“Cento minuti in carcere con Lula” – Assolutamente da leggere…!

 

 

Lula

 

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“Cento minuti in carcere con Lula”

di Ignacio Ramonet *

All’ex presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, imprigionato nella città di Curitiba, nel sud del paese, sono consentite solo due visite alla settimana. Un’ora. Il giovedì pomeriggio, dalle quattro alle cinque. Dobbiamo aspettare il nostro turno. E la lista di coloro che desiderano vederlo è lunga… Ma oggi, 12 settembre, è il momento di Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace, e il mio.

Lula è in carcere, scontando una condanna di 12 anni e 1 mese “per corruzione passiva e riciclaggio di denaro”, ma non è stato condannato definitivamente (può ancora appellarsi) e, soprattutto, i suoi accusatori non sono stati in grado di provare la sua colpevolezza. Era tutta una farsa. Come confermano le devastanti rivelazioni di The Intercept, una rivista di ricerca online gestita da Glenn Greenwald. Lula è stato vittima della più assoluta arbitrarietà. Un complotto giudiziario totalmente manipolato, destinato a rovinare la sua popolarità e ad eliminarlo dalla vita politica. Per assassinarlo sui media. Impedendogli di presentarsi e vincere le elezioni presidenziali del 2018. Una sorta di “colpo di stato preventivo” …

Oltre ad essere giudicato in modo assolutamente arbitrario e indecente, Lula è stato costantemente linciato dai grandi gruppi mediatici dominanti – in particolare O Globo – al servizio degli interessi dei maggiori uomini d’affari, con un odio feroce e revanscista contro il miglior presidente della storia del Brasile, che ha tolto quaranta milioni di brasiliani dalla povertà e creato il programma “zero fame” … Imperdonabili… Quando suo fratello maggiore, Genival ‘Vavá’, il più amato, morì, non gli fu permesso di partecipare al funerale, nonostante fosse un diritto garantito dalla legge. E quando morì di meningite il suo pronipote Arthur, 7 anni, il più legato, gli fu permesso di andare solo per un’ora e mezza (!) alla veglia. Umiliazione, soprusi, vendette miserabili…

Prima di dirigerci verso il carcere – situato a circa sette chilometri dal centro di Curitiba – abbiamo incontrato un gruppo di persone vicine all’ex presidente perché ci spiegassero il contesto.

Roberto Baggio, leader locale del Movimiento de los Sin Tierra (MST), ci racconta come è stata organizzata la mobilitazione permanente chiamata “Veglia”. Centinaia di persone del grande movimento “Lula Livre!” si accampano permanentemente davanti all’edificio del carcere, organizzando incontri, dibattiti, conferenze, concerti…. E tre volte al giorno – alle 9:00, 14:30 e 19:00 – lanciano un urlo verso l’alto a pieni polmoni: «Buona giornata», «Buon pomeriggio», «Buona notte, signor Presidente!» … «Affinchè Lula possa sentirci, per dargli coraggio», ci dice Roberto Baggio, «e fargli arrivare la voce della gente. All’inizio, pensavamo che sarebbe durata cinque o sei giorni e che la Corte Suprema avrebbe rilasciato Lula… ma ora siamo organizzati per una Protesta Popolare Prolungata».

Carlos Luiz Rocha è uno degli avvocati di Lula. Va a trovarlo quasi ogni giorno. Ci racconta che il team legale dell’ex presidente mette in discussione l’imparzialità del giudice Sergio Moro, ora premiato da Bolsonaro con il Ministero della Giustizia, e l’imparzialità dei pubblici ministeri. «Deltan Dallagnol, il procuratore capo, me lo ha confermato di persona, mi ha detto che “nel caso di Lula, la questione legale è una pura filigrana”. Il problema è politico».

Rocha è relativamente ottimista perché, secondo lui, a partire dal prossimo 20 settembre, Lula avrà completato la parte di pena sufficiente per poter uscire agli “arresti domiciliari”. «C’è un altro elemento importante» ci dice «mentre la popolarità di Bolsonaro sta diminuendo bruscamente, i sondaggi dimostrano che la popolarità di Lula sta tornando a crescere. Attualmente, più del 53 per cento dei cittadini pensa che Lula sia innocente. La pressione sociale sta diventando sempre più intensa a nostro favore».

Siamo stati raggiunti dalla nostra amica Mônica Valente, segretaria delle relazioni internazionali del Partido de los Trabajadores (PT) e segretario generale del Foro de Sao Paulo.

Insieme a questi amici, ci mettiamo in cammino verso il luogo di prigionia di Lula. L’appuntamento con l’ex presidente è fissato alle 16:00. Ma prima andremo a salutare i gruppi di Veglia, ed è necessario prevedere le formalità di ingresso nell’edificio del carcere. Non è una prigione ordinaria, ma la sede amministrativa della polizia federale, al cui interno è stata improvvisata una stanza che funge da cella.

Entreremo per vedere Lula, solo Adolfo Pérez Esquivel ed io, accompagnati dall’avvocato Carlos L. Rocha e Mônica Valente. Anche se il personale del carcere è amichevole, sono molto severi. I telefoni ci vengono sottratti. La ricerca è elettronica e approfondita. É permesso solo portare i libri e le lettere dell’imputato, e ancora… perché Adolfo gli porta 15.000 lettere di ammiratori in una chiavetta USB ma gliela confiscano per verificarla molto attentamente… poi gliela restituiranno.

Lula è al quarto piano. Non lo vedremo in una sala visite speciale, ma nella sua stessa cella dove è rinchiuso. Saliamo con l’ascensore fino al terzo piano, e raggiungiamo l’ultimo a piedi. Alla fine di un piccolo corridoio, sulla sinistra, si trova la sua porta. C’è una guardia armata seduta di fronte a noi che ci apre la porta. In nessun modo assomiglia a una prigione – tranne che per le guardie – sembra più un ufficio amministrativo e anonimo. Il capo carceriere, Jorge Chastalo (è scritto sulla sua camicia), alto, forte, biondo, con gli occhi azzurro-verdi e gli avambracci tatuati, ci ha accompagnato qui. Un uomo gentile e costruttivo che ha, vedo, rapporti cordiali con il suo prigioniero.

La cella-camera è rettangolare, si entra da uno dei piccoli lati e ci si presenta in tutta la sua profondità. Poiché i nostri telefoni sono stati confiscati, non posso scattare foto e prendo nota mentale di tutto ciò che osservo.

Si tratta di circa sei o sette metri di lunghezza per circa tre metri e mezzo di larghezza, cioè circa 22 metri quadrati di superficie. Appena a destra, entrando, si trova il bagno, con doccia e servizi igienici; si tratta di una stanza separata. Sul retro, di fronte, due grandi finestre quadrate con barre metalliche orizzontali dipinte di bianco. Le tende da sole grigio-argento all’esterno lasciano entrare la luce naturale ma impediscono di vedere l’esterno.

Nell’angolo sinistro della cella c’è il letto singolo ricoperto da un copriletto nero e sul pavimento un piccolo tappeto. Sopra il letto, inchiodato al muro, ci sono cinque grandi fotografie a colori del nipote Arthur recentemente scomparso, e degli altri nipoti di Lula insieme ai loro genitori. Accanto, sulla destra e sotto una delle finestre, c’è un comodino in legno chiaro, stile anni ’50, con due cassetti sovrapposti, rosso quello sopra. Ai piedi del letto, un mobile in legno sostiene anche una piccola TV a schermo piatto nero da 32 pollici. A fianco, sempre contro la parete sinistra, c’è un tavolo basso con una caffettiera e quello che serve per fare il caffè. Attaccato ad essa, un altro mobile quadrato e più alto, serve da supporto per una fontana d’acqua, una bottiglia verde smeraldo come quelle che si vedono negli uffici. La marca dell’acqua è “Prata da Serra”.

