Claudio Scajola condannato non si dimette anzi, pensa alle regionali – Piercamillo Davigo ha proprio ragione: “I politici non hanno smesso di delinquere, hanno solo smesso di vergognarsi”

 

Claudio Scajola

 

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Claudio Scajola condannato non si dimette anzi, pensa alle regionali – Piercamillo Davigo ha proprio ragione: “I politici non hanno smesso di delinquere, hanno solo smesso di vergognarsi”

Fresco di condanna a due anni di reclusione per aver favorito la latitanza di Amedeo Matacena, ex deputato di Forza Italia condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, Claudio Scajola potrebbe dare un segnale di buon senso, lasciando la pubblica amministrazione che presiede nel comune di Imperia dove è stato eletto sindaco nel 2018 nella totale noncuranza – da parte degli elettori – del carico giudiziario pendente su di lui; una serie di prescrizioni accumulate ed il processo in corso che oggi, lo vede condannato in primo grado. Processo a cui si recava, stando all’indagine della Guardia di Finanza – nucleo mobile di Imperia – a spese dei cittadini e per questo, il tre volte sindaco, eletto con oltre il 52% dei voti, è accusato anche di peculato d’uso. A pochi giorni dal suo insediamento, si è distinto per una operazione che ha motivato con la salvaguardia del bilancio; ha messo in vendita le azioni dell’Autostrada dei Fiori S.p.A. Operazione che ha fruttato molto più di quanto si stimasse – quasi 4 milioni di euro – e che è stata definita dall’allora neo sindaco, una scelta nata da ”un patto di onore”, un accordo di tipo verbale.

Alla domanda di una consigliera del M5S, posta nel Question time “Quale forma giuridica abbia assunto tale accordo verbale” il sindaco risponde “Un patto d’onore per me è più valido di qualsiasi scritto notarile, così è sempre stato nella mia vita e lo è stato anche in questo caso…

Ci sono in ballo quasi 4 milioni di euro, da una parte una amministrazione comunale e dall’altra, uno dei più grossi gruppi nel panorama delle autostrade italiane ma, ci si accorda verbalmente. Il successo dell’operazione, sarebbe ascrivibile in buona parte agli appuntamenti con le prime due aste di vendita indette; andate praticamente deserte. Alla terza poi, il comune era autorizzato per legge, a procedere verso una trattativa privata. Una operazione che non si presenta in acque limpide; a parte le aste deserte, il comune da l’incarico di verificare la congruità dell’operazione finanziaria al commercialista designato da Scajola stesso, proprio in quei giorni, al ruolo di assessore al bilancio. Imperia, città governata da Scajola, viene indicata come la “sesta provincia calabrese”, “in considerazione della capillare presenza di esponenti di spicco della ‘ndrangheta, ampiamente documentata dalle diverse attività d’indagine concluse negli ultimi anni”.
Peculiarità riportata, “infiltrazione del tessuto politico-amministrativo locale e dell’economia”. Avviare pratiche dove la trasparenza lascia a desiderare, non è il miglior modo per inaugurare la propria governance. I cittadini non ravvisano nulla di male in tutto questo?

