Addio Sergio Marchionne – Ma se i media di regime Vi prendono per i fondelli con servizi strappalacrime, noi vogliamo dire la verità sul manager del sistema che, nel silenzio della politica neoliberista, ha brutalmente smantellamento i diritti del lavoro (sulla pelle della Gente) in nome del Dio Profitto!

 

Sergio Marchionne

 

 

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Addio Sergio Marchionne – Ma se i media di regime Vi prendono per i fondelli con servizi strappalacrime, noi vogliamo dire la verità sul manager del sistema che, nel silenzio della politica neoliberista, ha brutalmente smantellamento i diritti del lavoro (sulla pelle della Gente) in nome del Dio Profitto!

 

Le verità di Marchionne, il silenzio della politica neoliberista

 

 

Agganciando il mercato americano con lo sbarco negli Usa attraverso la Chrysler, ha evitato che il tramonto storico della Fiat si trasformasse in una catastrofe. Ha impedito quindi che l’Italia uscisse dal club dei produttori di auto, cioè da quella che nei decenni passati è stata anche un’aristocrazia operaia e sindacale, avanguardia di importanti diritti sociali. Il super-manager improvvisamente scomparso a 66 anni ha saputo guardare oltre l’orizzonte, lo piange Sergio Mattarella, trascurando lo scontro con la Fiom di Landini che a Marchionne contestò il drastico, brutale smantellamento dei diritti del lavoro, il prezzo (salatissimo) per rilanciare un marchio come l’Alfa Romeo da opporre al dominio tedesco, e per paracadutare la Jeep nel mercato cinese. Ma il problema di fondo – ripeteva Marchionne – è il declino della classe media: chi se la compra più, la Panda, se crolla il potere d’acquisto delle famiglie italiane? Interamente neoliberista il credo globale del salvatore provvisorio dell’ex Fiat: al mercato non si comanda, il lavoro sparisce e deve necessariamente emigrare là dove ci sono compratori. L’alternativa sarebbe una sola, la politica: e proprio la scomparsa della politica, fondata sull’investimento pubblico, ha scolpito la grandezza di Marchionne in un Occidente desolatamente solo e impoverito, esposto al ricatto finanziario dello spread – quello che decreta, anche, il tracollo delle vendite di auto in Europa e in Italia.

Coraggioso, spietato, infaticabile. Geniale, nel tornare a scommettere sul made in Italy valorizzando la nostalgia dell’italianità che fu. La morte prematura di Sergio Marchionne, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”, chiude in modo traumatico un pezzo di storianazionale, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima, rileva, non è più solo italiana da anni: Fca, Fiat Chrysler Automobiles, è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit. La scomparsa del manager italo-canadese appare una tappa per molti versi conclusiva di 119 anni di storiadella “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. «Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni», osserva Berti. «L’area “Emea” di Fca – cioè la “vecchia Fiat” – verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa – in questa fase geopolitica – su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari – questa è l’unica certezza – resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli».

Il sistema-Italia, naturalmente – aggiunge Berti – non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori, della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli, o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. «Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici». Il minuto di silenzio osservato in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “fine della Fiat” è un avvenimento civile per il paese. «Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo – scrive sempre Berti – sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’azienda-Italia». Figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo paese, Marchionne «lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea».

Un paese, il nostro, per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”: la ricostruzione postbellica e il boom economico, la nascita della repubblica come democraziadi mercato, la motorizzazione di massa. Relazioni sindacali, dallo Statuto dei Lavoratori alla Marcia dei Quarantamila. In prima linea sempre loro, i metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori, «mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politicae della finanza». Per Berti, il lascito storico di «un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo», appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale: «Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca». Sempre Marchionne, insiste Berti, ha detto all’Italia che la Fiat non era più un potereforte, e che l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più poteri forti: «Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico». Finita l’epoca del posto di lavoro garantito: la crisicome emergenza reale, in un mondo ormai reso irriconoscibile dalla globalizzazione.

«Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti», conclude Berti. «Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui». A rendere assordante il silenzio attorno a Marchionne, il mutismo della politicasottomessa al potereeconomico delle multinazionali finanziarizzate: purtroppo, dichiara Gioele Magaldi a “Colors Radio” in morte del grande manager, non è stato mai possibile condividere nulla, della drastica visione politicadel condottiero della Fiat, tristemente segnata dalla rassegnazione “cosmica” al neoliberismo come sistema senza alternative. Negli anni Ottanta, prima che sull’Europacalasse il grande freddo, la Svezia di Olof Palme salvava aziende traballanti ingaggiando il poterefinanziario dello Stato e coinvolgendo i lavoratori, trasformandoli in azionisti. Morto Palme, assassinato da killer tuttora ignoti (a trent’anni di distanza dall’agguato) non sono soltanto crollate le industrie tradizionali europee, ma anche e soprattutto gli Stati sovrani, dotati di facoltà finanziarie indipendenti dai mercati: così è finita la mitica classe media, che ha smesso di comparare anche le Panda di Marchionne fabbricate da operai messi alla frusta per non perdere il posto di lavoro. Risuonano nel silenzio, oggi, le dure verità che Marchionne ha snocciolato in mezzo alle bugie di una politicaridotta a trascurabile servitrice di poteri economici fortissimi e mercenari, senza più bandiere nazionali.Agganciando il mercato americano con lo sbarco negli Usaattraverso la Chrysler, ha evitato che il tramonto storico della Fiat si trasformasse in una catastrofe. Ha impedito quindi che l’Italia uscisse dal club dei produttori di auto, cioè da quella che nei decenni passati è stata anche un’aristocrazia operaia e sindacale, avanguardia di importanti diritti sociali. Il super-manager improvvisamente scomparso a 66 anni ha saputo guardare oltre l’orizzonte, lo piange Sergio Mattarella, trascurando lo scontro con la Fiom di Landini che a Marchionne contestò il drastico, brutale smantellamento dei diritti del lavoro, il prezzo (salatissimo) per rilanciare un marchio come l’Alfa Romeo da opporre al dominio tedesco, e per paracadutare la Jeep nel mercato cinese. Ma il problema di fondo – ripeteva Marchionne – è il declino della classe media: chi se la compra più, la Panda, se crolla il potered’acquisto delle famiglie italiane? Interamente neoliberista il credo globale del salvatore provvisorio dell’ex Fiat: al mercato non si comanda, il lavoro sparisce e deve necessariamente emigrare là dove ci sono compratori. L’alternativa sarebbe una sola, la politica: e proprio la scomparsa della politica, fondata sull’investimento pubblico, ha scolpito la grandezza di Marchionne in un Occidente desolatamente solo e impoverito, esposto al ricatto finanziario dello spread – quello che decreta, anche, il tracollo delle vendite di auto in Europae in Italia.

Coraggioso, spietato, infaticabile. Geniale, nel tornare a scommettere sul made in Italy valorizzando la nostalgia dell’italianità che fu. La morte prematura di Sergio Marchionne, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”, chiude in modo traumatico un pezzo di storianazionale, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima, rileva, non è più solo italiana da anni: Fca, Fiat Chrysler Automobiles, è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit. La scomparsa del manager italo-canadese appare una tappa per molti versi conclusiva di 119 anni di storiadella “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. «Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni», osserva Berti. «L’area “Emea” di Fca – cioè la “vecchia Fiat” – verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa – in questa fase geopolitica – su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari – questa è l’unica certezza – resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli».

Il sistema-Italia, naturalmente – aggiunge Berti – non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori, della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli, o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. «Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici». Il minuto di silenzio osservato in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “fine della Fiat” è un avvenimento civile per il paese. «Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo – scrive sempre Berti – sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’azienda-Italia». Figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo paese, Marchionne «lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea».

Un paese, il nostro, per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”: la ricostruzione postbellica e il boom economico, la nascita della repubblica come democraziadi mercato, la motorizzazione di massa. Relazioni sindacali, dallo Statuto dei Lavoratori alla Marcia dei Quarantamila. In prima linea sempre loro, i metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori, «mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politicae della finanza». Per Berti, il lascito storico di «un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo», appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale: «Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca». Sempre Marchionne, insiste Berti, ha detto all’Italia che la Fiat non era più un potereforte, e che l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più poteri forti: «Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico». Finita l’epoca del posto di lavoro garantito: la crisicome emergenza reale, in un mondo ormai reso irriconoscibile dalla globalizzazione.

«Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti», conclude Berti. «Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui». A rendere assordante il silenzio attorno a Marchionne, il mutismo della politicasottomessa al potereeconomico delle multinazionali finanziarizzate: purtroppo, dichiara Gioele Magaldi a “Colors Radio” in morte del grande manager, non è stato mai possibile condividere nulla, della drastica visione politicadel condottiero della Fiat, tristemente segnata dalla rassegnazione “cosmica” al neoliberismo come sistema senza alternative. Negli anni Ottanta, prima che sull’Europacalasse il grande freddo, la Svezia di Olof Palme salvava aziende traballanti ingaggiando il poterefinanziario dello Stato e coinvolgendo i lavoratori, trasformandoli in azionisti. Morto Palme, assassinato da killer tuttora ignoti (a trent’anni di distanza dall’agguato) non sono soltanto crollate le industrie tradizionali europee, ma anche e soprattutto gli Stati sovrani, dotati di facoltà finanziarie indipendenti dai mercati: così è finita la mitica classe media, che ha smesso di comparare anche le Panda di Marchionne fabbricate da operai messi alla frusta per non perdere il posto di lavoro. Risuonano nel silenzio, oggi, le dure verità che Marchionne ha snocciolato in mezzo alle bugie di una politicaridotta a trascurabile servitrice di poteri economici fortissimi e mercenari, senza più bandiere nazionali.

Coraggioso, spietato, infaticabile. Geniale, nel tornare a scommettere sul made in Italy valorizzando la nostalgia dell’italianità che fu. La morte prematura di Sergio Marchionne, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”, chiude in modo traumatico un pezzo di storia nazionale, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima, rileva, non è più solo italiana da anni: Fca, Fiat Chrysler Automobiles, è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit. La scomparsa del manager italo-canadese appare una tappa per molti versi conclusiva di 119 anni di storia della “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. «Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni», osserva Berti. «L’area “Emea” di Fca – cioè la “vecchia Fiat” – verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa – in questa fase geopolitica – su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata

al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari – questa è l’unica certezza – resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli».

Il sistema-Italia, naturalmente – aggiunge Berti – non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori, della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli, o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. «Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici». Il minuto di silenzio osservato in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “fine della Fiat” è un avvenimento civile per il paese. «Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo – scrive sempre Berti – sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’azienda-Italia». Figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo paese, Marchionne «lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea».

Un paese, il nostro, per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”: la ricostruzione postbellica e il boom economico, la nascita della repubblica come democrazia di mercato, la motorizzazione di massa. Relazioni sindacali, dallo Statuto dei Lavoratori alla Marcia dei Quarantamila. In prima linea sempre loro, i metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori, «mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politica e della finanza». Per Berti, il lascito storico di «un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo», appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale: «Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca». Sempre Marchionne, insiste Berti, ha detto all’Italia che la Fiat non era più un potere forte, e che l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più poteri forti: «Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico». Finita l’epoca del posto di lavoro garantito: la crisi come emergenza reale, in un mondo ormai reso irriconoscibile dalla globalizzazione.

«Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti», conclude Berti. «Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui». A rendere assordante il silenzio attorno a Marchionne, il mutismo della politicasottomessa al potere economico delle multinazionali finanziarizzate: purtroppo, dichiara Gioele Magaldi a “Colors Radio” in morte del grande manager, non è stato mai possibile condividere nulla, della drastica visione politica del condottiero della Fiat, tristemente segnata dalla rassegnazione “cosmica” al neoliberismo come sistema senza alternative. Negli anni Ottanta, prima che sull’Europa calasse il grande freddo, la Svezia di Olof Palme salvava aziende traballanti ingaggiando il potere finanziario dello Stato e coinvolgendo i lavoratori, trasformandoli in azionisti. Morto Palme, assassinato da killer tuttora ignoti (a trent’anni di distanza dall’agguato) non sono soltanto crollate le industrie tradizionali europee, ma anche e soprattutto gli Stati sovrani, dotati di facoltà finanziarie indipendenti dai mercati: così è finita la mitica classe media, che ha smesso di comparare anche le Panda di Marchionne fabbricate da operai messi alla frusta per non perdere il posto di lavoro. Risuonano nel silenzio, oggi, le dure verità che Marchionne ha snocciolato in mezzo alle bugie di una politica ridotta a trascurabile servitrice di poteri economici fortissimi e mercenari, senza più bandiere nazionali.