Nell’altro angolo del fondo, a destra, si trova la zona palestra, con una panca rivestita di finta pelle nera per gli esercizi, elastici per il bodybuilding e un grande tapis roulant. Sul lato, tra il letto e il deambulatore, c’è un piccolo riscaldatore elettrico nero su ruote. Nella parte superiore della parete posteriore, sopra le finestre, c’è un condizionatore d’aria bianco.

Al centro della stanza, un tavolo quadrato di 1,20 metri di lato, rivestito in gomma bianca e blu, e quattro comode sedie, con braccioli, nere. Una quinta sedia o poltrona è disponibile contro la parete destra. Infine, incollato alla parete divisoria che separa la stanza dal bagno: un grande armadio a tre sezioni, in rovere chiaro e bianco, con un piccolo ripiano sul lato destro che funge da libreria.

Tutta modesta e austera, anche spartana, per un uomo che per otto anni è stato presidente di una delle prime dieci potenze del mondo… ma tutto era molto ordinato, molto pulito, molto organizzato.

Con il suo solito amore, con abbracci caldi e parole di amicizia e affetto, Lula ci accoglie con la sua voce caratteristica, rauca e potente. Indossa una camicia Adidas del Corinthians, la sua squadra di calcio paulista preferita, pantaloni Nike grigio chiaro e infradito bianche in stile Havaian. Sembra molto sano, robusto e forte: «Cammino nove chilometri al giorno», ci dice. E in ottime condizioni psicologiche: «Aspetteremo tempi migliori per essere pessimisti» dice «Non sono mai stato depresso, mai, da quando sono nato; e non lo sarò adesso».

Ci siamo seduti intorno al tavolino, lui davanti alla porta, con la schiena alle finestre, Adolfo alla sua destra, Mônica davanti, l’avvocato Rocha un po’ distante tra Adolfo e Mônica, ed io alla sua sinistra. Sul tavolo ci sono quattro tazze piene di matite e penne colorate.

Gli consegno i due libri che gli ho portato, le edizioni brasiliane di “Cento ore con Fidel” e “Hugo Chavez. La mia prima vita”. Scherza sulla sua stessa biografia che il nostro amico Fernando Morais scrive da anni: «Non so quando la finirà… Tutto è iniziato quando ho lasciato la Presidenza nel gennaio 2011. Pochi giorni dopo, sono andato ad un incontro con i cartoneros di San Paolo… Ero sotto un ponte, e lì una bambina mi ha chiesto se sapevo cosa avevo fatto per i cartoneros. Mi ha sorpreso, e le ho detto che, beh, i nostri programmi sociali, nell’istruzione, nella salute, negli alloggi, ecc. E lei mi disse: “No, quello che ci hai dato è la dignità”. Una bambina! Ne sono rimasto impressionato, ne ho discusso con Fernando. Le ho detto: “Guarda, sarebbe bello fare un libro con quello che la gente pensa di ciò che abbiamo fatto al governo, quello che pensano i funzionari, i commercianti, gli uomini d’affari, i lavoratori, i contadini, gli insegnanti? Chiedere loro, raccogliere le risposte… Fare un libro non con quello su cui posso contare nella mia presidenza, ma con quello che dicono i cittadini stessi… Quello era il progetto, ma Fernando si è gettato in un’opera titanica perché vuole essere esaustivo. Ha scritto solo del periodo 1980-2002, cioè prima che io diventassi presidente… ed è già un volume colossale! Perché in quel periodo di 22 anni sono successe tante cose… abbiamo fondato la CUT (Central Única de Trabajadores), il PT, il MST, abbiamo lanciato le campagne “Direitas ja!” a favore della Costituente… abbiamo trasformato il paese… Il PT è diventato il primo partito del Brasile. E devo chiarire che ancora oggi, in questo paese, c’è un solo partito veramente organizzato: il nostro, il PT».

Gli abbiamo chiesto del suo umore. «Oggi sono passati 522 giorni da quando sono entrato in questa prigione sabato 7 aprile 2017. Ed è stato esattamente un anno fa quando ieri ho dovuto prendere la decisione più difficile, scrivere la lettera in cui ho rinunciato a candidarmi alle elezioni presidenziali del 2018. Ero in questa cella, da solo… dubitando… perché mi sono reso conto che stavo cedendo a ciò che i miei avversari volevano, impedendomi di essere un candidato. É stato un momento difficile, uno dei più difficili… ed io ero tutto solo qui. Ho pensato: è come partorire con molto dolore e nessuno che ti tiene la mano».

Apre il libro “Cento ore con Fidel” e mi dice: «Ho incontrato Fidel nel 1985, esattamente a metà luglio del 1985… Sono stato all’Avana per la prima volta partecipando alla Conferenza sindacale dei lavoratori latinoamericani e caraibici sul debito estero. Avevo già lasciato la CUT, non ero più sindacalista, ero segretario generale a tempo pieno del PT e l’anno successivo ero candidato alle elezioni legislative. Ma in quella Conferenza non c’erano solo sindacalisti. Fidel aveva invitato anche intellettuali, professori, economisti e leader politici. Ricordo che erano già le cinque del pomeriggio, al Palacio de Congresos, presieduto da Fidel, che si stava annoiando. Poi Fidel, che non conoscevo personalmente, mi ha mandato un messaggio chiedendomi se stavo per parlare. Ho risposto di no, che non era previsto… Poi mi ha quasi dato un ordine: “Devi parlare, e sarà l’ultimo intervento, chiuderemo con te”. Ma la CUT non voleva che prendessi la parola in alcun modo, quindi non sapevo cosa fare. Verso le sette del pomeriggio, dalla presidenza del tavolo, Fidel annuncia, a sorpresa, che ho la parola… Sono stato quasi costretto a parlare, mi sono alzato, sono andato alla tribuna… e ho cominciato a parlare, senza traduzione. Ho fatto un lungo discorso e ho finito col dire: “Compagno Fidel, voglio dire agli amici qui riuniti che gli Stati Uniti stanno cercando in tutti i modi di convincerci che sono invincibili. Ma Cuba li ha sconfitti, il Vietnam li ha sconfitti, il Nicaragua li ha sconfitti e anche El Salvador li sconfiggerà! Non dobbiamo aver paura di loro”. C’è stato un forte applauso. Beh, la giornata finì e io andai nella mia casa assegnata a Laguito. Quando sono arrivato, chi mi stava aspettando nel soggiorno della casa? Fidel e Raùl! Entrambi erano lì seduti ad aspettarmi. Fidel cominciò a chiedermi dove avevo imparato a parlare così… Ho raccontato loro la mia vita… Ed è così che siamo diventati amici per sempre».

«Devo dire» aggiunge Lula «che Fidel è sempre stato molto rispettoso, non mi ha mai dato consigli irrealistici. Non mi ha mai chiesto di fare cose folli. Sempre prudente, moderato, un uomo saggio, un genio».

Lula chiede poi a Pérez Esquivel, che presiede il comitato internazionale a favore dell’assegnazione del Premio Nobel per la pace all’ex presidente brasiliano, come procede il progetto. Adolfo fornisce dettagli sul grande movimento mondiale a sostegno di questa candidatura e dice che il premio è annunciato, in generale, all’inizio di ottobre, cioè in meno di un mese…. E che secondo le sue fonti quest’anno sarà per un latinoamericano. Sembra ottimista.