Torniamo alla condanna in primo grado; Scajola, contrariamente a quanto auspicato, non dimostra alcuna intenzione di dimettersi anzi, dice che è certo di ribaltare la sentenza in appello – altra garanzia verbale by Scajola – e si dice pronto a correre per le regionali. Una lancia in suo favore però va spezzata; abbiamo forse visto le piazze di Imperia occupate da cittadini indignati che invocano dimissioni? Per queste persone, concorrere alla latitanza di un condannato per mafia, non è grave con ogni evidenza. Anzi, di due condannati visto che il pm Giuseppe Lombardo, ha parlato chiaramente di come alla vicenda Matacena, si sia sovrapposta anche la vicenda di Marcello Dell’Utri. Anche l’ex fondatore di Forza Italia infatti, nel periodo della latitanza in Libano, avrebbe goduto del soccorso di Scajola e sarà proprio questo forse, il punto di partenza per un nuovo filone di inchiesta che dalla Calabria, giungerà nel centro del potere romano dove tutti gli imputati in questione, hanno intrecciato reti solidissime. E’ bene sottolineare che la fiducia di Scajola nel processo d’appello potrebbe avere solide e fondate speranze; la posizione di una parte di magistratura continua ad apparire ambigua, e non solo perché pochi giorni fa, proprio in Calabria, 5 condannati per mafia sono tornati in libertà grazie alla “dimenticanza” di un giudice che non ha depositato le motivazioni della sentenza di condanna in un importante processo alla ‘ndrangheta. La rete di Matacena e degli altri imputati nel processo Breakfast, affonda le radici proprio in rapporti di dare avere con alcuni magistrati e questo continua ad essere un argomento spinoso. Confidiamo che il CSM fresco di innovative nomine, vigili in modo diverso rispetto al passato.

Due chicche tratte da queste questa vicenda; per quanto riguarda il deputato Matacena, Forza Italia dichiara di non averlo più ricandidato in seguito alla condanna riportata in primo grado – concorso esterno – voi capite che nonostante la drammaticità, le risate sorgono spontanee. Berlusconi altro che condanne in primo grado ha riportato fino ad oggi eppure, lo hanno accomodato – complice gli elettori italiani – al Parlamento Europeo. Sempre restando sul Duce di Forza Italia, reduce da una sconcertante vittoria in Calabria che non prelude nulla di buono, ha già dato il via alla manipolazione della sentenza: “Scajola ha solo aiutato un amico latitante in difficoltà come chiesto dalla moglie”. Chi di noi non ne aiuta uno quando capita?

Nel frattempo, si incontrano per stabilire le prossime alleanze in vista delle regionali del 2020. Un ricordo molto amaro delle parole di Francesco Saverio Borrelli “la giustizia vive in buona parte dell’ossigeno che proviene dalla collaborazione dei cittadini”. Attenderemo invano questo ossigeno?

Tratto dathemisemetis.com

Vedi:

Ricordiamo le parole di Piercamillo Davigo: “I politici non hanno smesso di rubare, hanno solo smesso di vergognarsi”

 

Lo sfogo di Piercamillo Davigo: “A 25 anni da Mani Pulite, l’Italia è ancora più corrotta… il codice penale è ridotto ad uno spaventapasseri e in cella vanno solo gli sciocchi.”

 

Piercamillo Davigo

 

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Lo sfogo di Piercamillo Davigo: “A 25 anni da Mani Pulite, l’Italia è ancora più corrotta… il codice penale è ridotto ad uno spaventapasseri e in cella vanno solo gli sciocchi.”

Il leader dell’Anm: il codice penale è uno spaventapasseri, in cella vanno solo gli sciocchi. «Il giudice è messo nella condizione di dover scegliere tra rispettare la legge rinunciando a fare giustizia o tentare di fare giustizia forzando la legge»

Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo (foto sopra), ha partecipato ad un forum al Corriere della Sera con il vice direttore Giampaolo Tucci e con i giornalisti Marco Ascione, Giovanni Bianconi, Luigi Ferrarella, Mario Gerevini, Giuseppe Guastella
e Fiorenza Sarzanini. Argomento del dibattito, che si è svolto nella redazione di via Solferino a Milano, il pianeta giustizia a 25 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani pulite e in occasione dell’uscita del libro «Il sistema della corruzione» (Editori Laterza) scritto dall’ex pm del pool Mani pulite, ora presidente di sezione in Cassazione.

A 25 anni da Mani pulite, in Italia è cambiato poco o nulla?
«È drammatico quanto poco sia cambiata la situazione e quanto sulla corruzione peggiori la deriva dell’Italia nel panorama internazionale».

