14 luglio del 1948 – Settantuno anni fa l’attentato a Togliatti e l’Italia sull’orlo dell’insurrezione

 

 

attentato a Togliatti

.

.

SEGUICI SULLA PAGINA FACEBOOK Banda Bassotti

.

.

 

14 luglio del 1948 – Settantuno anni fa l’attentato a Togliatti e l’Italia sull’orlo dell’insurrezione

Settantunesimo anniversario dell’attentato a Togliatti: 14 luglio 1948. E’ ancora il caso ricordare quel fatto perché non si smarrisca la memoria di uno degli snodi più importanti nella storia d’Italia del secondo dopoguerra.

L’attentato al segretario del PCI, Palmiro Togliatti, scosse profondamente l’Italia e il mondo, in una fase di fortissima contrapposizione fra le due grandi potenze, quella americana e quella sovietica, che avevano appena avviato il confronto della “guerra fredda”.

La fase registrava anche un’assoluta fragilità della democrazia italiana, appena ricostruita dopo i vent’anni del fascismo e la tragedia della guerra attraverso il lavoro dell’Assemblea Costituente.

Il 18 Aprile di quello stesso 1948 si erano svolte le elezioni per la I legislatura repubblicana in conclusione di una tesissima campagna elettorale che aveva visto contrapposti la visione “liberal-atlantica” della Democrazia Cristiana, appoggiata dalla Chiesa Cattolica che usò tutte le sue possibili sfere d’influenza, e il Fronte Democratico Popolare, formato da comunisti e socialisti.

Il risultato delle urne aveva assegnato la maggioranza assoluta alla DC, in un clima di rivendicazioni sociali molto forti dettate dalle precarie condizioni di vita di gran parte della popolazione.

La frattura provocata nel Paese dal voto del 18 aprile si stava rivelando in tutta la sua gravità e non contribuì ad attenuarla l’elezione del Presidente della Repubblica.

Nelle settimane successive l’attenzione del Parlamento fu polarizzata dalla ratifica dell’accordo con gli Stati Uniti relativo al Piano Marshall siglato a Roma il 28 giugno.

Nella discussione generale alla Camera Togliatti intervenne il 10 luglio con un discorso nel quale si sottolineava come quell’accordo prevedesse una serie d’impegni che: “oltre ad aprire prospettive di stentata vita economica e di lenta degradazione della nostra economia, rappresentavano un pericolo per l’indipendenza nazionale perché legavano l’Italia alla politica di guerra dei gruppi dirigenti imperialisti degli Stati Uniti”.

Il passo del discorso di Togliatti che fece più scalpore recitava: “Alla guerra imperialista si risponde oggi con la rivolta, con l’insurrezione in difesa della pace, dell’indipendenza, dell’avvenire del proprio Paese”.

Tre giorni dopo un editoriale del quotidiano socialdemocratico “La Giustizia”, siglato dal suo direttore Carlo Andreoni, bollando la “jattanza con la quale il russo Togliatti parla di rivolta”esprime la certezza che “il governo della Repubblica e la maggioranza degli italiani avranno il coraggio, l’energia, la decisione sufficiente per inchiodare al muro del tradimento Togliatti e i suoi complici. E per inchiodarveli non metaforicamente”.

Questa prosa virulenta sarà giustamente giudicata emblematica del clima in cui maturò l’attenta di Pallante, attentato del quale in questa sede si tralascia di riportare i particolari di cronaca per rivolgere il massimo dell’attenzione ai risvolti più propriamente politici.

Alla notizia dell’attentato a Togliatti la reazione della base comunista fu immediata.

Portato al Policlinico Togliatti fu sottoposto a un delicatissimo intervento da parte del professor Valdoni: a metà pomeriggio il segretario del PCI aveva già ripreso conoscenza, ma per diversi giorni la sua vita resterà comunque appesa a un filo, anche per via di gravi complicazioni polmonari.

E’ il caso comunque, a distanza di settant’anni di riprendere il filo del ragionamento politico.

A distanza di tanti anni è ancora il caso di rivolgersi una domanda: si verificò davvero il rischio di arrivare alla guerra civile e, soprattutto, quale fu l’esito sul piano politico al riguardo delle prospettive in quel momento della situazione italiana?

