Trattativa Stato-mafia, le agghiaccianti dichiarazioni del Pm Di Matteo: “Berlusconi anche da premier continuò a pagare Cosa Nostra”

 

Di Matteo

 

 

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Trattativa Stato-mafia, le agghiaccianti dichiarazioni del Pm Di Matteo: “Berlusconi anche da premier continuò a pagare Cosa Nostra”

 

“Si ritiene da parte dei giudici che Silvio Berlusconi continuò a pagare ingenti somme di denaro a Cosa Nostra palermitana anche dopo essere diventato Presidente del Consiglio”.

A dichiararlo è stato il sostituto procuratore nazionale antimafia, Nino Di Matteo, che ha istruito il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, presentando il suo libro ‘Il patto sporco’ scritto con il giornalista Saverio Lodato, in un’intervista realizzata da Paolo Borrometi per il Tg2000, il telegiornale di Tv2000.

“Risultano annotati in un libro mastro della mafia palermitana – ha raccontato – movimenti di denaro e ricezione di una somma montante a centinaia di milioni da parte del gruppo imprenditoriale legato a Berlusconi anche dopo che Silvio Berlusconi aveva assunto la carica di Presidente del Consiglio. Un Presidente del Consiglio, se questo è vero, il capo di un governo della nostra Repubblica pagava Cosa Nostra”.

“Nonostante un gravissimo silenzio e una gravissima ignoranza indotta nell’opinione pubblica, sull’argomento – ha spiegato lo storico magistrato del pool – noi magistrati avevamo già una sentenza che aveva condannato definitivamente il senatore Dell’ Utri per concorso in associazione mafiosa. Questa stabiliva e statuiva che l’allora imprenditore Silvio Berlusconi nel 1974 con l’intermediazione di Marcello Dell’ Utri avesse stipulato un patto con esponenti apicali, esponenti di vertice della Cosa Nostra palermitana. Patto di reciproca protezione e sostegno. E che quel patto era stato rispettato dal 1974 almeno fino al 1992”.

“Ma questa sentenza di primo grado sulla trattativa Stato-mafia – ha sottolineato Di Matteo – va oltre. È stato dimostrato che l’intermediazione di Dell’Utri è proseguita attraverso la trasmissione di messaggi e richieste di Cosa Nostra a Silvio Berlusconi anche dopo il 1992. Soprattutto dopo che Silvio Berlusconi a seguito delle elezioni del marzo 1994 divenne Presidente del Consiglio. Quindi per la prima volta questa sentenza chiama in ballo Silvio Berlusconi non più come semplice imprenditore ma come uomo politico addirittura come Presidente del Consiglio. Questo è un passaggio che pochi hanno sottolineato che può essere incidentale ma è assolutamente indicativo della gravità del comportamento di Silvio Berlusconi che i giudici ritengono accertato, è un passaggio apparentemente slegato all’ imputazione mossa a Dell’Utri in questo processo ma molto significativo”.

 

 

fonte: https://www.silenziefalsita.it/2018/09/28/stato-mafia-di-matteo-berlusconi-anche-da-premier-continuo-a-pagare-cosa-nostra/

Salvini: “Mi sento molto meglio se chi puzza di mafia sta lontano da me. E i voti dei mafiosi mi fanno schifo” …Ora la domanda nasce spontanea: ma cos’è che questo deficiente non ha capito della sentenza di condanna di dell’Utri?

 

Salvini

 

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Salvini: “Mi sento molto meglio se chi puzza di mafia sta lontano da me. E i voti dei mafiosi mi fanno schifo” …Ora la domanda nasce spontanea: ma cos’è che questo deficiente non ha capito della sentenza di condanna di dell’Utri?

Salvini lo ha detto davvero: “Mi sento molto meglio se chi puzza di mafia sta lontano da me. E i voti dei mafiosi mi fanno schifo”

Leggi Qui, se ti interessa, l’articolo de Il Fatto Quotidiano.

Ora, come diceva tanti anni fa il grande Antonio Lubrano, la domanda nasce spontanea…

Cos’è che questo idiota non ha capito della sentenza con cui Dell’Utri sta in carcere?

Giusto come pro-memoria Vi riportiamo di seguito un breve passo delle motivazioni della sentenza di condanna di Dell’Utri.

