Addio Sergio Marchionne – Ma se i media di regime Vi prendono per i fondelli con servizi strappalacrime, noi vogliamo dire la verità sul manager del sistema che, nel silenzio della politica neoliberista, ha brutalmente smantellamento i diritti del lavoro (sulla pelle della Gente) in nome del Dio Profitto!

 

Sergio Marchionne

 

 

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Addio Sergio Marchionne – Ma se i media di regime Vi prendono per i fondelli con servizi strappalacrime, noi vogliamo dire la verità sul manager del sistema che, nel silenzio della politica neoliberista, ha brutalmente smantellamento i diritti del lavoro (sulla pelle della Gente) in nome del Dio Profitto!

 

Le verità di Marchionne, il silenzio della politica neoliberista

 

 

Agganciando il mercato americano con lo sbarco negli Usa attraverso la Chrysler, ha evitato che il tramonto storico della Fiat si trasformasse in una catastrofe. Ha impedito quindi che l’Italia uscisse dal club dei produttori di auto, cioè da quella che nei decenni passati è stata anche un’aristocrazia operaia e sindacale, avanguardia di importanti diritti sociali. Il super-manager improvvisamente scomparso a 66 anni ha saputo guardare oltre l’orizzonte, lo piange Sergio Mattarella, trascurando lo scontro con la Fiom di Landini che a Marchionne contestò il drastico, brutale smantellamento dei diritti del lavoro, il prezzo (salatissimo) per rilanciare un marchio come l’Alfa Romeo da opporre al dominio tedesco, e per paracadutare la Jeep nel mercato cinese. Ma il problema di fondo – ripeteva Marchionne – è il declino della classe media: chi se la compra più, la Panda, se crolla il potere d’acquisto delle famiglie italiane? Interamente neoliberista il credo globale del salvatore provvisorio dell’ex Fiat: al mercato non si comanda, il lavoro sparisce e deve necessariamente emigrare là dove ci sono compratori. L’alternativa sarebbe una sola, la politica: e proprio la scomparsa della politica, fondata sull’investimento pubblico, ha scolpito la grandezza di Marchionne in un Occidente desolatamente solo e impoverito, esposto al ricatto finanziario dello spread – quello che decreta, anche, il tracollo delle vendite di auto in Europa e in Italia.

Coraggioso, spietato, infaticabile. Geniale, nel tornare a scommettere sul made in Italy valorizzando la nostalgia dell’italianità che fu. La morte prematura di Sergio Marchionne, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”, chiude in modo traumatico un pezzo di storianazionale, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima, rileva, non è più solo italiana da anni: Fca, Fiat Chrysler Automobiles, è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit. La scomparsa del manager italo-canadese appare una tappa per molti versi conclusiva di 119 anni di storiadella “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. «Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni», osserva Berti. «L’area “Emea” di Fca – cioè la “vecchia Fiat” – verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa – in questa fase geopolitica – su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari – questa è l’unica certezza – resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli».

Il sistema-Italia, naturalmente – aggiunge Berti – non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori, della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli, o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. «Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici». Il minuto di silenzio osservato in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “fine della Fiat” è un avvenimento civile per il paese. «Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo – scrive sempre Berti – sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’azienda-Italia». Figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo paese, Marchionne «lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea».

Un paese, il nostro, per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”: la ricostruzione postbellica e il boom economico, la nascita della repubblica come democraziadi mercato, la motorizzazione di massa. Relazioni sindacali, dallo Statuto dei Lavoratori alla Marcia dei Quarantamila. In prima linea sempre loro, i metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori, «mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politicae della finanza». Per Berti, il lascito storico di «un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo», appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale: «Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca». Sempre Marchionne, insiste Berti, ha detto all’Italia che la Fiat non era più un potereforte, e che l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più poteri forti: «Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico». Finita l’epoca del posto di lavoro garantito: la crisicome emergenza reale, in un mondo ormai reso irriconoscibile dalla globalizzazione.

«Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti», conclude Berti. «Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui». A rendere assordante il silenzio attorno a Marchionne, il mutismo della politicasottomessa al potereeconomico delle multinazionali finanziarizzate: purtroppo, dichiara Gioele Magaldi a “Colors Radio” in morte del grande manager, non è stato mai possibile condividere nulla, della drastica visione politicadel condottiero della Fiat, tristemente segnata dalla rassegnazione “cosmica” al neoliberismo come sistema senza alternative. Negli anni Ottanta, prima che sull’Europacalasse il grande freddo, la Svezia di Olof Palme salvava aziende traballanti ingaggiando il poterefinanziario dello Stato e coinvolgendo i lavoratori, trasformandoli in azionisti. Morto Palme, assassinato da killer tuttora ignoti (a trent’anni di distanza dall’agguato) non sono soltanto crollate le industrie tradizionali europee, ma anche e soprattutto gli Stati sovrani, dotati di facoltà finanziarie indipendenti dai mercati: così è finita la mitica classe media, che ha smesso di comparare anche le Panda di Marchionne fabbricate da operai messi alla frusta per non perdere il posto di lavoro. Risuonano nel silenzio, oggi, le dure verità che Marchionne ha snocciolato in mezzo alle bugie di una politicaridotta a trascurabile servitrice di poteri economici fortissimi e mercenari, senza più bandiere nazionali.Agganciando il mercato americano con lo sbarco negli Usaattraverso la Chrysler, ha evitato che il tramonto storico della Fiat si trasformasse in una catastrofe. Ha impedito quindi che l’Italia uscisse dal club dei produttori di auto, cioè da quella che nei decenni passati è stata anche un’aristocrazia operaia e sindacale, avanguardia di importanti diritti sociali. Il super-manager improvvisamente scomparso a 66 anni ha saputo guardare oltre l’orizzonte, lo piange Sergio Mattarella, trascurando lo scontro con la Fiom di Landini che a Marchionne contestò il drastico, brutale smantellamento dei diritti del lavoro, il prezzo (salatissimo) per rilanciare un marchio come l’Alfa Romeo da opporre al dominio tedesco, e per paracadutare la Jeep nel mercato cinese. Ma il problema di fondo – ripeteva Marchionne – è il declino della classe media: chi se la compra più, la Panda, se crolla il potered’acquisto delle famiglie italiane? Interamente neoliberista il credo globale del salvatore provvisorio dell’ex Fiat: al mercato non si comanda, il lavoro sparisce e deve necessariamente emigrare là dove ci sono compratori. L’alternativa sarebbe una sola, la politica: e proprio la scomparsa della politica, fondata sull’investimento pubblico, ha scolpito la grandezza di Marchionne in un Occidente desolatamente solo e impoverito, esposto al ricatto finanziario dello spread – quello che decreta, anche, il tracollo delle vendite di auto in Europae in Italia.