Un Paese corrotto?
«A livelli diversi, finalità e modalità diverse. È un Paese che sta morendo. C’è sfiducia, la gente non va più a votare, espatria».

Ci vuole una rivoluzione culturale?
«Bisogna cominciare dalla scuola».

Migliore l’Italia degli anni di Mani pulite?
«L’effetto domino non fu innescato da un sussulto di coscienza civile, ma dal fatto che erano finiti i soldi».

Lei sostiene che per la corruzione ci vorrebbe un doppio binario, come per la mafia.
«Bisognerebbe introdurre alcune delle norme che valgono per i mafiosi».

Ad esempio?
«Un sistema premiale forte e serio e le operazioni sotto copertura».

La corruzione spesso è alimentata da fondi neri esteri, sempre più difficili da aggredire.
«È un problema internazionale. L’assistenza giudiziaria internazionale è un relitto ottocentesco che richiede tempi talmente lunghi, incompatibili con la durata di un processo».

Corruzione «Simonia secolarizzata». Cioè?
«Nella Chiesa c’è il sacerdote che vende cose sacre, nello stato c’è il funzionario pubblico che vende le cose che per lui dovrebbero essere sacre, perché ha giurato fedeltà alla Repubblica».

Il pool Mani pulite ha fatto errori?
«Secondo me, no. Ha fatto quello che poteva. Se non ci avessero cambiato le leggi a partita in corso, saremmo andati avanti. Molte leggi possono avere su il nome dell’imputato».

Forse fino a un’epoca determinata.
«Sì, poi è cambiata la maggioranza e da allora le fanno più sofisticate. Ad esempio, la legge Severino non contrasta la corruzione ma è stata gabellata per una legge che la contrasta».

Monti, il premier di allora, non era sospettabile di essere vicino ai corrotti.
«Quella legge l’ha fatta il Parlamento. Ricordo che il ministro della Giustizia rispose alle obiezioni: “Era il massimo che si potesse fare in quel momento con quelle Camere”».

I vostri rappresentanti dissero che era una buona legge, come nel caso di quella sull’autoriciclaggio. C’è anche un problema vostro?
«Certo che c’è anche un problema della magistratura, ma cerchiamo di capirci, gioca anche molto il modo di fare leggi dovuto all’incompetenza della pubblica amministrazione che, purtroppo, non è più quella di cento fa, fatta di funzionari competenti e con il senso dello Stato. Quando ho incontrato la prima volta il ministro Orlando, gli ho fatto presente che la depenalizzazione che avevano fatto non serviva a niente perché toglieva solo le briciole ma alcuni reati depenalizzati avevano l’effetto non di ridurre il carico di lavoro, ma di aumentarlo. Mi rispose che l’Anm aveva dato parere favorevole, io gli dissi che non sarebbe accaduto più perché avevamo costituito delle commissioni interne».

Ha un giudizio molto negativo sui politici.
«Ce ne sono anche perbene, ma i meccanismi talvolta favoriscono il malaffare».

Cosa ne pensa di chi, come i 5 Stelle, ha introdotto codici interni legati alle inchieste?
«La politica non deve agganciarsi ad atti formali nel giudizio, ma a una valutazione autonoma dei fatti. Si può cacciare uno che è innocente o tenerlo se è colpevole. Sono due valutazione diverse, una è politica, l’altra di giustizia».

Non si introduce così un’inversione del principio di non colpevolezza?
«Non è così. Molte volte non c’è bisogno di aspettare la sentenza per far scattare la responsabilità politica, ma in questo Paese non avviene mai, neanche di fronte ai casi evidenti».

Prendiamo il caso di Roma e della sindaca Raggi, è un caso controverso.
«Premesso che non parlo dei procedimenti in corso, in qualche caso la politica può dire “aspetto di vedere come va finire” o “mi sono fatto un’idea”, ma non può dire sempre “aspettiamo le sentenze”. Significa caricare sulla decisione del giudice la selezione della classe politica».