Leggete e rabbrividite:

Tra il 16 ed il 19 maggio 1974 si svolgeva a Milano un incontro cui prendevano parte Marcello Dell’Utri, Silvio Berlusconi, Gaetano Cinà (legato alla “famiglia” mafiosa Malaspina) Stefano Bontade (capo della “famiglia” mafiosa S. Maria del Gesù ed esponente, fino a poco prima, insieme con Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio, del “triunvirato” massimo organo di vertice di “cosa nostra”), Mimmo Teresi (sottocapo della “famiglia” mafiosa S. Maria del Gesù), Francesco Di Carlo (“uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa Altofonte, di cui, all’epoca, era consigliere e di cui, in seguito, sarebbe diventato capo).

In tale occasione veniva raggiunto l’accordo di reciproco interesse, in precedenza ricordato, tra “cosa nostra” rappresentato dai boss mafiosi Bondante e Telesi, e l’imprenditore Berlusconi, accordo realizzato grazie alla mediazione di Dell’Utri che aveva coinvolto l’amico Gaetano Cinà, il quale, in virtù dei saldi collegamenti con i vertici della consorteria mafiosa, aveva garantito la realizzazione di tale incontro.

L’assunzione di Mario Mangano (all’epoca dei fatti affiliato alla “famiglia” mafiosa di Porta Nuova, formalmente aggregata al mandamento di S. Maria del Gesù, comandato da Stefabo Bondante) ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974 costituiva l’espressione dell’accorso concluso, grazie alla mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di cosa nostra e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa di quest’ultimo.

In cambio della protezione assicurata Silvio Berlusconi aveva cominciato a corrispondere, a partire dal 1974, agli esponenti di “cosa nostra” palermitana, per il tramite di Dell’Utri, cospicue somme di denaro che venivano materialmente riscosse da Gaetano Cinà.

QUI la sentenza completa

Il passaggio che Vi abbiamo riportato è a pagina 48.

La sentenza, invece la trovate QUI

By Eles

Dell’Utri resta in carcere e la moglie urla: bisogna vergognarsi di essere italiani… Ma vergognarsi di essere mafiosi proprio NO, vero?

 

Dell'Utri

 

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Dell’Utri resta in carcere e la moglie urla: bisogna vergognarsi di essere italiani… Ma vergognarsi di essere mafiosi proprio NO, vero?

Sono proprio senza vergogna…

Leggiamo su Il Giornale:

Il dolore della moglie di Dell’Utri: “Vergognarsi di essere italiani”

Lo sfogo di Miranda Ratti: “Quando c’è un accanimento nel negare il diritto alla salute non c’è niente da fare ma è una vergogna”

“C’è da vergognarsi ad essere italiani”: sono parole pesanti come macigni quelle pronunciate da Miranda Ratti, moglie di Marcello Dell’Utri, all’indomani della sentenza che nega la scarcerazione del marito, da tempo malato.

Parlando ai microfoni di TgCom 24, la moglie dell’ex senatore di Forza Italia confessa tutta la propria amarezza per una decisione che la lascia a un tempo stupita e addolorata: “Se viene negato il diritto alla salute bisogna vergognarsi di essere italiani. Ci stupiamo di Turchia e Venezuela, ma evidentemente non sappiano guardare in casa nostra”.

Una staffilata ai giudici che hanno ritenuto che Dell’Utri non potesse lasciare il carcere nonostante un tumore e una cardiopatia. La signora Ratti parla di un “accanimento contro cui non c’è nulla da fare”, senza riuscire a capacitarsi di come sia stata la respinta di trasferire il marito “in una struttura adeguata, polifunzionale e ben strutturata” per curarlo.

“Sembra inutile dire – aggiunge la moglie di Dell’Utri – che nella magistratura non ho nessuna fiducia perché anche quest’ultima istanza dimostra un accanimento, e contro l’accanimento, se uno è prevenuto, non c’è nulla da fare. È una sentenza assurda che va a nuocere non solo alla salute di mio marito e alla nostra famiglia, ma allo Stato di diritto, perché i principi della Costituzione non vengono assolutamente rispettati”.

Il Giornale

Io, fossi in loro, mi vergognerei più ad essere mafiosi!

Vi consigliamo di leggere:

Trattativa, i Pm: “Nel ’94 Cosa Nostra appoggiò Forza Italia. Tra la mafia, Dell’Utri e Berlusconi rapporto paritario” …Ma ora non fatevi distrarre: Di Maio ha sbagliato un altro congiuntivo!

