Affittopoli in Toscana? Ci sarebbe quella poverina dell’Assessore Pd Saccardi: solo 14 immobili di proprietà, uno stipendio da favola ed un vitalizio d’oro che l’attende. Insomma, ‘sta disgraziata è costretta a vivere quasi gratis in una casa dell’Istituto di Sostentamento del Clero di Firenze!

 

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Affittopoli in Toscana? Ci sarebbe quella poverina dell’Assessore Pd Saccardi: solo 14 immobili di proprietà, uno stipendio da favola ed un vitalizio d’oro che l’attende. Insomma, ‘sta disgraziata è costretta a vivere quasi gratis in una casa dell’Istituto di Sostentamento del Clero di Firenze!

TOSCANA, “ASSESSORE PD SACCARDI HA 14 IMMOBILI MA VIVE IN UNA CASA DELLA CHIESA”

Un caso affittopoli in Regione Toscana? E’ la domanda del capogruppo di Fratelli d’Italia in Regione Toscana, Giovanni Donzelli, che in consiglio regionale, nell’ambito di una interrogazione sugli investimenti dell’Housing sociale, ha chiesto direttamente spiegazioni all’assessore alla Sanità e alle Politiche Sociali, Stefania Saccardi. Lo scrive www.ilsitodifirenze.it

“L’abitazione in cui risiede l’assessore” ha spiegato Donzelli “è di proprietà dell’Istituto di Sostentamento del Clero della Diocesi di Firenze”, ma come ha spiegato Donzelli “sul sito della Regione l’assessore Saccardi risulta proprietaria di un solo immobile a Gavorrano”.

Falso, secondo le visure catastali in possesso del capogruppo di Fratelli d’Italia, che accertano le varie proprietà dell’assessore, con oltre dieci immobili tra Firenze e Campi Bisenzio. Inoltre, l’Istituto di Sostentamento del Clero della Diocesi di Firenze riceverebbe alcuni finanziamenti proprio dalla Regione Toscana.

“A questo punto – ha concluso Donzelli – sentiamo l’esigenza di capire fino in fondo se il rapporto fra l’istituto diocesano e l’assessore che si occupa del sociale e della casa sia un rapporto trasparente”.

Immediata la replica dell’assessore Saccardi che, nonostante non avesse risposto all’interrogazione, è tornata in aula cercando di dare una spiegazione. “Ho preso, una decina di anni fa, in locazione un immobile dall’istituto diocesano, per il quale facevo il legale” ha spiegato, nascondendo a fatica l’imbarazzo.

“La formula contrattuale prevedeva che io avrei sostenuto in proprio le spese di ristrutturazione, perchè l’istituto non aveva i fondi sufficienti. Ho anticipato 200 mila euro. L’entità del canone – chiarisce – va di pari passo col fatto che avevo sostenuto queste spese. Su un immobile che era praticamente una stalla”.

Il contratto, spiega in aula l’assessore, “scadrà fra 4 o 5 anni”. “Poi- assicura- verrà pagato un canone di mercato, se decideranno di confermarmi l’affitto”.

C’e’, poi, la questione degli appartamenti e dei garage di proprietà per un totale di 1.264 metri quadrati.

“Li ho ricevuti in eredità da mio padre- ribatte l’assessore alla Salute -. Sono in comproprietà coi miei fratelli, e non ci percepisco un euro. Questo è il motivo, per il quale non li ho dichiarati”. L’usufrutto, in effetti, “ce lo ha mia mamma e su questo paga regolarmente le tasse. Mentre, ne’ io ne’ i miei fratelli incameriamo alcun reddito”. Ma dalle visure catastali invece emerge la rendita degli appartamenti di cui l’assessore è in parte proprietario.

Una vicenda ancora oscura, e tutta da chiarire, sicuramente una questione d’opportunità mancata per un politico di primo piano come l’assessore Saccardi. Che non finisce qui.

via ImolaOggi

Una storia tutta Italiana: Sara è invalida al 100%, ma l’Inps le toglie la pensione. 240 Euro al mese per vivere, ma lo Stato ne trattiene 40 perchè le ha erogato un “accompagnamento” che non le spettava! Ditelo a quelle carogne che si tengono stretto il loro “meritato” vitalizio!

 

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Una storia tutta Italiana: Sara è invalida al 100%, ma l’Inps le toglie la pensione. 240 Euro al mese per vivere, ma lo Stato ne trattiene 40 perchè le ha erogato un “accompagnamento” che non le spettava! Ditelo a quelle carogne che si tengono stretto il loro “meritato” vitalizio!

È invalida al 100%, ma l’Inps le toglie la pensione

La 26enne di Varese è cieca e epilettica. L’Inps le riconosce l’invalidità al 100% ma le toglie l’accompagnamento e l’idoneità al lavoro: “Vivo con soli 240 euro al mese”

Lei è invalida al 100% ma l’Inps le toglie la pensione di accompagnamento e l’idoneità al lavoro.

Questa è l’odissea che sta attraversando Sara Schincaglia, una ventiseienne di Varese affetta da un astrocitoma pilocitico, una forma tumorale, neoplasia della fossa cranica posteriore che si presenta intorno ai dodici anni di vita. “L’Inps mi ha riconosciuto l’invalidità – racconta la giovane – e per questo percepisco un tot al mese ma un anno fa circa, dal nulla, l’Inps ha deciso di togliermi la pensione d’accompagnamento e l’idoneità a lavorare. Ora vivo con i 240 euro di invalidità al mese più i soldi che mi ero messa da parte della pensione d’accompagnamento”.

Ma non è tutto. A quanto pare, come raccontato dalla madre di Sara, Piera Scavuzzo, l’Inps ha continuato ad erogare la pensione d’accompagnamento anche quando la sua commissione aveva deciso di bloccare questa pensione. Un errore che è costato ben 2.400 euro di debito che ora la ragazza si trova sulle spalle: “Dei 240 euro, 40 se li tiene lo Stato perché devo restituire i soldi a cui secondo loro io non avevo diritto”.

Ora Sara e la sua famiglia vogliono delle spiegazioni: “Voglio sapere il motivo per il quale mi hanno tolto la pensione di accompagnamento. Sono cieca, soffro di attacchi di epilessia e molti altri problemi, cosa devo fare per dimostrare che sono invalida? Ho tutti i documenti del San Raffaele dove sono seguita, insomma è tutto nero su bianco. Ma se proprio non vogliono più darmi quei soldi, almeno mi dovrebbero concedere l’idoneità al lavoro perché ora come ora, non avendola, ho le mani legate e non posso fare nulla” spiega Sara in lacrime.

tratto da: http://www.ilgiornale.it/news/cronache/invalida-100-linps-toglie-pensione-1383890.html

Per rinfrescarvi la memoria – Dalla Germania l’allucinante ricetta per l’Italia: “L’ITALIA VA CURATA DA NOI TEDESCHI COL PUGNO DI FERRO”

 

Germania

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Per rinfrescarvi la memoria, Vi riproponiamo questo articolo dell’anno scorso, più che mai attuale.

Dalla Germania l’allucinante ricetta per l’Italia: “L’ITALIA VA CURATA DA NOI TEDESCHI COL PUGNO DI FERRO”

 

FRANKFURTER ALLGEMEINE ZEITUNG: ”L’ITALIA VA CURATA DA NOI TEDESCHI COL PUGNO DI FERRO CONTRO L’EGOCENTRISMO ITALIANO”

BERLINO – La stampa italiana non ne parla, ma quella tedesca invece lo mette in prima pagina sul principale quotidiano di Germania, l’autorevole Frankfurter Allgemeine Zeitung: “E’ il momento di ripensare il rapporto coi politici italiani, così non si può continuare”.

Lo scrive oggi la Frankfurter Allgemeine Zeitung in un editoriale intitolato “L’egocentrismo italiano”, che parte dalla proposta del candidato cancelliere della Spd, Martin Schulz, di aumentare i fondi tedeschi all’Unione europea, in quanto Berlino trae vantaggio dalla Ue. Niente di più sbagliato, secondo la Faz.