I politici dovrebbero darsi codici di comportamento?
«Secondo me sì. Basta anche il buonsenso».

Non c’è il rischio di finire nel moralismo?
«Se mi mandano in udienza con un collega che si è saputo che ruba, io non vado perché chi ci vede pensa che siamo uguali. Io non rubo».

L’Anm accoglie pm e giudici. Non le sembra forte dire che il codice di procedura penale è fatto per farla fare franca ai farabutti?
«Il nostro giudice è vincolato da un sistema di inutilizzabilità sconfortante perché una prova acquisita, valida nei confronti di un imputato, diventa inutilizzabile per un altro se è stata acquisita a termini delle indagini preliminari scaduti. Il giudice è messo nella condizione di dover scegliere tra rispettare la legge rinunciando a fare giustizia o tentare di fare giustizia forzando la legge. È inaccettabile. E allora è normale che uno venga arrestato e poi assolto. Se non volevano questo non dovevano scrive il codice così, oppure dovevano dirci di non arrestare più».

Riporta una frase del generale Dalla Chiesa che diceva: che c’è chi parla di manette facili e chi di ingiustizia che assolve. Ingiustizia?
«L’ingiustizia può essere nella legge oltre che negli uomini, se la legge è contraria al senso comune di giustizia, e molte delle norme che applichiamo lo sono. Ora la minaccia del carcere non è credibile perché il codice penale è uno spaventapasseri, da lontano fa paura, quando ci si avvicina appare innocuo. In galera ci va chi è così sciocco da farsi arrestare in flagranza e gli appartenenti alla criminalità organizzata. Gli altri in media ci vanno di meno».

Lei è un giudice, un suo imputato potrebbe avere difficoltà leggendo: «Ne prendiamo pochi e quando li prendiamo vengono condannati a pene esigue che non vengono fatte scontare».
«Nel nostro sistema il rispetto delle regole formali, che il più delle volte non hanno nessuna utilità, vanifica la ricostruzione storica dei fatti. A un certo punto ho lasciato la Procura per fare il giudice in appello, volevo capire come mai le sentenze venissero quasi sempre riformate. Ho visto che era vero quello che mi aveva insegnato un anziano magistrato che diceva che i giudici del tribunale sono come i padri, severi quando è necessario, quelli della Corte d’appello come i nonni, di regola rovinano i nipoti. Dato che su cento ricorsi in appello, 98 sono degli imputati condannati, si cominciano a vedere i problemi solo con una certa ottica e spesso è impossibile resistere alla tentazione di ridurre le pene. Bisognerebbe cambiare anche l’appello».

Solo carcere? E l’esecuzione esterna?
«Dipende dai reati e dal tipo degli imputati».

E stato mai tentato di forzare le regole?
«No. Le ho sempre rispettate, e anche quando ero convinto che l’imputato fosse colpevole l’ho assolto se la prova era inutilizzabile, pensando che era un mascalzone che l’aveva fatta franca».

Un sistema che protegge l’impunità?
«In un sistema ben ordinato, un innocente non deve essere assolto, non deve neppure andare a giudizio perché per lui il processo è una tragedia. I filtri dovrebbero essere all’inizio».

Qual è la priorità?
«La depenalizzazione. Il problema della giustizia è il numero dei processi. O abbiamo il coraggio di dire che va drasticamente ridotto o non se ne uscirà mai. Nel penale basta intervenire con una massiccia depenalizzazione e introdurre meccanismi di deterrenza delle impugnazioni, quelli che ci sono, sono risibili».

La politica invece va su una strada diversa e introduce nuovi reati come l’omicidio stradale.
«Cose prive di senso. Per l’omicidio stradale la pena è talmente alta che tra un po’ a qualcuno converrà dire che voleva ammazzare per rispondere di omicidio volontario».

Che ne dice dei suoi colleghi dell’Anm dell’Emilia Romagna dopo il comunicato sulla decisione del Tribunale del riesame?
«Non lo conosco, non posso sapere tutto».