 Per non dimenticare – Il pentito di mafia Spatuzza: “Incontrai il boss Graviano, era felice come se avesse vinto al Superenalotto, mi fece il nome di Berlusconi. Aggiunse che in mezzo c’era anche il compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani”…!

Berlusconi contro i Cinquestelle: “Noi abbiamo un passato di cui essere fieri” – Sì, è vero, e si chiama MAFIA…!

Trattativa, i Pm: “Nel ’94 Cosa Nostra appoggiò Forza Italia. Tra la mafia, Dell’Utri e Berlusconi rapporto paritario” …Ma ora non fatevi distrarre: Di Maio ha sbagliato un altro congiuntivo!

 

Berlusconi

 

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Trattativa, i Pm: “Nel ’94 Cosa Nostra appoggiò Forza Italia. Tra la mafia, Dell’Utri e Berlusconi rapporto paritario” …Ma ora non fatevi distrarre: Di Maio ha sbagliato un altro congiuntivo!

 

Trattativa, i pm: “Nel ’94 Cosa nostra appoggiò Forza Italia. Tra la mafia, Dell’Utri e Berlusconi rapporto paritario”

All’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, la pubblica accusa è arrivata al punto clou della requisitoria del processo sul patto segreto tra pezzi delle Istituzioni e boss mafiosi: la fine dell’escalation di terrore che ha sconvolto l’Italia tra il 1992 e il 1993. E quindi la nascita della Seconda Repubblica. “Nel 1993 l’ex senatore è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio dei mafiosi, cioè fermare le bombe in cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario. Ciò è avvenuto quando si è insediato il primo governo di centrodestra”

Il rapporto tra Marcello Dell’UtriSilvio Berlusconi e Cosa nostra, definito dalla corte di cassazione come “paritario“. La nascita di Sicilia Libera e l’intenzione dei boss di entrare direttamente in politica. Il cambio di cavallo dei padrini che puntano tutto sulla neonata Forza Italia. E quindi il patto siglato dai boss alla fine del 1993 con l’ex senatore: le stragi si interrompono, tra Stato mafia torna la pace. È un punto di svolta quello ripercorso nell’udienza numero 209 del processo sulla Trattativa tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. All’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, la pubblica accusa è arrivata al punto clou della requisitoria: la fine dell’escalation di terrore che ha sconvolto l’Italia tra il 1992 e il 1993. E quindi la nascita della Seconda Repubblica.

Un passaggio avvenuto per un motivo particolare. Quale? “Alla fine del 1993 Marcello Dell’Utri si è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio per conto di Cosa nostra, cioè fermare le bombe in cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario. Ciò è avvenuto quando un nuovo governo si era appena formato, nel marzo del 1994, con la nomina di Silvio Berlusconialla carica di presidente del consiglio”, ha detto il pm Francesco Del Bene, che rappresenta la pubblica accusa insieme a Nino Di MatteoRoberto Tartaglia e Vittorio Teresi.  Per i pm Dell’Utri – imputato per minaccia a corpo politico dello Stato insieme agli altre sei persone (per Nicola Mancino l’accusa è di falsa testimonianza, per Massimo Ciancimino concorso esterno a Cosa nostra) “aveva un potere ricattatorio su Berlusconi per effetto dei rapporti pregressi“.

Gli anni ’70 e lo stalliere, i soldi della droga – Quali rapporti? Per delinearli i pm partono da lontano. E citano la sentenza definitiva che ha condannato Dell’Utri a sette anni di carcere per concorso esterno. “I giudici hanno scritto – ha detto Del Bene citando le motivazioni del verdetto – che fin dagli anni Settanta Marcello Dell’Utri intratteneva un rapporto paritariocon esponenti di Cosa nostra”. Contatti che per i pm “sono proseguiti anche dopo la scomparsa dei boss Mimmo Teresi e Stefano Bontate, suoi iniziali interlocutori, uccisi dai corleonesi di Totò Riina”. Nella requisitoria ha dunque fatto la sua comparsa Vittorio Mangano, il boss di Porta Nuova assunto da Berlusconi e Dell’Utri come stalliere nella villa di Arcore nel 1974. “La presenza di Vittorio Mangano ad Arcore, mafioso del mandamento di Porta Nuova, per il tramite di Dell’Utri, rappresenta la convergenza di interessi tra Berlusconi e Cosa nostra”, dicono i pm, che durante una delle udienze del processo hanno ascoltato anche la deposizione del pentito Gaetano Grado. “Negli anni Settanta – aveva detto il collaboratore di giustizia l’11 giugno del 2015 – portava fiumi di miliardi da Palermo a Milano. Erano soldi del traffico di droga di Cosa nostra che Mangano consegnava a Dell’Utri, poi Dell’Utri li consegnava a Berlusconi che li investiva nelle sue società, mi pare anche per Milano due. La mafia ha bisogno di investire. Siccome i soldi della droga erano talmente tanti che non si sapeva più quanti fossero, Mangano esportava fiumi di denaro su a Milano”.