 

 

 

fonte:http://www.libreidee.org/2018/07/le-verita-di-marchionne-e-il-silenzio-della-politica-neoliberista/

MISSIONE COMPIUTA: gli italiani accettano tutto senza fiatare – I suoi nuovi schiavi del lavoro!

schiavi del lavoro

 

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MISSIONE COMPIUTA: gli italiani accettano tutto senza fiatare – I suoi nuovi schiavi del lavoro!

 

Società flessibile e i suoi nuovi schiavi del lavoro

Chi sono gli “schiavi” del lavoro in questa nuova Società “flessibile”?

Sin dagli anni ’80 e ’90, con lo sviluppo tecnologico, i mercati di consumo hanno cominciato ad essere saturi, cioè l’industria aveva capacità produttiva in eccesso. Avere capacità produttiva in eccesso significa che il capitale investito non rende o rende poco, cioè il rendimento è basso facendo sì che l’industria veda diminuita la sua rendita.

Un primo problema è che i proprietari di queste imprese, gli azionisti, chiedono rendimenti sempre più alti. Cosa succede allora? Con i bassi profitti, che non possono salire per il fatto che si produce troppo e si vende poco, la classe dirigente delle imprese, che devono accontentare gli investitori, che altro non sono che i proprietari delle imprese stesse, hanno puntato a comprimere il costo del lavoro.

Le imprese, spremute dagli azionisti e dagli investitori, cercano di comprimere i costi del lavoro per inseguire rendimenti elevati, assurdi dal punto di vista industriale ma tipici della speculazione.

I risultati sono: compressione dei salari, intensificazione dei ritmi, emarginazione dei sindacati e aumento del precariato.

Quando le cose vanno bene le imprese aumentano i profitti che vengono spartiti tra gli azionisti, ma quando le cose vanno male i costi li paga il lavoratore.

Tutto questo è inaccettabile!

Come può essere accettabile che i profitti, ottenuti con l’impiego del lavoro, restino alle imprese e che invece i rischi derivanti dalle eventuali perdite ricadano sui lavoratori?!

I nostri politici ci vogliono far credere che per rivitalizzare l’economia, che sta attraversando un momento di grave stagnazione, sia necessario aumentare la flessibilità del lavoro per poter competere, ai tempi della globalizzazione, con gli altri paesi avanzati. Sostengono anche che la flessibilità del lavoro favoriscal’aumento dell’occupazione. In sostanza vogliono farci credere che l’aumento del numero dei lavori flessibili sia a vantaggio degli interessi generali della collettività.

Balle!

In realtà non esiste nessuno studio empirico di peso che metta in correlazione flessibilità del lavoro e aumento dell’occupazione. Le cosiddette riforme del lavoro, progettate dalla fine degli anni ’90 in poi hanno aumentato il lavoro precario e la precarietà tra l’altro contribuisce alla crescita del coefficiente di disoccupazione, perché tra un contratto e l’altro passa sovente parecchio tempo.

Che il lavoro flessibile produca occupazione è la “balla” che ci hanno raccontato per poter legittimare lo smantellamento delle tutele dei lavoratori.

Il lavoro flessibile sottintende in modo più o meno esplicito la “facilità di licenziare”.

Possiamo dire quindi che l’illegalità è all’interno di un sistema di legalità.

I lavori flessibili sono ad esempio: i lavori con contratto a termine, le collaborazioni continuative, ma di fatto discontinue, il lavoro intermittente, lavori occasionali, lavori in nero, lavori a progetto, etc… Tali lavori sono un modo nuovo di lavorare, coerente e necessario con le esigenze dell’economia dominante che ha come unico obiettivo l’aumento della rendita. Un numero crescente di persone, soprattutto i giovani, sembra abbiano ormai aver accettato passivamente questo nuovo modo di lavorare, e anzi dichiara anche di gradirlo… questo è l’effetto dello straordinario potere ideologico delle dottrine che ha reso “normale” questo stile di lavoro e di vita.

Il lavoro flessibile, che si può riassumere con la parola “precarietà” infligge ai lavoratori una ferita esistenziale, fonte di ansia e di diminuzione dei diritti di cittadinanza.