Lo sciopero generale che seguì la notizia dell’attentato a Togliatti è stato giudicato da autorevoli osservatori come “lo sciopero generale più completo e più esteso che si sia mai avuto nella storia d’Italia” (Sergio Turone: Storia del Sindacato in Italia 1943-1969. Dalla Resistenza all’autunno caldo. Laterza 1973.)

La base comunista aveva interpretato, senza esitazioni, l’attentato a Togliatti come l’atto estremo di una reazione volta a cancellare il PCI: gli altri si chiusero in casa e le forze dell’ordine apparvero, subito, prive di ordini precisi.

Antonio Pallante, l’attentatore fu subito arrestato.

I rapporti riservati della polizia, che l’ambasciata USA a Roma ha potuto esaminare, lo descrissero come un isolato fugando immediatamente il sospetto di una trama più vasta. Al processo Pallante dichiarò: “ Sul giornale del PSLI Togliatti era descritto come un uomo infausto, pericoloso per l’Italia, da “inchiodare al muro”. E il capo del PCI annunciava di essere pronto a prendere a calci De Gasperi. Ecco, esaltato da tutto questo, decisi di eliminare il pericolo” (intervista di Antonio Pallante, rilasciata a Pino Aprile di “Oggi” il 19 maggio 1988).

Processato nel luglio 1949 e condannato a 13 anni, Pallante uscì dal carcere nel dicembre 1953 e tornò a Catania dove trovò lavoro come guardia forestale.

La notizia dell’attentato a Togliatti rimbombò immediatamente in Parlamento, cogliendo tutti di sorpresa.

Secchia e Longo seguirono Togliatti al Policlinico. Non ci fu bisogno di proclamare lo sciopero generale, che partì spontaneamente anche nelle sedi più periferiche, esterne al gruppo dirigente centrale, come emerge dalle testimonianze inserite nel volume di Gozzini e Martinelli: “Storia del Partito Comunista Italiano: dall’attentato a Togliatti, all’VIII Congresso” (Einaudi, 1998).

Sull’onda di questo quadro, apparentemente tumultuoso e incontrollabile, la Direzione del PCI si riunì in un clima di grande incertezza derivante non soltanto dalle condizioni fisiche di Togliatti, ma anche e soprattutto al riguardo delle valutazioni inerenti il tipo di attacco cui era sottoposto, in quel momento, il Partito.

Emerse subito un orientamento unitario: quello di una risposta forte ma ordinata, che predisponesse una linea di difesa organizzativa e militare contro ogni tipo di aggressione.

Una seconda linea di dirigenti (Barontini a Livorno, Pellegrini a Venezia, Spano a Genova) fu inviata nelle situazioni che si annunciavano come le più difficili.

Fu emesso un comunicato chiedendo le dimissioni del governo e Ingrao preparò per l’Unità un titolo “Via il governo della guerra civile”: entrambi gli atti sottolineavano, oggettivamente, il carattere pacifico della protesta.

Al tempo stesso la non definizione di obiettivi immediati fu testimoniata dallo stesso comunicato con cui la CGIL proclamò ( a posteriori) lo sciopero generale “in attesa di ulteriori disposizioni”.

A spingere verso la moderazione ci fu, senza dubbio, anche la stessa voce di Togliatti all’atto del ferimento: il suo invito a stare calmi e a non perdere la testa.

La Camera si riunì in una tempestosa seduta, nel corso della quale De Gasperi espresse la preoccupazione e l’ansia per “l’atmosfera di odi e di risentimenti, che l’esecrando attentato avrebbe potuto innescare”.

La ricostruzione della geografia del moto popolare che scosse, in quel momento, l’Italia appare come una geografia frastagliata e , di conseguenza, di per stessa significativa.

Secondo i dati esposti dal ministro dell’Interno Scelba, nella seduta del Senato del 20 luglio, il bilancio complessivo degli scontri contò 16 morti ( 7 civili e 9 agenti di polizia) e oltre duecento feriti, concentrati nelle maggiori realtà urbane del Centro-Nord, con la vistosa eccezione del paese di Abbadia San Salvatore, alle pendici del monte Amiata.