Coraggioso, spietato, infaticabile. Geniale, nel tornare a scommettere sul made in Italy valorizzando la nostalgia dell’italianità che fu. La morte prematura di Sergio Marchionne, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”, chiude in modo traumatico un pezzo di storianazionale, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima, rileva, non è più solo italiana da anni: Fca, Fiat Chrysler Automobiles, è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit. La scomparsa del manager italo-canadese appare una tappa per molti versi conclusiva di 119 anni di storiadella “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. «Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni», osserva Berti. «L’area “Emea” di Fca – cioè la “vecchia Fiat” – verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa – in questa fase geopolitica – su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari – questa è l’unica certezza – resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli».

Il sistema-Italia, naturalmente – aggiunge Berti – non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori, della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli, o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. «Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici». Il minuto di silenzio osservato in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “fine della Fiat” è un avvenimento civile per il paese. «Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo – scrive sempre Berti – sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’azienda-Italia». Figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo paese, Marchionne «lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea».

Un paese, il nostro, per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”: la ricostruzione postbellica e il boom economico, la nascita della repubblica come democraziadi mercato, la motorizzazione di massa. Relazioni sindacali, dallo Statuto dei Lavoratori alla Marcia dei Quarantamila. In prima linea sempre loro, i metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori, «mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politicae della finanza». Per Berti, il lascito storico di «un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo», appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale: «Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca». Sempre Marchionne, insiste Berti, ha detto all’Italia che la Fiat non era più un potereforte, e che l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più poteri forti: «Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico». Finita l’epoca del posto di lavoro garantito: la crisicome emergenza reale, in un mondo ormai reso irriconoscibile dalla globalizzazione.

«Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti», conclude Berti. «Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui». A rendere assordante il silenzio attorno a Marchionne, il mutismo della politicasottomessa al potereeconomico delle multinazionali finanziarizzate: purtroppo, dichiara Gioele Magaldi a “Colors Radio” in morte del grande manager, non è stato mai possibile condividere nulla, della drastica visione politicadel condottiero della Fiat, tristemente segnata dalla rassegnazione “cosmica” al neoliberismo come sistema senza alternative. Negli anni Ottanta, prima che sull’Europacalasse il grande freddo, la Svezia di Olof Palme salvava aziende traballanti ingaggiando il poterefinanziario dello Stato e coinvolgendo i lavoratori, trasformandoli in azionisti. Morto Palme, assassinato da killer tuttora ignoti (a trent’anni di distanza dall’agguato) non sono soltanto crollate le industrie tradizionali europee, ma anche e soprattutto gli Stati sovrani, dotati di facoltà finanziarie indipendenti dai mercati: così è finita la mitica classe media, che ha smesso di comparare anche le Panda di Marchionne fabbricate da operai messi alla frusta per non perdere il posto di lavoro. Risuonano nel silenzio, oggi, le dure verità che Marchionne ha snocciolato in mezzo alle bugie di una politicaridotta a trascurabile servitrice di poteri economici fortissimi e mercenari, senza più bandiere nazionali.

Coraggioso, spietato, infaticabile. Geniale, nel tornare a scommettere sul made in Italy valorizzando la nostalgia dell’italianità che fu. La morte prematura di Sergio Marchionne, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”, chiude in modo traumatico un pezzo di storia nazionale, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima, rileva, non è più solo italiana da anni: Fca, Fiat Chrysler Automobiles, è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit. La scomparsa del manager italo-canadese appare una tappa per molti versi conclusiva di 119 anni di storia della “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. «Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni», osserva Berti. «L’area “Emea” di Fca – cioè la “vecchia Fiat” – verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa – in questa fase geopolitica – su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata

al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari – questa è l’unica certezza – resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli».

Il sistema-Italia, naturalmente – aggiunge Berti – non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori, della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli, o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. «Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici». Il minuto di silenzio osservato in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “fine della Fiat” è un avvenimento civile per il paese. «Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo – scrive sempre Berti – sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’azienda-Italia». Figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo paese, Marchionne «lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea».