“Dal punto di vista di Roma cio’ ha l’effetto di una capitolazione di fronte alla retorica ricattatoria dell’Italia, che vuole piu’ soldi da Bruxelles e Berlino”, nota nell’editoriale il giornale. “Ogni accenno ai vantaggi della Germania rafforza al momento i politici italiani nei loro giudizi anti-tedeschi, che non hanno nessun fondamento” secondo il quotidiano che da sempre rappresenta la voce ufficiosa della cancelliera Merkel.

“La retorica anti-tedesca e anti-europea viene vista come portatrice di voti dai politici italiani come Renzi, Berlusconi, Salvini e Grillo – continua il duro editoriale -. Cio’ che viene propagato da questi leader e dai loro sostenitori suona assurdo dalla prospettiva tedesca. Ad esempio che solo la Germania avrebbe beneficiato dell’euro e la crescita italiana sarebbe ostacolata solo dall’austerity tedesca”.

“I politici tedeschi rispondono con parole diplomatiche, poche critiche e qualche elogio. Ma al posto di una superficiale diplomazia, conviene occuparsi piu’ a fondo dell’Italia e discutere molto di piu’ e piu’ approfonditamente degli argomenti sulle politiche economiche sbagliate dell’Italia”. Parole come pietre.

“Se gli italiani non vogliono guardare in faccia i fatti, allora devono essere altri a parlarne e a farglieli guardare. Soprattutto bisogna ricordare ai politici italiani che nel 1998, con l’ingresso nell’Unione monetaria, l’Italia e’ stata salvata dal default, cosi’ come nel 2011 tramite le garanzie per il debito italiano con nuovi fondi salva-Stati”.

Il fatto che l’Italia fosse in bancarotta nel 1998, però, è una vera e propria invenzione della Faz. Al contrario, il debito pubblico italiano era la metà esatta di quello di oggi e il potere d’acquisto della lira in Italia era il doppio di quello attuale con l’euro. Un esempio per tutti: il valore degli immobili. Sul finire degli anni Novanta, con 200 milioni di lire si acquistava il medesimo appartamento che con l’introduzione dell’euro verrà a costare 200.000 euro, che al cambio sono circa 400 milioni.

Ma la Frankfurter Allgemeine Zeitung non vuole guardare la verità e accusa: “Il Paese scivola verso una nuova crisi, con alti debiti, tassi che saliranno presto e un apparato statale e un sistema economico che necessitano di riforme e dal voto del 2018 non uscira’ probabilmente un governo in grado di agire. Con l’idealismo europeo di un Martin Schulz non e’ possibile purtroppo curare quest’Italia”.

La “cura” tedesca dell’Italia è un antico vizio che hanno a Berlino. E questo articolo chiarisce che la Germania vuole a tutti i costi devastare il nostro Paese riducendolo a una colonia piena di miserabili.

Redazione Milano

tratto da: http://www.stopeuro.news/frankfurter-allgemeine-zeitung-litalia-va-curata-da-noi-tedeschi-col-pugno-di-ferro-contro-legocentrismo-italiano/

Si fa tanta ironia sulla Salerno-Reggio Calabria, ma si tace Pedemontana, l’autostrada più cara d’Italia e simbolo dei fiaschi della Lega. Un capriccio politico costato 5 miliardi ai contribuenti per il quale è stato chiesto il fallimento!

 

Pedemontana

 

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Si fa tanta ironia sulla Salerno-Reggio Calabria, ma si tace Pedemontana, l’autostrada più cara d’Italia e simbolo dei fiaschi della Lega. Un capriccio politico costato 5 miliardi ai contribuenti per il quale è stato chiesto il fallimento!

 

L’infrastruttura è un capriccio politico costato 5 miliardi ai contribuenti e ora ne è stato chiesto il fallimento. Nel tratto già aperto il traffico è metà del previsto. Mentre i finanziatori privati sono svaniti nel nulla

DI GIANFRANCESCO TURANO

28 luglio 2017

Le infrastrutture sono un sottogenere della commedia all’italiana. Si ride con l’amaro in bocca da nord a sud. Non si è ancora conclusa la saga ventennale della Salerno-Reggio Calabria che la scena si sposta verso le brume padane con un micidiale trittico di fallimenti: Brebemi, Teem e Pedemontana lombarda, l’autostrada pubblica più cara della storia d’Italia al costo, per ora, di 57,8 milioni di euro al chilometro in un territorio molto urbanizzato ma non particolarmente complesso sotto il profilo ingegneristico.

Per la Pedemontana la parola fallimento va intesa in ogni senso, incluso quello giuridico. La Procura di Milano ha chiesto all’azionista di maggioranza, la Regione, di staccare la spina su un’iniziativa che doveva vedere i privati in prima fila e che è arrivata a un conto da 5 miliardi di euro, tutti a carico del contribuente. Da lunedì 24 luglio, i pedemontani presenteranno le loro controdeduzioni e, s’intende, respingeranno ogni addebito a differenza del contribuente citato sopra che sarà tosato nel più puro stile Roma ladrona dalle addizionali del governatore leghista Roberto Maroni.

Dietro il processo c’è molto di più di una questione contabile. Da Varese alla bergamasca, da Como alla bassa Brianza, la Pedemontana attraversa il cuore e la pancia della Padania. Il varesino Maroni, avviato verso il referendum sull’autonomia del 22 ottobre, ha detto di volersi ricandidare in febbraio per potere inaugurare il tracciato completo nel 2021. Non è colpa sua se i soldi sono finiti, i finanziatori privati sono svaniti nel nulla e l’autostrada non ha aperto per Expo 2015. Non è colpa sua se la gente preferisce ingorgare le vecchie strade pur di non pagare.

In realtà, anche se le previsioni di traffico fossero state corrette, un investitore privato non si sarebbe mai infilato in un tunnel di costi infiniti. Per la Pedemontana si sono fatte le cose in grande. Non solo gallerie, ma anche trincee per fare scorrere il traffico al di sotto del livello della campagna in modo ecocompatibile, 22 mila espropri a prezzi di mercato e tante opere compensative a beneficio dei sindaci nei luoghi di interferenza del tracciato con i centri urbani.

Fin qui c’è poco da ridere, si dirà. Giusto. Allora incominciamo con lo spettacolo. La Pedemontana lombarda è la prima autostrada italiana che applica il sistema free-flow. Niente caselli. Basta il telepass, il conto targa o l’app. Sulle tangenziali di Varese e di Como non si sarebbe dovuto pagare pedaggio. Non è stato possibile mantenere l’impegno se non nell’anno semigiubilare dell’Expo. Con le elezioni in arrivo a febbraio dell’anno prossimo, Maroni si è impegnato a ripristinare i passaggi gratuiti sulle due tangenziali, non si capisce in base a quale piano di sostenibilità finanziaria.

La cosa certa, per il momento, è che chiunque prenda i 30 chilometri della Pedemontana paga la tariffa più alta del territorio nazionale: 21 centesimi di euro al chilometro per le automobili. La costosissima e desertificata Brebemi ne costa 18, la Teem (tangenziale esterna est Milano) ne chiede 19. Sulla Milano-Roma si paga un terzo (7 centesimi al chilometro).

Questo ha comportato un livello di traffico giornaliero pari a metà del previsto (31 mila veicoli invece di 62 mila). Circa il 25 per cento non paga. Le targhe svizzere guidano la lista degli evasori (2 milioni di veicoli complessivi). Ma niente paura. La Pedemontana ha concluso un accordo con il Touring club del Canton Ticino e, a beneficio di chi scansa la dogana di Ponte Chiasso e preferisce il valico di Gaggiolo, ha piazzato una serie di cartelli per suscitare negli elvetici il desiderio di mettersi in regola. Altrimenti? Altrimenti ci arrabbiamo, avrebbe detto il compianto Bud Spencer. La Pedemontana ha annunciato un’azione di recupero pedaggi con la spedizione di 2 milioni di lettere ai furbetti che hanno tradotto l’espressione free-flow con “scorro gratis”. Un quarto circa delle lettere è stato già inviato. Il che non significa che sia arrivato.

