiazzamento” (già citato, non a caso, nelle scorse audizioni sul reddito proprio dagli industriali) che i vescovi suggeriscono caldamente di evitare, visto che andrebbe ad alimentare forme di cittadinanza non solo passiva ma anche, appunto, “parassitaria” nei confronti dello stesso Stato. Un’idea di cittadinanza attiva, secondo la Cei, non si rassegna alla mera assistenza che può anzi diventare assistenzialismo e generare atteggiamenti deleteri e soprattutto passivi.

Citando ricerche internazionali, la Conferenza episcopale italiana ha poi rincarato la dose confermando che le misure di sostegno simili al Reddito di cittadinanza “non hanno successo se l’ammontare è vicino al reddito che sarebbe percepito lavorando”. Il provvedimento italiano quindi rischia di scoraggiare il reinserimento delle persone disoccupate nel mercato del lavoro, visto che l’Inps ha già evidenziato che il 45% dei dipendenti privati nel Mezzogiorno ha redditi da lavoro inferiori a quelli garantiti dal Reddito di Cittadinanza. In questo caso, perciò, il timore che le persone beneficiarie del RdC non si attivino per cercare lavoro o per aumentare le proprie competenze diventa sempre più concreto. Ecco perché – continua la Cei – occorre anche evitare il rischio di entrate ‘in nero’ e di cumulare questo tipo di retribuzioni con il RdC.

Un ulteriore rischio è quello di sottostimare la situazione economica delle famiglie italiane. Le soglie di povertà – spiegano i rappresentanti dei vescovi – sono di solito corrette per un “fattore famiglia” (ad esempio, se la povertà per il single è 100, per una famiglia con due figli può essere 260 calcolando adulti 100 e figli 30 ciascuno) ma i fattori di conversione usati nel RdC sono molto più bassi di quelli standard. In questo modo, quindi, si rischia una stima al ribasso rispetto alla situazione reale dei cittadini.

Tra i consigli dei vescovi c’è poi anche quello di concentrarsi sulle vere causa della disoccupazione per capire meglio i problemi e come affrontarli. Per la Cei, infatti, le motivazioni alla base della mancanza di lavoro sono fondamentalmente tre: la domanda e offerta di lavoro farebbero un ‘matrimonio perfetto’ ma non si incontrano; l’aspirante lavoratore deve colmare il gap di competenze che gli impedisce al momento di poter ottenere il posto di lavoro; ci sono troppi pochi posti di lavoro nell’area per ragioni diverse (sia macroeconomiche che di sistema Paese).

Come fare quindi per favorire l’occupazione, soprattutto quella dei giovani? La ricetta suggerita dai vescovi riporta alle misure che “negli ultimi anni si sono rivelate più efficaci”, ossia quelle intraprese soprattutto dalle Regioni e definite di “dote lavoro” perché coinvolgono direttamente i migliori Centri di formazione professionale e le Agenzie del lavoro per far incontrare domanda e offerta e accompagnare con orientamento e percorsi formativi efficaci la ricerca del lavoro. L’efficacia di questo tipo di misure utilizzate dalle Regioni (specie della Lombardia) è stata, secondo la Cei, determinata dallo strumento utilizzato, ossia un’agenzia del lavoro che poteva reperire la totalità del beneficio economico solo se il processo di accompagnamento al lavoro e di formazione si concludeva con un contratto.

Gli “ostracismi” sul reddito di cittadinanza coprono la vergogna dei bassi salari… Dicono “Chi avrà il reddito di cittadinanza guadagnerà più di chi lavora” solo e solamente per difendere il loro “diritto” di pagare con 4 soldi i lavoratori…!

 

reddito di cittadinanza

 

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Gli “ostracismi” sul reddito di cittadinanza coprono la vergogna dei bassi salari… Dicono “Chi avrà il reddito di cittadinanza guadagnerà più di chi lavora” solo e solamente per difendere il loro “diritto” di pagare con 4 soldi i lavoratori…!