Un paese, il nostro, per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”: la ricostruzione postbellica e il boom economico, la nascita della repubblica come democrazia di mercato, la motorizzazione di massa. Relazioni sindacali, dallo Statuto dei Lavoratori alla Marcia dei Quarantamila. In prima linea sempre loro, i metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori, «mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politica e della finanza». Per Berti, il lascito storico di «un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo», appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale: «Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca». Sempre Marchionne, insiste Berti, ha detto all’Italia che la Fiat non era più un potere forte, e che l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più poteri forti: «Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico». Finita l’epoca del posto di lavoro garantito: la crisi come emergenza reale, in un mondo ormai reso irriconoscibile dalla globalizzazione.

«Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti», conclude Berti. «Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui». A rendere assordante il silenzio attorno a Marchionne, il mutismo della politicasottomessa al potere economico delle multinazionali finanziarizzate: purtroppo, dichiara Gioele Magaldi a “Colors Radio” in morte del grande manager, non è stato mai possibile condividere nulla, della drastica visione politica del condottiero della Fiat, tristemente segnata dalla rassegnazione “cosmica” al neoliberismo come sistema senza alternative. Negli anni Ottanta, prima che sull’Europa calasse il grande freddo, la Svezia di Olof Palme salvava aziende traballanti ingaggiando il potere finanziario dello Stato e coinvolgendo i lavoratori, trasformandoli in azionisti. Morto Palme, assassinato da killer tuttora ignoti (a trent’anni di distanza dall’agguato) non sono soltanto crollate le industrie tradizionali europee, ma anche e soprattutto gli Stati sovrani, dotati di facoltà finanziarie indipendenti dai mercati: così è finita la mitica classe media, che ha smesso di comparare anche le Panda di Marchionne fabbricate da operai messi alla frusta per non perdere il posto di lavoro. Risuonano nel silenzio, oggi, le dure verità che Marchionne ha snocciolato in mezzo alle bugie di una politica ridotta a trascurabile servitrice di poteri economici fortissimi e mercenari, senza più bandiere nazionali.

 

 

 

fonte:http://www.libreidee.org/2018/07/le-verita-di-marchionne-e-il-silenzio-della-politica-neoliberista/

Solo oggi altri 4 operai morti sul lavoro. Ma non Vi preoccupate, Salvini sta lavorando sodo per imporre il crocefisso in TUTTI i luoghi pubblici…!

 

morti sul lavoro

 

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Solo oggi altri 4 operai morti sul lavoro. Ma non Vi preoccupate, Salvini sta lavorando sodo per imporre il crocefisso in TUTTI i luoghi pubblici…!

Oggi sono morti 4 operai: l’emergenza vera d’Italia che il governo neppure considera

Se questo è lavoro: morti schiacciati, morti d’infarto, morti per cadute. Oggi quattro, quattro padri di famiglia, hanno perso la vita. Per loro neppure una prece dal governo della paura

Quattro morti in un giorno. Abbiamo messo solo le notizie flash. Quattro: Cuneo, Genova, Catanzaro, Pavia. Perché le morti sul lavoro non hanno geografia, non hanno età. E una strage quotidiana. Quando il governo parla di emergenze e dimentica questa, la più grave, dimostra solo la pochezza di un esecutivo, caricato a pallettoni su propaganda e false urgenze. Parlerete voi di Palazzo Chigi con le vedove , i figli di questi operai? O non avranno neppure un piccolo aiuto? Neanche un necrologio di Stato?
Segue la feroce cronaca.
Cuneo: E’ morto travolto dal crollo di un mucchio di terra mentre controllava uno scavo appena eseguito nel centro di Busca, e non a causa di una caduta, Aldo Taricco. L’uomo, originario di Tarantasca, è stato subito soccorso, ma per lui non c’è stato nulla da fare. Sull’esatta dinamica dell’incidente sono in corso gli accertamenti dello Spresal e delle forze dell’ordine. L’incidente sul lavoro è avvenuto in un cantiere del centrale corso Romita.
Genova: Il dipendente di una azienda florovivaistica è morto stamani nel giardino di Villa Banfi, a Genova Pegli, schiacciato da un mezzo agricolo. L’uomo, operaio manutentore del verde, è morto sul colpo. Sul posto Vigili del fuoco, 118, carabinieri e ispettorato del lavoro. La vittima è un genovese di 46 anni, Matteo Marré Brunenghi. Lavorava per la ditta Vivai Carbone, una piccola azienda che da anni si occupa della potatura del verde in subappalto per Aster, l’azienda comunale di manutenzioni. L’incidente è avvenuto questa mattina: il 46enne è rimasto schiacciato da un trattore che si è ribaltato. Il magistrato di turno, il sostituto procuratore Chiara Maria Paolucci, è stata informata dell’ accaduto e nelle prossime ore aprirà un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti e darà l’incarico per eseguire l’autopsia.
Catanzaro: Un operaio di 50 anni, O.D., è morto in un incidente su lavoro a Borgia, un centro a pochi chilometri da Catanzaro. L’operaio, secondo quanto si  è appreso,  è caduto, per cause in corso d’accertamento, da un’impalcatura sulla quale stava lavorando per la realizzazione di un muro. O.D. è deceduto sul colpo anche perché un pezzo di ferro, nella caduta, gli si è conficcato nello sterno. Sul posto sono intervenuti i carabinieri, che hanno avviato le indagini per ricostruire la dinamica dell’incidente ed accertare eventuali responsabilità.
Pavia: Un operaio di 54 anni è morto la scorsa notte, stroncato da un infarto, in un’azienda di Parona, un comune della Lomellina a pochi chilometri da Vigevano nel Pavese. L’uomo, che abitava a Cilavegna (Pavia), stava svolgendo un turno notturno nella ditta (specializzata nella realizzazione di lamine di metallo) quando si è improvvisamente accasciato. I suoi colleghi hanno cercato subito di rianimarlo, utilizzando anche il defibrillatore. Sul posto è arrivato, nel giro di pochi minuti, il 118. Il lavoratore è stato trasportato al Pronto Soccorso dell’ospedale di Vigevano, ma ogni tentativo di salvarlo purtroppo è risultato vano. Al momento non si sa se, quando è stato colto da malore, l’operaio stesse svolgendo mansioni particolari. Sul fatto è stata aperta un’inchiesta.