È stata trovata la decisione di un collegio prima dell’udienza. L’Anm locale ha detto che poi altri giudici hanno confermato la decisione dei primi che si erano astenuti…
«Bisogna distinguere l’ipocrisia dal malcostume. Un giudice diligente non potendo ricordare a memoria decine di processi al giorno, si appunta lo studio che fa. L’ho sempre fatto, ma non firmo gli appunti e non li metto nel fascicolo».

E allora, a cosa serve la discussione?
«Si può cambiare la decisione».

Lei lo fa?
«Quando un avvocato dice cose che non avevo notato, raro, o che mi convincono, cambio opinione perché solo gli imbecilli non lo fanno».

 

 

fonte: http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/17_febbraio_12/piercamillo-davigo-a-25-anni-mani-pulite-l-italia-ancora-piu-corrotta-82184580-f166-11e6-b184-a53bdb4964d9.shtml

Avete idea di cos’era l’Italia, quando aveva la Montedison? – Ecco come gli sciacalli della politica hanno distrutto un colosso che oggi ci avrebbe dato un milione di posti lavoro in più!

 

Montedison

 

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Avete idea di cos’era l’Italia, quando aveva la Montedison? – Ecco come gli sciacalli della politica hanno distrutto un colosso che oggi ci avrebbe dato un milione di posti lavoro in più!

 

Avete idea di cos’era l’Italia, quando aveva la Montedison?

Probabilmente ci sarebbero un milione di posti lavoro in più in Italia, se non fosse stata “suicidata” la Montedison di Raul Gardini. Era il primo gruppo industriale privato italiano, ricorda Mitt Dolcino: la Fiat, all’epoca, era ben lontana dalle vette dei grandi gruppi di Stato come Eni, Stet (Telecom), Enel e forse la stessa Sme (agroindustriale). «Oggi che si è insediato il primo governo eletto non a seguito di influenze esterne – inclusa l’ingerenza della magistratura (ossia Tangentopoli) – dobbiamo ragionare freddamente su cosa successe veramente con Raul Gardini», scrive Dolcino su “Scenari Economici”. «La situazione oggi è talmente grave che qui ci giochiamo l’italianità». Infatti non è un caso – aggiunge l’analista – che Montedison alla fine fu conquistata e spolpata proprio dai francesi, guardacaso gli stessi che, secondo il giudice Rosario Priore, attentarono alla sovranità italiana durante “l’incidente” di Ustica, e che oggi «sembrano distribuire la Legion d’Onore ad ogni notabile italiano che va contro gli interessi del Belpaese». Caduto il Muro di Berlino, di fatto, l’Italia perse la protezione degli Usa. «E l’Europa, la stessa che oggi ci bastona, organizzò il banchetto dato dalle privatizzazioni italiane a saldo (con Draghi, che casualmente fece una fulgida carriera, ad organizzare il piano sul Britannia)».

Oggi come allora, per impossessarsi dei beni pregiati del paese, secondo Dolcino vengono utilizzati «pochi cooptati locali, foraggiati con carriere e soldi affinché tradiscano gli interessi nazionali». Impressionante l’elenco delle privatizzazioni – record mondiale – realizzate dall’Italia negli anni ‘90, quando tra Bankitalia e Palazzo Chigi si alternarono Draghi, Ciampi, Prodi, Amato e D’Alema. Motta e Alemagna finite a Nestlè, Gs a Carrefour, Telecom alla famiglia Agnelli (poi a Pirelli e Benetton, quindi a Telefonica). Benetton acquisì anche Autogrill e Autostrade per l’Italia, mentre finirono privatizzate al 70% sia Eni che Enel. Quindi la finanza: il Credito Italiano al gruppo Unicredit, Bnl a Bnp Paribas, la Banca Commerciale Italiana a Intesa Sanpaolo, senza contare il Banco di Roma (Unicredit) e l’Imi (Intesa). Idem l’industria: l’Alfa Romeo alla Fiat e Finsider all’Ilva, mentre lo Stato (gruppo Iri) ha ceduto ad aziende private il 70% di Finmeccanica. Sempre per un obietto che Dolcino considera di fatto neo-coloniale, l’Italia è diventata il laboratorio anticipatore di importanti, sinistri trend futuri: «Dalla strategia della tensione (pensate che oggi gli attentati “islamici” e affini nel mondo occidentale vengono riferiti della stampa specializzata utilizzando un nome che in Italia conosciamo bene, Gladio II) all’uso distorto della magistratura per fini politici, che oggi vediamo negli Usa contro Trump».