Il presidente dell’INPS Boeri ha voluto lanciare un velenoso messaggio al governo Conte in occasione dell’audizione al Senato per il decreto sul Reddito di Cittadinanza. “Il problema è che il RdC – ha argomentato Boeri – fissa un livello di prestazione molto elevato per un singolo” e che il “45% dei dipendenti privati nel Mezzogiorno ha redditi da lavoro netti inferiori a quelli garantiti dal RdC a un individuo che dichiari di avere un reddito pari a zero”. In sostanza Boeri sta suggerendo al governo di abbassare la soglia dei 780 euro, che è la somma che un single può arrivare a percepire se dimostra di non avere redditi e di vivere in affitto. Il problema del presidente dell’INPS è l’effetto di “scoraggiamento al lavoro” che avrebbe il RdC, soprattutto al sud.
Il primo obiettivo della provocazione di Boeri è quello di influenzare le scelte, che sembrano inevitabili, relative alla spesa complessiva sul RdC. In base ai calcoli dell’INPS infatti la platea dei beneficiari del RdC sarà di 2,4 milioni di persone (secondo l’ISTAT saranno invece 2,7) per una spesa complessiva di 8,5 miliardi, di gran lunga superiore a quella stanziata dal governo Conte sia per il 2019 (6 miliardi) sia per gli anni seguenti (7,5 per il 2020, ecc). Boeri sta quindi suggerendo al governo di abbassare il contributo alle famiglie monoparentali per restare dentro la spesa stanziata ed evitare così di danneggiare le aziende che remunerano i loro dipendenti con salari inferiori a 780 euro mensili!
La questione però è più complessa e non si limita alla sola spesa prevista dal governo per il RdC. La posta in gioco è il livello dei salari nel nostro paese.
Restiamo per un attimo ancora al tema della povertà, che è poi l’oggetto specifico del provvedimento sul RdC. Eurostat, che è l’ISTAT europea, ad ottobre aveva diffuso i dati relativi al 2017, che sono gli ultimi disponibili, dai quali emergeva come l’Italia fosse il paese europeo con il più alto numero di persone a rischio povertà o esclusione sociale, ben 17milioni e 400mila, pari al 28,9% della popolazione, in forte crescita rispetto al 2008 quando erano ancora 15milioni. Di questi, ci dice l’ISTAT, 5milioni e 58mila persone sono in condizioni di povertà assoluta, cioè con capacità di “spesa per consumi pari o inferiore a quella stimata come minima necessaria per acquisire un paniere di beni e servizi (…) considerato essenziale per uno standard di vita minimamente accettabile” (ISTAT audizione al Senato 4 febbraio 2019).
Siamo quindi il paese europeo con più poveri e con una misura appena introdotta – il RdC – che riuscirà a coprire soltanto la metà circa dei poveri assoluti (2milioni e 700mila nella migliore delle ipotesi a fronte di più dei 5milioni calcolati dall’ISTAT). Eppure la preoccupazione del presidente Boeri è lo “scoraggiamento al lavoro”.
Così Boeri, sia pure involontariamente, ha finito per toccare l’argomento tabù quando si parla di povertà, e cioè che non basta trovare un lavoro per avere di che vivere. Sempre secondo Eurostat i working poor sono in Italia l’11,7 della forza lavoro. Vuol dire che 12 lavoratori su 100 pur percependo un salario sono a rischio povertà, e che pertanto ci sono in Italia circa 2,7 milioni di lavoratori poveri. Ad essere più esposti sono ovviamente i part-time e chi ha un impiego temporaneo.
Ma la crescita del lavoro povero è solo un aspetto della più generale tendenza alla riduzione della quota salari sul PIL. In Italia si è passati dal 69,4 del lontano 1960 al 60,6 del 2016, considerando nella quota salari anche i compensi dei CEO e dei top manager superpagati anche mille volte il salario dei propri dipendenti. La distribuzione della ricchezza si è quindi spostata nel nostro paese dalla retribuzione del lavoro verso la rendita e il profitto.
È il rapporto dell’International Labour Organization, il Global Wage Report 2014/15 sui salari che mostra come questa tendenza alla perdita di terreno del lavoro rispetto al capitale abbia un carattere globale e presenti però in Italia una particolare intensità.