 

tratto da: https://www.globalist.it/news/2018/07/25/oggi-sono-morti-4-operai-l-emergenza-vera-d-italia-che-il-governo-neppure-considera-2028490.html

Milano – Morire a 70 anni, facendo l’operaio appeso in aria mentre maledici la Fornero…!

 

 

Fornero

 

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Milano – Morire a 70 anni, facendo l’operaio appeso in aria mentre maledici la Fornero…!

 

Ennesimo incidente sul lavoro. Sembrerebbe una notizia di cui non occuparsi più, tante ne dobbiamo registrare (circa tre morti al giorni, più una decina di feriti, quando va tutto, ma proprio tutto bene).

Ma in quello che è avvenuto a Milano, a Palazzo Reale, c’è quel dettaglio in più che ha costretto molte testate ad occuparsene: l’operaio aveva 70 anni.

La vergogna mostruosa della normativa sul lavoro e la pensione, in questo paese, lo registra come “libero professionista e titolare di una ditta individuale”. Una partita Iva, insomma, per poter continuare a lavorare visto che la pensione non può bastare.

A questa giovane età l’operaio ballava su una scala a cinque metri d’altezza, durante gli ultimi lavori di allestimento della mostra dedicata ad Agostino Bonalumi.

Attendiamo con pazienza che l’ex ministro Elsa Fornero sia chiamata in qualche trasmissione televisiva a spiegare che, in fondo, è giusto così, che i conti dello stato ne trarranno giovamento (con la morte cessa anche l’erogazione di quella miseria di pensione), magari mostrando una lacrima tra un ditino alzato e un sorrisetto sprezzante.

Cara Elsa, anche questo ce l’hai sulla coscienza…

 

by Eles

 

Luigi Di Maio stronca Silvio Berlusconi: “Mi critica per i miei lavori umili? …Però io capisco cosa stanno passando i giovani”

 

Luigi Di Maio

 

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Luigi Di Maio stronca Silvio Berlusconi: “Mi critica per i miei lavori umili? …Però io capisco cosa stanno passando i giovani”

 

Luigi Di Maio contro Silvio Berlusconi: “Mi critica per i miei lavori umili? Io però capisco cosa stanno passando i giovani”

“Mi meraviglia che Berlusconi non riconosca lavori umili come lavori. Non credo di dovermi scusare per aver fatto lavori umili… Invece proprio quelle esperienze mi possono servire per aiutare tanti giovani che non trovano lavoro o sono disposti ad accettare anche senza essere pagati pur di avere un lavoro”, ha replicato Luigi Di Maio alle critiche di Silvio Berlusconi sul decreto dignità.

Luigi Di Maio torna a polemizzare con Silvio Berlusconi sulla questione lavoro. Pochi giorni fa, l’ex cavaliere ha criticato il decreto dignità voluto dal ministro del Lavoro, scagliandosi in particolare contro le norme a contrasto del precariato e della localizzazione: “Di Maio vuole regolare per decreto una cosa che non ha mai conosciuto, il mondo del lavoro. Non avendo idee originali, rispolvera ricette vecchieche sono fallite in tutto il mondo: sembra incredibile ma il ministro del Lavoro ripropone nel 2018 soluzioni vetero-comuniste già sconfitte nel ‘900 e alle quali non credono più nemmeno i sindacati seri”.

Di Maio, ospite a In Onda, ha risposto e attaccato il leader di Forza Italia per una serie di uscite relative ai lavori umili che l’attuale vicepremier ha svolto prima di diventare parlamentare: “Mi meraviglia che Berlusconi non riconosca lavori umili come lavori. Non credo di dovermi scusare per aver fatto lavori umili… Invece proprio quelle esperienze mi possono servire per aiutare tanti giovani che non trovano lavoro o sono disposti ad accettare anche senza essere pagati pur di avere un lavoro”.

Nel corso della campagna elettorale, l’ex cavaliere ha più volte attaccato Luigi Di Maio sostenendo fosse un candidato inadeguato in quanto prima di diventare parlamentare della Repubblica aveva svolto solamente lavori umili come il muratore o lo steward allo stadio San Paolo di Napoli. “Si è iscritto a legge e ha fallito e ha fatto un solo mestiere: lo stewardal San Paolo per vedere gratis le partite del Napoli”, disse lo scorso novembre.

fonte: https://www.fanpage.it/luigi-di-maio-contro-silvio-berlusconi-mi-critica-per-i-miei-lavori-umili-io-pero-capisco-cosa-stanno-passando-i-giovani/

Morire a 70 anni, facendo l’operaio appeso in aria …Cara Elsa, C’HAI PURE QUESTO SULLA COSCIENZA…!