Al Sud si verificarono scontri tra dimostranti e polizia a Napoli, Salerno e Taranto, tentativi di blocco del traffico a Cagliari, manifestazioni e scioperi riusciti a Cosenza, Vibo Valentia, Crotone, Messina e Sassari; le sedi della DC furono devastate a Foggia, Lecce, Messina, Matera e Salerno.

Il quadro fornito dal Mezzogiorno è quello di un movimento di protesta non particolarmente organizzato, che non prende di mira i centri del potere istituzionale.

Diverso è il quadro delle città del triangolo industriale: Genova, che rappresentò il caso estremo, fu isolata fin dalle prime ore del pomeriggio da una serie di posti di blocco nelle principali vie d’accesso all’abitato: apparve chiaro il dispiegarsi di un’attività coordinata di presidio del territorio organizzato per difendere la Città da attacchi esterni: una struttura di ordini e di comando elaborata in caso di colpo di Stato, quindi in funzione difensiva (cfr: “Paride Rugafiori, in AA:VV “ Genova, il triangolo industriale tra ricostruzione e lotta di classe 1945 – 1948” Feltrinelli 1974).

A Milano, Torino, Venezia, l’esistenza di questo piano di difesa appare avvalorata dall’immediata occupazione delle fabbriche più importanti :alla Fiat rimane al suo posto, nella fabbrica occupata, anche il presidente Valletta.

Blocchi stradali comparirono anche alla periferia di Roma e nelle campagne toscane; i binari delle ferrovie furono interrotti a Foligno, Fidenza, Massarosa.

Il grosso delle azioni offensive verso le sedi di partiti di governo si verificarono nella notte tra il 14 e il 15 Luglio a Roma, Viterbo, Udine, Forlì, Reggio Emilia, Ferrara, La Spezia, Pistoia, Savona, Cesena, Venezia, Varese, Civitavecchia, Padova e Perugia.

A Piombino fu assaltata la caserma dei carabinieri e quella della guardia di finanza chiedendo la consegna delle armi e a Busto Arsizio si tentò, senza successo, un assalto alle carceri nelle quali erano rinchiusi partigiani condannati per atti di guerra.

La mattina del 15 Luglio la CGIL, con DI Vittorio appena rientrato dalla Conferenza Internazionale del lavoro di San Francisco, si incontrò con De Gasperi aprendo la trattativa per il rientro dallo sciopero.

L’esecutivo della Confederazione, assente la componente democristiana che stava già preparando la scissione “liberina”, emise un comunicato fissando la fine delle agitazioni per il mezzogiorno del 16 Luglio : l’ordine fu eseguito anche se, in particolare a Milano e Torino, la “normalizzazione” incontrò serie difficoltà.

A sciopero finito la Direzione del PCI rivolse un nuovo appello per cercare un equilibrio tra la valorizzazione della combattività delle masse e la preoccupazione di rientrare nell’ambito di una politica costituzionale.

E’ questo il punto politico “vero” di questa vicenda, sul quale è il caso, ancor oggi, di soffermarsi nell’analisi.

La domanda è questa : si può sostenere, sulla base di ciò che avvenne attorno a quel drammatico 14 Luglio 1948, che si ebbe una “delle maggiori dimostrazioni della “doppiezza” comunista intesa non solo come duplicità di impostazioni tattico – strategiche, ma anche proprio come scontro di linee tra anime diverse del partito?” (tesi sostenuta da diversi autori, da Pinzani a Di Loreto a Simona Colarizi).

Nell’emergenza drammatica del Luglio 1948 il gruppo dirigente del PCI si dimostrò unito dimostrando come, nei tempi brevi della politica, il partito fosse legato prima di tutto a una sostanziale adesione alle regole e ai meccanismi di funzionamento della Costituzione repubblicana.

La dimostrazione di questa unità da parte del gruppo dirigente del PCI non fu comunque esente da frizioni che certamente avrebbero avuto, in seguito, un peso nella vita interna del partito e che non possono essere sottaciute.