Il costo del lavoro (salari e contributi previdenziali versati dai datori di lavoro, integrato da una stima del reddito dei lavoratori autonomi) subisce un forte calo in tutto l’occidente con punte massime negli USA, in Giappone e in Italia, che è l’unico paese dove si registra un crollo di addirittura 9 punti percentuali.
La soluzione di comodo escogitata di fronte a tanta evidenza empirica è quella di scaricare sulla collettività (spesa pubblica) gli eventuali aumenti salariali, attraverso la riduzione della contribuzione per le imprese. Un modo per fingere di cambiare qualcosa, lasciando inalterata l’attuale iniqua distribuzione della ricchezza. È a questo infatti che allude Orioli sul Sole 24 ore del 6 febbraio, suggerendo a Cgil, Cisl, Uil e Confindustria di incamminarsi su questo crinale per stringere ulteriormente il loro Patto per la fabbrica e rispondere alle preoccupazioni di Mario Draghi sulla “debole dinamica delle buste paga italiane”.
Noi abbiamo invece un’idea completamente diversa su come affrontare il gap salariale del nostro paese. Innanzitutto introduzione di un salario minimo mensile per legge, che rispetti il dettato costituzionale – art. 36 Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa – ed impedisca la proliferazione di contratti nazionali di comodo. Stop al part time obbligatorio ed ai contratti flessibili. E sul piano dell’azione sindacale, piattaforme rivendicative in occasione dei rinnovi contrattuali, che consentano il recupero del tanto terreno perso in questi anni.
Sul fronte della povertà e quindi del reddito c’è bisogno di un forte rilancio dell’iniziativa pubblica, soprattutto in quei settori dove il mercato è meno interessato e che invece sono di grande utilità sociale e ambientale. Un solido sistema di servizi costituisce una condizione essenziale per contrastare le disuguaglianze sociali. Un Piano straordinario di assunzioni nella Pubblica Amministrazione, non solo per recuperare il forte gap con gli altri paesi, ma anche per rimettere in sesto zone e settori dell’economia quasi completamente abbandonati.
Qualcuno dirà: ma dove prende l’Italia i soldi per fare tutto questo? Da quelli che ce li hanno rubati in questi anni, risponde l’USB.

Il testo integrale dell’intervento della Usb all’audizione al Senato sul Reddito di Cittadinanza

 

tratto da: http://contropiano.org/news/news-economia/2019/02/15/gli-ostracismi-sul-reddito-di-cittadinanza-coprono-la-vergogna-dei-bassi-salari-0112466?fbclid=IwAR30vxDrzqbAoAkruuhb_P9tzP_xsWa7V47nLDUZztHbX4up7jAhlfeht04

Finlandia, gli effetti di 560 euro di reddito garantito: meno ansia e più voglia di trovare lavoro

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Finlandia, gli effetti di 560 euro di reddito garantito: meno ansia e più voglia di trovare lavoro

Arrivano i primi risultati sul test eseguito su un campione di 2mila disoccupati. Ma le autorità mettono in guardia: estenderlo a tutti sarebbe difficile. Primi passi, comunque, per sfoltire la giungla di agevolazioni

Di seguito un articolo pubblicato su Repubblica.it a firma di Andrea Tarquini che racconta cosa sta succedendo in Finlandia, dove stanno sperimentando una forma di reddito garantito.

Reddito minimo fisso garantito a duemila cittadini, a titolo sperimentale. La stessa cifra, circa 560 euro, pagata appunto a duemila persone, tutte disoccupate e scelte in una fascia d’età tra i 25 e i 58 anni. Senza divieto di trovarsi un lavoro e senza obbligo di cercarlo. Così funziona l’esperimento, piuttosto unico al mondo, lanciato in Finlandia. Nel paese nordico segnato dall’economia più debole (sebbene moderna e competitiva) e dal più alto tasso di disoccupazione nella regione (non si riesce a farlo scendere sotto l´8 per cento) paradossalmente non un governo progressista bensì una coalizione di centrodestra ha lanciato il tentativo. E adesso, un anno dopo, autorità, economisti e media traggono un primo bilancio. In sintesi: su un campione di duemila persone ha dato spesso effetti positivi, ma ben altra complessità di strutture e ben altri costi imporrebbe una estensione del reddito minimo garantito dallo Stato a tutta la collettività.