 

operaio

 

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Morire a 70 anni, facendo l’operaio appeso in aria …Cara Elsa, C’HAI PURE QUESTO SULLA COSCIENZA…!

Milano. Morire a 70 anni, facendo l’operaio appeso in aria

Ennesimo incidente sul lavoro. Sembrerebbe una notizia di cui non occuparsi più, tante ne dobbiamo registrare (circa tre morti al giorni, più una decina di feriti, quando va bene).

Ma in quello che è avvenuto stamattina a Milano, a Palazzo Reale, c’è quel dettaglio in più che ha costretto molte testate ad occuparsene: l’operaio aveva 70 anni.

La vergogna mostruosa della normativa sul lavoro e la pensione, in questo paese, lo registra come “libero professionista e titolare di una ditta individuale”. Una partita Iva, insomma, per poter continuare a lavorare visto che la pensione non può bastare.

A questa giovane età l’operaio ballava su una scala a cinque metri d’altezza, durante gli ultimi lavori di allestimento della mostra dedicata ad Agostino Bonalumi.

Attendiamo con pazienza che l’ex ministro Elsa Fornero sia chiamata in qualche trasmissione televisiva a spiegare che, in fondo, è giusto così, che i conti dello stato ne trarranno giovamento (con la morte cessa anche l’erogazione di quella miseria di pensione), magari mostrando una lacrima tra un ditino alzato e un sorrisetto sprezzante.

 

fonte: http://contropiano.org/news/lavoro-conflitto-news/2018/07/09/milano-morire-a-70-anni-facendo-loperaio-appeso-in-aria-0105713

Austria, il governo di estrema destra propone la giornata lavorativa a 12 ore. Perchè, se siete tanto coglioni da non averlo ancora capirlo, voi, gente comune, non siete altro che carene da macello!

 

destra

 

 

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Austria, il governo di estrema destra propone la giornata lavorativa a 12 ore. Perchè, se siete tanto coglioni da non averlo ancora capirlo, voi, gente comune, non siete altro che carene da macello!

 

 

Decine di migliaia di persone hanno riempito le strade di Vienna lo scorso 30 maggio per esprimere la loro opposizione alle nuove leggi antipopolari del governo di destra-estrema destra che includono la giornata lavorativa di 12 ore e la settimana lavorativa di 60 ore, senza che le ore in più vengano pagate come straordinario.

Secondo le autorità alla manifestazione hanno partecipato circa 80.000 persone, mentre gli organizzatori della Confederazione Sindacale Austriaca (ÖGB) parlano di 100.000-120.000 partecipanti da tutto il paese e industrie. Attualmente, la giornata lavorativa in Austria è di 8 ore con una settimana lavorativa di 40 ore; tuttavia, esiste già una disposizione che consente alle aziende di far lavorare i propri dipendenti fino a 10 ore al giorno e fino a 50 ore settimanali, ma a seguito di contrattazione coi consigli di fabbrica. Il governo “nazionalista-populista”, guidato da Sebastian Kurz sostenuto da una coalizione composta dal Partito Popolare (ÖVP) di destra e dal Partito Libertà (FPÖ) di estrema destra (alleato della Lega di Salvini), ha ammesso che le modifiche alle leggi sul lavoro sono necessarie per dare alle imprese (i capitalisti) maggiore flessibilità per migliorare la loro competitività internazionale: perfettamente in linea con le strategie del capitale e direttrici dell’UE. Per il sindacato si tratta della «cambiale che Kurz deve agli industriali per il loro sostegno alla sua campagna elettorale».

Il Partito del Lavoro d’Austria (Partei der Arbeit, PdA), membro della Iniziativa Comunista Europea, ha partecipato con un proprio blocco alla manifestazione, chiamando a continuare e intensificare la lotta, la mobilitazione e le azioni dei lavoratori «fino a quando questa legge e questo governo non cadranno!». Inoltre, ha evidenziato, come questa manifestazione abbia dimostrato «come i lavoratori sono pronti a combattere» invocando l’organizzazione degli scioperi sottolineando come sia stato il fermento nella base dei lavoratori a costringere la leadership sindacale della ÖGB a chiamare la mobilitazione. Scioperi e assemblee sono in corso nel settore dei trasporti (ferrovie e trasporto locale).

Il progetto di legge dovrebbe esser approvato dal parlamento austriaco giovedì. La mobilitazione ha portato al momento ad una parziale marcia indietro da parte del governo che ha annunciato che i singoli lavoratori potranno rifiutarsi (sulla carta) di fare “straordinari” (non pagati) senza dare una motivazione. Ma questo naturalmente non cambia la portata dell’attacco antioperaio operato dal governo nazionalista che colpisce una delle primarie e principali conquiste del movimento operaio internazionale, spostando ulteriormente i rapporti di forza dalla parte del padrone che non dovrà giustificare l’estensione dell’orario di lavoro e di conseguenza nemmeno contrattarlo con il consiglio di fabbrica ma solo col singolo lavoratore altamente ricattabile. Un attacco che volto nella direzione di rafforzare il capitale nel proprio paese include anche il taglio e la limitazione dei sussidi di disoccupazione.