E’ innegabile che, da quel frangente, il sistema politico restasse diviso da una profonda linea di frattura suscitata dal sospetto reciproco sulle intenzioni antidemocratiche dell’avversario: una linea di frattura che riprendeva e allargava quella più generale determinata dalla guerra fredda e dalla logica dei blocchi.

La contraddizione più significativa che era emersa, però, da quelle giornate riguardava invece il complesso della cultura politica patrimonio del Partito.

In quell’occasione però prevalse chiaramente la linea, il cui concretizzarsi rappresentava la massima preoccupazione di Togliatti, quella della “legittimazione nazionale del Partito”, quella del suo pieno inserimento nei gangli del meccanismo sociale, politico, istituzionale, per far vivere davvero il “partito nuovo” e porlo al riparo dal rischio di un inasprirsi secco della repressione poliziesca e delle possibili richieste – addirittura – di “messa fuori legge” (sono anche i mesi dell’anatema lanciato verso i militanti comunisti dalla Chiesa Cattolica).

Il punto forte d’aggancio per la “legittimazione nazionale” del PCI era rappresentato dalla Costituzione.

La Costituzione, alla cui stesura i parlamentari comunisti avevano fornito un fondamentale contributo, costituiva un argine contro la tendenza all’arroccamento.

La Costituzione intesa come punto d’approdo non parziale e transitorio anche al riguardo della “doppiezza”.

L’esito più importante di quella tormentata stagione fu dunque rappresentato da un’espressione piena di lealismo costituzionale da parte comunista, attraverso il quale si esprimeva un’indubbia radice di integrazione nella democrazia repubblicana.

Una tappa significativa del processo di acculturazione democratica del PCI posto al centro di un complesso ed anche contradditorio processo di lungo periodo, come tutti quelli che si verificano nella sfera della cultura collettiva.

Un principio, quello della piena integrazione nella realtà politica formatasi attorno al detto costituzionale,  dimostratosi saldamente acquisito come si verificherà nel futuro, in altri difficili frangenti come quelli del ’53 con la “legge truffa” , del ’56 con il verificarsi quasi contemporaneo del XX congresso del PCUS  e dei fatti d’Ungheria, del ’60 con i fatti del Luglio e la caduta in piazza del governo Tambroni.

Il “partito nuovo” di impronta togliattiana, come aveva superato il frangente del Luglio ’48 superò anche quei complessi passaggi appena citati dimostrandosi, nella sostanza, pilastro della democrazia repubblicana e, insieme, per milioni di iscritti e di elettori portatore di una prospettiva di cambiamento per il futuro.

Il PCI inteso in quel momento come espressione politica piena, nella sua autonomia e nella sua capacità di radicamento sociale e di identità organizzativa del movimento operaio italiano.

Il 26 settembre 1948 Togliatti rientrò nella vita pubblica pronunciando un comizio alla festa dell’Unità organizzata al Foro Italico a Roma.

Nell’occasione Carlo Lizzani girò un film “Togliatti è tornato” che traduce quel momento politico in immagini di straordinaria efficacia.

Sono immagini rivelatrici dell’ampiezza e della varietà del consenso che il PCI in quel momento riscuoteva presso una società italiana per molti versi più simile a quella degli anni’30 che a quella del decennio che da lì a poco sarebbe cominciato.

Il 30 settembre Togliatti riprese anche il suo posto alla Camera.

Rispondendo alle parole di bentornato rivoltegli dal presidente Gronchi e cogliendo in esse una manifestazione di rispetto per un “costume di tolleranza per le ideologie e le fedi diverse, per gli uomini che combattono per le loro idee, per i loro principi nell’anelito di un regime democratico” aggiunge:

“ Un saluto particolarmente commosso a coloro che dopo aver manifestato il proprio sdegno apertamente e in modo vivace, hanno perduto la loro libertà, sono stati messi in carcere da una cieca reazione”  ( si ricorda ancora il bilancio ufficiale presentato dal ministro Scelba al termine dello sciopero generale che  fu di : 9 morti e 120 feriti tra le forze di polizia; 7 morti e 86 feriti tra i cittadini. Gli arrestati furono migliaia,ma esistono versioni diverse).