Lula insiste sul fatto che il sostegno dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, presieduto da Michelle Bachelet, è decisivo. Dice che questa è la «battaglia più importante». Ma che non la vede facile. Ci racconta un aneddoto: «Qualche anno fa, quando ho lasciato la presidenza, ero già stato nominato per il Premio Nobel per la pace. Un giorno, ho incontrato la Regina Consorte di Svezia, Silvia, moglie del re Carlo XVI Gustavo. Lei è la figlia di una brasiliana, Alice Soares de Toledo, quindi abbiamo parlato in confidenza. E mi disse: “Finché sei amico di Chavez, non credo che tu possa fare molti progressi. Stai lontano da Chavez e avrai il Premio Nobel per la pace”. É così che vanno le cose».

Gli chiedo come giudica questi primi otto mesi di regime di Jair Bolsonaro. «Bolsonaro sta svendendo il paese» risponde «E sono convinto che tutto ciò che sta accadendo è pilotato da Petrobras… A causa del super giacimento off-shore Pre-Sal di petrolio, il più grande del mondo, con favolose riserve, di altissima qualità, scoperto nel 2006 nelle nostre acque territoriali. Anche se è a grande profondità – più di seimila metri – la sua ricchezza è di dimensioni tali da giustificare tutto… Posso anche dire che la riattivazione della IV Flotta, da parte di Washington, che pattuglia lungo le coste atlantiche del Sud America, è stata decisa quando è stato scoperto il deposito Pre-Sal. Ecco perché, con Argentina, Venezuela, Uruguay, Ecuador, Ecuador, Bolivia, ecc… abbiamo creato il Consiglio di Sicurezza di UNASUR: è un elemento determinante».

«Il Brasile» continua Lula «è sempre stato un paese dominato da élite che si sono volontariamente presentate agli Stati Uniti. Solo quando siamo arrivati al potere nel 2003, il Brasile ha iniziato a giocare un ruolo di primo piano… Siamo entrati nel G-20, abbiamo fondato i BRICS (con Russia, India, Cina e Sudafrica), organizzato – per la prima volta in un paese emergente – i Giochi Olimpici, la Coppa del Mondo di calcio… Non c’è mai stata così tanta integrazione regionale in America Latina! Per esempio, i nostri scambi all’interno del Mercosur erano di 15 miliardi di dollari; quando ho finito i miei due mandati erano di 50 miliardi di dollari. Anche con l’Argentina, quando sono arrivato c’erano 7 miliardi, quando ho finito 35 miliardi. Gli Stati Uniti non vogliono che noi siamo protagonisti, che abbiamo sovranità economica, finanziaria, politica, industriale e ancor meno militare. Non vogliono, ad esempio, che il Brasile firmi accordi con la Francia sui sottomarini nucleari… Avevamo fatto progressi al riguardo, con il presidente François Hollande, ma con Bolsonaro è crollato. Anche questa miserabile dichiarazione, così spaventosamente antifemminista, contro Monique, moglie del Presidente francese Emmanuel Macron, deve essere collocata in questo contesto».

Parliamo di molti dei suoi amici che hanno ancora responsabilità politiche di alto livello in vari paesi o in organizzazioni internazionali. Ci chiede di trasmettere a tutti loro il suo ricordo più affettuoso e li ringrazia per la loro solidarietà. Insiste: «Dite che sto bene, come potete vedere. Sono consapevole del perchè sono in prigione. Lo so benissimo. Non ignoro il numero di cause contro di me. Non credo che mi libereranno. Se la Corte Suprema mi giudica innocente, ci sono già altri processi in corso contro di me, così non me ne andrò mai via da qui. Non vogliono che io sia libero per non correre alcun rischio…. Questo non mi spaventa. Sono pronto ad essere paziente. E per quanto mi riguarda, sono fortunato… Cento anni fa, sarei stato impiccato, o ucciso, o smembrato… per far dimenticare ogni momento di ribellione. Sono consapevole del mio ruolo… non ho intenzione di abdicare. Conosco le mie responsabilità verso il popolo brasiliano. Sono in prigione, ma non mi lamento. Mi sento più libero di milioni di brasiliani che non mangiano, non lavorano, non hanno un alloggio… sembra che siano liberi ma sono prigionieri della loro condizione sociale, da cui non possono uscire».

«Preferirei essere qui innocente piuttosto che colpevole… A tutti coloro che credono nella mia innocenza, dico: “Non difendermi solo con fede cieca. Leggete le rivelazioni di The Intercept”. È tutto lì, discusso, testato, dimostrato. Difendetemi con argomentazioni… preparate una narrazione, una storia… Chi non elabora una narrazione, nel mondo di oggi, perde la guerra. Sono convinto che i giudici e i pubblici ministeri che hanno messo in atto la manipolazione per imprigionarmi non dormono con la tranquillità che ho io. Non hanno la coscienza pulita. Sono innocente. Ma io non mi siedo a braccia incrociate senza fare nulla. Ciò che conta è la lotta».

Curitiba, 12 settembre 2019

Ignacio Ramonet è un accademico, giornalista e scrittore spagnolo che ha vissuto Parigi per gran parte della sua vita. É stato caporedattore di Le Monde Diplomatique dal 1991 al 2008. Tra le sue opere in italiano, segnaliamo i libri “Marcos. La dignità ribelle” (Asterios Editore, 2001), “Il mondo che non vogliamo. Guerra e mercato nell’era globale” (Mondadori, 2003), “Fidel Castro, autobiografia a due voci” (Mondadori, 2007). L’intervista in spagnolo è stata pubblicata da Cubadebate.

*Fonte: Opera Mundi

tratto da:

http://contropiano.org/news/internazionale-news/2019/09/22/cento-minuti-in-carcere-con-lula-0118931?fbclid=IwAR2T8a9TIGdwqwsHfAdJ4SRf3kfmQ3nzfxgIHH17IHhdJYQ321WRqQ-Dtjc

Egidio – Morire in carcere a 82 anni, per un reato “gravissimo”: aveva salvato un migrante! Lo hanno ucciso quei politici che si possono permettere di rubare, mentire, ingannare, corrompere… ma a cui non succede mai niente! …E i Tg MUTI…!!

 

Egidio

 

 

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Egidio – Morire in carcere a 82 anni, per un reato “gravissimo”: aveva salvato un migrante! Lo hanno ucciso quei politici che si possono permettere di rubare, mentire, ingannare, corrompere… ma a cui non succede mai niente! …E i Tg MUTI…!!

 

Muore a 82 anni, in carcere per un reato “gravissimo”

Egidio è morto il 6 settembre 2019. Era da tempo malato ma le sue condizioni si sono aggravate moltissimo negli ultimi mesi di vita.

Egidio Tiraborrelli aveva 82 anni e il 18 dicembre 2018 è stato messo in carcere per un reato accertato nel 2012 e per il quale era stato condannato in contumacia a sua insaputa. Dal carcere è uscito solo per andare in medicina d’urgenza dove oggi è morto.

Non sapremo mai se Egidio fosse al corrente di commettere un reato. Il fatto di avere aiutato una persona ad entrare in italia, per lui, emigrato in Argentina all’età di 17 anni e operaio saldatore in giro per il mondo per decenni, doveva essere una cosa normale. Raggiri a parte, s’intende, visto che neanche conosceva la persona che stava aiutando.