Inizialmente rivolta contro i rifugiati e gli immigrati, mirando a dividere i lavoratori, la linea politica del governo nazionalista-populista ha svelato ben presto nella pratica tutta la sua natura di classe al servizio dei capitalisti. L’attacco ai sussidi si vuol estendere adesso anche ai disoccupati austriaci dopo aver drasticamente ridotto (cambiando anche alcuni sostanziali criteri) quelli per i rifugiati e richiedenti asilo. Attualmente, il sussidio di disoccupazione (Arbeitslosengeld), a determinate condizioni, corrisponde al 55% del reddito netto precedente e dura circa 5 mesi (20 settimane). Alla scadenza di questo periodo, viene data la cosiddetta “assistenza d’emergenza” (Notstandshilfe) che consiste nel 90%-95% del sussidio di disoccupazione per una durata illimitata ma non sufficiente per il costo della vita.

La riforma dal titolo “Nuovo sussidio di disoccupazione” (Arbeitslosengeld NEU), prevede la cancellazione dell’”assistenza d’emergenza” e i disoccupati accederanno solo al reddito minimo garantito (Mindestsicherung) legato all’accettazione di un “qualsiasi lavoro”. L’indennità di disoccupazione sarà ridotta, soprattutto per coloro che hanno lavorato per molti anni, che hanno avuto un salario decente e, quindi, un relativamente alta disoccupazione. Inoltre, i beneficiari del reddito minimo garantito non possono avere “beni” (auto, depositi ecc.) superiori ai 4.200€. Insomma, da adesso i disoccupati saranno costretti a vendere quello che hanno per accedere al reddito minimo garantito e, inoltre, i beneficiari, saranno fortemente spinti ad accettare lavori di qualsiasi natura e in qualsiasi parte del paese. Le agenzie per l’impiego assegneranno i disoccupati in tutto il paese, a seconda delle esigenze delle imprese, sotto la minaccia della perdita del sostegno.

Ma l’attacco contro i disoccupati è già in atto. Lo scorso anno il Servizio del Mercato del Lavoro (ArbeitsMarktService-AMS) ha tagliato i sussidi di disoccupazione o l’assistenza di emergenza a 111.541 disoccupati, di cui circa 19.000 per aver rifiutato il lavoro non accettando come motivazioni la “distanza” o il “basso salario” anche se prossimo alla soglia di povertà.

 

 

fonte: http://www.lariscossa.com/2018/07/02/austria-governo-estrema-destra-porta-la-giornata-lavorativa-12-ore-forti-proteste/

Paragone contro il Pd: “è imbarazzante che da sinistra arrivino critiche sul reddito di cittadinanza. Perdete perché avete tradito i lavoratori”

 

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Paragone contro il Pd: “è imbarazzante che da sinistra arrivino critiche sul reddito di cittadinanza. Perdete perché avete tradito i lavoratori”

“Provo un certo imbarazzo nel sentire che proprio dai banchi di sinistra arrivano le critiche sul reddito di cittadinanza, che spazza via il ricatto di quegli imprenditori che continuano a dire ‘o prendete questo contratto, o vi adeguate a questa paga, oppure fuori c’è la fila di disoccupati pronti a fare quello che tu oggi neghi’. Magari stranieri illegali che sono così più facili da minacciare”.

Lo ha detto Gianluigi Paragone intervenendo giovedì al Senato.

“Il neoliberismo accettato dal centrosinistra, o come primo attore o come sostegno di governi tecnici – ha proseguito l’esponente pentastellato – ha fatto sì che il lavoro diventasse sinonimo di occupazione. Ma lavoro e occupazione non sono la stessa cosa, assolutamente. Il lavoro che diventa lavoretto, com’è un po’ nel predicato della frontiera della gig economy, che se non normata rischia di produrre un moderno feudalesimo”.

“Bene quindi ha fatto il ministro Di Maio – ha aggiunto Paragone – un segno evidente e marcato sui riders, cioè sui fattorini che consegnano il cibo a domicilio”.

Secondo il senatore del M5S non servono nuove leggi, ma “quelle che ci sono vanno rispettate per onorare la legge e onorare il lavoro. Investendo in sicurezza si rispetta la legge e si onora il lavoro”. “Per questo – ha continuato – premiare anche fiscalmente chi investe in sicurezza serve anche di più che intervenire con altre norme”.

“La sicurezza – ha affermato l’ex conduttore de La Gabbia rivolgendosi ai senatori di sinistra – è un fatto culturale, i cittadini e i lavoratori sono centrali. Lo dico ai banchi di sinistra: se avete perso anche nelle regioni rosse è perché forse avete tradito i lavoratori. Questo è l’insegnamento che arriva”.

Paragone ha poi invitato a fermare la pubblicità del gioco d’azzardo e ha concluso: “La sicurezza parte dai diritti e dalla dignità.”

 

Gianluigi Paragone vs Pd: “Avete tradito i lavoratori!”

Razzi: “Vitalizio? Prendo 2600 euro netti. Mica posso morire di fame dopo tanti anni di lavoro” …Sì, ha detto proprio “Lavoro”…!!

 

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Razzi: “Vitalizio? Prendo 2600 euro netti. Mica posso morire di fame dopo tanti anni di lavoro” …Sì, ha detto proprio “Lavoro”…!!

 

Razzi a La Zanzara: ‘Vitalizio? Prendo 2600 euro netti. Mica posso morire di fame dopo tanti anni di lavoro’

“Ho preso il mio primo vitalizio mensile. È di 2600 euro netti. Quei soldi mi servono per vivere. Devo morire di fame dopo 70 anni di lavoro”.

Così Antonio Razzi a La Zanzara su Radio24.