Lo scorso inverno poco dopo le ferie natalizie negli acquitrini intorno ad Albairate e a Rosate, paesi della cintura ovest milanese ancora verdi e ricchi di boschi, sono stati trovati 40 chilogrammi di solleciti che la Pedemontana aveva affidato alla società di spedizioni palermitana Smmart post. A 10 grammi a lettera fanno 4000 buste. La Pedemontana ha immediatamente rescisso il contratto con Smmart post e ha annunciato un’azione di risarcimento. Resta il fatto che il recupero crediti appare problematico. La concessionaria ha chiuso il 2016 con 24 milioni di incassi dal free-flow contro 16,4 milioni di costi di gestione, metà dei quali vengono dal costo dei 117 dipendenti (5 per chilometro aperto al traffico), più 10 milioni di oneri finanziari dovuti ai prestiti dei soci di minoranza Intesa e Ubi, per un risultato di bilancio negativo per 7,8 milioni (-22,6 milioni nel 2015).

Se Maroni manterrà la promessa di rendere gratuite le due tangenziali di Varese e Como, dove passano 17 mila veicoli al giorno, rimarranno solo i 14 mila dell’A36, che porta da Lomazzo a Cassano Magnago, il paese di Umberto Bossi. Questi dati sono la pietra tombale per ogni ipotesi di ingresso da parte di quei capitali privati che, nello schema di project financing iniziale, dovevano farsi carico dei due terzi dell’opera.

La Caporetto di Beniamino Gavio sulla Brebemi è un dissuasore potente ma va detto che nella Pedemontana non ci ha mai creduto nessun imprenditore, salvo le banche garantite dai 450 milioni di euro di fondo di garanzia regionale. L’aumento di capitale da 267 milioni di euro deciso nel 2013, all’inizio della legislatura di Maroni, è stato sottoscritto soltanto dalla Regione (32 milioni). Per i rimanenti 235 milioni di euro si è passati da una proroga all’altra, per un totale di sei.

L’ultimo closing ha come limite il 31 gennaio 2018, a ridosso delle regionali dove Maroni potrebbe affrontare il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Al di là degli usi elettorali della nuova autostrada, un tempo concepita proprio per unire l’aeroporto varesotto di Malpensa con quello bergamasco di Orio, la Pedemontana è una coproduzione dell’intero schieramento politico. Fra le poche eccezioni figurano i grillini e Giuliano Pisapia, che, da sindaco di Milano, nel 2014 ebbe il suo momento di rivolta in stile fantozziano («la Pedemontana lombarda è una cagata pazzesca») prima di essere crocifisso in sala mensa dai leghisti, dai formigoniani al crepuscolo e dal segretario regionale democrat, il varesino Alessandro Alfieri, che oggi si concede qualche pacata forma di antagonismo («la Pedemontana è il simbolo del fallimento di Maroni»).

Anche Antonio Di Pietro si è lasciato andare a qualche critica. Il fondatore dell’Idv è presente nella sceneggiatura del cinepanettone pedemontano con un doppio ruolo. Venti anni fa era ministro delle Infrastrutture, entusiasta alla presentazione del progetto a fianco del plenipotenziario formigoniano Raffaele Cattaneo. Più di recente è stato presidente di Pedemontana benché per un solo anno, dal 2016 al 2017 dopo l’ex Poste Massimo Sarmi. Dallo scorso giugno l’ex pm di Mani Pulite ha ceduto il volante definendo l’opera “faraonica” ma ormai inevitabile. Il suo posto è stato preso da un altro presidente che alla Procura di Milano si muove come a casa sua. È Federico Maurizio D’Andrea, ex ufficiale della Guardia di Finanza a fianco di Saverio Borrelli e Gherardo Colombo, riconvertitosi in manager (Telecom, Olivetti, Sogei, organo di vigilanza del Sole 24 ore) e proprietario di una piccola quota nella Banca Galileo, istituto di credito a diffusione locale finanziato da imprenditori mantovani e bergamaschi.

Di Pietro e D’Andrea sono uniti nel contestare la linea dei magistrati Paolo Filippini, Giovanni Polizzi e Roberto Pellicano (da luglio capo a Cremona), gli stessi che hanno in mano l’inchiesta Infront. Secondo il management della Pedemontana, la continuità aziendale della società concessionaria non si è mai interrotta. Bisogna solo trovare i 3 miliardi circa che servono a completare l’opera. L’eutanasia suggerita dalla Procura sarebbe ad alto rischio. Nelle valutazioni di Di Pietro, uno stop costerebbe 1 miliardo di euro in contenziosi. È un po’ quello che si sente dire periodicamente del ponte sullo Stretto.

Come per il ponte fra Sicilia e continente, anche la catastrofe pedemontana è bipartisan. A destra c’è stato un tempo in cui ci si disputava il merito di avere portato a casa l’opera fra la coppia forzista-ciellina Formigoni-Cattaneo e il binomio leghista formato dall’ex viceministro alle Infrastrutture, il lecchese Roberto Castelli, e dallo stesso Maroni.

Ma hanno tifato per l’infrastruttura Antonio Bargone, sottosegretario dalemiano nel 1999 con Nerio Nesi ministro, il bersaniano Filippo Penati e il suo successore berlusconiano Guido Podestà, quando la Provincia di Milano controllava la società prima di cedere alla Regione la Milano-Serravalle. Né bisogna scordare il ruolo giocato dal ministero delle Infrastrutture con Pietro Lunardi e Altero Matteoli. Il ministro in carica, Graziano Delrio, all’inizio di luglio ha perso la pazienza. «Lo Stato non può essere un bancomat», ha detto davanti ai sindaci della provincia di Monza e Brianza. «Se l’opera è stata pensata con dimensioni di traffico sbagliate, noi o i cittadini non possiamo metterci i soldi. Ne abbiamo già stanziati tanti: 1,2 miliardi più 800 milioni di defiscalizzazione. Cerchiamo di andare avanti con quello che c’è».

«È la Lombardia a essere stanca di fare da bancomat allo Stato» ha replicato l’assessore regionale ai trasporti Alessandro Sorte, lo stesso che voleva collegare l’aeroporto di Orio al Serio e il centro di Bergamo con una funivia. La verità è che la Pedemontana è una delle puntate dell’epopea del general contractor e riproduce, in piccolo ma non troppo, lo schema dell’alta velocità ferroviaria con un tocco di federalismo lumbard in più.

Per Delrio, nemico dichiarato del sistema del general contractor, è una nemesi gestire un’opera che non condivide nello schema e che ha all’origine il pasticcio chiamato Cal, l’ente concedente formato 50/50 da Anas e dalla Ilspa durante il regno di Antonio Rognoni, arrestato per gli appalti dell’Expo a marzo del 2014 e condannato in primo grado due anni dopo.

Nemico di arbitrati e transazioni, Delrio deve accettare che l’impresa appaltatrice del lotto 2, austriaca Strabag, abbia ottenuto una revisione prezzi da 61 milioni di euro grazie a un accordo bonario fra gli avvocati Paolo Clarizia, Luigi Strano e Domenico Aiello, il legale di fiducia di Maroni. Proprio il professionista calabrese è tornato alle cronache per la parcella da 188 mila euro ottenuta nel processo della Regione contro l’ex governatore Formigoni e per la lombosciatalgia che ha causato una serie di rinvii al processo milanese contro Maroni per le nomine negli organismi dell’Expo. Da questo verdetto dipende il futuro politico del governatore. Il futuro della Pedemontana, invece, sembra già segnato. Un’incompiuta in più.

fonte: http://m.espresso.repubblica.it/inchieste/2017/07/28/news/pedemontana-l-autostrada-voragine-simbolo-dei-fallimenti-della-lega-1.306680?ncid=fcbklnkithpmg00000001

Caro Italiota che speri di andare in pensione (a 67 anni, per il momento), ricorda che non sei in Polonia, dove senza Euro l’economia cresce a ritmi del 3,9 per cento ed il Governo decide di abbassare l’età pensionabile!