Fatto sta che Egidio è stato accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un reato considerato gravissimo, tanto da far entrare in carcere una persona malata di 82 anni; un reato considerato ostativo, tanto da far perdere la possibilità di misure alternative al carcere e di sottrarre addirittura la pensione.

Egidio era un vero cittadino del mondo. Lui, con alle spalle una vita di duro lavoro in giro per i deserti a saldare tubi per la Snam e per la Saipem si era adeguato con leggerezza a vivere in una casa occupata a Parma, legando benissimo con gli altri abitanti e con il vicinato, al quale offriva i prodotti dell’orto e del giardino che curava come fossero figli.

Quando aveva appena ottenuto una casa popolare per passare gli ultimi anni in serenità e un minimo di comodità è arrivato l’arresto. Egidio era ammalato ma l’abbiamo visto sereno e pimpante pochi giorni prima dell’arresto. Il carcere lo ha debilitato definitivamente.

Egidio. Morto a causa della legge, non della giustizia

La storia di Egidio Tiraborrelli, pensionato di 82, ex operaio saldatore morto in carcere, è una sassata contro chi continua a confondere la legge con la giustizia. L’anziano era stato portato in carcere a Parma in quanto condannato nel 2017 a tre anni e mezzo di carcere dal Tribunale di Ancona per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Nel 2012, avevano trovato un uomo dentro a un baule legato sopra al suo furgone, sbarcato con un traghetto dalla Grecia all’Italia. “Dopo essere stato denunciato, il mio assistito non ha più ricevuto notizie di quel procedimento perché ha cambiato domicilio dimenticandosi di comunicarlo alla magistratura”.

L’uomo è morto a 82 anni dopo avere trascorso ben 9 mesi nel carcere di Parma in compagnia di un cancro. Sembra che solo il giorno prima della sua morte, avvenuta il 6 settembre, il magistrato di Sorveglianza aveva autorizzato la detenzione domiciliare in ospedale.

Quando hanno arrestato Egidio, il suo avvocato non ha potuto che prenderne atto perché il reato per cui è stato condannato è ostativo e quindi non permetteva di evitare il carcere salvo gravi problemi di salute. Dunque il condannato viene condotto subito in carcere e le istanze per chiedere misure alternative vengono esaminate solo a qualche mese di distanza. Il suo legale l’ha presentata a maggio. Intanto ad Egidio, in quanto condannato, era stato tolto anche l’assegno assistenziale a integrazione della modesta pensione.

Ai primi di settembre, il giudice di Sorveglianza di Reggio Emilia ha scritto alla difesa che avrebbe concesso la detenzione domiciliare solo dopo le dimissioni dall’ospedale in cui era stato ricoverato. Nei giorni seguenti, dal carcere è arrivata al magistrato la comunicazione che il ricovero si sarebbe protratto vista la gravità del quadro clinico. Il 5 settembre sono stati firmati finalmente i domiciliari, in ospedale. Il suo errore è stato non avere comunicato il cambio di residenza. Se l’avesse fatto, un legale avrebbe potuto chiedere di patteggiare una pena che non comportava il carcere, vista l’età e i lunghi periodi passati in ospedale a causa del tumore. O quantomeno presentare appello, fermando così l’esecuzione della pena.

Tutte preoccupazioni che non hanno sfiorato la magistratura, prima di emettere – in automatico – l’ordine di esecuzione. Mandare in carcere, fino a morirne, un uomo di 82 malato di cancro, non è cosa che possa trovare trovare giustificazioni nascondendosi dietro norme rigide e che rivelano una ottusità burocratica, questa sì, ostativa di ogni giustizia o quantomeno di buonsenso.

“E’ la legge” risponderanno in tanti. Ma anche in questo caso chi doveva incontrare giustizia ha incontrato, purtroppo, solo la legge.

 

fonti:

http://www.labottegadelbarbieri.org/muore-a-82-anni-in-carcere-per-un-reato-gravissimo/

http://contropiano.org/altro/2019/09/12/egidio-morto-a-causa-della-legge-non-della-giustizia-0118638

Lula dalla prigione: «È stato realizzato un golpe per eliminare i diritti dei lavoratori e dei pensionati»

 

Lula

 

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Lula dalla prigione: «È stato realizzato un golpe per eliminare i diritti dei lavoratori e dei pensionati»

L’ex presidente del Brasile, attualmente imprigionato senza prove, ha rilasciato un’intervista al quotidiano cubano Granma.

Granma

Il leader operaio, l’uomo che a suo tempo come presidente del Brasile ha promosso leggi e piani sociali che hanno permesso di liberare dalla povertà circa 30 milioni di brasiliani, al quale tutti i sondaggi indicano come favorito con un ampia maggioranza per vincere le elezioni presidenziali del 2018, Luiz Inácio Lula da Silva, ha rilasciato un’intervista al Granma.

L’intervista non ha potuto essere – per ovvi motivi – ampia come avrebbe voluto il giornalista. Tuttavia, il fatto di essere imprigionato e aver dedicato una parte del suo tempo prezioso per rispondere alle nostre domande dona un valore aggiunto, non solo ai lettori cubani, ma a quelli di tutto il mondo.

Come candidato per la presidenza del Brasile con il maggior sostegno popolare e che tutti i sondaggi indicano come favorito, come valuta questa persecuzione e la reclusione a cui è sottoposto?

È un processo politico, una prigionia politica. Il processo contro di me non indica un crimine, né ci sono prove. Hanno dovuto violare la Costituzione per arrestarmi. Quello che sta diventando sempre più chiaro per la società brasiliana e per il mondo è che vogliono impedirmi di partecipare alle elezioni del 2018. Il colpo di Stato del 2016, con la rimozione di un presidente eletto, indica che non ammettono che il popolo possa votare chi preferisce.

La prigione è stata, per molti leader imprigionati per il semplice fatto di combattere per lil popolo, un luogo di riflessione e organizzazione di idee per continuare la lotta. Nel suo caso, come affronta questi giorni, dal momento che non è in grado di entrare in contatto con le persone?

Sto leggendo e pensando molto, è un momento di grande riflessione sul Brasile e soprattutto su quello che è successo negli ultimi tempi. Sono in pace con la mia coscienza e dubito che tutti quelli che mentono contro di me dormano con la tranquillità con cui dormo io.

Certo che mi piacerebbe avere la libertà e fare ciò che ho fatto per tutta la vita: il dialogo con il popolo. Ma sono consapevole che l’ingiustizia che viene commessa contro di me è anche un’ingiustizia nei confronti del popolo brasiliano.

Quanto è importante sapere che in tutti gli stati brasiliani ci sono migliaia di connazionali in favore della sua liberazione

La relazione che ho costruito nel corso dei decenni con il popolo brasiliano, con le entità dei movimenti sociali, è una relazione molto affidabile ed è qualcosa che apprezzo molto, perché in tutta la mia carriera politica ho sempre insistito nel non tradire mai quella fiducia .

E non tradirei questa fiducia per nessun denaro, per un appartamento, per niente. È stato così prima di essere presidente, durante la presidenza e dopo. Quindi, per me, quella solidarietà è qualcosa che mi emoziona e mi incoraggia a rimanere forte.

Come definire il concetto di democrazia imposto come modello dall’oligarchia per scartare i leader della sinistra e far sì che non giungano al potere?