Togliatti concluse il suo discorso ammonendo:

“ il giorno che nel nostro popolo andasse perduta la capacità di sdegnarsi e scendere in campo per respingere le offese fatte alla democrazia e ai suoi uomini, quel giorno la democrazia stessa sarebbe finita, e questo Parlamento non saprebbe più su quale fondamento basare la sua esistenza e le sue funzioni”.(testo dell’intervento di Togliatti tratto dalla biografia di Aldo Agosti – UTET 1996)

Parole da tenere a mente soprattutto oggi.

Fonte: http://contropiano.org/news/cultura-news/2018/07/14/settanta-anni-fa-lattentato-a-togliatti-litalia-sullorlo-dellinsurrezione-0105823

L’attentato a Maduro secondo il presidente Evo Morales «mostra solo la disperazione di un impero sconfitto da un popolo impavido»

 

Evo Morales

.

.

SEGUICI SULLA PAGINA FACEBOOK Banda Bassotti

.

.

 

L’attentato a Maduro secondo il presidente Evo Morales «mostra solo la disperazione di un impero sconfitto da un popolo impavido»

 

Il presidente della Bolivia, Evo Morales, ha condannato il vile attentato perpetrato ai danni del presidente venezuelano Nicolas Maduro nel pomeriggio di sabato mentre si trovava in Avenida Bolivar, a Caracas, per l’anniversario di fondazione della Guardia Nazionale Bolivariana.

Morales evidenzia che «dopo il tentativo di rovesciarlo democraticamente, economicamente, politicamente e militarmente, ora l’impero e i suoi servitori minacciano la sua vita», attraverso il proprio account Twitter.

Secondo il leader indigeno, l’attacco effettuato con droni carichi di esplosivo C4, l’attacco rappresenta un crimine contro l’umanità e che «mostra solo la disperazione di un impero sconfitto da un popolo impavido».

da Twitter

L’ultimo discorso di Borsellino in ricordo di Falcone: tu vivrai per sempre

 

Falcone

 

.

SEGUICI SULLA PAGINA FACEBOOK Banda Bassotti

.

.

 

L’ultimo discorso di Borsellino in ricordo di Falcone: tu vivrai per sempre

Il 23 giugno del 1992 il magistrato ricordò l’amico e compagno massacrato a Capaci con la moglie Francesca e i tre uomini della scorta. Paolo Borsellino fu ucciso dalla mafia poche settimane dopo

Quello che segue è il discorso che Paolo Borsellino pronunciò in memoria dell’amico e compagno di lavoro alla Veglia per Giovanni Falcone, nella chiesa di Sant’Ernesto, a Palermo il 23 giugno 1992. Borsellino fu ucciso poche settimane dopo la mafia, il 19 luglio del 1992.

(Il testo è un estratto da:  “Le ultime parole di Falcone e Borsellino”. Prefazione di Roberto Scarpinato. A cura di Antonella Mascali . Ed. Chiarelettere, Milano 2012).

“Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte.
Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato, che tanto non gli piaceva. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene.
Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche di indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta [il pentito Tommaso Buscetta, ] egli mi disse: «La gente fa il tifo per noi». E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono lavera forza di essa.
Questa stagione del «tifo per noi» sembrò durare poco perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza al prezzo che alla lotta alla mafia, alla lotta al male, doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza a una lotta d’amore che costava però a ciascuno, non certo i terribili sacrifici di Falcone, ma la rinuncia a tanti piccoli o grossi vantaggi, a tante piccole o grandi comode abitudini, a tante minime o consistenti situazioni fondate sull’indifferenza, sull’omertà o sulla complicità. Insofferenza che finì per invocare e ottenere, purtroppo, provvedimenti legislativi che, fondati su una ubriacatura di garantismo, ostacolarono gravemente la repressione di Cosa nostra e fornirono un alibi a chi, dolosamente o colposamente, di lotta alla mafia non ha mai voluto occuparsene. In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì. Cercò di ricreare altrove, da più vasta prospettiva, le ottimali condizioni del suo lavoro. Per poter continuare a «dare». Per poter continuare ad «amare». Venne accusato di essersi troppo avvicinato al potere politico. Menzogna!