L’intimidazione: gli attentati alla Standa- Il sostituto procuratore ha poi ricordato gli attentati alla Standa di Catania, che all’epoca era di proprietà di Silvio Berlusconi. Secondo l’accusa gli attentati intimidatori sarebbero cessati solo dopo un accordo tra Cosa nostra e Berlusconi, “attraverso l’intermediazione di Dell’Utri”. Già in una delle scorse udienze, il pm Roberto Tartaglia aveva spiegato. “I boss puntarono all’intimidazione, per poi raggiungere il patto”, disse il magistrato riferendosi proprio gli attentati alla Standa: “Il pentito Malvagna ci ha raccontato che scese un alto dirigente Fininvest per risolvere la questione”. Chi era quell’alto dirigente? “Era Dell’Utri”, ha detto un altro pentito, Maurizio Avola, riferendo di un incontro tra l’ex senatore e il capomafia Nitto Santapaola.

Il rapporto paritario e i Graviano- “La Cassazione  ci dice che tra Cosa nostra e Berlusconi e Dell’Utri il rapporto era paritario. Dell’Utri era un nuovo autorevole interlocutore del dialogo con Cosa nostra”,  ha continuato il magistrato che poi ha citato le dichiarazioni del pentito Tullio Cannella. “Gli agganci potenti con esponenti politici – aveva detto il collaboratore di giustizia – li avevano i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss del mandamento di Brancaccio a Palermo. Erano loro che si occupavano di politica per risolvere e i problemi di Cosa nostra, come la legislazione sui collaboratori di giustizia”. Dichiarazioni che i pm collegano a quelle di Gaspare Spatuzza sulle confidenze ricevute nell’autunno del 1993 da Giuseppe Graviano: “C’è in piedi una situazione che, se andrà a buon fine, ci permetterà di avere tutti i benefici, anche per il carcere”. “Il collaboratore Cannella ha riferito anche che 15 giorni prima della scadenza per la presentazione delle liste elettorali per le politiche del 1994 – ha aggiuntoDel Bene – si rivolse a Leoluca Bagarella per avere la possibilità di inserire un candidato del suo movimento Sicilia Libera nel Polo delle Libertà. Bagarella gli disse che lo avrebbe messo in grado contattare un soggetto per l’inserimento di un candidato per il Pdl. La persona che avrebbe incontrato era Vittorio Mangano“.

Così la mafia votò Forza Italia – Sicilia Libera è il movimento creato su input dello stesso Bagarella, al vertice dei corleonesi nel 1993 dopo l’arresto del cognato Totò Riina.  “Il movimento Sicilia Libera ha in sé tutti i protagonisti del reato di attentato a corpo politico dello Stato che contestiamo agli imputati di questo processo. Cosa nostra ha l’esigenza di interloquire direttamente con le istituzioni e Bagarella tenta di farlo con questo movimento politico nel cui statuto vengono inseriti i punti che tanto stanno a cuore alla mafia, tra cui la giustizia e provvedimenti sul mondo carcerario“. Poi, però, succede qualcosa. Succede che alla fine del 1993 lo stesso Bagarella “sa della discesa in campo di Silvio Berlusconi per le politiche del 1994 e decide dirottare il suo sostegno a Forza Italia, e di fatto decide di dare sostegno a Marcello Dell’Utri attraverso i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Così, lascia perdere il Sicilia Libera che aveva fondato e di fatto confluisce in Forza Italia”.