Di mezzo c’è stato anche il berlusconismo, «con un businessman non-politico diventato capo del governo», nonché la trattativa Stato-mafia, «con la mafia (italoamericana) che avrebbe voluto sostituirsi con George Bush al potere alla rappresentanza ufficiale Usa in un’Italia in via di smantellamento post-caduta del Muro». Ma anche i cosiddetti populismi di oggi sono ormai “made in Italy”, dato che il nostro è il primo paese europeo «dove guardacaso è arrivato al potere un governo in gran parte slegato dagli interessi tradizionali, oltre che davvero vicino alle esigenze di una cittadinanza giunta ormai allo stremo». Per Dolcino, in ogni caso, il discrimine emblematico tra l’Italia prospera e relativamente sovrana della Prima Repubblica e la post-Italia “euroschiava” della Seconda resta la morte di Raul Gardini, frettolosamente archiviata come suicidio. Fu invece omicidio, secondo il magistrato Mario Almerighi, autore del saggio “Suicidi”, edito dall’università La Sapienza. Se il patron della Montedison non fosse stato assassinato, scrive Dolcino, evocando un’altra morte in apparenza accidentale, quella di Enrico Mattei, oggi l’Italia sarebbe un paese molto più forte.

Da capogiro la ricognizione che Dolcino compie sull’allora pianeta Montedison, vera e propria galassia industriale di prima grandezza a livello mondiale. Probabilmente, scrive l’analista, oggi Montedison sarebbe ancora il leader agroindustriale europeo, con Eridania Beghin Say accanto al gruppo Ferruzzi, leader mondiale nella soia. Montedison sarebbe anche un attore primario nel settore cemento grazie a Calcestruzzi, un leader petrolifero verde con il biodiesel Enimont e un protagonista nell’industria della plastica e della chimica: ad esempio con Ausimont, produttrice di fluoro, e con Himont, attuale leader mondiale del polipropilene, “erede” del Premio Nobel Giulio Natta. E non è tutto: la stessa Montedison sarebbe un rilevante produttore di medicinali (Carlo Erba, Farmitalia, Antibioticos), un leader europeo nei fertilizzanti (Agrimont) e un leader mondiale nella bio-plastica (Novamont). Ancora: il gruppo che fu di Gardini sarebbe un primario attore della cantieristica (grazie all’expertise del Moro di Venezia), un grande operatore telefonico (EdisonTel), un protagomnista del settore elettrico e del gas (Edison), un primario operatore assicurativo (La Fondiaria) e dei servizi finanziari (Agos) e infine un leader europeo nelle fibre sintetiche (Montefibre).