L’America Latina ha vissuto negli ultimi decenni il suo momento più forte di democrazia e conquiste sociali. Ma di recente le élite della regione stanno cercando di imporre un modello in cui il gioco democratico è valido solo quando vincono, il che, ovviamente, non è democrazia. Quindi è un tentativo di democrazia senza popolo. Quando non viene fuori quel che vogliono, cambiano le regole del gioco per avvantaggiare la visione di una piccola minoranza. Questo è molto grave. E lo stiamo vedendo, non solo in America Latina, ma in tutto il mondo, un aumento dell’intolleranza e della persecuzione politica. È successo in Brasile, Argentina, Ecuador e altri paesi.

Quale messaggio invia a tutti coloro che, in Brasile e in tutto il mondo, sono solidali con lei e chiedono il suo rilascio immediato

Sono molto grato per tutta la solidarietà. È necessario essere solidali con il popolo brasiliano. Aumenta la disoccupazione, più di un milione di famiglie sono tornate a cucinare con la legna per l’aumento del prezzo del gas da cucina, milioni di persone che erano usciti dalla miseria non hanno più da mangiare, e anche la classe media ha perso impiego e reddito.

Il Brasile era su una traiettoria di decenni di progresso democratico, di partecipazione politica e insieme ad esso progressi sociali, che sono aumentati con i governi del PT, che ha vinto quattro elezioni di fila.

Non hanno compiuto un golpe solo contro il PT. Non mi hanno arrestato solo per fare del male a Lula. Lo hanno fatto contro un modello di sviluppo nazionale e inclusione sociale. È stato realizzato un golpe per eliminare i diritti dei lavoratori e dei pensionati, conquistati negli ultimi 60 anni. E le persone lo percepiscono. Avremo bisogno di molta organizzazione per tornare ad avere un governo popolare, con sovranità, inclusione sociale e sviluppo economico in Brasile.

(Traduzione de l’AntiDiplomatico)

tratto da: http://www.politicamentescorretto.info/2018/06/19/lula-dalla-prigione-e-stato-realizzato-un-golpe-per-eliminare-i-diritti-dei-lavoratori-e-dei-pensionati/

 

Dell’Utri, il vescovo Mogavero: “Se sta male disumano negargli il calore di una famiglia” – Ok, ora qualcuno chieda al monsignore perchè non ha parlato quando, solo quest’anno, ne sono morti 112 in carcere. Forse se uno non ha soldi e non è colluso con la mafia non è umano, ma una bestia?

 

Dell'Utri

 

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Dell’Utri, il vescovo Mogavero: “Se sta male disumano negargli il calore di una famiglia” – Ok, ora qualcuno chieda al monsignore perchè non ha parlato quando, solo quest’anno, ne sono morti 112 in carcere. Forse se uno non ha soldi e non è colluso con la mafia non è umano, ma una bestia?

 

Da Repubblica.it:

Dell’Utri, il vescovo Mogavero: “Disumano negargli il calore di una famiglia.

Il delegato Cei per il dialogo interreligioso: “Nessuno ci ha guadagnato a far morire Riina in carcere. La clemenza è sempre un atto di umanità”. 

“La grazia per Marcello Dell’Utri la si può certamente chiedere per le sue condizioni di salute, poi tocca però al Presidente della Repubblica concederla o meno. Ma negargli il calore di una famiglia, pur con tutte le garanzie di legge, nelle sue condizioni di salute, a me sembra davvero disumano”. Lo ha detto monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo e vescovo delegato per il dialogo interreligioso della Conferenza episcopale siciliana, parlando delle condizioni di salute dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, al quale il Tribunale di sorveglianza ha negato la sospensione di pena per potersi curare. “Se devo dirla tutta – aggiunge il prelato – io avrei voluto che anche Totò Riina potesse morire tra i suoi cari in casa, perché nessuno ci ha guadagnato nulla a farlo morire detenuto: Secondo me ci abbiamo perso in umanità. Perché la clemenza è sempre un atto di umanità e l’umanità è sempre superiore a qualsiasi ricerca di vendetta, comunque la si rivesta: di legalità o intransigenza”. Di avviso opposto l’arcivescovo emerito di Palermo, il cardinale Salvatore Romeo:  “Chi sono io per sostituirmi a un giudice? Le leggi si rispettano e si applicano, anche quando non ci piacciono. Credo che le procedure e le decisioni dei giudici del Tribunale di sorveglianza siano state adeguatamente documentate”.

Il dibattito è nato dopo la decisione del Tribunale di sorveglianza che ha negato la scarcerazione all’ex senatore: Dell’Utri ha annunciato, tramite i suoi legali, lo sciopero della fame e delle cure. “Preso atto della decisione del Tribunale che decide di lasciarmi morire in carcere – ha detto – ho deciso di farlo di mia volontà adottando da oggi lo sciopero della terapia e del vitto”. Ieri Forza Italia ha chiesto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella di concedere la grazia all’ex senatore.

Adesso, per monsignor Mogavero, “il giudice non ha una possibilità di eludere la norma che per lui è vincolante ma ci sono margini discrezionali anche nell’applicazione della norma. Le norme non sono una ghigliottina che taglia e basta, ma i giudici hanno sempre una forma interpretativa che permette di giostrare il rigore della norma con qualche ‘escamotage’, chiamiamolo così. Spetta all’intelligenza del giudice trovare il modo per applicarla senza evidenziarne l’aspetto del rigore estremo. Chi conosce la legge, sa bene che la legge stessa lo consente”. E ricorda: “Io sono stato nel Tribunale ecclesiastico – dice – E so che il rigore della dottrina a volte può esser coniugato con una interpretazione che guardi più al bene della persona, anziché all’affermazione teorica del primato della legge”.

Monsignor Mogavero, poi, rilancia: “Il carcere non è una vendetta. Se perdiamo di vista che il carcere serve non a vendicare la pubblica opinione per un fatto grave che l’ha colpita, ma serve per mettere in condizione, chi ha violato le leggi, di capire il male che ha fatto, e incamminarsi per un percorso di riabilitazione, se perdiamo di vista questo, allora le carceri ci sono e devono essere dure per tutti. E non devono aprirsi se non a conclusione della pena con il massimo del rigore. Se, invece, ci rendiamo conto che il carcere è un luogo di pena ma è anche un luogo dove ci sono delle persone e non dei mostri, o delle belve, perché nessuno è belva, neppure chi si è macchiato del delitto più grave”. Il vescovo ha un’opinione netta:  “Io, come uomo, dico che il carcere è un luogo terribile. Non so se tra quelli che hanno atteggiamenti oltranzisti siano mai entrati in un carcere. Io rimango molto colpito, ad esempio, dal rumore terribile delle chiavi che girano. E poi – aggiunge – i volti dei detenuti sono i volti delle persone che incontriamo tutti i giorni. E quando li vedo partecipare a messa o quando li sento parlare alla fine della messa, mi rendo conto che è una umanità ferita che ha bisogno di amore e non di sferzate continue”.