L’ex senatore di Forza Italia ha poi aggiunto: “C’è chi dice che prendo 4mila o 5mila euro. Uagliò, ma che cazzo dici? Te lo dico da amico: io il 1 dicembre 2017 ho preso in affitto un appartamento a Roma, di fronte al Senato. Pago 1500 euro d’affitto con un contratto di 4 anni. Ero sicuro di essere rieletto con Forza Italia. E invece non sono neppure stato candidato. Ora mi rimangono 1100 euro al mese per campare”.

“Dalla politica sono rimasto deluso, – ha proseguito – perché ci sono tutti questi gelosi e invidiosi della mia popolarità. Mi avrebbero fatto a pezzi e ammazzato pur di farmi fuori. Non dico assolutamente nessun addio alla politica. Io in politica tornerò. Sono ancora di Forza Italia, il mio cartellino ce l’ha Silvio Berlusconi.”

E ancora: “Io però devo parlare col presidente Berlusconi. Se non mi vuole più, mi ridia la libertà di andare dove voglio. Le mie idee, comunque, sono quelle di Salvini. Con altri non ci vado, anche se mi danno un milione di euro. Piuttosto mi faccio un partito mio, ma non andrò mai con nessuno”.

Razzi ha poi ribadito: “Il problema è che Berlusconi non me lo passano mai al telefono. Ho chiamato più di una cinquantina di volte, sia ad Arcore, sia a Palazzo Grazioli. L’ho chiamato perché gli voglio bene, ma è probabile che lui non sappia che io telefono. Secondo me, non glielo dicono”.

“Risponde sempre una donna – ha continuato l’ex parlamentare – che mi dice di non preoccuparmi e mi assicura che verrò richiamato da Berlusconi. Ma quando cazzo richiama? Penso allora che qualcuno, anzi qualcuna, non voglia farmi parlare col presidente Berlusconi”

 

 

fonte: https://www.silenziefalsita.it/2018/06/27/razzi-a-la-zanzara-vitalizio-prendo-2600-euro-netti-mica-posso-morire-di-fame-dopo-tanti-anni-di-lavoro/

Questa è l’Italia – Centri per lʼimpiego: 556 strutture, 600 milioni di costi annui, 8.000 addetti, IL TUTTO PER TROVARE LAVORO A 4 PERSONE L’ANNO! …Perché queste cose i Tg non le dicono?

Centri per lʼimpiego

 

 

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Questa è l’Italia – Centri per lʼimpiego: 556 strutture, 600 milioni di costi annui, 8.000 addetti, IL TUTTO PER TROVARE LAVORO A 4 PERSONE L’ANNO! …Perché queste cose i Tg non le dicono?

 

Il grande flop dei centri per lʼimpiego, costano 600 milioni lʼanno ma trovano lavoro solo al 3% dei richiedenti.

Almeno due milioni e mezzo di italiani si rivolgono alle 556 strutture sparse sul territorio: circa 360mila al mese. Gli 8mila operatori in media collocano circa 4 occupati in un anno.

Flop dei Centri per l’impiego in Italia. Dovevano essere riorganizzati e potenziati come scritto nell’utima riforma del lavoro ma è rimasto tutto sulla carta. Infatti nonostante una spesa di 600 milioni di euro l’anno, distribuita tra i 556 Cpi sparsi sul territorio, solo il 3% dei disoccupati che si rivolge agli uffici di collocamento riesce a trovare un impiego. Una media irrisoria rispetto ai numeri di Francia e Germania che superano il 20%. Secondo l’Istat, all’anno, almeno 2 milioni e mezzo di persone vi si rivolgono.

Come scrive il Messaggero una produttività davvero bassa se si pensa che gli operatori sono 8mila e riescono a collocare solo 4 occupati l’anno. I Cpi sono passati a essere controllati dalle Province alle Regioni, e ora nel limbo del Jobs act.

In realtà i Centri per l’impiego dovrebbero lavorare per far incrociare domanda e offerta, come fissato nella riforma del lavoro renziana, ma mancano i decreti attuativi e una regia organica. “Tutto è rimasto frammentato dopo la riforma – ha affermato al quotidiano romano Maurizio Del Conte, presidente Anpal – e le percentuali di collocamento oscillano tra il 2,2 e il 3,2%, una media decisamente bassa che riguarda Nord, Centro e Sud in maniera omogenea”.

Quello che manca in Italia, denunciano i sindacati, “è una gestione integrata dei Centri per l’impiego, con l’adozione di modelli standard che offrano sul territorio servizi uguali per tutti”. Bisognerebbe, “provincia per provincia, numerare i disoccupati, catalogarli per qualifica, dare formazione a chi non ha titoli, mantenere viva una rete di comunicazione con le aziende”.

In alcuni casi i centri si trovano in strutture fatiscenti mentre in altri tra gli 8mila dipendenti c’è anche chi non è qualificato nonostante abbia un contratto a tempo indeterminato. Ma non bisogna fare di tutta lerba un fascio. Ci sono Regioni in cui i centri sono funzionanti come in Veneto e in Emilia Romgna. Il Lazio invece è tra le Regioni che vanno più lentamente.

Secondo il presidente della Federcontribuenti Marco Pagnella “sarebbe necessario creare un fondo nazionale di 800 milioni per il sostegno occupazionale. I Cpi potrebbero invece essere dislocati all’interno degli uffici comunali, con un risparmio notevole per lo Stato”.