 

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Caro Italiota che speri di andare in pensione (a 67 anni, per il momento), ricorda che non sei in Polonia, dove senza Euro l’economia cresce a ritmi del 3,9 per cento ed il Governo decide di abbassare l’età pensionabile!

Caro Italiota, speri di andare in pensione? Per il momento lo Stato ha deciso che ci andrai a 67 anni. Sempre che l’Istat non sancisca che “statisticamente” camperai di più. E se avrai quest’altra botta di culo, vedrai, ancora una volta, la tua pensione allontanarsi…

Non resta che fargli Ciao con la manina e rimpiangere di non essere nato in Polonia.

Lì governanti un po’ più accorti dei nostri si sono tenuti alla larga dall’Euro. La loro economia cresce a ritmi del 3,9% l’anno (e quindi non festeggiano, come da noi, per un +0,0uncazzo%) e – udite udite – hanno deciso di abbassare l’età pensionabile!

…C’è bisogno di aggiungere altro?

La Polonia riduce l’età pensionabile, sfidando il trend europeo

Come riporta Reuters, pare che nel mondo sia possibile essere un’economia più piccola di quella italiana, permettersi una propria moneta, crescere a ritmi del 3,9 per cento, fare politiche demografiche attive e addirittura abbassare l’età della pensione. Fortunatamente ci pensano gli austeri banchieri a ricordare a tutti il più grande pericolo per l’umanità, ossia che gli stipendi dei lavoratori crescano troppo velocemente. E che è proprio un peccato che certi governi tengano addirittura fede alle proprie promesse elettorali. 

Di Marcin Goettig, 1 ottobre 2017

Varsavia (Reuters) – Lunedì la Polonia abbasserà l’età pensionabile, onorando una costosa promessa elettorale che il partito conservatore al governo aveva fatto, e andando controcorrente rispetto alle tendenze europee a incrementare gradualmente l’età della pensione, mentre le persone vivono più a lungo e rimangono più in salute.

L’abbassamento dell’età pensionabile a 60 anni per le donne e a 65 per gli uomini è un provvedimento caro soprattutto ai sostenitori del governo di centro-destra (sì, avete letto bene, anche in Polonia è il centro-destra a preoccuparsi degli interessi dei lavoratori NdVdE) del Partito della Legge e della Giustizia (PiS), e inverte un provvedimento che l’aveva portata a 67 anni, approvato nel 2012 dal governo centrista allora in carica.

Il provvedimento dovrebbe avere impatti immediati limitati sull’economia, che è in fase di boom, ma potrebbe mettere sotto pressione il bilancio statale in futuro.

Questa mossa avviene mentre la disoccupazione in Polonia è scesa ai livelli più bassi dai tempi dell’abbandono del comunismo all’inizio degli anni ’90, e potrebbe aumentare la tensione sui salari che stanno già crescendo al ritmo più alto da cinque anni a questa parte (Orrore! I salari crescono e l’età della pensione cala! È proprio vero che fuori dall’eurozona c’è solo l’inferno NdVdE).

“Il mercato del lavoro polacco deve affrontare una disponibilità sempre più limitata di lavoratori” ha dichiarato Rafal Benecki, un economista di Varsavia che si occupa dell’Europa Centrale presso ING Bank.

La popolazione della Polonia è di 38 milioni di abitanti e sta invecchiando a uno dei ritmi più rapidi all’interno dell’Unione Europea.

“Il governo sta buttando via uno degli strumenti più efficaci per aumentare la partecipazione al mercato del lavoro”, ha detto Benecki (commovente come un banchiere si preoccupi che non ci sia abbastanza concorrenza – da parte dei loro nonni – per i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro NdVdE).

  • I lavoratori che vengono dall’Ucraina

Gli economisti e i banchieri centrali dicono che il crescente afflusso in Polonia di centinaia di migliaia di lavoratori provenienti dall’Ucraina potrebbe ridurre la tensione sui salari (ecco un’altra tendenza che accomuna i banchieri: la tutela degli immigrati quando questi possono fare concorrenza ai lavoratori locali NdVdE).

I numeri del ministero del Lavoro mostrano che i datori di lavoro polacchi hanno richiesto più di 900.000 permessi a breve termine per i lavoratori ucraini nella prima metà del 2017, rispetto a 1.260.000 permessi totali nell’anno 2016.

“Con l’arrivo di lavoratori dall’Ucraina, finora il problema che alcuni avevano previsto – mancanza di lavoratori, tensioni sul mercato del lavoro – sta diminuendo” ha detto il Governatore della Banca Centrale  Adam Glapinski all’inizio di settembre.

Il governo ucraino del partito PiS ha stimato che il costo della riduzione dell’età pensionabile è di circa 10 miliardi di zloty (eh già, perché in Polonia gli euro non ce li hanno, poveri loro… NdVdE), ossia 2,74 miliardi di dollari, nel 2018, all’incirca lo 0,5 per cento del PIL.

Da quando è andato al potere, nel 2015, l’attuale governo ha velocemente aumentato la spesa pubblica per tenere fede alle promesse elettorali di aiutare le famiglie e ridistribuire i frutti della crescita economica in modo più equo (già scorgiamo gli austeri anti-populisti nostrani scuotere la testa con veemenza di fronte a questi sciagurati provvedimenti NdVdE).

Nonostante la crescita della spesa pubblica, il bilancio pubblico ha registrato il primo surplus da più di due decenni nel periodo gennaio-agosto, principalmente grazie a un intervento governativo contro l’evasione fiscale e grazie ai bonus concessi per i nuovi nati, che hanno alimentato i consumi (intollerabile: non solo la Polonia fa politiche di aiuto alle famiglie per risolvere i problemi demografici, ma addirittura osa sfruttare il moltiplicatore keynesiano! NdVdE).

La crescita economica ha raggiunto il 3,9 per cento nel secondo trimestre, ma gli economisti avvertono che l’aumentato costo delle pensioni potrebbe causare problemi, se l’economia dovesse rallentare.

“Sono preoccupato di quello che succederà quando il ciclo economico si invertirà” dice Marcin Mrowiec, capo economista presso Bank Pekao.

“Potremmo svegliarci con salari superiori a quelli che le società possono permettersi e… spese permanentemente più alte per le pensioni” (fortunatamente invece, nell’eurozona potremo affrontare la prossima recessione con una disoccupazione vicina ai massimi storici, un’età pensionabile sulla soglia della demenza senile e uno stato sociale che ha fatto passi indietro di decenni. Evviva! NdVdE).

tratto da: http://vocidallestero.it/2017/10/04/la-polonia-riduce-leta-pensionabile-sfidando-il-trend-europeo/

 

Quanto manca a una guerra tra Stati Uniti e Corea del Nord?

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Quanto manca a una guerra tra Stati Uniti e Corea del Nord?

Un vero conflitto è stato ritenuto a lungo improbabile se non impossibile, ma il vento sta cambiando, per il peggio.

Una guerra tra Stati Uniti e Corea del Nord provocherebbe decine di migliaia se non centinaia di migliaia di morti, comporterebbe il pericolo di un intervento cinese, porterebbe in prima linea i trentamila soldati americani dislocati nella Corea del Sud, potrebbe rendere inevitabile il ricorso ad armi nucleari per la prima volta dopo Hiroshima e Nagasaki e modificherebbe per molto tempo gli equilibri dell’area e i cruciali rapporti tra Washington e Pechino. Per questo, malgrado i test missilistici e atomici di Pyongyang e la «guerra delle parole» tra Kim Jong-un e Donald Trump, un vero conflitto è stato ritenuto a lungo improbabile se non impossibile.