 

fonte: http://palermo.repubblica.it/cronaca/2017/12/09/news/dell_utri_mogavero_apre_alla_grazia_disumano_negarli_il_calore_di_una_famiglia_-183569745/

Dell’Utri dal carcere: “Io sono un prigioniero politico”…Ma era più credibile quell’altro “mafioso” che chiedeva una morte dignitosa

Dell’Utri

 

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Dell’Utri dal carcere: “Io sono un prigioniero politico”…Ma era più credibile quell’altro “mafioso” che chiedeva una morte dignitosa

Dell’Utri dal carcere tifa larghe intese: “Sarebbe auspicabile un patto nazionale Pd-Fi. Io sono un prigioniero politico”

L’ex senatore di Forza Italia, condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno a Cosa nostra, torna a parlare direttamente da Rebibbia. “Se non ci fosse Berlusconi? L’unica via è Renzi. Sarebbe auspicabile un patto intelligente ma non è possibile: il Paese non lo capisce. I 5 Stelle? Per me sono un mistero”, ha detto l’ex parlamentare intervistato da In Onda

Un governo a larghe intese, nato da un “patto intelligente” tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi? “Sarebbe auspicabile, solo che il Paese non lo capirebbe”. Parola di Marcello Dell’Utri, l’ex senatore e fondatore di Forza Italia, condannato in via definitiva a sette anni di carcere per concorso esterno a Cosa nostra, che è tornato a parlare direttamente dal carcere di Rebibbia. “Io non sono un detenuto come gli altri, ma un detenuto politico, anzi un prigioniero politico: è la parola che più mi si addice”, dice l’ex senatore intervistato da David Parenzo di In Onda su La7.

Il fondatore di Forza Italia ha incontrato il giornalista con due bende ben in vista sulle braccia, frutto di una recente operazione chirurgica. “La mia cardiopatia è incompatibile con la detenzione”, sentenzia Dell’Utri che –  come anticipato dal ilfattoquotidiano.it nel settembre scorso – punta ad ottenere gli arresti domiciliari per motivi di salute: sul suo caso il tribunale del riesame si esprimerà il prossimo 13 luglio.

Intervistato da Parenzo (con il direttore del fattoquotidiano.itPeter Gomez, collegato con lo studio dalla redazione di Milano) Dell’Utri ha parlato di un po’ di tutto, anche del nostro giornale. “Sul Fatto Quotidiano ho fatto una battaglia: non lo vendevano qui in carcere. Ho fatto una domanda alla direzione: non mi hanno risposto. L’ho fatta un’altra volta: anche qui niente.  Non avendo ricevuto risposta ho scritto al direttore del giornale chiedendo d’intervenire. Io non sono un estimatore del Fatto ma un lettore sì“, ha raccontato l’ex senatore spiegando di vedere anche la televisione in cella. “Ho la tv con tutti i canali importanti ma non mi diverte guardarla. Mi piace guardare la pubblicità, che è lo specchio dei tempi”, dice Dell’Utri fondatore ed ex presidente diPublitalia ’80.

Ovviamente l’uomo che fondò Forza Italia nel lontano 1993 continua a seguire la politica anche da detenuto. “Il dibattito politico mi diverte. I 5 Stelle? Non rispondo, per me sono un mistero. Ci sono due partiti: chi non vota e chi vota i 5 Stelle. Come governano? Diciamo che governano è termine generico per loro. Berlusconi è incredibile: non si spezza mai. Se non ci fosse Berlusconi? L’unica via è Renzi. All’inizio l’ho visto bene ma poi ha deluso”, sono alcuni dei concetti espressi da Dell’Utri, che poi ha auspicato un governo a larghe intese.  “Sarebbe auspicabile un patto nazionale intelligente ma non è possibile: il Paese non lo capisce”.

fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/07/05/dellutri-dal-carcere-tifa-larghe-intese-sarebbe-auspicabile-un-patto-nazionale-pd-fi-io-sono-un-prigioniero-politico/3710358/

Ancora sotto accusa per associazione a delinquere, è appena uscito dal carcere, ma per lui si spalancano le porte del Parlamento… W L’ITALIA…!!!

associazione a delinquere

 

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Ancora sotto accusa per associazione a delinquere, è appena uscito dal carcere, ma per lui si spalancano le porte del Parlamento… W L’ITALIA…!!!

Laboccetta torna alla Camera 6 mesi dopo il carcere: “Sofferenza finita”. Per i pm è uomo di fiducia di Corallo, re delle slot

L’ex An di nuovo parlamentare dopo le dimissioni di Calabrò (Ap). E’ ancora sotto accusa per associazione a delinquere transnazionale. Di Battista lo affronta nel cortile di Montecitorio: “Se possibile la qualità di questo posto peggiora ulteriormente”. Anche Fratelli d’Italia vota contro il suo ritorno: “La politica ha bisogno di credibilità”

Il ritorno di Amedeo Laboccetta. A meno di un anno dalla fine della legislatura, dopo l’arresto per il caso Corallo, l’ex parlamentare di An torna in Parlamento. Alla Camera Laboccetta – protagonista anche nella storia della casa di Montecarlo di Gianfranco Fini – prenderà il posto di Raffaele Calabrò, fin qui deputato di Alternativa Popolare. L’assemblea ha votato a favore delle dimissioni di Calabrò (268 sì, 115 no) perché è stato nominato rettore dell’università Campus Biomedico di Roma. “Lascio la vita parlamentare con la consapevolezza che non che è vero che tutto è casta – ha detto Calabrò in Aula chiedendo ai colleghi di accettare le dimissioni – ma che sono tanti i colleghi seduti qui che hanno ancora l’idea che un parlamentare sia innanzitutto una persona delle istituzioni, un portatore delle istanze della società civile, del proprio mondo”.

Non è chiaro a quale gruppo si iscriverà Laboccetta, perché come tutti gli ex An è stato eletto nel Pdl. “Io ho sempre praticato la coerenza – dice a Radio Radicale – Sono stato eletto nella precedente legislatura nel gruppo del Popolo delle libertà. E mi sono ricandidato nello stesso gruppo nel 2013. Quindi resto dov’ero”. Laboccetta è stato arrestato il 13 dicembre per l’inchiesta della Procura di Roma su una associazione a delinquere transnazionale che, secondo l’accusa, riciclava i proventi sul mancato pagamento delle imposte sul gioco on line. Laboccetta resta comunque indagato: è ritenuto un uomo vicino a Francesco Corallo, il cosiddetto “re delle slot”. L’ordinanza a suo carico è stata poi annullata dal tribunale del Riesame dopo due settimane.

In un’altra inchiesta, nel 2011, Laboccetta era stato accusato di favoreggiamento e alla fine fu assolto. Nel frattempo però durante una perquisizione della Guardia di Finanza, approfittando del suo ruolo di parlamentare, portò via un pc e così per le fiamme gialle fu impossibile sequestrarlo. Servì la richiesta dei pm, un’istruttoria della giunta per le autorizzazioni e una prima relazione della giunta perché Laboccetta desse – di sua sponte – il pc alla Finanza.

Infine, nei mesi scorsi, è stato decisivo per il coinvolgimento dell’ex presidente della Camera Gianfranco Fini – di cui in passato era stato un fedele sostenitore – nell’inchiesta sulla casa di Montecarlo.

“Io sono una persona molto tranquilla – dice Laboccetta – Vivo la politica da quando avevo 16 anni. Quindi sono anche abituato a momenti di sofferenza. Spero che questi momenti siano terminati. La mia è stata un’esperienza dura“. In merito agli attacchi che potrebbe subire dagli altri gruppi parlamentari per il suo ritorno a Montecitorio, Laboccetta afferma: “Quando sono entrato in Aula, nessuno mi ha detto nulla. Se poi questo succederà nei prossimi giorni ne prenderemo atto”.