Quello che disse Cancemi – Per la verità, però, a parlare di Berlusconi e Dell’Utri come possibile soluzione ai problemi di Cosa nostra era stato lo stesso Riina già nel giugno del 1992, quando la nascita di Forza Italia era ancora alle primissime battute. A sostenerlo – lo ha ricordato nelle scorse udienze il pm Di Matteo – era stato il pentito Salvatore Cancemi. Nel corso della riunione del giugno ’92, “Riina si prese la responsabilità di eliminare Paolo Borsellino“. Nella stessa circostanza aggiunse che “andava coltivato il rapporto con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri“.  “Non è un racconto del relato ma proviene dalla voce di un autorevole capomafia”, aveva detto Di Matteo. Le dichiarazioni di Cancemi, secondo l’accusa, riscontrano quanto detto in carcere da Giuseppe Graviano. Intercettazioni che hanno fatto riaprire le indagini su Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi e che sono state al centro di un acceso dibattito processuale tra accusa e difesa.

L’opinione di Riina – Anche Riina era stato intercettato in carcere dalla procura di Palermo. E quelle registrazioni sono state lette in aula dal pm Del Bene.  “Berlusconi era una persona inaffidabile mentre Marcello dell’Utri era una persona seria che ha mantenuto la sua parola”, ha detto il magistrato riferendosi alle confidenze fatte dal copo dei capi al codetenuto Alberto Lo Russo. “Riina considerava Dell’Utri una persona seria, dalla sua parte, che ha mantenuto la parola data. Oppure Riina è ritenuto un boss solo per tenerlo al 41bis mentre poi, quando parla, viene considerato rincoglionito?”, ha aggiunto ancora il pm alla fine della settima udienza dedicata all’esposizione della requisitoria. La cui fine è prevista per domani quando i quattro magistrati esporranno davanti alla corte d’Assise le richieste di pena. Sarà anche l’ultima udienza per Di Matteo eDel Bene: promossi allaprocura nazionale antimafia sono stati applicati al processo sulla Trattativa solo fino alla fine della requisitoria. Sono anche gli unici due magistrati che seguono l’inchiesta dall’inizio: dal 2008 con le prime iscrizioni del registro degli indagati. Dieci anni dopo il processo sul patto segreto che avrebbe portato uomini delle istituzioni a sedere allo stesso tavolo della piovra è alle battute finali.

fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/01/25/trattativa-pm-nel-94-cosa-nostra-appoggio-forza-italia-tra-la-mafia-dellutri-e-berlusconi-rapporto-paritario/4115952/

Berlusconi contro i Cinquestelle: “Noi abbiamo un passato di cui essere fieri” – Sì, è vero, e si chiama MAFIA…!

 

Berlusconi

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Berlusconi contro i Cinquestelle: “Noi abbiamo un passato di cui essere fieri” – Sì, è vero, e si chiama MAFIA…!

Noi abbiamo un passato di cui essere fieri, a differenza di questi nostri avversari a Cinque Stelle, che un passato non ce l’hanno neppure.

Così ha twittato Silvio Berlusconi…

E pensate che ci sono deficienti che lo prendono sul serio…

E allora, lasciando perdere per il momento P2, evasione fiscale, corruzione, condanne e prostituzione, vorremmo ricordare soli un “dettaglio” del passato di cui il nostra Silvio va tanto fiero: si chiama MAFIA.

Giusto come pro-memoria Vi riportiamo di seguito un breve passo delle motivazioni della sentenza di condanna di Dell’Utri.

Leggete e rabbrividite:

Tra il 16 ed il 19 maggio 1974 si svolgeva a Milano un incontro cui prendevano parte Marcello Dell’Utri, Silvio Berlusconi, Gaetano Cinà (legato alla “famiglia” mafiosa Malaspina) Stefano Bontade (capo della “famiglia” mafiosa S. Maria del Gesù ed esponente, fino a poco prima, insieme con Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio, del “triunvirato” massimo organo di vertice di “cosa nostra”), Mimmo Teresi (sottocapo della “famiglia” mafiosa S. Maria del Gesù), Francesco Di Carlo (“uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa Altofonte, di cui, all’epoca, era consigliere e di cui, in seguito, sarebbe diventato capo).

In tale occasione veniva raggiunto l’accordo di reciproco interesse, in precedenza ricordato, tra “cosa nostra” rappresentato dai boss mafiosi Bondante e Telesi, e l’imprenditore Berlusconi, accordo realizzato grazie alla mediazione di Dell’Utri che aveva coinvolto l’amico Gaetano Cinà, il quale, in virtù dei saldi collegamenti con i vertici della consorteria mafiosa, aveva garantito la realizzazione di tale incontro.