Qualche mese di lavoro in un ministero non può far dimenticare il suo lavoro di dieci anni. E come lo fece! Lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. Per fare il magistrato, indipendente come sempre lo era stato, mentre si parlava male di lui, con vergogna di quelli che hanno malignato sulla sua buona condotta. Muore e tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato, hanno perso il diritto di parlare! Nessuno tuttavia ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. Se egli è morto nella carne ma è vivo nello spirito, come la fede ci insegna, le nostre coscienze se non si sono svegliate debbono svegliarsi.

La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio. Dal sacrificio della sua donna. Dal sacrificio della sua scorta.
Molti cittadini, ed è la prima volta, collaborano con la giustizia. Il potere politico trova il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con stupide scuse accademiche.
Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro. Occorre dare un senso alla morte di Giovanni, della dolcissima Francesca, dei valorosi uomini della sua scorta. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera. Facendo il nostro dovere; rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia.
Troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito; dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”.

Parole pronunciate alla Veglia per Giovanni Falcone, nella chiesa di Sant’Ernesto, a Palermo il 23 giugno 1992.

È Ancora attentato a Parigi – Accoltella passanti, un morto e diversi feriti

 

attentato

.

SEGUICI SULLA PAGINA FACEBOOK Banda Bassotti

.

.

 

È Ancora attentato a Parigi – Accoltella passanti, un morto e diversi feriti

L’assalitore è stati ucciso dalla polizia, urlava ‘Allah Akbar mentre pugnalava’. Indaga l’antiterrorismo.

E’ tornato il terrore a Parigi, in pieno centro, a due passi dal teatro dell’Opera: un uomo, gridando “Allah Akbar!” ha accoltellato i passanti di una via piena di gente al sabato sera, per una serata di primavera. La polizia ha reagito in pochi secondi, abbattendo l’assalitore. Una donna è morta e quattro persone sono ferite, due in maniera grave.  Ed è l’antiterrorismo che indaga sugli accoltellamenti avvenuti in serata nel centro della capitale francese: lo ha annunciato il procuratore di Parigi, Francois Molins, in una brevissima conferenza stampa. Nessun particolare sull’aggressore, sulla sua identità e sui suoi eventuali legami con complici.

Attorno alle 21, nell’affollata rue Saint-Augustin, che è celebre per i molti ristoranti – spesso frequentati da un gran numero di turisti – si è scatenata la furia dell’uomo, di cui si ignora la reale motivazione e lo stato mentale: secondo la radio Europe 1, ha gridato a più riprese “Allah Akbar”, pugnalando a ripetizione i passanti e seminando il panico in tutta la zona del 2/o arrondissement della capitale. In tutto, l’assalitore ha colpito 8 persone, prima che la polizia, che ha aperto il fuoco dopo una manciata di secondi, lo uccidesse. L’uomo è rimasto a terra, secondo le fonti – che devono essere confermate ufficialmente – ed è morto in pochi minuti. L’accoltellatore gridava ai poliziotti, subito intervenuti, “uccidetemi o vi ammazzo!”. Le persone colpite, secondo un ultimo bilancio, sono 5: una donna, che è morta, due persone che sono gravi, altre due ferite in modo più leggero. Altre quattro sono state coinvolte ma per loro le conseguenze sono soprattutto psicologiche e sono sotto shock.

Fonte Ansa

(http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/europa/2018/05/12/accoltella-passanti-a-parigi-4-feriti_f0764a90-52a4-4a7e-bbf9-fa35c33a15ce.html)

Questa è l’Italia – L’autista di Falcone: “Scampato al tritolo di Capaci ma rottamato dalle istituzioni – Il nemico ero diventato io, mi misero a fare fotocopie”…!

Falcone

.

SEGUICI SULLA PAGINA FACEBOOK Banda Bassotti

.

.

Questa è l’Italia – L’autista di Falcone: “Scampato al tritolo di Capaci ma rottamato dalle istituzioni – Il nemico ero diventato io, mi misero a fare fotocopie”…!