“E’un esperimento, insistiamo”, ha spiegato al Guardian e ad altri media britannici Markus Kanerva, consigliere del premier Juha Sipila (un tycoon di successo diventato leader del centrodestra per bene e capo del governo). E aggiunge: “Vogliamo studiare quali conseguenze il reddito minimo garantito ha nel comportamento e nella qualità della vita di un campione di cittadini disoccupati; ma è ovvio che estenderlo a tutta la popolazione, o a tutti i senza lavoro, comporterebbe ben altre spese e modifiche a fondo del nostro complesso sistema di welfare, previdenziale e di monitoraggio della povertà o del rischio povertà”.

Secondo i primi esami dei risultati dell’esperimento, sempre relativi appunto a quella fascia di duemila cittadini disoccupati volontari che hanno accettato di parteciparvi, quel reddito minimo garantito pur essendo assolutamente insufficiente a vivere in un paese dagli alti costi in ogni campo della vita pubblica, ha avuto due effetti positivi. Primo: liberare i disoccupati coinvolti dal test dall’ansia e dallo stress continui della difficile ricerca di un lavoro, che sia un posto fisso o un impiego a tempo o precario. Secondo, li fa maturare psicologicamente. Perché li libera da quel riflesso condizionato tipico di molti percettori di assegni-previdenza nei paesi a welfare generoso ed esteso. E cioè dall’abitudine di vivere di sussidi perdendo lo stimolo a cercare un impiego e rientrare nel mercato del lavoro.

Secondo Marjukka Turunen, responsabile del comparto legale del Kela (la authority del welfare), il principale effetto positivo dell’esperimento, che continuerà almeno un altro anno, “è stato finora proprio quello di liberare i disoccupati da questa mentalità di disincentivo a cercare un impiego”. Mentalità fatta da un lato di pessimismo, visto che la crisi dei media cartacei e quindi delle cartiere, la lunga crisi di Nokia e il crollo del commercio con la Russia dopo la fine dell’impero sovietico hanno creato un vasto zoccolo duro di disoccupati in Finlandia, cioè un fenomeno di proporzioni sconosciute nel resto del grande nord. E dall’altro di rassegnazione, nella certezza che comunque i sussidi regolari ti fanno sopravvivere.

La raccolta e l’analisi di statistiche sui risultati è ancora in corso, ma un primo dato positivo emerge. Sentendosi liberi dall’ansia i duemila disoccupati-cavie volontarie sembrano più incentivati a cercare un impiego. Oppure a riempire comunque il tempo libero in lavori di volontariato, per riconoscenza solidale verso la società e le istituzioni. Un secondo risultato positivo: meno stress, meno depressione, quindi calo tendenziale delle spese della sanità pubblica. Ma attenzione, sottolineano i consiglieri del premier e la signora Turunen. Il test del reddito minimo garantito per i duemila volontari – di cui il governo protegge l’anonimità per rispetto della sfera privata – è solo un primo passo per pensare bene e lanciare con calma una riforma a fondo del sistema di welfare finnico, attualmente troppo complicato perché comprende una quarantina di sussidi diversi, con incroci e sovrapposizioni frequenti di competenze tra le varie autorità che li elargiscono. E per rendere il welfare al tempo stesso più efficiente come strumento di reinserimento dei disoccupati nel mercato del lavoro, e meno costoso. E’ solo un test iniziale, insomma, ma almeno il centrodestra finlandese ha cominciato a lavorare sul problema. Cercando idee nuove e soluzioni creative. Insomma, bilancio provvisorio positivo, ma senza illusioni che automaticamente estendere a tutti il diritto al reddito minimo garantito risolverebbe i problemi.

fonte. Repubblica

 

Sale il reddito delle famiglie italiane. Ma non vi fate prendere per i fondelli dalla propaganda di Renzi e dei media del “regime”. A beneficiarne sono solo i più ricchi…!

 

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Sale il reddito delle famiglie italiane. Ma non vi fate prendere per i fondelli dalla propaganda di Renzi e dei media del “regime”. A beneficiarne sono solo i più ricchi…!

 

Da La Repubblica:

Sale il reddito delle famiglie italiane, ma a beneficiarne sono solo i più ricchi

Lo certifica l’Istat nella sua ricerca sulle condizioni di vita dei nuclei familiari del Paese. In media il reddito è appena sotto i 30mila euro. Ma le diseguaglianze aumentano. Un italiano su tre è a rischio povertà, soprattutto se risiede al Sud e vive in famiglie numerose o di origine straniera.