L’assunzione di Mario Mangano (all’epoca dei fatti affiliato alla “famiglia” mafiosa di Porta Nuova, formalmente aggregata al mandamento di S. Maria del Gesù, comandato da Stefabo Bondante) ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974 costituiva l’espressione dell’accorso concluso, grazie alla mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di cosa nostra e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa di quest’ultimo.

In cambio della protezione assicurata Silvio Berlusconi aveva cominciato a corrispondere, a partire dal 1974, agli esponenti di “cosa nostra” palermitana, per il tramite di Dell’Utri, cospicue somme di denaro che venivano materialmente riscosse da Gaetano Cinà.

QUI la sentenza completa

Il passaggio che Vi abbiamo riportato è a pagina 48.

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Il condannato Berlusconi torna in campo e, come al solito, torna a circondarsi di gente degna: il Senatore D’Alì salvato per PRESCRIZIONE dal concorso esterno alla MAFIA? Subito una poltrona da Sindaco a Trapani!!

Berlusconi

 

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Il condannato Berlusconi torna in campo e, come al solito, torna a circondarsi di gente degna: il Senatore D’Alì salvato per PRESCRIZIONE dal concorso esterno alla MAFIA? Subito una poltrona da Sindaco a Trapani!!

 

Nel settembre del 2016 la corte d’appello di Palermo ha confermato l’assoluzione in primo grado, dichiarando prescritte le accuse per le contestazioni precedenti al gennaio del 1994, nei confronti dell’esponente di Forza Italia. In attesa della Cassazione l’ex sottosegretario all’Interno si candida come primo cittadino nella sua città. Nelle motivazioni del processo di secondo grado i giudici spiegano che “le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia hanno confermato la piena disponibilità di D’Alì nei confronti dei massimi esponenti di Cosa nostra trapanese”

Per la corte d’appello di Palermo ha contribuito al rafforzamento di Cosa nostra almeno fino al 1994. E lo ha fatto “con coscienza e volontà“. Una serie di collaboratori di giustizia, invece, parlano della sua “piena disponibilità nei confronti dei massimi esponenti della mafia trapanese”. Una disponibilità che non è legata ad alcun patto siglato con i padrini, i quali, in ogni caso, gli hanno dato il loro “appoggio elettorale” ai tempi della prima candidatura al Senato.

Il tempo, però, deve essere alleato di Antonio D’Alì, senatore di Forza Italia da ventidue anni, lungamente accusato dai magistrati di concorso esterno a Cosa nostra. È il tempo che ha garantito all’ex sottosegretario all’Interno di mettersi in salvo dall’eventuale condanna a 7 anni e 4 mesi chiesta dalla procura generale di Palermo. E infatti nel settembre del 2016 i giudici della corte d’appello del capoluogo siciliano hanno confermato quanto già deciso dai colleghi del primo grado: D’Alì va prescritto per i fatti precedenti al gennaio del 1994, assolto per quelli successivi. Una situazione processuale sulla quale adesso dovrà esprimersi la corte di Cassazione, alla quale la procura generale del capoluogo siciliano ha fatto ricorso.

Trapani, città berlusconiana – Nel frattempo, però, il senatore ha deciso di dare una scossa alla sua vita politica: si è candidato sindaco della sua città in vista delle elezioni amministrative del giugno prossimo. La notizia era nell’aria da settimane, anzi mesi. Si rincorreva inafferrabile tra i vicoli che dal porto s’infilano verso il centro storico, spinta da un vento che da queste parti soffia da due mari. E alla fine è proprio da un hotel sul lungomare che quella voce ha acquistato i crismi dell’ufficialità. “Trapani è ferma da dieci anni“, ha sentenziato il senatore di Forza Italia, presentando la sua candidatura. E sorvolando su un fatto fondamentale: Trapani, la città ferma da dieci anni, è amministrata dal partito di D’Alì da venti. Prima con una coalizione di centrodestra, poi con i due mandati del suo ex sodale Girolamo Fazio (candidato a sua volta dopo 5 anni di stop), quindi con l’attuale sindaco Vito Damiano. A scegliere, appoggiare e infine bruciare ogni primo cittadino era sempre lui: Antonio D’Alì, l’amico di Silvio Berlusconi tornato alla base dopo un rapido tradimento al seguito di Angelino Alfano.