 

L’autista di Falcone: “Scampato al tritolo di Capaci ma rottamato dalle istituzioni”

Giuseppe Costanza era con il giudice il 23 maggio 1992, giorno della strage: “Dopo mi misero a fare fotocopie”. In un libro il racconto del suo dramma

di SALVO PALAZZOLO – video di GIORGIO RUTA

“Al risveglio, dopo l’esplosione, pensavo di aver vissuto il giorno più brutto della mia vita, il 23 maggio 1992”. Giuseppe Costanza, l’autista del giudice Giovanni Falcone scampato alla strage di Capaci, scuote la testa. “No, mi sbagliavo. Non era quello il giorno più brutto della mia vita. Restare in vita è stato peggio. Quasi una disgrazia, una condanna. Perché dopo un anno di visite e ospedali, al lavoro non sapevano cosa farsene di me”.

L’uomo sopravvissuto al tritolo della mafia è rimasto schiacciato per anni dalla burocrazia del ministero della Giustizia. “Mi misero a fare fotocopie”, racconta. “Rinchiuso in fondo a un corridoio del palazzo di giustizia di Palermo, dentro un box. Era mortificante dopo otto anni passati in prima linea sempre accanto al giudice Falcone. Mi sentivo rinchiuso in una gabbia, per di più costretto a sopportare il mobbing di un capo ufficio a cui era chiaro che non andavo a genio”. In quei giorni, a Giuseppe Costanza non importava per niente di aver ricevuto una medaglia d’oro al valor civile. Lui voleva solo lavorare. “Non certo come autista – dice – non potevo più farlo, volevo essere assegnato in un ufficio in cui la mia esperienza potesse essere utile. Ad esempio, avrei potuto coordinare il parco auto del tribunale”. Ma gli dissero che era necessaria una qualifica più alta per quel lavoro. E gli spiegarono con pignola precisione burocratica che la promozione per meriti di servizio è prevista solo per il personale militare. “E che cosa ero stato io se non un militare? – sbotta – nell’auto blindata di Giovanni Falcone c’era una radio collegata con la sala operativa della questura, accanto a me c’era il giudice. E alla cintola portavo sempre una pistola con il colpo in canna”.

L’ultimo viaggio di Falcone, l’autista: “Io sopravvissuto alla strage, schiacciato dalla burocrazia” – guarda QUI il video

Venticinque anni dopo la strage di Capaci, l’uomo sopravvissuto a trecento chili di tritolo ha deciso di scrivere un libro per raccontare la sua odissea, prima nei gironi infernali accanto al suo giudice, poi, da solo, negli altri gironi terribili, quelli di una pubblica amministrazione ottusa. Stato di abbandono, si intitola il commuovente libro di Giuseppe Costanza (scritto assieme a Riccardo Tessarini, edizioni Minerva). La storia di un uomo semplice, che pensava di avere già vinto la sua battaglia con la vita, e poi invece scoprì che aveva ancora un altro nemico da sconfiggere. Un esercito di piccoli burocrati. “Dopo anni di lettere, proteste, piccole vittorie e ancora altre umiliazioni, nel 2004 sono stato dispensato dal servizio”, sussurra Costanza, come fosse una sconfitta, che lui continua a non accettare. “Pensavo di poter dare ancora tanto alle istituzioni, pensavo di poter dare un contributo importante nell’organizzazione di un servizio delicato come quello dell’autoparco del tribunale di Palermo, impegnato a stretto contatto con i servizi di scorta. Ma, evidentemente, mi sbagliavo. Mi hanno rottamato”.