Un piccolo assaggio c’è già stato: un confronto con Alessandro Di Battista, deputato dei Cinquestelle. “Noi del Movimento 5 stelle non le mandiamo a dire – racconta Di Battista sempre a Radio Radicale – Quando ho visto Laboccetta (nel cortile di Montecitorio, ndr) gli ho detto che mi sentivo indignato della sua presenza in Parlamento dopo che era stato in carcere. Lui mi ha risposto che queste sono minacce mafiose. E io gli ho risposto che lui evidentemente le minacce mafiose le conosce bene”. Con l’ingresso di Amedeo Laboccetta alla Camera, scrive il gruppo M5s a Montecitorio in una nota, “si riesce a peggiorare ulteriormente la qualità della composizione di questo Parlamento”.

Tra chi ha votato contro le dimissioni di Calabrò per non far entrare in Parlamento Laboccetta è stato il gruppo dei Fratelli d’Italia: “Abbiamo ritenuto necessario – dice Fabio Rampelli, il capogruppo del partito della Meloni alla Camera – garantire a questo Parlamento la massima trasparenza e credibilità di fronte ai cittadini. Auguriamo all’onorevole Laboccetta di risolvere al meglio i suoi problemi giudiziari e riteniamo che solo dopo possa rientrare a Montecitorio senza macchia e, quindi, dalla porta principale”.

tratto da: https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/06/28/laboccetta-torna-alla-camera-6-mesi-dopo-il-carcere-sofferenza-finita-per-i-pm-e-uomo-di-fiducia-di-corallo-re-delle-slot/3694371/

È IGNOBILE – Da Alfano a Mattarella, tutti sul carro del vincitore per Provvisionato libero. Fino a ieri chi lo conosceva? Abbandonato dallo Stato e sparito dai Tg, come altri 3.300 ITALIANI DETENUTI ALL’ESTERO… Finchè qualcuno, chissà come, viene liberato. E allora è un loro trionfo!!

Provvisionato

 

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È IGNOBILE – Da Alfano a Mattarella, tutti sul carro del vincitore per Provvisionato libero. Fino a ieri chi lo conosceva? Abbandonato dallo Stato e sparito dai Tg, come altri 3.300 ITALIANI DETENUTI ALL’ESTERO… Finchè qualcuno, chissà come, viene liberato. E allora è un loro trionfo!!

 

Da Repubblica

Cristian Provvisionato è libero. Alfano: “Sta tornando in Italia”. Mattarella: “Gran risultato”

Detenuto in Mauritania dal 2015 con l’accusa di truffa informatica. Il premier Gentiloni ringrazia il presidente Mohamed Ould Abdel Aziz per la liberazione, “segno dell’amicizia verso l’Italia”. La felicità della madre, il legale della famiglia: “Chiarire i tanti aspetti ancora oscuri”

 

Insomma ora Alfano, Gentiloni, perfino Mattarella… I nostri politici si azzuffano pur di salire sul carro dei vincitori.

Ma fino a ieri chi era Provvisionato? Un assoluto sconosciuto. La sua storia era ben nascosta come quella di altri 3.300 Italiani prigionieri all’estero.

Non ci farebbero una bella figura i nostri politici. Per cui SILENZIO ASSOLUTO. A meno che qualcuno venga liberato. Allora è merito loro, ‘ste carogne!

Ecco uno dei tanti articoli in merito reperiti in Rete (fonte Tpi.it)

I CITTADINI ITALIANI IMPRIGIONATI ALL’ESTERO E DIMENTICATI DALLO STATO

Sono 3.288 gli italiani detenuti all’estero, di cui 2.576 in attesa di giudizio e non sempre si hanno informazioni sul trattamento che ricevono in prigione

prescindere dallo status di colpevolezza o innocenza, esistono dei diritti fondamentali della persona che non possono essere violati. Scendiamo in piazza per lo stato delle carceri italiane e non ci preoccupiamo della situazione degli italiani prigioneri all’estero”. Lo dice a TPI Katia Anedda, fondatrice dell’associazione “Prigionieri del Silenzio” che si batte da oltre otto anni per i diritti dei detenuti in terra straniera.

Il caso del blogger e documentarista Gabriele del Grande trattenuto in Turchia ha riacceso l’attenzione su quegli italiani che, per i motivi più svariati, vengono privati della libertà e rinchiusi nelle carceri di paesi che hanno politiche carcerarie molto diverse da quella italiana.

Il problema principale è che attualmente esistono 3.288 italiani detenuti all’estero, di cui 2.576 in attesa di giudizio. Non sempre si riesce ad avere rassicurazioni circa le loro condizioni e il trattamento che viene riservato loro.

Secondo l’ultimo censimento (giugno 2016 con riferimento al dicembre 2015) del Dipartimento del Ministero degli Affari esteri (Dgit) che si occupa degli italiani all’estero, i nostri connazionali attualmente rinchiusi in prigioni straniere è ripartito tra 687 condannati, 2.576 in attesa di giudizio o con procedimenti di appelli in atto, 34 in attesa di estradizione.

 

Katia Anedda ha iniziato nel 2008 a battersi per i diritti dei detenuti all’estero fondando l’Associazione Prigionieri del Silenzio, dopo che il suo ex convivente, Carlo Parlanti, era stato accusato di stupro e in seguito condannato a 9 anni di reclusione negli Stati Uniti.

“L’associazione è nata dopo che il mio compagno era stato arrestato in Germania per una richiesta degli Stati Uniti. Mi sono ritrovata all’inferno” – racconta Katia – “nemmeno sapevo cosa fosse un consolato e ho avuto moltissime difficoltà a mettermi in contatto con gli avvocati e a ottenere giustizia. Nonostante gli sforzi ci sono voluti più di otto anni che Carlo ha scontato nonostante la sua innocenza”.

La battaglia di Katia ha lo scopo di rendere più agevole il percorso di assistenza legale a queste persone che spesso si trovano in condizione di grande difficoltà.

“Il problema reale delle persone che vengono incarcerate all’estero è la distanza, la lingua spesso complessa da capire e da parlare, l’impossibilità di essere seguiti da un legale di fiducia o di poter comunicare con i propri parenti, i quali, a loro volta, sono costretti a ingenti spese di viaggi e traduttori per non far sentire abbandonati i propri cari”, spiega Anedda.

Non si discute quindi dell’innocenza o della colpevolezza dei detenuti, ovviamente, ma si accende una luce sul modo in cui si guarda a queste persone: “Molto spesso vengono dimenticate perché si pensa con leggerezza che se sono in carcere se lo sono meritato. Non è sempre così, però, e questo non giustifica mortificazioni, eventuali violenze o privazioni della dignità personale”, ripete la presidente.

“Anche quando è stato commesso un reato, la prigione deve togliere la libertà di reiterare l’illecito, ma non deve togliere la dignità o, peggio, infondere la paura di non uscirne vivo: sensazioni che i detenuti provano soprattutto nelle prigioni del Sudamerica, dell’Africa, della California”, precisa Anedda.

Fin quando si ha un parente che è detenuto in una prigione in Europa, la situazione è più semplice da gestire, ma quando la persona si trova nel Sudamerica, negli Stati Uniti, in Africa, inizia ad essere pesante sia dal punto di vista economico che della lingua. Inoltre, diverse ambasciate italiane nel mondo risultano chiuse.

“Non c’è la giusta forza economica da parte del governo e forse nemmeno la capacità di seguire queste persone, non c’è molto interesse”, racconta Anedda, “sembrano troppo spesso lasciati al loro destino perché colpevoli di essere finite in carcere”.

“La famiglia ha difficoltà a interagire con gli avvocati e, d’altro canto, l’ambasciata non è stimolata dalla famiglia ad essere proattiva: se devi capire al meglio la situazione occorrono molti soldi. Io per farlo mi sono fatta un sacco di debiti”, precisa la fondatrice della onlus.