Il senatore scende in campo – “Trapani è ferma da dieci anni da quando in città portammo l’America’s Cup. Quell’evento avrebbe dovuto rappresentare un punto di partenza e invece la città è ferma da allora”, insiste su livesicilia.it il senatore, il portamento tipico di chi in Sicilia viene da una nobile famiglia e un volto ben rasato orfano della storica barbetta ben curata. L’ha tagliata definitivamente nel 2013: un fioretto da onorare in caso di assoluzione, aveva detto. E in effetti il parlamentare siciliano dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa è stato assolto. Solo per il periodo successivo al gennaio del 1994, però. Perché per il periodo precedente, i giudici parlano di una “accertata condotta illecita“. “Visto che la Cassazione dovrà esprimersi soltanto sulla legittimità delle sentenze, vorrei sottolineare che per tutto il periodo che va dal 1994 in poi, non è stata trovata alcuna prova reale a carico del senatore. Lui evidentemente ritiene di avere la coscienza pulita: per questo si candida”, dice l’avvocato Gino Bosco, legale di D’Alì. E per il periodo precedente, invece, quello sui cui è scattata la prescrizione? “L’unico fatto riconosciuto a D’Alì – continua l’avvocato – è lontano nel tempo ed è stato ricostruito soprattutto grazie alla nostra attività difensiva. La corte gli ha dato un’interpretazione assolutamente diversa da quella nostra, ma riconosco che quando certi cognomi vengono pronunciati in un’aula di giustizia i magistrati possano dargli un valore che magari in altri contesti non avrebbero”.

Il terreno di Riina e quella vendita fittizia –  A quali cognomi si riferisce l’avvocato? Sono i magistrati della corte d’appello di Palermo a spiegarlo nelle motivazioni della sentenza depositate nel dicembre del 2016. “È provato nel presente procedimento che Matteo Messina Denaro predispose e tradusse in atto un’operazione volta a far conseguire la titolarità del fondo sito in contrada Zangara a Francesco Geraci, nonostante reale proprietario ne fosse il Riina. Necessità di creare una provvista che potesse giustificare l’acquisto da parte dello stesso Francesco Geraci”, annotano i giudici Daniela Borsellino, Enzo Agate e Michele Calvisi. In pratica Messina Denaro voleva donare a Riina un terreno in contrada Zangara, di proprietà della famiglia D’Alì. Lo stesso fondo dove suo padre – lo storico boss di Castelvetrano, Francesco Messina Denaro – lavorava come campiere. Solo che per evitare possibili futuri sequestri ai danni di Riina, l’ultima primula rossa di Cosa nostra chiese ad uno dei suoi fedelissimi, in quel momento incensurato, di acquistare formalmente quel terreno da D’Alì. Si trattava, però, di un acquisto fasullo visto che – per i giudici – il futuro senatore restituì poi ai mafiosi i soldi incassati dalla cessione del terreno.

“Agì in maniera cosciente e volontaria” – “D’Alì – spiegano i giudici – acconsentì ad operare il trasferimento fittizio del bene senza mai relazionarsi con Francesco Geraci essendo ben consapevole che si trattasse soltanto di un prestanome e si fece trovare pronto a restituire il denaro in prima persona o per il tramite del fratello, ogniqualvolta Matteo Messina Denaro invitò gli stessi Geraci a presentarsi presso la Banca Sicula. L’anomalia di queste restituzioni dimostra che Antonio D’Alì agì in maniera cosciente e volontaria, comprendendo che il proprio fatto era volto alla realizzazione dell’operazione architettata dai massimi esponenti di Cosa nostra e volendovi prestare il proprio contributo”.

I voti per il senatore – Una vicenda, quella della cessione fasulla del terreno, che per i magistrati è “la cartina di tornasole del rapporto, ritenuto comprovato dal primo giudice, intrattenuto dall’imputato con i vertici dell’associazione mafiosa almeno fino al 1994 essendo stato lo stesso ampiamente illustrato dalle concordi dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia che hanno confermato la piena disponibilità di D’Alì nei confronti dei massimi esponenti di Cosa nostra trapanese, che gli consenti, peraltro di ottenere dagli stessi l’appoggio elettorale in occasione delle consultazioni del 1994, quando venne eletto senatore”.