Sorpresa. Il reddito medio delle famiglie italiane è salito. Solo che, e c’era da attenderselo, la crescita più intensa si registra per il quinto più ricco della popolazione. A quello più povero toccano le briciole. Tant’è che al 20% dei meno abbienti va poco più del 6% del reddito totale. Detto questo, il reddito delle famiglie è comunque salito tra il 2014 e il 2016. Niente balzi sproporzionati in avanti, ma certo un passo in più c’è stato. Lo dicono le statistiche dell’Istat sulla condizione di vita delle famiglie nel 2016. Rispetto al 2014 c’è stato un aumento dell’1,8% in termini nominali e dell’1,7% rispetto al potere di acquisto. Mediamente il reddito medio annuo per famiglia è pari a 29.988 euro, più o meno 2.500 euro al mese. Ma essendo una media quei quasi 30mila euro l’anno non sono per tutti. Metà dei nuclei familiari residenti possono contare su un reddito netto che non supera i 24.522 euro (circa 2.016 euro al mese, con un +1,4% rispetto al 2014). Il che vuol dire che c’è una bella fetta di famiglie che a quella media non arriva. Anzi, con una certa velocità, rischia di finire ai margine del tessuto sociale.

Le diseguaglianze crescono, come del resto accade in molti Paesi occidentali. Nel Rapporto, quella che ormai viene rappresenta come una bomba sociale, è ben rappresentata da numeri e cifre. Nel 2016 c’è stata “una significativa e diffusa crescita del reddito disponibile e del potere d’acquisto delle famiglie (se riferito al 2015), ma anche un aumento della disuguaglianza economica e del rischio di povertà o esclusione sociale”, scrive l’Istat.  Gli italiani che rischiano di finire ai margini sono uno su tre. Un numero altissimo, che fa lievitare la popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale alla cifra di 18.136.663 persone. Una nazione a sè. E le differenze si vedono sui territori, inutile negarlo. Chi risiede al Sud e nelle Isole ricade più spesso nel primo quinto più a rischio (33,2%), rispetto a chi vive al Centro (15,8%) e nelle aree geografiche del Nord-ovest e Nord-est (13,2% e 10,1%).

Le famiglie più ricche, in parallelo, si trovano al Nord (oltre il 26%), ma anche nel Centro (22,8%), per calare poi bruscamente nel Mezzogiorno (10%). Ed è chi vive in nuclei numerosi, con tre o più figli, a riempire il quinto più povero della popolazione (36,5%). Un aspetto, spiega l’Istat, che “si lega anche alla maggiore presenza di minori nel segmento inferiore della distribuzione dei redditi, soprattutto se vivono in famiglie numerose”. Quando in famiglia vi è almeno un minore si ha una concentrazione del 25% nel primo quinto più povero, percentuale che sale al 39,5% nel caso i figli siano tre o anche di più. E non è un caso se le nascite ormai segnino il passo e non più solo al Nord, ma anche al Sud.

Le coppie senza figli o con un solo figlio ricadono infatti meno frequentemente tra quelle a rischio povertà (meno del 15% dei casi) mentre si concentrano tra quelle più ricche (27,2% e 24,1%). Fortemente svantaggiati i componenti di famiglie straniere, che per il 36% dei casi rientrano nella fascia dei più poveri. E una maggiore vulnerabilità colpisce chi appartiene a famiglie dove il principale percettore di reddito ha meno di 35 anni (27,8% nel primo quinto), ha solo la licenza media (28,2%) è in condizione di disoccupazione (59,1%) o inoccupazione (38,6%). Una disuguaglianza dei redditi, quella italiana, più accentuata se confrontata con la media dei paesi europei, che ci pone alla ventesima posizione. La certificazione di una realtà che da tempo è stata denunciata ed è sotto gli occhi di tutti.

fonte:

-http://www.repubblica.it/economia/2017/12/06/news/sale_il_reddito_delle_famiglie_italiane_ma_a_beneficiarne_di_piu_sono_i_benestanti-183218563/

Reddito di Inclusione – Chi ne ha diritto e come ottenerlo.