Ma le difficoltà non riguardano solo i familiari, anche gli avvocati che seguono le cause spesso non sanno come affrontare le situazioni giuridiche più controverse, in paesi dove il diritto non è applicato come in Italia: i gradi di giudizio sono diversi ed è difficile controllare l’operato degli avvocati locali a distanza. I consolati non hanno nemmeno la forza economica di essere presenti nelle prigioni, spesso situate lontane dai consolati”, spiega Anedda.

I casi pubblici

Il numero dei cittadini italiani che attualmente stanno scontando una pena in un carcere straniero è molto alto se si considera anche il numero delle persone, amici o familiari, che gravitano intorno al detenuto e che devono seguirne le vicende. Di questi, alcuni casi sono più noti alle cronache dei giornali, altri restano nel buio, spesso per volontà dei familiari che non vogliono esporre alla pubblica gogna i propri cari o che intendono tutelarsi da eventuali ritorsioni.

I casi

Enrico Forti, condannato nel 2000 negli Stati Uniti per omicidio, si è sempre proclamato innocente.

Angelo Falcone e Simone Nobili, due ragazzi che sono stati in carcere tre anni in India con l’accusa di traffico di stupefacenti, sono stati assolti nel 2009. Avevano firmato un documento di autoaccusa in lingua hindi.

Roberto Berardi, imprenditore di Latina, incarcerato in Guinea equatoriale, è stato liberato il 9 luglio del 2015. Dal carcere aveva inviato le foto delle torture subite in prigione.

Carmine Sciaudone in Indonesia

Filippo e Fabio Galassi in Guinea equatoriale

Cristian Provvisionato è stato bloccato in Mauritania dall’agosto 2015 per una presunta truffa informatica subita dal governo locale da alcune società che vendono software-spia. La madre  Doina Coman, il 22 aprile ha iniziato una marcia di 250 chilometri da Siena verso Roma sulla via Francigena per richiamare l’attenzione sul caso del ragazzo trattenuto. “Mio figlio è prigioniero in Mauritania da 20 mesi, il ministero degli Esteri deve fare qualcosa per riportarlo in Italia. Ha perso trenta chili e dal primo maggio scatta lo sciopero della fame. Lo stato si muova per evitare un altro caso Regeni. Un’ulteriore salma da riportare in patria”, ha raccontato ai microfoni della stampa prima di lasciare Siena.

 

L’Italia Paese corrotto? Non si direbbe, visto che in carcere abbiamo solo 228 detenuti per reati finanziari. O forse questa è l’ennesima prova che le carogne che ci governano pensano solo ai cazzi loro ed a fare leggi per evitare la galera?

 

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L’Italia Paese corrotto? Non si direbbe, visto che in carcere abbiamo solo 228 detenuti per reati finanziari. O forse questa è l’ennesima prova che le carogne che ci governano pensano solo ai cazzi loro ed a fare leggi per evitare la galera?

Abbiamo la classe politica più corrotta d’Europa, ma solo 228 detenuti per reati finanziari. Visto come sono bravi a farsi le leggi a cazzi loro? 

L’Università di Losanna e lo stato delle carceri: in Italia lo 0,6 % in cella per crimini contro la Pubblica amministrazione.

Corrotti e corruttori, riciclatori, falsificatori di bilanci ed evasori fiscali anche seriali farebbero bene a trasferirsi in Italia: è difficilissimo finire in cella. Solo lo 0,6 % della popolazione carceraria italiana infatti sconta pene definitive per reati di questo tipo, un abisso rispetto agli altri Paesi dell’Europa occidentale. È uno dei dati conteggiati (al 1° settembre 2014) dall’Istituto di Criminologia e diritto penale dell’Università di Losanna, che ogni anno, per conto del Consiglio d’Europa, fotografa la situazione carceraria di 47 Paesi.

Il professor Marcello Aebi, dell’ateneo svizzero, con altri due docenti, analizzando il sistema penitenziario europeo ha registrato una diminuzione dal 2011 a oggi del sovraffollamento delle carceri: la densità delle carceri è scesa da 96 detenuti ogni 100 posti nel 2013, a 94 nel 2014. Il tasso della popolazione carceraria quindi è diminuito del 7% nel 2014 rispetto all’anno precedente, passando da 134 a 124detenuti ogni 100 mila abitanti.

L’Italia resta uno dei Paesi con le carceri più sovraffollate d’Europa, ma la situazione migliora: si posiziona all’11º posto, con 110 detenuti (nel 2013 erano 148) per 100 posti disponibili nel 2014.

Da 3 a 9 metri quadri per ogni arrestato

Rispetto ai 54.252 detenuti negli istituti penitenziari italiani registrati al 1° settembre 2014, i numeri sarebbero ancora diminuiti: al 28 febbraio 2016 – stando a fonti del ministero della Giustizia – si contano49.504 posti. Sono inoltre 8.796persone detenute in attesa di una sentenza di primo grado. Numeri che entusiasmo il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ieri ha twittato: “L’Italia da maglia nera per sovraffollamento carceri diventa modello per altri Paesi. Oggi #Cedu chiude il caso e apprezza nostre riforme”. Il riferimento è alla decisione del comitato dei ministri della Corte europea dei Diritti dell’uomo che proprio ieri ha deciso di chiudere l’esame dei casi Torreggiani e Sulejmanovic, le due sentenze che hanno imposto all’Italia, nel 2009 e nel 2013, stringenti direttive sugli spazi nelle celle, meno di 3 metri quadri a persona.

Nella risoluzione il comitato dei ministri “accoglie con favore la risposta data dalle autorità italiane con l’introduzione di importanti riforme per risolvere il problema del sovraffollamento”. Anche l’indagine “Space I” riporta la superficie in metri quadri destinata a ciascun detenuto, fissandola per l’Italia a 9 metri quadri, contro gli 11della Francia, per fare un esempio.

“Le condanne arrivano
solo in primo grado”

Ma nella relazione dell’Università c’è un dato che spicca: In Italia si va poco in carcere per reati “finanziari ed economici”, voce che – spiegano dal Consiglio d’Europa – comprende anche i detenuti per corruzione e reati contro la Pubblica amministrazione.

Fino al settembre 2014 quindi si contano solo 228 detenuti, con sentenza definitiva, per reati “economici e finanziari”. È appena lo 0,6%. Un numero drasticamente inferiore a quello della Spagna che su 65.931detenuti conta per questi reati 1.789 persone, ossia il 3,1 % della popolazione carceraria. O anche alla Germania dove la percentuale ammonta all’11,8 %.

Il fenomeno, come dice il procuratore aggiunto di Torino Vittorio Nessi, è dovuto a due fattori: la prescrizione per i reati tributari e le pene alternative per tutti gli altri, come la bancarotta. “Sui reati tributari – afferma Nessi – pesa la prescrizione: 7 anni e mezzo sono troppo pochi rispetto ai tempi della giustizia. Nel nostro sistema inoltre con condanne fino a due anni di reclusione si può godere della sospensione della pena; fino a tre anni di reclusione ci sono invece sanzioni alternative come l’affidamento in prova ai servizi sociali. Prevista inoltre come esecuzione della pena anche la detenzione domiciliare”.

Non solo i reati finanziari. Come spiega al Fatto, l’autore dell’indagine “Space I” il professor Marcelo Aebi anche per i reati contro la Pubblica amministrazione, il problema è la prescrizione.

da Il Fatto Quotidiano del 09/03/2016.