E la piovra votò Forza Italia – Nelle 65 pagine di motivazioni della sentenza d’appello, poi, i giudici ricordano le dichiarazioni di Tullio Cannella, “il quale ha espressamente affermato che Vincenzo Virga (il boss mafioso di Trapani, ndr) aveva dapprima indicato Antonio D’Alì tra le persone da coinvolgere nella nascita di Sicilia Libera“, e cioè il partito direttamente emanazione di Cosa nostra ideato da Leoluca Bagarella. Poi dopo il fallimento del progetto di Sicilia Libera, “sempre Virga decise di convogliare i propri voti su Forza Italia, rendendo evidente l’appoggio elettorale che poi l’imputato ricevette una volta inserito in lista per l’elezione al Senato. Tanto è vero che tale appoggio è coerente pure con quanto affermato da Vincenzo Sinacori e Antonio Giuffrè, i quali hanno dato atto in quegli anni del rapporto fiduciario instaurato da D’Alì con i massimi esponenti di Cosa nostra”.

I D’Alì e i Messina Denaro – Nelle carte un passaggio è dedicato alle dichiarazioni di Maria Antonietta Aula, l’ex moglie del senatore che aveva raccontato al Fatto Quotidiano dei rapporti tra i marito e la famiglia Messina Denaro, ritenuta però inattendibile dai giudici del processo di primo grado. “La deposizione della Aula è stata improntata alla massima genuinità e lealtà, non potendosi condividere il giudizio di inattendibilità espresso dal primo giudice, per le discrasie rilevate con altre fonti di prova che appaiono, invero, di scarsa rilevanza processuale”, scrivono invece i magistrati della corte d’appello. I quali poi ripercorrono i passaggi fondamentali dei ricordi della Aula. “Quando si sposò Rosalia, figlia di Francesco Messina Denaro, con Filippo Guttadauro (noto esponente dell’associazione mafiosa), Antonio D’Alì e la Aula (ancora fidanzati) presenziarono, mentre al matrimonio della Aula e dell’imputato la famiglia Messina Denaro e i coniugi Guttadauro non furono invitati ma fecero pervenire ugualmente un regalo ed, in occasione della morte del padre della Aula, i predetti inviarono un telegramma di condoglianze”.

I voti della mafia non sono reato –  Solo che dopo l’episodio della falsa vendita del terreno di D’Alì agli uomini di Cosa nostra i giudici non hanno riscontrato più alcun reato. “L’accertata condotta illecita posta in essere dall’imputato in occasione della compravendita del fondo non risulta seguita da alcuna condotta che possa essere significativamente assunta come sintomatica della volontà dell’imputato di permanere, sia pure come extraneus, nell’associazione mafiosa, fornendo un contributo al rafforzamento della stessa”. Neanche l’appoggio elettorale “fornito all’imputato dall’associazione mafiosa in occasione delle elezioni al Senato del 1994, anche in considerazione della preponderante vittoria delle forze politiche di centrodestra non assurge di per sé ad elemento sintomatico di un patto elettorale politico-mafioso che consentisse, da un canto, all’odierno imputato di raggiungere lo scranno del Senato attraverso l’appoggio degli esponenti di Cosa nostra”. Come dire: visto che i berlusconiani presero una valanga di voti, D’Alì non aveva bisogno di siglare un patto con i mafiosi, che lo votarono di loro spontanea volontà.

Prescritto e innocente – Poi dopo l’elezione a Palazzo Madama nel 1994, “appoggiata elettoralmente dall’associazione mafiosa”, per i giudici non è provato che D’Alì continuò ad avere dei legami con Cosa nostra, dopo la sua entrata in Senato. “Le condotte oggetto di contestazione non risultano essere compiutamente comprovate per mancanza di adeguati e specifici riscontri, negli interventi fatti da D’Alì, nella sua veste istituzionale, successivamente al 1994 appare difficile ipotizzare che lo stesso abbia inteso avvantaggiare l’associazione mafiosa piuttosto che taluni imprenditori che soltanto in epoca successiva sono stati condannati per associazione mafiosa”. È per questo motivo che D’Alì è stato assolto. E adesso si candida a guidare la sua città.

 

fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/04/11/trapani-il-senatore-dali-candidato-sindaco-dopo-prescrizione-per-concorso-esterno-rafforzava-la-mafia-fino-al-1994/3493540/