La precarietà implica “insicurezza” perché il reddito che deriva dal lavoro è revocabile a discrezione del datore di lavoro che lo ha concesso. I contratti di lavoro precarizzanti limitano o addirittura annullano la possibilità di formulare previsioni e progetti, sia di breve che di lunga portata, riguardo al proprio futuro professionale ma anche e soprattutto esistenziale e familiare.

I lavori flessibili comportano elevati costi umani: lacune nella formazione, esperienze professionali frammentarie, progetti di vita rinviati, bassi livelli reddituali e conseguente riduzione della sicurezza previdenziale. Inoltre coloro che trascorrono lunghi periodi nella precarietà e/o nella disoccupazione finiscono con il percepire se stessi in modo diverso dagli altri, la loro identità è minacciata, si sviluppano sentimenti di vergogna per non riuscire ad integrarsi pienamente all’interno della comunità. Nasce, in questo quadro, la figura dei Neet (Not in Education, Employment or Training), ragazzi sfiduciati che hanno rinunciato a studiare e a cercare un lavoro, che non fanno nulla e che vivono in famiglia. I Neet sono giovani condannati a consumare senza il diritto di produrre.

A trarre beneficio dal lavoro flessibile sono le imprese perché con esso si riduce il rischio di retribuire personale che non sia utilizzato al 100% quando la produzione non tira.

Il lavoro flessibile costringe il lavoratore a lavorare a ritmi frenetici in quanto la sua presenza in azienda viene appunto richiesta per affrontare con urgenza una problematica circoscritta all’interno della catena produttiva o di erogazione di servizi. I ritmi di lavoro sono paragonabili ad una linea di montaggio o a una sala presse degli anni Settanta.

La modernizzazione non è quindi servita a migliorare le condizioni di lavoro, ma anzi la precarizzazione ha riportato indietro di generazioni il mondo del lavoro e le condizioni di vita dei lavoratori.

Perché non abolire la flessibilità? La flessibilità va mantenuta, e anzi innalzata, poiché giova alle imprese, alla competitività e al risanamento del bilancio pubblico. Pazienza per chi vive di stenti, per chi vive nell’angoscia, pazienza per le vite spezzate, pazienza per il sacrificio umano dei nuovi schiavi.

Inoltre al precario viene a mancare il senso di appartenenza ad un gruppo, viene a mancare il poter partecipare, con altri, alla realizzazione di un progetto lavorativo, di vederne i risultati, di poter vivere le ore di lavoro con lo spirito della collaborazione. In lui viene via via a mancare la fiducia nell’affidarsi agli altri e questo alimenta un senso di sfiducia nei sindacati e nelle associazioni in genere.

Ma ricordiamoci che l’essere umano attinge forza dall’unione con altri esseri umani.

La nostra responsabilità è di non tradire tutti coloro che in passato si sono battuti per ottenere condizioni più umane per i lavoratori ma principalmente la nostra responsabilità è verso l’essere umano che, in quanto tale, ha il diritto di vivere in un mondo fondato su leggi naturali, con ritmi naturali che diano vita e vigore ogni giorno all’azione finalizzata a creare una società dove regna la quiete e l’armonia.

Per attuare questa “nuova società” bisogna iniziare a immettere luce nelle tenebre affiché dal disordine e dal caos si possa creare l’ordine. L’ordine deve penetrare in ogni ambito della vita fino a quando la coerenza, basata sulla giustizia, porterà alla creazione di una società che assolva alle reali necessità dell’uomo.

Non sarebbe auspicabile passare da un “capitalismo selvaggio” a un “capitalismo comunitario”?

Creare un “luogo” dove la vita economica diventa funzionale all’uomo e alle esigenze di tutti, dove l’economia si fonda sulla utilità reciproca e sulla fiducia tra individui: noi lavoriamo per altri che lavorano per noi. Qui il lavoro dovrebbe generare e ampliare le correnti dell’agire solidale, tendendo a trasformare le dinamiche di competizione in dinamiche di cooperazione. Il lavoro dovrebbe consentire la creazione di nuove e più umane condizioni di vita al fine di rendere la terra una dimora ospitale per l’umanità senza distruggere o avvelenare la natura. Come sarebbe bello se fosse possibile una partecipazione corale alla realizzazione di questo luogo!!! Il lavoro è mediazione tra la nostra creatività e la bellezza del creato.Sarebbe bello che il lavoro, accessibile a tutti, potesse essere concepito come dedizione, servizio a qualcuno e non solo alla realizzazione di qualcosa da vendere.