Il vento cambia (in peggio)

Ma il vento sta cambiando, per il peggio. Esperti qualificati e diplomatici coinvolti nella crisi, ai quali il Corriere ha avuto accesso in diverse capitali, concordano nel ritenere che il punto di non ritorno si stia avvicinando ad una velocità pari a quella dei progressi nord-coreani nella sperimentazione degli ICBM (missili intercontinentali) e nella messa a punto di testate nucleari miniaturizzate. In realtà nessuno vuole la guerra, spiegano i nostri interlocutori, e meno di tutti la vuole Kim Jong-un che conosce bene la debolezza del suo Paese e punta sulla minaccia nucleare soltanto per ottenere uno status capace di proteggerlo da rovesciamenti di regime patrocinati dagli Usa (o dalla Cina). Ma tra non molto la tecnologia militare prevarrà sulle tattiche. Quando la Corea del Nord sarà effettivamente in grado di colpire con armi nucleari il territorio metropolitano degli Usa (e non soltanto Guam), l’America non potrà tollerare un simile rischio e «dovrà» attaccare le basi sotterranee che nascondono l’arsenale missilistico e atomico di Pyongyang. Quanto manca a questa Ora X? Pochi mesi, forse meno. E le sanzioni economiche contro Pyongyang non saranno in grado di fermare l’orologio. È per questo che politici, esperti e diplomatici sono impegnati in una corsa contro il tempo che è diventata una «corsa contro la guerra» . Il tentativo, a buon punto almeno sulla carta, è quello di fissare i parametri di un possibile accordo negoziale di compromesso tra Washington e Pyongyang utilizzando i buoni uffici di altri Paesi e, forse, anche un dialogo diretto ancora avvolto nel mistero.

Il caso Tillerson

Il Segretario di Stato statunitense è in visita a Pechino, il 30 settembre scorso. Ai giornalisti, nella sorpresa generale, confida che gli Usa stanno sperimentando «canali di comunicazione multipli e diretti con Pyongyang». Canali che non passano dalla Cina. Il giorno dopo, il presidente Trump mette in rete un tweet nel quale elogia le buone intenzioni di Tillerson ma gli dice anche che sta perdendo tempo. L’ultimo capitolo è del 15 ottobre scorso: Rex Tillerson, scrive una agenzia internazionale, dichiara che Trump non crede che il dialogo diplomatico con Pyongyang sia tempo perso. Caos all’interno dell’Amministrazione, oppure contatti per ora inconfessabili? La seconda ipotesi è la più verosimile.

Il formato negoziale

Chi ci sta lavorando ritiene che un negoziato anti-guerra dovrebbe prendere la forma di una conferenza regionale che poi regionale non sarebbe. Corea del Nord, Corea del Sud, Giappone e Cina. Ma ovviamente anche gli Stati Uniti. E la Russia, che pur avendo soltanto un piccolo confine con la Corea del Nord vuole avere un ruolo nella crisi per diventare influente in Asia dopo esserlo diventata in Medio Oriente. E ancora l’Europa, che potrebbe aver facilitato i canali di cui parla Tillerson. Dove, non importa (forse in qualche collaudata sede europea, come Ginevra o Vienna). Purché si cominci in tempo per congelare eventuali propositi bellici.

Il compromesso

Naturalmente è la parte più delicata del progetto, anche perché nessuna delle due parti in conflitto (Usa e Corea del Nord) accetterebbe di perdere la faccia. Bisogna partire, dice chi se ne occupa, dalle esigenze minime e indispensabili. Per gli Usa, si tratta per prima cosa di escludere che i vettori nord-coreani possano raggiungere il territorio metropolitano. Ma anche Guam andrebbe protetta in un nuovo patto di sicurezza regionale, e anche la Corea del Sud, e il Giappone. Per Kim Jong-un la chiave è una garanzia credibile che metta al riparo se stesso e il suo regime da colpi bassi. E Pyongyang vuole incrementare la sua importanza regionale, così come vuole proseguire (perché questo accade già) nel miglioramento dell’economia. La Cina vuole sicurezza e stabilità, la Russia vuole esserci. Lo scambio, allora, potrebbe prendere questa forma. La Corea del Nord accetta di fermare la ricerca e i test degli ICBM, e di distruggere quelli esistenti. Gli Usa non sarebbero più raggiungibili. Pyongyang conserva però un arsenale nucleare regionale che già possiede e che ha già inciso sugli equilibri dell’area. Inoltre, a tutela di Guam, dei Paesi alleati degli Usa, ma anche a garanzia contro le paure di Kim Jong-un, viene concluso un trattato di sicurezza regionale che esclude l’uso della forza e i cambiamenti di regime dall’esterno. E cancella le sanzioni. Garanti anche militari del rispetto del patto sono Cina e Russia, oppure soltanto la Cina, oppure ancora Cina e Usa. La riunificazione coreana sarà incoraggiata. La presenza americana nel Sud sarà ridotta ma non eliminata. Il Giappone non disporrà di armi nucleari.

Incognite che restano

Ammesso che si arrivi a tanto, dovranno essere risolte alcune questioni «accessorie» ma fondamentali. Prima fra tutte quella delle verifiche. Come potranno gli Usa verificare che la minaccia degli ICBM non esista più? Forse dovrà accontentarsi delle ispezioni cinesi se Pyongyang le accetterà, oppure di quelle dell’Onu. Qualcuno a Washington non sarà contento. Ma in questo arduo cammino negoziale, che potrebbe anche non riuscire ad avanzare, ogni passo va paragonato all’ormai incombente pericolo di una guerra di certo catastrofica ma ancora oggi imprevedibile nella reale portata delle sue conseguenze umane e strategiche. Ora il rullo di tamburi comincia ad avere una alternativa di pace, e la novità non è di poco conto.

fonte e articolo intero:

http://www.corriere.it/esteri/17_ottobre_29/washington-pyongyang-quanto-manca-all-ora-x-649b2c30-bc1c-11e7-b9f3-82f15d252a79.shtml

Italiani: un popolo non unito, rassegnato e condannato alla sottomissione

 

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Italiani: un popolo non unito, rassegnato e condannato alla sottomissione

Di fronte alle ingiustizie gli italiani dimostrano di non essere un popolo unito: denunciano ma concretamente subiscono e si sottomettono

Di Magdi Cristiano Allam

Come mai gli italiani non si ribellano alle ingiustizie come fanno altri popoli? È una domanda che molti di noi si pongono. Se gli stranieri sui mezzi di trasporto pubblici si rifiutano di pagare il biglietto e peggio ancora aggrediscono fisicamente il controllore, tutti noi denunciamo totalmente indignati, ma poi concretamente li si lascia fare e alla fine siamo solo noi italiani ad essere tenuti a pagare il biglietto.

Se nelle nostre città talune vie, parchi, piazze o quartieri diventano pericolosi per la presenza di delinquenti comuni, spacciatori di droga, sfaccendati che molestano donne e bambini aspirando a violentarli sessualmente, noi denunciamo massimamente preoccupati ma poi concretamente finiamo per non frequentare più quegli spazi pubblici che, di fatto, diventano delle roccaforti della criminalità.

Nel novembre del 2011 con la regia di Giorgio Napolitano e l’avvento al potere di Mario Monti l’Italia è stata sottomessa a una dittatura finanziaria che, da allora, ha spogliato la democrazia del suo contenuto sostanziale e ha generato quattro governi non eletti dagli italiani. Nel 2013 la Corte Costituzionale ha sentenziato l’incostituzionalità della legge elettorale con cui sono stati eletti i parlamenti nel 2006, 2008 e 2013, ma a quattro anni di distanza il parlamento continua a legiferare, così come i governi e i capi di Stato designati da quei parlamenti continuano a operare come se non fosse successo nulla.