 

tratto da: http://www.tgcom24.mediaset.it/economia/il-grande-flop-dei-centri-per-l-impiego-costano-600-milioni-l-anno-ma-trovano-lavoro-solo-al-3-dei-richiedenti_3138294-201802a.shtml

Finlandia, gli effetti di 560 euro di reddito garantito: meno ansia e più voglia di trovare lavoro

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Finlandia, gli effetti di 560 euro di reddito garantito: meno ansia e più voglia di trovare lavoro

Arrivano i primi risultati sul test eseguito su un campione di 2mila disoccupati. Ma le autorità mettono in guardia: estenderlo a tutti sarebbe difficile. Primi passi, comunque, per sfoltire la giungla di agevolazioni

Di seguito un articolo pubblicato su Repubblica.it a firma di Andrea Tarquini che racconta cosa sta succedendo in Finlandia, dove stanno sperimentando una forma di reddito garantito.

Reddito minimo fisso garantito a duemila cittadini, a titolo sperimentale. La stessa cifra, circa 560 euro, pagata appunto a duemila persone, tutte disoccupate e scelte in una fascia d’età tra i 25 e i 58 anni. Senza divieto di trovarsi un lavoro e senza obbligo di cercarlo. Così funziona l’esperimento, piuttosto unico al mondo, lanciato in Finlandia. Nel paese nordico segnato dall’economia più debole (sebbene moderna e competitiva) e dal più alto tasso di disoccupazione nella regione (non si riesce a farlo scendere sotto l´8 per cento) paradossalmente non un governo progressista bensì una coalizione di centrodestra ha lanciato il tentativo. E adesso, un anno dopo, autorità, economisti e media traggono un primo bilancio. In sintesi: su un campione di duemila persone ha dato spesso effetti positivi, ma ben altra complessità di strutture e ben altri costi imporrebbe una estensione del reddito minimo garantito dallo Stato a tutta la collettività.

“E’un esperimento, insistiamo”, ha spiegato al Guardian e ad altri media britannici Markus Kanerva, consigliere del premier Juha Sipila (un tycoon di successo diventato leader del centrodestra per bene e capo del governo). E aggiunge: “Vogliamo studiare quali conseguenze il reddito minimo garantito ha nel comportamento e nella qualità della vita di un campione di cittadini disoccupati; ma è ovvio che estenderlo a tutta la popolazione, o a tutti i senza lavoro, comporterebbe ben altre spese e modifiche a fondo del nostro complesso sistema di welfare, previdenziale e di monitoraggio della povertà o del rischio povertà”.

Secondo i primi esami dei risultati dell’esperimento, sempre relativi appunto a quella fascia di duemila cittadini disoccupati volontari che hanno accettato di parteciparvi, quel reddito minimo garantito pur essendo assolutamente insufficiente a vivere in un paese dagli alti costi in ogni campo della vita pubblica, ha avuto due effetti positivi. Primo: liberare i disoccupati coinvolti dal test dall’ansia e dallo stress continui della difficile ricerca di un lavoro, che sia un posto fisso o un impiego a tempo o precario. Secondo, li fa maturare psicologicamente. Perché li libera da quel riflesso condizionato tipico di molti percettori di assegni-previdenza nei paesi a welfare generoso ed esteso. E cioè dall’abitudine di vivere di sussidi perdendo lo stimolo a cercare un impiego e rientrare nel mercato del lavoro.

Secondo Marjukka Turunen, responsabile del comparto legale del Kela (la authority del welfare), il principale effetto positivo dell’esperimento, che continuerà almeno un altro anno, “è stato finora proprio quello di liberare i disoccupati da questa mentalità di disincentivo a cercare un impiego”. Mentalità fatta da un lato di pessimismo, visto che la crisi dei media cartacei e quindi delle cartiere, la lunga crisi di Nokia e il crollo del commercio con la Russia dopo la fine dell’impero sovietico hanno creato un vasto zoccolo duro di disoccupati in Finlandia, cioè un fenomeno di proporzioni sconosciute nel resto del grande nord. E dall’altro di rassegnazione, nella certezza che comunque i sussidi regolari ti fanno sopravvivere.

La raccolta e l’analisi di statistiche sui risultati è ancora in corso, ma un primo dato positivo emerge. Sentendosi liberi dall’ansia i duemila disoccupati-cavie volontarie sembrano più incentivati a cercare un impiego. Oppure a riempire comunque il tempo libero in lavori di volontariato, per riconoscenza solidale verso la società e le istituzioni. Un secondo risultato positivo: meno stress, meno depressione, quindi calo tendenziale delle spese della sanità pubblica. Ma attenzione, sottolineano i consiglieri del premier e la signora Turunen. Il test del reddito minimo garantito per i duemila volontari – di cui il governo protegge l’anonimità per rispetto della sfera privata – è solo un primo passo per pensare bene e lanciare con calma una riforma a fondo del sistema di welfare finnico, attualmente troppo complicato perché comprende una quarantina di sussidi diversi, con incroci e sovrapposizioni frequenti di competenze tra le varie autorità che li elargiscono. E per rendere il welfare al tempo stesso più efficiente come strumento di reinserimento dei disoccupati nel mercato del lavoro, e meno costoso. E’ solo un test iniziale, insomma, ma almeno il centrodestra finlandese ha cominciato a lavorare sul problema. Cercando idee nuove e soluzioni creative. Insomma, bilancio provvisorio positivo, ma senza illusioni che automaticamente estendere a tutti il diritto al reddito minimo garantito risolverebbe i problemi.

fonte. Repubblica