Ora Giuseppe Costanza va in giro per le scuole di tutta Italia per parlare del suo giudice e degli anni difficili a Palermo. “C’eravamo sentiti telefonicamente la mattina di quel 23 maggio, per organizzare l’arrivo a Punta Raisi. Alle 17,45 sono all’aeroporto assieme alla scorta. Il giudice ha due borse nelle mani. “Strano”, penso. “Non ha il suo computer”. Lo portava sempre con sé, lo riempiva di annotazioni. Eppure, l’hanno trovato vuoto, ma questo l’ho saputo molto tempo dopo”. È uno dei misteri del 23 maggio, il computer portatile era rimasto nell’ufficio di Falcone, al ministero della Giustizia. “Quel pomeriggio – ricorda Costanza – Falcone è alla guida, accanto c’è la moglie, Francesca Morvillo. Io sono dietro. Gli dico: “Ecco il resto che le dovevo”. Mi aveva chiesto di comprare un cric. Mi guarda, sorride: “Aveva un pensiero – dice – non poteva aspettare più”. Era sereno, Giovanni Falcone, nel suo ultimo viaggio verso Palermo. “La settimana prima mi aveva detto: è fatta, sarò il nuovo procuratore nazionale antimafia. Quel pomeriggio doveva incontrare alcuni suoi colleghi, ma non gli hanno dato il tempo. E ancora mi chiedo chi l’abbia voluto fermare”. Presto, l’auto dell’ultimo viaggio di Falcone tornerà a Palermo. “Verrà sistemata fra i due palazzi di giustizia – spiega Costanza – non possiamo dimenticare”.

 

fonte: http://palermo.repubblica.it/cronaca/2017/04/10/news/l_autista_di_falcone_scampato_al_tritolo_di_capaci_ma_rottamato_dalle_istituzioni_-162606663/

2 mesi fa tutti a deridere Donald Trump che si era inventato un attentato inesistente: “Guardate cosa è successo in Svezia venerdì…” …Poveri fessi, un Presidente Americano non parla mai a vanvera! Al massimo anticipa la notizia. E infatti venerdì… Diceva un fesso “a pensar male si fa peccato…”

Donald Trump

 

.

SEGUICI SULLA PAGINA FACEBOOK Banda Bassotti

.

.

2 mesi fa tutti a deridere Donald Trump che si era inventato un attentato inesistente: “Guardate cosa è successo in Svezia venerdì…” …Poveri fessi, un Presidente Americano non parla mai a vanvera! Al massimo anticipa la notizia. E infatti venerdì… Diceva un fesso “a pensar male si fa peccato…”

Un fesso diceva “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”. Ma noi NO, noi non vogliamo pensare a male.

Certo che il Presidente degli Stati Uniti che dice e ribadisce “Guardate cosa è successo in Svezia venerdì…” (clicca qui per leggere la notizia dell’epoca) fa un po’ effetto.

Se poi ci mettete un attentato proprio in Svezia (da Wichipedia apprendiamo che gli Stati riconosciuti sono 193. Ci vuole davvero un bel culo a beccare proprio la Svezia) e, ma tu guarda un po’, proprio  di venerdì…

Ma noi non vogliamo pensare a male.

E basta anche pensare a quell’idiota di Assad

Quell’idiota che già una volta, nel 2013, aveva rischiato di essere bombardato dagli americani per un attacco chimico a Damasco (all’epoca poi la CIA scoprì che il componente chimico usato per l’attacco non faceva parte dell’arsenale di Assad).

Quell’idiota che nel 2015 aveva consegnato l’intero suo arsenale chimico agli americani.

Quell’idiota che (senza avere armi chimiche) va a fare un attacco chimico proprio ora che con l’aiuto dei russi sta vincendo la guerra.

Quell’idiota che sceglie per l’attacco chimico un obiettivo per nulla significante o strategico e comunque lontano da fronte.

Quell’idiota che sceglie per l’attacco chimico proprio il momento in cui sta riacquistando credibilità internazionale, anche nei confronti americani.

Quell’idiota che …o gli idioti siamo noi che ci beviamo queste cose?

La verità? Non la sapremo mai.

Una sola grande cosa mi ha insegnato la Rete: “Io so di non sapere”

Ormai so che se il Tg mi dà una notizia, questa può essere vera, falsa o una via di mezzo.

Insomma, non sappiamo. L’importante è non credere ciecamente a quello che ci dicono, ma rendersi conto di non sapere. Solo così potremo cercare la verità. Verità che forse (o molto probabilmente) neanche troveremo mai, ma almeno non ci faremo prendere per il culo.

By Eles