Nel 2016 c’è stato il referendum sulla riforma della Costituzione. Il governo era per il “Sì” e ha vinto il “No”. Ma è stato riesumato un governo del “Sì” come se gli italiani non fossero andati a votare. Gli italiani hanno denunciato a viva voce, ma concretamente nessuno mette in discussione la legittimità del sistema politico o si sottrae all’osservanza delle decisioni assunte da questi governi.

A questo punto dobbiamo concludere che gli italiani che subiscono le ingiustizie limitandosi a denunciare ma senza ribellarsi concretamente, dimostrano di non essere un popolo unito. Massimo D’Azeglio all’indomani dell’unità d’Italia nel 1861 disse: «Pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli italiani». Prendiamo atto che gli italiani sono un popolo che si sente appagato dalla denuncia fine a se stessa, che vuole accontentare tutti e non scontentare nessuno, che aggira le realtà che impongono delle scelte impegnative.

Se questo comportamento potesse tradursi nella salvaguardia della civiltà che da millenni ha comunque garantito la crescita demografica, lo sviluppo economico e la qualità della vita, dovremmo considerarlo saggio e lungimirante nel lungo periodo anche se spregiudicato e riprovevole nell’immediato. Purtroppo non è così. Noi oggi rischiamo di perdere ciò che resta della nostra sovranità nazionale, di essere fagocitati dal Nuovo Ordine Mondiale assoggettato alla grande finanza, la sostituzione etnica e la sottomissione all’islam. O gli italiani insorgeranno uniti o moriremo senza avere la certezza e l’orgoglio di chi siamo.

Fonte: magdicristianoallam.it

La grande presa per i fondelli di Renzi ai terremotati dell’Abruzzo: ricostruita solo una sola scuola su 108…!!!

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La grande presa per i fondelli di Renzi ai terremotati dell’Abruzzo: ricostruita solo una sola scuola su 108…!!!

Ricostruzione al palo a un anno dagli eventi sismici del 26 e 30 ottobre 2016 nel Centro Italia. Alla vigilia del secondo inverno, il ritardo è gravissimo e riguarda tanto le scuole quanto la consegna delle soluzioni abitative d’emergenza. Solo una scuola realizzata sulle 108 da ricostruire previste da due piani straordinari approvati dal Commissario straordinario alla ricostruzione, e un’altra è in costruzione. Le promesse dell’allora premier, Matteo Renzi, erano solo chiacchiere…

Il report impietoso della Cgil

Mentre su 3.570 casette richieste complessivamente nelle quattro regioni colpite, quelle consegnate sono 995. È questo il quadro che emerge dal report dell’Osservatorio per la ricostruzione di qualità promosso da Fillea-Cgil e Legambiente per monitorare la ricostruzione delle aree del Centro Italia. Numeri che, anche in considerazione degli stanziamenti disposti, portano a interrogarsi sulle cause dei ritardi. Il compito di coordinare la realizzazione delle casette è della Protezione Civile, il compito di coordinare la realizzazione delle scuole è della Struttura del Commissario straordinario. Il documento dell’Osservatorio individua responsabilità lungo tutta la complessa catena di comando, non sempre chiara. Sottolinea, inoltre, che l’esigenza del ”fare presto” non deve essere disgiunta dalla qualità del costruito, e manifesta forte preoccupazione all’idea che per la riapertura di alcune scuole ci si possa accontentare del miglioramento sismico e non dell’adeguamento nonostante gli ingenti investimenti.

Senza case e scuole non si ricostruiscono le comunità, né ripartono le attività economiche -?commenta la presidente di Legambiente Rossella Muroni – Per chi è lontano diventa sempre più difficile scegliere di tornare, chi nonostante tutto ha deciso di rimanere è costretto ad affrontare troppi disagi e a convivere con un continuo senso di precarietà”. «Molto è stato fatto ma molto, moltissimo ancora è da fare. La ricostruzione non è partita e la fase dell’emergenza si prolunga in modo, a volte, ingiustificato – aggiunge il segretario generale di Fillea Cgil Alessandro Genovesi – La ricostruzione non sia il terreno per la campagna elettorale, ma banco di prova per la parte migliore delle classi dirigenti».

I ritardi sulle scuole distrutte

Sono 105 quelle da ripristinare con finanziamenti pubblici previste dalle Ordinanze commissariali: 18 in base al primo programma straordinario (gennaio 2017) e 87 in base al secondo (luglio 2017). Tre sono invece le scuole finanziate dai donatori. Delle prime, è in fase di costruzione solo la scuola primaria ”Romolo Capranica” ad Amatrice. Delle seconde, è stata realizzata la scuola dell’infanzia ”Benedetto Costa” di Sarnano, grazie ai finanziamenti della Regione Friuli Venezia Giulia. L’ordinanza che stabilisce i 21 edifici scolastici da ricostruire entro l’inizio dell’anno scolastico in corso (18 da realizzare con finanziamenti pubblici e 3 con risorse di donatori) quantifica in 110.000.000 euro l’importo complessivo a carico dello Stato. Le scuole sono due in Abruzzo, due nel Lazio, 13 nelle Marche e quattro in Umbria. Ma delle 18 scuole messe a gara, sono iniziati solo i lavori della scuola primaria ”Romolo Capranica” ad Amatrice, all’inizio di ottobre.

Il resto delle gare non viene assegnato, nonostante l’ordinanza 35 del 31 luglio abbia modificato le prime due ordinanze 14 e 18, con l’obiettivo di facilitare la messa a gara. Eppure, sono 900 le aziende che inizialmente hanno espresso interesse alla realizzazione dei 18 edifici scolastici, ma soltanto la realizzazione di uno di essi sia stata aggiudicata. Il 4 agosto 2017 Invitalia pubblica un secondo ”avviso esplorativo” per la costruzione delle 18 scuole, seguito da un nuovo elenco di esecutori interessati e si giunge così a 1.119 aziende. Ma ancora nessuna gara è stata aggiudicata. L’ordinanza 33 dell’11 luglio 2017 approva il secondo programma straordinario per la riapertura delle scuole in Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria in cui si prevede la ricostruzione di altre 87 scuole, con uno stanziamento complessivo di 231.038.692 euro. A differenza delle 18 scuole inserite nel primo programma straordinario, i Committenti delle ulteriori 87 scuole sono i Comuni e le Province. Ad oggi, su tali opere Invitalia non ha pubblicato alcun bando.

Casette fantasma: solo 995 quelle consegnate

Ssono state richieste complessivamente 3.570 casette (205 in Abruzzo, 775 nel Lazio, 1.824 nella Marche e 766 in Umbria) da 43 comuni sui 140 danneggiati dal sisma. Al 17 ottobre 2017 ne sono state consegnate 995, pari al 27,87% del totale richiesto. Il resto delle gare non viene assegnato, nonostante l’ordinanza 35 del 31 luglio abbia modificato le prime due ordinanze 14 e 18, con l’obiettivo di facilitare la messa a gara. Eppure, sono 900 le aziende che inizialmente hanno espresso interesse alla realizzazione dei 18 edifici scolastici, ma soltanto la realizzazione di uno di essi sia stata aggiudicata. Il 4 agosto 2017 Invitalia pubblica un secondo ”avviso esplorativo” per la costruzione delle 18 scuole, seguito da un nuovo elenco di esecutori interessati e si giunge così a 1.119 aziende. Ma ancora nessuna gara è stata aggiudicata. L’ordinanza 33 dell’11 luglio 2017 approva il secondo programma straordinario per la riapertura delle scuole in Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria in cui si prevede la ricostruzione di altre 87 scuole, con uno stanziamento complessivo di 231.038.692 euro. A differenza delle 18 scuole inserite nel primo programma straordinario, i Committenti delle ulteriori 87 scuole sono i Comuni e le Province. Ad oggi, su tali opere Invitalia non ha pubblicato alcun bando. Capitolo Soluzioni Abitative di Emergenza (Sae): sono state richieste complessivamente 3.570 casette (205 in Abruzzo, 775 nel Lazio, 1.824 nella Marche e 766 in Umbria) da 43 comuni sui 140 danneggiati dal sisma.