 

Reddito di Inclusione

 

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Reddito di Inclusione – Chi ne ha diritto e come ottenerlo.

Reddito di inclusione al via dal 1 dicembre, per le famiglie fino a 485 euro: come fare domanda.

Dal primo dicembre sarà possibile presentare domanda per avere accesso al reddito di inclusione, la prima misura nazionale di contrasto alla povertà. Una circolare Inps spiega chi può presentare richiesta e quali sono le modalità per fare domanda.

Dal primo dicembre sarà possibile fare domanda per accedere al reddito di inclusione, la prima misura nazionale di contrasto alla povertà. Una circolare Inps specifica come funziona il ReI e come presentare la domanda per questa misura che prevede anche un progetto personalizzato per le persone in situazione di bisogno. Il beneficio riguarderà inizialmente le famiglie con minori, disabili, donne in gravidanza a quattro mesi dal parto e over 55 disoccupati. Potrà avere un valore di massimo 485 euro al mese, per un totale di 5.824 euro l’anno.

A chi spetta il ReI
La circolare dell’Inps sottolinea anche a chi viene concesso il ReI, ovvero ai nuclei familiari in condizioni di povertà. Potrà essere erogato per un massimo di 18 mesi e rinnovato per non più di 12 mesi solo dopo che siano passati sei mesi dalla prima prestazione. La famiglia beneficiaria del ReI deve attenersi al progetto personalizzato a pena di decurtazione o decadenza dalla prestazione. Il ReI è incompatibile con la fruizione della Naspi o di altri ammortizzatori sociali da parte di qualsiasi componente della famiglia.

Il nucleo familiare deve avere un reddito Isee in corso di validità non superiore a 6.000 euro e un valore dell’Isre (indicatore reddituale dell’Isee) a fini ReI non superiore a 3.000 euro. Inoltre, oltre alla casa di abitazione, non si può avere un patrimonio immobiliare superiore a 20.000 euro e uno mobiliare superiore a 10.000 euro (in caso di tre componenti). Possono fare domanda per il ReI i cittadini dell’Ue o gli extracomunitari con permesso di lungo soggiorno residenti in Italia in via continuativa da almeno due anni.

L’importo del reddito di inclusione è pari al massimo a 485 euro mensili (in caso di almeno cinque componenti) ma potrebbe aumentare l’anno prossimo a fronte di risorse ulteriori che dovrebbero essere stanziate nella legge di bilancio, arrivando fino a 540 euro. Il beneficio economico viene erogato – spiega ancora l’Inps – per il tramite della Carta acquisti ridenominata Carta ReI che consente anche prelievi di contante entro la metà dell’importo massimo attribuito. La Carta viene concessa dalle Poste.

Come presentare domanda
La domanda dovrà essere presentata nei comuni o in altri punti di accesso individuati dagli stessi comuni. Il modello fornito dall’Inps è scaricabile sul sito dell’istituto di previdenza. Sono poi le amministrazioni locali a comunicare le informazioni contenute nelle domande all’Inps entro 15 giorni dalla ricezione della richiesta. L’Inps verifica le condizioni del possesso dei requisiti entro cinque giorni. In caso di esito positivo l’Istituto riconosce il reddito di inclusione a condizione che venga firmato il progetto personalizzato.

 

“Con 320 euro al mese si può vivere dignitosamente” – Lo ha detto il Ministro Poletti, quello che guadagna 10.000 Euro al mese per sparare cazzate come questa! (Nota NON è una bufala come qualcuno sostiene)

Poletti

 

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“Con 320 euro al mese si può vivere dignitosamente” – Lo ha detto l’ex Ministro del Pd Poletti, quello che guadagnava 10.000 Euro al mese per sparare cazzate come questa!
Nota: questo articolo NON è una bufala come qualcuno sostiene, vedi di seguito. 

 

Un sostegno al reddito pari a circa 320 euro al mese per un milione di poveri, accompagnato da un piano per la loro inclusione sociale. E’ la soluzione proposta dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, illustrata ieri in una intervista a Repubblica. La scorsa settimana, infatti, il governo ha approvato il disegno di legge delega ed entro sei mesi dal via libera del Parlamento arriveranno anche i decreti attuativi.