«Un colosso in grado di occupare circa un milione di persone con l’indotto». Invece fu svenduto, a partire dalla morte del “Contadino” e al coma pluriannuale che ne seguì: «Uccisero la “testa” e lasciarono un bellissimo aereo senza pilota, affinché si schiantasse e fosse venduto a prezzo di saldo – grazie ad una tangente percepita da un magistrato di Milano – a quelli che facilmente organizzarono la morte di Gardini». Chi ha perso, in tutto questo scempio immane, «sono i lavoratori italiani, oltre allo Stato in termini di tasse», scrive Dolcino. «Le aziende vendute dai “pontieri” italiani cooptati che organizzarono l’acquisto di Montedison», ossia il gruppo Fiat, «furono di norma sfasciate, ad eccezione di Edison che venne conquistata e riempita di manager di Stato francesi, visto che Edf di fatto rappresenta il ministero della difesa d’oltralpe». In sostanza: «Vennero bruciati occupazione e utili in Italia, a favore di valore portato all’estero». Vale anche per Edison, il cui cuore – ossia il trading  – è stato spostato tra Parigi e Londra. Che fare? «La verità è che prima di tutto bisogna mettere in sicurezza il sistema da altri attacchi esterni», sottolinea Dolcino, pensando alla decapitazione di Montedison, pilotata a colpi di tangenti.

Lo stesso Dolcino ricorda che l’azienda «fallì in modo non dovuto – e dunque venne acquisita dai francesi – grazie ad una tangente pagata ad un giudice e a sua moglie, che mai risposero civilmente per i danni civili arrecati». Il giudice era Diego Curtò, marito di Antonia Di Pietro. Una volta in carcere, ammise di aver interferito nella crisi Enimont grazie a montagne di soldi che gli furono versati su conti svizzeri e panamensi. Una tangente «la cui genesi mai è stata ben spiegata», osserva Dolcino: «Forse bisognava solo guardare al lato di coloro che poi hanno acquisito il gruppo». Al momento della “resa” alla Francia, scrive Dolcino, il famoso pm di Mani Pulite e il capo dei legali di Edf «avevano lo stesso cognome ed erano cugini: un caso del destino che fa pensare». Per questo, sempre Dolcino ritiene «impellente» la riforma della magistratura italiana, «non tanto per difendere Berlusconi o i politici in genere, quanto per preservare il paese nella sua interezza». Operazione forse finalmente possibile oggi, visto che «abbiamo l’occasione di poter discutere con il dominus Usa una riallocazione delle sfere di influenza – in forza della sfida mossa a Washington dall’Ue franco-tedesca per sostituirsi al dominus americano nel Vecchio Continente». Uno scontro tellurico tra Usa ed Europa «come non succedeva dai tempi della guerra fredda».

Stop, dice Dolcino, alla magistratura che fa politica, lasciando che si usino le indagini «come macchina del fango per rovinare chi non si riesce a incriminare». Dolcino cita gli auspici di Govanni Falcone e Giuseppe Pignatone, nel dare il benvenuto al giudice Davigo in funzioni di governo: «Sono certo che capirà l’urgenza dei correttivi». Messo in sicurezza il sistema, sarà urgente fare occupazione, con utili e tasse riportate in Italia. «In particolare bisognerà creare un ambiente consono alla crescita delle imprese, abbassando le tasse». Servono anche decise spallate, «ad esempio facendo rientrare le aziende che hanno (forzatamente) delocalizzato in paesi Ue». Pragmatismo: «Meglio prendere solo il 7% di tasse dalle aziende che rientrano dal Lussemburgo, creando indotto locale, che non prendere nulla». Avvertenza: «La speranza del rientro dei cervelli senza il rientro delle aziende è un’utopia che solo la sinistra più becera e corrotta può alimentare». Serve un’alta scuola statale di amministrazione, come quella francese. E serve una diga per proteggere le aziende rimaste dal rischio-acquisizioni. Occorre un fondo statale per le piccole e medie imprese, e un sistema universitario per la promozione dei brevetti, in tandem con le aziende. «A voler fare cose serie – conclude Dolcino – l’Italia non ha paura di nessuno, basta volerlo. Siamo ancora capaci di esprimere grandi competenze», anche se i veri leader dell’italianità – come Gardini – sono stati uccisi. Rinascere è possibile, «ma dobbiamo crederci: oggi forse è l’ultima occasione».

 

tratto da: http://www.libreidee.org/2018/06/avete-idea-di-cosera-litalia-quando-aveva-la-montedison/