Al 17 ottobre 2017 ne sono state consegnate 995, pari al 27,87% del totale richiesto. Il resto delle gare non viene assegnato, nonostante l’ordinanza 35 del 31 luglio abbia modificato le prime due ordinanze 14 e 18, con l’obiettivo di facilitare la messa a gara. Eppure, sono 900 le aziende che inizialmente hanno espresso interesse alla realizzazione dei 18 edifici scolastici, ma soltanto la realizzazione di uno di essi sia stata aggiudicata. Il 4 agosto 2017 Invitalia pubblica un secondo ”avviso esplorativo” per la costruzione delle 18 scuole, seguito da un nuovo elenco di esecutori interessati e si giunge così a 1.119 aziende. Ma ancora nessuna gara è stata aggiudicata. L’ordinanza 33 dell’11 luglio 2017 approva il secondo programma straordinario per la riapertura delle scuole in Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria in cui si prevede la ricostruzione di altre 87 scuole, con uno stanziamento complessivo di 231.038.692 euro. A differenza delle 18 scuole inserite nel primo programma straordinario, i Committenti delle ulteriori 87 scuole sono i Comuni e le Province. Ad oggi, su tali opere Invitalia non ha pubblicato alcun bando. Capitolo Soluzioni Abitative di Emergenza (Sae): sono state richieste complessivamente 3.570 casette (205 in Abruzzo, 775 nel Lazio, 1.824 nella Marche e 766 in Umbria) da 43 comuni sui 140 danneggiati dal sisma. Al 17 ottobre 2017 ne sono state consegnate 995, pari al 27,87% del totale richiesto.

Il dramma dei lavoratori

Poi c’è la questione relativa alla situazione dei lavoratori, adibiti sia all’allestimento delle aree per le Sae sia al loro montaggio, che sembra sfuggire ai controlli, come dimostra, per esempio, l’inchiesta giudiziaria della procura di Napoli di ottobre sulle aziende fittizie che occupavano lavoratori in nero in Umbria. Non va quindi sottovalutata la necessità di prevenire l’illegalità nei cantieri, visto che le verifiche effettuate sul campo dagli operatori del sindacato hanno registrato, in tutte e quattro le Regioni interessate, la presenza di lavoratori completamente sconosciuti alle Casse edili o denunciati con un monte ore di lavoro di molto inferiore a quello effettivamente svolto. Parliamo quindi di lavoro nero e grigio nei cantieri finanziati dai fondi pubblici. “Senza l’adozione di strumenti legislativi appropriati, tali fenomeni sono destinati a diventare strutturali – rileva il rapporto – Lo strumento del Documento Unico di Regolarità Contributiva per congruità deve essere adottato da tutti i soggetti attuatori, quelli che affidano i lavori”. Lo strumento consiste nell’adozione di criteri attraverso cui la Cassa edile può calcolare, in base alla natura dell’opera e al suo importo, la manodopera che obbligatoriamente deve essere impiegata e quindi il monte ore che deveessere denunciato presso l’Ente.

fonte: http://www.secoloditalia.it/2017/10/i-bluff-di-renzi-sul-terremoto-in-abruzzo-ricostruita-una-sola-scuola-su-108/

I nemici del Papa sono nella Chiesa. E stanno combattendo una guerra!

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I nemici del Papa sono nella Chiesa. E stanno combattendo una guerra!

In una lunga inchiesta il quotidiano britannico The Guardian analizza chi sono i nemici di Bergoglio in Vaticano e perché contro il pontefice argentino monta un’opposizione sempre più forte

Papa Francesco ha moltissimi nemici. E non tanto tra gli atei, i protestanti o tra i musulmani. Quelli più convinti si trovano all’interno del Vaticano e nelle curie di tutto il mondo perché fanno parte anche loro parte del clero e siedono tra le file dei più convinti conservatori. Sin dalla sua nomina nel 2013 Bergoglio ha mostrato di preferire (a parole e nei fatti) uno stile modesto e umile. Guida una Fiat, porta da solo le sue valige, si reca personalmente in un negozio di occhiali per cambiare le lenti – ma non la montatura – e paga il conto in hotel. Lava i piedi alle donne musulmane rifugiate e dei gay dice “Chi sono io per giudicare?” Le sue parole e i suoi gesti hanno colpito il mondo intero ma dentro le mura di ‘casa’  Francesco ha provocato un contraccolpo enorme tra i conservatori che temono che lo stile ‘francescano’ possa dividere la Chiesa o addirittura mandarla in frantumi. È quanto emerge da un lungo articolo del Guardian scritto dal giornalista Andrew Brown che si è infiltrato nel clero e ha parlato con sacerdoti e non solo. “Quest’estate un prete inglese molto in vista mi ha detto: ‘Non possiamo che aspettare che muoia. Quello che ci diciamo in privato non si può riportare. Ma quando due preti si incontrano parlano di quanto terribile sia Bergoglio… È come Caligola: se avesse un cavallo lo nominerebbe cardinale’”. Poi la raccomandazione al giornalista: “Non devi pubblicare nulla di quello che ho detto altrimenti verrò fatto fuori”.

I nemici del papa sono nella Chiesa. E stanno combattendo una guerra

Perché Bergoglio si è fatto i nemici

Che Bergoglio si facesse dei nemici era già previsto. E per diversi motivi: è il primo papa non europeo ed è stato letto come outsider, tanto per iniziare. Ma nessuno immaginava che i suoi avversari fossero cosi tanti. Forse perché nessuno aveva previsto che, una volta eletto, Bergoglio avrebbe scelto il nome del santo dell’umiltà e che, come lui, (o quasi) avrebbe condotto la sua vita, iniziando col dire no ai fasti del Vaticano. Non sono andate giù nemmeno le sue parole di accoglienza nei confronti dei migranti, i suoi attacchi al capitalismo e, soprattutto, la sua decisione di riesaminare gli insegnamenti della Chiesa sul sesso. “Stando a quanto emerso dall’ultimo incontro mondiale dei vescovi, quasi un terzo del Collegio Cardinalizio ritiene che il papa stia flirtando con l’eresia”.

Uno dei principali punti di rottura – secondo The Guardian – è rappresentato dal divorzio: rompendo con la tradizione secolare, Francesco ha incoraggiato i preti cattolici a dare la comunione anche ai divorziati, a coloro che si sono risposati e alle coppie che convivono. “A lungo i suoi avversari hanno cercato di distoglierlo e di convincerlo a rinunciare all’iniziativa. Lui non ha voluto e si è ritrovato a combattere contro il malcontento generale che ora sta montando in una guerra”. Le armi sono le accuse di eresia. “L’anno scorso, un cardinale, appoggiato da alcuni colleghi in pensione, ha fatto emergere la possibilità di una dichiarazione formale di eresia, un peccati punibile con la scomunica. Lo scorso mese, invece, 62 sacerdoti e studiosi cattolici e laici, tra cui figurano un vescovo in pensione e l’ex presidente dello Ior – Ettore Gotti Tedeschi – hanno pubblicato una lettera aperta di 25 pagine che accusa Papa Francesco di 7 eresie per la sua Amoris Laetitia. Il documento, scritto da Francesco, affronta il dibattito sul divorzio e apre – seppur non direttamente – alla comunione ai divorziarti.

Cosa significa essere accusati di eresia (per un papa)

Si tratta di un’accusa cruciale per un papa perché lo mette con le spalle al muro: secondo la dottrina, un papa non può sbagliare quando affronta temi di fondamentale importanza come quelli legati alla fede. Così, se cade in errore significa che non è degno di essere papa, se invece ha ragione significa che hanno sbagliato tutti i suoi predecessori. In più, quella sulla comunione ai divorziati è una questione più che altro di forma: Bergoglio non ha proposto una rivoluzione ma ha semplicemente riconosciuto quello che accade già in tutto il mondo. E che potrebbe essere essenziale per la sopravvivenza della Chiesa. Se si applicassero le regole alla lettera, nessuno potrebbe più fare sesso con il nuovo partner dopo il fallimento del proprio matrimonio.