“E’ un cambiamento radicale – ha detto Poletti – perché nel nostro Paese non c’è mai stato un istituto unico nazionale a carattere universale per sostenere le persone in condizione di povertà. Vogliamo dare a tutti la possibilità di vivere dignitosamente. E’ una riforma che vale almeno quanto il Jobs act. Chi riceverà l’assegno avrà alcuni obblighi, come mandare i figli a scuola o accettare un’occupazione”.

La riforma dovrebbe partire dal 2017, ma già da quest’anno potranno essere utilizzati i 600 milioni stanziati nella legge di Stabilità. L’obiettivo del governo è di fare crescere nel tempo sia l’indennità sia la platea di beneficiari, fino a coinvolgere tutti i quattro milioni di italiani in condizioni di povertà assoluta. Insomma, per un problema sociale urgente si procede per step e non con misure straordinarie. Ma aldilà di questo, c’è una domanda che vorremmo porre al sig. Ministro Poletti: lei riuscirebbe a viverci con 320 euro al mese?

Insomma ci sta prendendo per il culo?

Questo è l’articolo pubblicato QUI un anno e mezzo fa. Siamo stati all’epoca attaccati da un noto sito sedicente “antibufale” che con varie argomentazioni lo tacciò di falso. Una Bufala. Ciò comportò anche la censura del sito.

Ve lo riproponiamo.

E Vi invitiamo a sentire QUI le parole di Poletti.

Forse noi non abbiamo capito bene. Vi invitiamo quindi a spiegarci cosa significa “Il nostro obiettivo è produrre le condizioni che ogni cittadino possa vivere dignitosamente nel nostro paese”…

Cioè, a noi sembra, oltre ai 320 Euro, Poletti non abbia dato altra ricetta per “produrre le condizioni che ogni cittadino possa vivere dignitosamente nel nostro paese”…

A noi sembra… Correggeteci se sbagliamo

By Eles

 

Reddito minimo: il problema non è quanto costa, ma quanto costa non averlo!

 

Reddito

 

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Reddito minimo: il problema non è quanto costa, ma quanto costa non averlo!

 

Reddito minimo garantito, quanto costa non averlo?

 

Il reddito minimo garantito (Rmg) è una misura presente in molti Stati europei, volta a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti, così come l’Europa chiede fin dal 1992. Tanto per capirci anche il Portogallo e la Spagna hanno seguito la direttiva, mentre inadempienti sono rimaste l’Italia e la Grecia.

Spesso il dibattito si focalizza sul “quanto ci costa?”. Il reddito minimo garantito costa più o meno quanto gli 80 euro. Pochi hanno cercato di capovolgere la domanda: “quanto ci è costato e ci costa non averlo?”.

La risposta la possiamo trovare nei dati sulla povertà e disoccupazione delle famiglie italiane, nelle statistiche che delineano un welfare incapace di ridurre il rischio di povertà attraverso i trasferimenti assistenziali, nelle politiche di contrasto alla povertà indirizzate solo a determinate categorie di soggetti, che spesso non versano in condizioni di povertà.

A causa di ciò c’è una fascia di ceto medio che scivola pericolosamente verso la soglia della povertà, mentre c’è un pezzo di paese che continua a cavarsela piuttosto bene. Tristemente ci sono sempre più giovani tra chi si impoverisce e sempre più anziani tra chi se la cava. Tradotto in cifre: la disoccupazione è al 12%, quella giovanile lambisce il 35% e sono 8 milioni gli italiani poveri e 4,5 milioni quelli in povertà assoluta.

Il reddito minimo garantito è fattibile, ma soprattutto urgente per tutto ciò a cui stiamo assistendo oggi: crisi dell’economia reale, impoverimento del lavoro, fragilità economico-sociale delle famiglie, lacune spaventose del sistema di welfare, disuguaglianze crescenti e redistribuzione inadeguata, fino alla crisi di consenso della politica e della democrazia. Ecco perché non possiamo più farne a meno.

Il reddito minimo renderebbe gli individui meno dipendenti e più liberi: più liberi anche dai condizionamenti prodotti dalle nostre élite autoreferenziali a caccia di clientele e collusioni.

 

 

fonte: http://uomoqualunque.net/2017/05/reddito-minimo-quanto-costa-non-averlo/#more-8078