Colpire il lavoro significa lacerare il tessuto di una società, promuovere il diffondersi di una mentalità di schiavi e mandare in rovina la democrazia.

Autore: 

fonte: http://www.primapaginadiyvs.it/societa-flessibile-suoi-nuovi-schiavi/

Fantozzi ci mise in guardia contro la schiavitù del lavoro, ma noi non abbiamo capito ed abbiamo solo riso alle sue battute!

 

Fantozzi

 

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Fantozzi ci mise in guardia contro la schiavitù del lavoro, ma noi non abbiamo capito ed abbiamo solo riso alle sue battute!

E’ classico di un popolo distratto e menefreghista, il non recepire un messaggio, ed è questo il caso dei film di Fantozzi, visti e rivisti da milioni di italiani, che hanno negli anni riso alle sue battute, senza però mai comprenderne il significato di fondo, quello che si nascondeva dietro le scenografie dei suoi film, in cui denunciava il già allora abissale divario che divideva ricchi e poveri.

di Alessandro Gilioli:

Ho capito che Paolo Villaggio non aveva inventato niente il giorno in cui, in una grossa azienda editoriale del nord, ho visto che c’erano due ascensori uno accanto all’altro. Uno era normale, l’altro con la boiserie. Davanti al secondo c’era scritto: «Riservato Alta Dirigenza».

Il mondo del lavoro descritto nei libri e nei film di Fantozzi era così: pacchiano nel suo classismo, volgare nella sua esibizione della gerarchia, violento nello scontro quotidiano tra l’alto e il basso, tra il capo e il sottoposto.

Eppure era un mondo a suo modo limpido, “onesto“, trasparente. Non c’erano gli infingimenti cosmetici con cui oggi vengono mascherati divari di potere e di reddito che peraltro nel frattempo sono aumentati, non diminuiti.

Il sottoposto era appunto un sottoposto, non si faceva finta che fosse un “collaboratore”. 
La sua prestazione non era a cottimo, né forzatamente notturna e festiva – come oggi avviene nei magici mondi della gig economy e della logistica, ma non solo – bensì legata a precisi orari diurni, terminati i quali i dipendenti avevano diritto perfino a scappare dalla finestra, pur di non regalare un minuto di più all’azienda.

Lo stipendio era garantito (garantito, incredibile!) così come garantite erano le ferie, che Fantozzi poi trascorreva sotto la sua consueta nuvola.

Il patto tra azienda e lavoratore era di tipo schiavistico – certo – ed era anche grottesco: eppure era un patto definito, un accordo triste ma rassicurante, ingiusto ma solido, che non rischiava di dover essere riscritto ogni giorno e ogni giorno peggiorare, o semplicemente sparire – puf, oggi non ci servi.

E ancora, non c’era bisogno di dissimulare coinvolgimento motivazionale negli obiettivi dell’azienda, fosse essa pubblica o privata.

Non c’era bisogno di mettere in scena la grande ipocrisia dell’identificazione, degli obiettivi, dell'”empowerment“.

Né si era costretti al sorriso perenne e alla disponibilità 7/24, che sono la galera dei free agent attuali, delle partite Iva attuali, dei “rider” attuali. Potevi limpidamente odiarla la tua azienda, potevi odiarlo il tuo ufficio, anzi era scontato che tu lo odiassi. I ruoli erano più onesti, in fondo.

Villaggio ha descritto lo schiavismo umiliante del mondo del lavoro com’era prima della globalizzazione  (proprio quella che si discuteva nel 2001 a Genova e che il popolo italiano, distratto, punto il dito su Carlo Giuliani e l’estintore, dimenticandosi del perché si protestava, ovvero per la futura schiavitù che oggi ci costringe a stipendi abbassati, straordinari, flessibilità e costante disponibilità lavorativa!) e prima che l’epocale vittoria del liberismo estremo polverizzasse ogni argine, ogni regola, ogni patto.

Ci faceva ridere, perché caricaturava e portava all’estremo quello che milioni di persone realmente vivevano nei loro polverosi e grigi luoghi di lavoro. Lo schiavismo di oggi non è nemmeno caricaturabile perché è già all’estremo in sé, non può essere portato oltre con la chiave del grottesco.

Non si riesce più nemmeno a ridere, parlando di lavoro, oggi.