La crisi più grave dopo le spaccature degli anni ‘60

L’attuale crisi, ricorda il Guardian, è la più profonda dai tempi delle riforme liberali degli anni ’60 che portarono il gruppo dei conservatori più convinti, guidati dall’arcivescovo Marcel Lefebvre, a staccarsi dalla Chiesa. Furono gli anni del Concilio Vaticano II e dell’apertura di Roma al resto del mondo sotto la guida di Papa Giovanni XXIII. Il Concilio condannò l’antisemitismo, abbracciò la democrazia, proclamò i diritti umani universali e abolì la messa in latino. Il Vaticano ha trascorso la maggior parte del secolo scorso a lottare contro la rivoluzione sessuale, spingendosi su posizioni assolutistiche come, ad esempio, il divieto assoluto di usare contraccettivi. Francesco ha riconosciuto che non è così che agiscono i fedeli. E lo sanno anche i membri del clero ma si comportano come se non lo sapessero. “La dottrina ufficiale non deve essere messa in discussione, ma nemmeno può essere osservata del tutto”.

La ricetta per salvare la Chiesa

Con oltre un miliardo di fedeli, la Chiesa cattolica è la più grande organizzazione al mondo e molti dei suoi fedeli sono divorziati oppure sono genitori non sposati. Si tratta di un numero in netto calo, soprattutto al di fuori dell’Italia. Negli Stati uniti, ad esempio, la percentuale dei fedeli che vanno regolarmente a messa la domenica è passato dal 55% del 1965 al 22% del 2000. Mentre il numero di bambini battezzati è sceso da 1,3 milioni nel ’65 a 670mila nel 2016. E se per alcuni il motivo dell’allontanamento risiede nell’abbandono delle pratiche più tradizionali, per altri la colpa della Chiesa è quella di non essere riuscita a cambiare abbastanza per essere vicina alle persone. Da parte sua, “Papa Francesco è sicuro che se non riuscirà a far coincidere teoria e pratica le chiese si svuoteranno. Anche i suoi avversari sono consapevoli del fatto che l’istituzione sia nel pieno di una crisi, ma la loro ricetta per salvarla è l’opposto: per loro il fossato tra teoria e pratica è esattamente ciò che dà spessore e senso alla Chiesa”. Ma l’attrito riguarda soprattutto la visione del ruolo dell’istituzione tra chi crede che la Chiesa debba organizzare la sua agenda a seconda delle esigenze del mondo e chi crede l’esatto contrario.

fonte: https://www.agi.it/cronaca/papa_francesco_nemici_in_vaticano-2297892/news/2017-10-27/

 

Giovani medici in mezzo alla strada : sono LORO la vera emergenza sanitaria!

 

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Giovani medici in mezzo alla strada : sono LORO la vera emergenza sanitaria!

Dopo 5 anni di fatica, finalmente siete riusciti ad ottenere un diploma. 18 anni, tutta la vita davanti.
Ma non basta, perchè dovete impiegare l’estate per prepararvi ad un test in cui statisticamente le probabilità di entrare non sono altissime.
Altri mesi di fatica, ma finalmente siete riusciti a coronare il vostro sogno : entrare nella facoltà di Medicina.
Per alcuni è un sogno, per altri un caso, altri ancora vivono nell’illusione dell’autorità del medico, o sperano semplicemente di avere un posto fisso e vivere tranquillamente.
Ma è solo l’inizio : passi 6 anni della tua vita, minimo, a studiare tante materie diverse, e per più di una ti sarai chiesto ” ma che senso ha studiarla?” oppure sarai andato vicino ad un esaurimento nervoso, capita.
Pensate, 1 studente di medicina su 7, secondo un sondaggio britannico, ha pensato almeno una volta al suicidio.
Anche questi infiniti scogli sono stati superati, fra colleghi infami* e professori prima donna*, è il momento della laurea.
Ma non basta, perchè serve un ulteriore esame per essere abilitato all’esercizio della professione medica.
Finalmente, sei un medico ed è il momento, se ti garba, di scegliere una scuola di specializzazione e continuare la tua carriera.
Vogliamo parlare di quanto sia eccessiva la preoccupazione della specializzazione? Non è forse un problema questa continua ricerca di specialisti? Non ho mai amato la visione frammentaria delle cose, ma ne parleremo un’altra volta magari.

Nel 2017, il bando per le scuole di specializzazione in medicina sarebbe dovuto uscire.. ad Aprile. Siamo a settembre, ed ancora si aspetta.

Di questo, ringraziamo il ministro Fedeli, che dall’alto della sua istruzione universitaria non pervenuta, ha scelto di mischiare le carte in tavola.
Quale era la sua idea? In parole povere, migliorare il sistema delle scuole di specializzazione, 1.433, in base a criteri precisi, come standard di assistenza degli ospedali, numero di pubblicazioni dei docenti. “Garantire che le nuove specializzande e i nuovi specializzandi siano inseriti in percorsi accreditati secondo criteri di sempre maggiore qualità e trasparenza e affinché la prossima selezione risponda di più alle attese delle nostre laureate e dei nostri laureati”, erano state queste le parole della ministra a proposito dei cambiamenti.

Per carità, l’idea è anche giusta; non avrebbe potuto iniziare per concluderla il prossimo anno? Piuttosto che fare impazzire più di 13.000 neolaureati?

«Questi ritardi – sottolinea Noemi Lopes, segretario nazionale Fimmg Formazione – non fanno che ritardare ulteriormente i tempi di accesso dei giovani al mondo del lavoro allontanando l’Italia dalle medie Ue con impatti gravi anche sulla sostenibilità a lungo termine del servizio sanitario nazionale. Infatti già sappiamo quanto siano insufficienti le borse di studio stanziate per il corso di studio per i medici di medicina generale, che non permetteranno di far fronte al fabbisogno di medici di medicina generale nei prossimi dieci anni».

Giorno 5 settembre a Montecitorio ci sarà il #giovanimediciday, e Medicina a Piccole Dosi si schiera a fianco di tutti i ragazzi che aspettano questo momento da tempo!

Quattro i punti cardine della manifestazione: il numero complessivo dei contratti, di specializzazione e di formazione in medicina generale a disposizione troppo esiguo rispetto ai partecipanti previsti; la programmazione mancata dei posti a bando per specialità che deve tenere conto delle necessità del Ssn, un maggiore coinvolgimento delle associazioni di categoria rappresentative e il nodo accreditamento delle scuole. «Il documento preparato dall’Osservatorio della formazione specialistica – sottolineano le organizzazioni in una recente nota congiunta – presenta numerose criticità che vanno risolte dal Miur in tempi celeri, con una maggiore collaborazione da parte delle regioni, con una contestuale rivisitazione delle modalità di accesso alla formazione».

Io aggiungerei questo : è INGIUSTO che un medico di Medicina Generale nel suo percorso di specializzazione percepisca praticamente la META’ di uno stipendio che invece andrà a prendere un futuro pediatra o neurologo o chicchessia.

Vale di meno il medico che, per mio modesto parere, è il più importante di tutti?

 

L’unica emergenza sanitaria che abbiamo è avere un ministro dell’istruzione del genere, che ha fatto di tutto ( forse in buona fede ) per complicare la vita a più di 10.000 ragazzi che hanno buttato sangue per tanti anni. Quante cose si sono sorbiti in questi anni, ci mancava l’incompetenza all’atto finale.

Ah, di ministro della salute non ne parliamo nemmeno.

fonte: http://www.medicinapiccoledosi.it/medicina-convenzionale/loro-la-vera-emergenza-sanitaria-poveri-medici/